20 novembre ’24 – La fiducia negli ambienti di lavoro: tra bias, rischi ed opportunità – WeDinar Dikton

Mercoledì 20 Novembre 2024, dalle ore 11, interverrò con Alessio Cini e Serena Valenzano (co-founder e partner Dikton) al Webinar: La fiducia negli ambienti di lavoro tra bias, rischi ed opportunità.

QUANTO è INCLUSIVO essere INCLUSIVI?

L’inclusività è utile fin quando non esclude. Mi ritrovo a spiegare a chi mi chiede percorsi di formazione aziendali su empowerment e leadership femminile. