COME sei messo a CORAGGIO? …quando si tratta di DECIDERE, AGIRE, condividere il tuo PUNTO DI VISTA?

C’è una parola che ricorre nei board delle organizzazioni, in questo periodo storico, più di altri: coraggio.

Nel contesto aziendale coraggio:

Ø  significa avere la fiducia e il mindset necessari per prendere decisioni laddove non esiste una risposta certa o comoda,

Ø  significa fare ciò che è meglio per l’azienda, anche se quella decisione renderà qualcuno infelice,

Ø  significa attenersi ai valori dichiarati, anche se questo ha un costo per la posizione che si occupa, perché ci si è rifiutati di seguire un piano che si riteneva sbagliato.

Il mio lavoro mi permette di confrontarmi con molti dirigenti e, fra quelli che mi colpiscono di più ci sono coloro che possiamo definire ippocratici. Il nome deriva dal giuramento dei medici di Ippocrate, che è stato associato alla frase “Primo, non fare del male“. Questi leader sembrano aver adottato la stessa filosofia nella gestione della carriera e degli incarichi. Giocano sul sicuro, rimanendo sotto il radar e non correndo rischi.

Eppure, se si vuol fare un salto di qualità, molti amministratori delegati hanno bisogno di avere la certezza che i loro manager e dirigenti hanno il coraggio di agire. Non tutti in un’azienda prendono grandi decisioni, o allocano importanti risorse. Ma ognuno deve saper guidare, avere doti di leadership. Ciò richiede assumersi la responsabilità e capire come avere un impatto e influenzare l’organizzazione.

Il coraggio è un’abilità estremamente preziosa – sostiene Ryan Roslansky, CEO di LinkedIn -. Si tratta di avere il coraggio di prendere una decisione quando semplicemente non ci sono decisioni buone o facili da prendere. È facile rimanere intrappolati nell’attesa di avere maggiori informazioni, ma è fondamentale avere il coraggio di prendere semplicemente la decisione e andare avanti”[1].

COME SI COSTRUISCE IL CORAGGIO?

Avere un’opinione su ciò che viene discusso è importante.  Non si tratta solo di conoscere la risposta a una domanda. Occorre avere un punto di vista e saperlo condividere, portare avanti. Altrimenti è difficile progredire.

Un leader coraggioso apprezza il fatto che mettersi in mostra comporta il rischio di sbagliare o di fallire. Molti amministratori delegati e dirigenti senior stanno cercando di promuovere i manager che hanno fallito e che possono dimostrare di aver imparato dall’esperienza. Vogliono leader che intraprendano grandi cambiamenti e, se inciampano, capiscano cosa è andato storto.

Tuttavia, siamo ancora tutti troppo inclini a erigere facciate di invincibilità e perfezione, lucidando curriculum che mostrano liste di record coerenti di successo. Nei colloqui di lavoro, i candidati non sono disposti a riconoscere eventuali fallimenti o debolezze oltre alle prevedibili mancate risposte di “lavoro troppo impegnativo o poco interessante”.

Le persone che non prendono decisioni sbagliate sono indecise e avverse al rischio“, argomentava David Kenny,  quando ricopriva il ruolo di CEO della Weather Company  (ora gestisce la società di ricerche di mercato Nielsen). “Mi piace assumere persone che hanno fallito. Abbiamo delle persone fantastiche qui con alle spalle grandi fallimenti. Se hanno imparato da questi errori, sono professionisti migliori perché hanno corso un rischio. Sono molto più umili, contribuiscono maggiormente alla cultura aziendale e fanno grandi cose perché hanno imparato” [2].

Non tutti i leader la pensano in questo modo. Ci sono ancora aziende con una cultura che incoraggia un approccio più ippocratico. Sono avversi al rischio e i dipendenti che provano cose che non funzionano possono pagare dazi più o meno pesanti. La parola preferita dei leader di aziende come questa è “no” e giustificano questo approccio dicendo a sé stessi che stanno aggiungendo valore “proteggendo il marchio”.

