Ehm, Um, Uh… Perchè è DIFFICILE farne a meno quando PARLIAMO?

Un paio di sere fa stavo ascoltando un’intervista in TV a una nota attrice italiana quando sono stata costretta a cambiare canale. Ogni sua risposta era costellata da fastidiosi ehm, eh, um, uh.

Nonostante l’argomento trattato fosse di mio interesse, l’esitazione continua rendeva difficoltoso l’ascolto. E questo mi ha portato a domandarmi se anch’io fossi solita ricorrervi. Mi sono così resa conto che tutti usiamo dei riempitivi, soprattutto quando parliamo in pubblico o non abbiamo avuto modo di prepararci prima un discorso.

Più l’opportunità di parlare è improvvisata, più riempitivi utilizziamo. Dovendo pensare a cosa dire mentre parliamo, gli ehm, eh, um, uh, ci vengono in soccorso per guadagnare tempo e trovare le parole giuste. Condizione che colpisce tutti, anche gli oratori esperti.

In uno studio, il linguista Mark Liberman ha analizzato un enorme database di lingue parlate e ha scoperto che una parola su 60 pronunciata è um o uh. A seconda della velocità con cui si parla, si inseriscono da due a tre di questi riempitivi al minuto.

Perché lo facciamo?

Una risposta ovvia è che li usiamo quando non siamo momentaneamente in grado di dire quello che vogliamo dire. Potremmo avere difficoltà a ricordare una parola o un nome, o a formulare i nostri pensieri, oppure potremmo avere motivo di esitare. Riguardo a questo ultimo punto, per la maggior parte delle persone, è più semplice ricorrere a riempitivi che restare in silenzio.

Il motivo per cui diciamo ehm, eh, um, uh è che, nell’alta velocità della conversazione, tacere non funziona. Nel parlato quotidiano non esiste un copione. Non sappiamo chi parlerà, quando e per quanto tempo, cosa dirà e se quando qualcun altro interverrà, soprattutto perché in una conversazione civile si tende a rispettare la regola di “parlare uno alla volta”. Le regole cooperative della conversazione ci impongono quindi di utilizzare dei segnali che regolino il flusso dell’interazione sociale.

Supponiamo di avere difficoltà a esprimere un pensiero: se rimaniamo in silenzio, l’interlocutore potrebbe credere che abbiamo esaurito ciò che avevamo da dire e prendere lui in mano il filo della conversazione. Se ciò accade, potenzialmente abbiamo perso la nostra occasione per dire ciò che volevamo esprimere, anche perchè la conversazione potrebbe velocemente virare su altri temi.

Pertanto, se sei claudicante ma non hai ancora finito di palesare il tuo punto di vista, utilizzare un riempitivo come ehm, eh, um, uhpermette di guadagnare tempo e non perdere una chance.

Il riempitivo è, a tutti gli effetti, un segnale che spiega il tuo ritardo: “per favore aspetta un attimo, non ho ancora finito“. Se l’altra persona collabora, si asterrà dal prendere la parola.

Nonostante i riempitivi abbiano funzioni chiare nella conversazione, spesso ci viene consigliato di evitarli. Il problema è che, almeno nelle conversazioni informali, se li eliminassimo tutti, troveremmo persone che inizierebbero a parlare prima di darci il tempo di concludere. L’unico modo per liberarsi dei riempitivi è essere sempre pronti a dire ciò che vogliamo dire nella frazione di un secondo di tempo che abbiamo a disposizione prima che l’altro prenda, a sua volta, la parola.

In una conversazione fluida, è inevitabile sperimentare dei ritardi e, se non si ricorre a quei fastidiosi ehm, eh, um, uh il rischio è passare per persone noiose e banali.

In che modo parlare in pubblico è diverso

Nessuno parla sempre in modo perfetto. Tendiamo però a essere più fluidi in determinate condizioni, ad esempio quando trattiamo un argomento che conosciamo bene, quando diciamo cose che abbiamo già detto e quando non abbiamo fretta. Queste condizioni non possono essere garantite in una conversazione a flusso libero. Di solito non sappiamo in anticipo cosa diremo esattamente. Non possiamo esercitarci e nemmeno avere sempre il controllo sull’argomento della conversazione per ogni contesto in cui andremo a trovarci. Questo perché ogni conversazione è un progetto congiunto, costruito al volo, e in modo collaborativo, dalle due o più persone coinvolte nella conversazione.

Nel parlare in pubblico la situazione è diversa. Quando parliamo di fronte a una platea, possiamo decidere (e provare) in anticipo cosa diremo. Quindi, con una buona pianificazione possiamo garantire che le parole e le idee che articoliamo siano facilmente accessibili, il che significa che possiamo essere più fluenti ed evitare i riempitivi.