Se il mondo degli affari fosse più stabile e prevedibile, l’approccio ippocratico potrebbe anche funzionare. Ma non adesso. Adesso tutti devono avere coraggio per prendere decisioni, per avere un punto di vista, per agire. Il coraggio è una qualità straordinaria, essenziale per la leadership e, per quanto molti siano convinti che si tratti di una dote innata, al contrario può essere sviluppato e potenziato attraverso un costante lavoro su di sé e una cura delle relazioni.

Diversamente, in questa epoca, restare fermi significa che si verrà rapidamente lasciati indietro.

Nel dubbio, c’è una frase di William Sloan Coffin che può aiutare a riflettere: “Il coraggio è una grande virtù. Cos’è che ci fa paura? La morte o la vita?”. Le risposte potrebbero non essere così scontate.


Bibliografia

[1] Bryant A., Do you have the courage of your convictions? The pace of change can paralyze some executives. It’s time to develop a more dynamic relationship with risk-taking and failure, Strategy+business, March 6, 2023

[2] https://www.nytimes.com/2014/07/27/business/corner-office-david-kenny-of-the-weather-company-move-fast-but-know-where-youre-going.html

25 giugno 2024 – Evento: Playthebrain: Neuroscienze al lavoro – Circolo della Stampa Torino

Martedì 25 giugno 2024 presso il Circolo della Stampa Sporting di Torino, dalle 17,30 si terrà l’evento PLAYTHEBRAIN NEUROSCIENZE AL LAVORO. Esperienze e strumenti pratici per comprendere le dinamiche relazionali sui luoghi di lavoro, organizzato da AIDP (Associazione italiana per la Direzione del Personale) Piemonte e Valle d’Aosta.

Durante l’incontro, verranno illustrati in modo semplice e concreto i concetti fondamentali delle neuroscienze e le ultime frontiere della ricerca applicati al mondo del lavoro. Fra cui i Nudge applicati al management presenti nel libro edito da Franco Angeli.

Intervengono gli autori:

Giorgio Barbero, Diana Boccalatte, Riccardo Bubbio, Serena Candeo, Roberto Ceschina, Eleonora Chiodino, Monica Cialliè, Monica Coppola, Elena Ernandez, Simona Ientile, Paola Magliano, Lara Martini, Roberto Mattio, Laura Mondino, Silvia Pelucchi, Federica Riccardi, Raffaella Ricci, Clara Rocca.

FATE ATTENZIONE a ciò che PRESTATE ATTENZIONE… Nei C.d.A., nelle DECISIONI, o anche solo negli ACQUISTI

Può accadere che qualcosa o qualcuno di cui fino a quel momento si ignorava l’esistenza – un concetto, una vecchia canzone, un film, un’attrice, un abito, un alimento, una pianta o semplicemente un colore – una volta appresi, inizino a presentarsi alla nostra attenzione con una certa insistente ripetitività.

Coincidenze, sincronicità, segni del destino?

Nulla di tutto questo.

Il nostro cervello è semplicemente vittima di un bias cognitivo noto come illusione di frequenza o effetto Baader-Meinhof.

DI COSA SI TRATTA

Il nome deriva da un gruppo terroristico attivo nella Germania del dopoguerra.

A fine anni ‘80 Terry Mullen inviò una lettera al giornale St. Paul Pioner Press, raccontando un’esperienza personale. Secondo il suo racconto, dopo aver letto per la prima volta il nome del gruppo terroristico Baader-Meinhof in un articolo di giornale, e avendo saputo della sua esistenza, ha iniziato a vedere il nome dell’organizzazione dappertutto.

Dopo la pubblicazione della lettera, Mullen fu contattato da altre persone che raccontavano esperienze simili. Da quell’evento, Mullen coniò il termine per descrivere quello strano fenomeno percettivo.

Venire a conoscenza di un’informazione ci porta naturalmente a notarla nella nostra quotidianità: in realtà c’è sempre stata, eravamo noi a non vederla.