In secondo luogo, nel parlare in pubblico, una delle funzioni principali svolte dai riempitivi, vale a dire far sapere all’altra persona di non iniziare ancora il proprio turno, non è rilevante. La parola è tutta nostra, almeno fino al Q.A. Quindi, se stiamo in silenzio qualche secondo non rischiamo, come nel dialogo informale, di vederci togliere la parola.

In terzo luogo, quando parliamo in pubblico non siamo impegnati nel frenetico andirivieni della conversazione, e quindi siamo liberi di determinare il ritmo temporale del nostro discorso.

La migliore strategia? Rallentare

La migliore strategia per eliminare le parole di riempimento quando si parla in pubblico è rallentare. Rallentando consapevolmente, ci concediamo più tempo per formulare ciò che stiamo dicendo (e il nostro pubblico ha più tempo per elaborarlo), e quindi riduciamo la probabilità delle pressioni cognitive che portano a ritardi, e di conseguenza agli ehm, eh, um, uh.

Rallentare ha anche altri vantaggi: quando parliamo più lentamente, ci sentiamo più autorevoli e rilassati. Se vogliamo ridurre al minimo l’uso dei riempitivi e trarre vantaggio dall’impressione di controllo e autorità che ciò dà, dovremmo comprendere le buone ragioni per cui questi riempitivi conversazionali esistono.

E voi, quanto siete consapevoli dei riempitivi a cui ricorrete?

SOPRAVVIVERE a un CAPO con un EGO smisurato

Talvolta accade. Di ritrovarsi a lavorare per un capo (o un socio) dall’ego spropositato ma che, inizialmente, era sembrato solo un po’ esuberante. Quasi simpatico. Se ne era anche apprezzata la capacità di eloquio, l’originalità nel proporre la sua ostinata visione del mondo.

Fino a quando si è scoperto, o dovuto ammettere, che la sua non era estroversione, ma puro egocentrismo. E le cose sono precipitate…

A me è accaduto, qualche anno fa. Ciò che più mi ha fatto riflettere è l’averne voluto ignorare i segnali, benché palesi. Forse, a spingermi in direzione opposta, è stato il fatto che il progetto su cui lavoravamo era particolarmente interessante. Sulla carta. Quando è venuto meno l’entusiasmo, e la sinergia ha perso la sua ragione d’essere, anche l’aurea magica che ruotava intorno al soggetto in questione si è dissolta. E io, ho dovuto fare i conti con la realtà.

LE MIE LEZIONI IMPARATE

DARE UN NOME ALLE COSE. La prima cosa da fare è riconoscere con chi si ha a che fare. E accettarlo. Anche se non ci piace. Ma è necessario se si vuol sopravvivere, ancor più se in quel momento non si ha modo di andarsene dall’azienda o lasciare il progetto su cui si sta lavorando. Più capiamo con chi abbiamo a che fare e più sarà possibile mettere in atto strategie funzionali al nostro obiettivo o quanto meno alla nostra sopravvivenza.

CAMBIARE STILE DI COMUNICAZIONE. Relazionarsi con chi ha un ego smisurato richiede l’apprendimento di una nuova lingua. O, meglio, di una parte. Allo stesso modo di come fanno gli attori. Quindi considerare l’utilità di frasi quali “Sì, hai assolutamente ragione“, seguito da “Hai mai considerato quest’altra idea che probabilmente ti era già venuta in mente?”. È una forma d’arte, in realtà, che naviga nel delicato equilibrio tra l’adulazione e il far capire il proprio punto di vista senza gonfiare ulteriormente l’ego di chi ci sta di fronte.

RENDI IL TUO LAVORO A PROVA DI EGO. Il tuo lavoro deve brillare, ma non così tanto da accecare l’ego del capo. Si tratta di far fare bella figura al capo senza annullarti. E’ un po’ come essere un ghostwriter per i tuoi successi. “Questo vecchio progetto? Ci ho lavorato nei ritagli di tempo, ma in realtà è stata la tua guida a renderlo tanto strategico“.

DAGLI, DI TANTO IN TANTO, QUELLO CHE VUOLE. A volte, il modo migliore per gestire chi ha un ego colossale è dargli ciò che vuole. Non dico di esagerare, ma la giusta quantità di elogi può oliare le ruote, rendendo la tua vita lavorativa meno in salita.