Andreas Baader e Ulrike Meinhof non sono quindi i nomi di due ricercatori, ma di due terroristi tedeschi. La banda Baader-Meinhof era infatti il nome con cui era conosciuta, nelle prime fasi della sua attività, la RAF (Rote Armee Fraktion), il violento gruppo terroristico di estrema sinistra che ha terrorizzato la Germania tra gli anni ’70 e gli anni ’90.

Curioso, non è vero?

UN SOLO BIAS, MOLTI NOMI

Quando si parla di effetto Baader-Meinhof, non ci si riferisce solo alla sorpresa di incontrare la stessa parola o lo stesso concetto più volte in un ristretto arco temporale, quanto più a un qualcosa con cui siamo venuti in contatto per la prima volta e che, all’improvviso, comincia a comparire con un’insolita frequenza, come se il mondo avesse deciso tutto a un tratto di comunicarci che quell’oggetto esiste ed è importante.

A molti sarà capitato, per esempio, di voler comprare un’auto nuova di uno specifico colore. Poniamo sia il rosso. Dopo aver preso questa decisione, è probabile che, all’improvviso, vi capiti di incrociare molte più macchine di colore rosso rispetto al solito (rovinando quindi l’entusiasmo iniziale verso una scelta che non sembra più così unica).

L’effetto Baader-Meinhof è assimilabile alla “Red Car Syndrome”. Tornando all’esempio, non sarà che molte persone abbiano deciso di anticiparci andando a comprare una macchina rossa, quanto piuttosto siamo noi che siamo diventati più suscettibili alla presenza di vetture rosse, la cui quantità resta comunque invariata.

Il linguista Arnold Zwicky ha definito questo fenomeno frequency illusion: quando si nota qualcosa di nuovo, si è portati a credere che questo qualcosa accada (o sia riscontrabile) più frequentemente di quanto non sia in realtà.

PERCHE’ CADIAMO VITTIME DEL BIAS DELL’ILLUSIONE DI FREQUENZA

Per generare l’effetto Baader-Meinhof occorre ci sia sinergia fra attenzione e i bias di conferma e di recency illusion. L’attenzione selettiva entra in gioco quando prestiamo attenzione a uno specifico stimolo per la prima volta, facendoci notare la sua presenza a scapito di altri stimoli; il bias di conferma, fa sì che usiamo ogni occasione per supportare l’ipotesi che ci siamo formati.

Un secondo bias che può contribuire a rendere ancora più forte l’effetto Baader-Meinhof è la recency illusion: l’illusione per la quale quando si nota qualcosa per la prima volta si è portati a credere che questa abbia avuto origine solo recentemente.

L’EFFETTO BAADER-MEINHOF nel MARKETING

Utile per attirare l’attenzione del consumatore verso un determinato prodotto e/o servizio.

Già dalla fine dell’Ottocento, Elias St. Elmo Lewis aveva teorizzato un modello a imbuto che sottolineava l’importanza dell’attenzione allo stimolo pubblicitario per creare campagne di marketing di successo.

Il passaggio tra il primo e il secondo step di questo imbuto pubblicitario prevede che il potenziale cliente passi dall’iniziale attenzione per il prodotto a uno stato di interesse: è proprio in questa zona grigia che va ad agire l’effetto Baader-Meinhof.

Quando per la prima volta ci accorgiamo di uno specifico prodotto o di una campagna pubblicitaria, la nostra attenzione selettiva potrebbe iniziare a focalizzarsi su di esso, permettendo così l’instaurarsi dell’effetto Baader-Meinhof. E fare in modo che ogni volta che ci imbatteremo nello stesso stimolo, avremo la sensazione che tutti ne parlino e tutti lo abbiano, portandoci a volerlo anche noi.

COME IMPATTA nei C.d.A.

Neanche i Consigli di Amministrazione sono immuni dall’effetto Baader-Meinhof. Infatti, si potrebbe essere spinti a enfatizzare eccessivamente il significato di incidenti recenti e isolati. Ciò rafforza la falsa percezione di una tendenza anche quando non ci sono prove a sostenerla.