TIENI PRONTO UN PIANO B. Non sempre sarà possibile evitare le sfuriate di chi ha un ego spropositato. Per questo è utile avere un riparo dove proteggersi, fino a che la tempesta non sarà passata. Tieni a portata di mano una scorta di ombrelli metaforici, come un’e-mail di elogio o un promemoria di un successo passato. Questi piccoli stimolatori dell’ego possono essere la tua offerta di pace agli dei del narcisismo.

MANTIENI L’EQUILIBRIO. Bilanciare l’adulazione con una delicata quanto necessaria verifica della realtà può talvolta essere pericoloso ed elettrizzante allo stesso tempo. Nonchè richiede una certa dose di equilibrio fatto di tatto e tempismo. “È un’idea rivoluzionaria, ma forse potremmo prendere in considerazione questa piccola modifica per renderla ancora più innovativa?“. Si tratta di fare in modo che l’ego atterri dolcemente, senza lividi o ammaccature.

NON E’ SOLO SOPRAVVIVENZA. Ciò che ho imparato è che non si riduce tutto a una mera questione di sopravvivenza. Ma si tratta di crescere, maturare. E’ la capacità di trovare l’umorismo nell’assurdità, imparare la pazienza che non sapevi di avere e sviluppare le capacità di negoziazione. Perché, alla fine, non è quasi mai una questione personale. È solo ego.

Con un po’ di pratica, anche se in certi momenti risulta difficile crederlo possibile, si può anche diventare indispensabili per quel capo dall’ego tanto smisurato. Trasformando quello che avrebbe potuto essere il nostro più grande incubo sul posto di lavoro in una masterclass di agilità psicologica. Dopotutto, se riesci a gestire un capo di questo tipo, cosa non puoi gestire?

Ci sono VOLTE in cui TACERE è peggio che DIRE ciò che si PENSA. Attenti all’IGNORANZA PLURALISTICA…

Ti è mai capitato di trovarti in mezzo a un gruppo di persone e non riuscire a sopportarne una in particolare? Potrebbe trattarsi di un amico di un amico, un collega o della nuova fidanzata di tuo fratello. Poco importa. Ciò che è rilevante è che mentre tu ritieni questa persona odiosa o indelicata, sembri anche l’unica a pensarla così. Così per non rovinare la serata, fai buon viso a cattivo gioco e cerchi di celare il tuo disappunto.

Ma, anche se nessuno palesa di non apprezzare quella persona, è comunque corretto ritenere che piaccia a tutti?

Assolutamente no, il gruppo potrebbe solo sperimentare ignoranza pluralistica.

Che cos’è l’ignoranza pluralistica?

Il termine è stato coniato, a inizio del Novecento, da Allport per descrivere una situazione in cui tutti i membri di un gruppo rifiutano privatamente le sue norme, credendo però, allo stesso tempo, che tutti gli altri membri le accettino.

Detto in altri termini: è quel fenomeno in cui la maggioranza delle persone non è d’accordo con l’opinione della minoranza, ma crede che l’opinione della minoranza sia l’opinione della maggioranza.

Questo accade perché nessuno parla contro l’opinione prevalente, presumendo che tutti gli altri siano d’accordo poiché nessuno sta parlando.

E’ dunque quella sensazione che proviamo quando crediamo che amici e colleghi la pensino diversamente riguardo a un argomento, anche se questi sono, in realtà, sulla nostra lunghezza d’onda. Un esempio si ha in un’aula universitaria quando gli studenti non interrompono un professore che dice una cosa sbagliata, poiché, guidati dall’inazione generale, credono di aver capito male.

In concreto

È dimostrato come i membri esterni di alcuni C.d.A. possano sottostimare la preoccupazione dei membri interni dello stesso consiglio riguardo a una performance non soddisfacente della propria azienda. E’ sufficiente che i membri interni non manifestino le loro preoccupazioni affinché il punto di vista della minoranza, quello dei membri esterni, venga percepito come quello di una larga maggioranza. Il supporto che ha la visione della minoranza viene così sovrastimato a causa dell’inazione dei membri interni.

Non è raro che i dipendenti di un’azienda, pur di dare sostegno al proprio gruppo supportino alcuni valori che, in privato, rigettano.

Una delle maggiori conseguenze dell’ignoranza pluralistica a livello aziendale è l’influenza negativa che questa può avere nei processi decisionali di gruppo. Dato che i dipendenti non condividono le loro reali opinioni in un contesto di decisione di gruppo, potrebbero essere inclini a intraprendere azioni che non sono supportate dai singoli membri del gruppo.