Il bias in questione può esarcerbare le Echo Chambers e il pensiero di gruppo. Ad esempio, quando un componente presenta un concetto, altri che lo hanno incontrato solo di recente potrebbero provare un falso senso di convalida, rafforzando la fiducia nell’idea senza valutarne criticamente pro e contro. Questo potrebbe, a caduta, portare a una mancanza di diversità di prospettive soffocando il processo decisionale o l’innovazione e a trascurare opportunità preziose o, ancora, commettere errori strategici.

COME SUPERARE il Baader-Meinhof nel BOARD MANAGEMENT

L’impatto dell’effetto Baader-Meinhof può mettere a repentaglio non solo il processo decisionale del CdA ma anche la crescita di un’organizzazione. Per mitigare questo pregiudizio, ecco quattro consigli:

Coltiva un dialogo aperto e sostieni prospettive diverse.

Il bias è capace di aggravare le Echo Chambers, ecco perché creare uno spazio di comunicazione aperta e di feedback come prassi, può aiutare a prevenirlo o mitigarlo. Dedica del tempo alla collaborazione, all’ascoltare le opinioni di esperti con esperienze e background diversi in modo da poter esporre potenziali pregiudizi, riconoscerli e trattarli in modo informato e razionale.

Implementa i processi decisionali strutturati

Un altro modo per mitigare i pregiudizi è creare un processo decisionale strutturato. Idealmente, i membri di un C.d.A. dovrebbero essere in grado di fare scelte strategiche informate e razionali. Inoltre, l’utilizzo di strumenti di pensiero critico come l’analisi SWOT, PESTLE, o il pensiero creativo, solo per citarne alcuni, può facilitare la valutazione sistematica delle informazioni.

Inoltre, utile è assicurarsi di avere criteri chiari per valutare i dati o le prove presentate. Ciò può evitare di fare affidamento su riferimenti aneddotici o opinioni personali distorte che portano a diventare facili prede dei bias.

Dai priorità alla diversificazione delle informazioni

Portare attivamente nuove informazioni al tavolo può aiutare a prevenire pregiudizi tra i membri. È una buona abitudine andare sempre oltre i report interni e le novità del settore. Espandere le fonti, a opinioni di esperti esterni o ricerche indipendenti per sfidare pregiudizi radicati è un’ottima tecnica anti bias. Per evitare di sopravvalutare le tendenze basate su casi isolati, si può condurre un’analisi della concorrenza o un sondaggio di settore per raccogliere dati più ampi.

Promuovere l’autoconsapevolezza e la formazione continua

Il Baader-Meinhof è un tipo di pregiudizio personale, pertanto l’autoconsapevolezza è fondamentale. Incoraggiare i membri del C.d.A. a riflettere regolarmente sui propri pregiudizi e su come questi influenzano le loro interpretazioni delle informazioni può fare la differenza. La formazione continua su come i diversi bias impattano sulle decisioni può fornire le conoscenze necessarie per superarli.

CONCLUSIONI

La prossima volta che vi sembrerà di vedere ovunque un oggetto, un dato, un concetto… di cui prima ignoravate l’esistenza, è molto probabile che siete voi ad averlo notato solo di recente e che potreste essere caduti vittime dell’effetto Baader-Meinhof o, peggio, di una strategia studiata ad hoc, che potrebbe portarvi a decisioni sbagliate. Questa consapevolezza farà una grande differenza, credetemi!

QUANDO la MEMORIA gioca BRUTTI SCHERZI: l’effetto MANDELA

La memoria talvolta gioca brutti scherzi. Come quando ricordiamo qualcosa che in realtà non è mai accaduto o ricordiamo qualcosa parzialmente non vero su qualcosa che è successo.