O più banalmente, potrebbe accadere al bar o in un contesto pubblico: un cliente abituale prende a fare battute sessiste ad alta voce verso alcune donne sedute al bancone. Per un po’ si tenderà ad osservare il comportamento dell’avventore, provando disagio ma anche un po’ di timore. Poi, una volta che ci è guardati intorno e resi conto che nessuno dice niente, si è tentati di pensare che forse non è un atteggiamento tanto errato visto che mette a disagio solo te.

Sfortunatamente, in casi come questo più a lungo il cattivo comportamento viene tollerato, più la persona è portata a pensare di essere appropriata e facilmente cercherà di spingere i limiti ancora più in là.

Perché si verifica l’ignoranza pluralistica?

Se ti sei trovato in una situazione come quelle sopra menzionate, o simili, conosci la sensazione. Hai paura di essere l’unica persona a sentirsi in difficoltà. Non vuoi causare problemi, innescare una lite o attirare l’attenzione. O, dai per scontato che qualcun altro interverrà. Due sono i fenomeni che spiegano perché ci sentiamo a disagio e come questo possa portare un intero gruppo a presumere la cosa sbagliata.

Effetto spettatore. Se a nessuno in un gruppo viene assegnato un compito, tutti possono presumere che qualcun altro se ne occuperà. Soprattutto se l’attività richiede di mettersi in evidenza o di separarsi dagli altri membri. L’effetto spettatore può avere conseguenze disastrose in caso di emergenza. In quanto, anziché intervenire, la prima cosa che fanno tutti è guardarsi intorno per vedere chi sta per agire e aiutare la persona in difficoltà. Perdendo tempo prezioso che potrebbe fare la differenza in caso di vita o di morte.

Ingroup Effetto. Agli albori dell’umanità, andare controcorrente era pericoloso. Nessuno voleva separarsi dalla propria “tribù”. Questa mentalità è ancora radicata in noi. Sentiamo il bisogno di conformarci agli altri, anche se quegli “altri” sono solo persone nella nostra stessa stanza mentre partecipiamo a un esperimento di psicologia sociale!

Per questo, ci vuole molto coraggio per andare controcorrente e dare voce a quella che si crede sia un’opinione minoritaria. Ma ci vuole anche fiducia. Se non sei sicuro che le persone del tuo gruppo reagiranno con rispetto alla tua opinione, specie se negativa, potresti pensare che sia più sicuro per te tenere la bocca chiusa.

L’ignoranza pluralistica può verificarsi in quegli ambienti tutt’altro che sicuri dove proteggersi è più proficuo che dare la propria opinione.

Come superare l’ignoranza pluralistica

Il primo passo dovrebbe farlo colui che ha convocato la riunione per decidere su un determinato argomento. Questo individuo dovrebbe essere il primo a mostrarsi aperto a un potenziale feedback negativo, e dovrebbe in qualche modo cercarlo, esternando le proprie preoccupazioni qualora la decisione presa dovesse andare contro i desideri di un membro del gruppo stesso.

Le realtà aziendali però richiedono spesso decisioni complesse, non riducibili a semplici aperture verso potenziali feedback negativi. Nonostante ciò, essere consapevoli dell’esistenza di questo bias, può aiutare le organizzazioni ad approfondire l’argomento e ad affrontare i loro processi decisionali di modo da non andare contro gli interessi dei decisori stessi.

O almeno, questo è quello che penserebbe una larga maggioranza.

Fonti

Miller D.T., McFarland C. (1987). Pluralistic ignorance: When similarity is interpreted as dissimilarity. Journal of Personality and Social Psychology, 53(2), 298-305.

Halbesleben J.R.B., Wheeler A.R., Buckley M.R., Understanding pluralistic ignorance in organizations: application and theory. J Manag Psychol. 2007;22(1):65–83.

Latané B., Darley J., The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, Appleton-Century-Crofts, 1970.

2 febbraio 2024 – Intervista di Professione Finanza e Family Economy su bias, nudge e noise

Intervista di Professione Finanza e Family Economy su bias, nudge e noise in relazione al libro “Gli errori della mente”, ACS editore, Milano, 2022

 

L’intervista di Professione Finanza e Family Economy su bias, nudge e noise

Sono circa 250 i #BiasComportamentali riconosciuti ad oggi: integrarli nella relazione è sempre più importante, da un lato per non caderne vittime e per poterli superare, dall’altro per creare e comunicare un percorso decisionale virtuoso e consapevole.

Ne abbiamo parlato e fatto alcuni esempi insieme a Laura Mondino, Decision Advisor, consulente per la gestione del cambiamento organizzativo, nonchè autrice, insieme a Luca Brambilla, del libro “Gli errori della mente – Strumenti di comunicazione strategica, ACS Editore.

👇Approfondisci e guarda l’intervista!

https://lnkd.in/dN7CNNVb