Questo scherzo prende il nome di effetto Mandela e si verifica quando un ricordo comune a un gran numero di persone, altro non è che una distorsione creata dalla memoria collettiva. La ricostruzione, riportata nella mente di molti, corrisponde infatti a un evento che non si è mai verificato nella realtà o a un particolare visivo che non è mai esistito. Estranei sparsi per tutto il globo condividono, in pratica, un ricordo totalmente errato.

Questi ricordi falsati vengono anche detti “menzogne oneste” perchè sono diffuse senza alcun dolo: chi le porta avanti è infatti totalmente convinto di dire la verità.

Il nostro cervello è capace di ricordare parte di un avvenimento del passato e colmare i vuoti con qualcosa di non vero ma plausibile, purché abbia un senso logico. La particolarità dell’effetto Mandela è che non riguarda un solo individuo ma interessa più persone, a volte anche gruppi numerosi.

Perché si chiama così

Il nome deriva da un episodio risalente al 2009. In occasione di una conferenza, la ricercatrice Fiona Broome parlò con un addetto alla sicurezza della morte di Nelson Mandela, descrivendola come fatto avvenuto durante gli anni ‘80 mentre l’ex presidente del Sudafrica si trovava in prigione. L’addetto alla sicurezza disse alla donna che Mandela non solo non era morto durante la prigionia ma era ancora in vita; il presidente sudafricano morì infatti quattro anni dopo, nel dicembre 2013. Broome ricordava però nei dettagli la morte di Mandela, incluso il discorso della vedova. Tornata nella sala della conferenza, chiese al pubblico la loro versione dei fatti. Il risultato fu curioso, poiché buona parte dei partecipanti ricordava la versione della donna. Poiché questo ricordo era condiviso da altre persone e non solo da Broome, nacque il termine di effetto Mandela e, negli anni successivi, in molti cercarono di dare una spiegazione al fenomeno.

Esempi

Tra gli esempi più comuni troviamo i falsi ricordi legati a citazioni tratti da film o cartoni animati. Molti sono convinti che la strega di Biancaneve allo specchio dica Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? In realtà, la strega dice Specchio, servo delle mie brame. In questo caso è possibile che, trattandosi di un cartone animato, molti bambini non sapessero il significato della parola “servo” e che l’abbiano sostituita con “specchio” creando una memoria collettiva diversa dalla realtà.

Un meccanismo simile può spiegare il fatto che ricordiamo che il costume di Topolino avesse le bretelle, in realtà non le ha.

Un fatto curioso classificato come effetto Mandela è quello che riguarda l’uomo che bloccò i carri armati in Piazza Tienanmen nel 1989; molte persone sono convinte sia stato poi investito e ucciso ma altri video dell’epoca mostrano l’uomo illeso.

Un altro noto esempio dell’effetto Mandela riguarda la battuta che apre Blade Runner Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, non sarebbe mai stata pronunciata in questo modo, ma Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.

Altri esempi di effetto Mandela sono legati a una semplificazione nel percepire le immagini: il logo Looney Toons è in realtà Looney Tunes; Flintstones è scritto proprio così e non Flinstones, la celebre serie TV è Sex and the city e non Sex in the city e la W del logo della casa automobilistica Volkswagen ha un trattino in centro, che la maggior parte di noi non ha mai notato.

Sul logo delle scarpe Air Jordan, il campione di pallacanestro è raffigurato con i pantaloni lunghi. Eppure, sono tanti quelli che potrebbero giurare di aver visto lo stesso logo in cui Michael Jordan indossa i pantaloncini. Questa versione alternativa dell’immagine, però, non è mai esistita se non nella mente dei fan.

Le cause dell’effetto Mandela

La scienza ritiene che l’effetto Mandela sia una sorta di scorciatoia cognitiva intrecciata all’interpretazione della realtà. Nel caso che regala il nome al fenomeno, ad esempio, è più semplice legare la dipartita di Mandela a un evento traumatico che lo ha riguardato, come appunto è la detenzione. La nostra mente, quando non ha una conoscenza diretta di un fatto storico, tenta di ricordare la sequenza di eventi più plausibile e probabile.

E voi come ve la cavate con l’effetto Mandela?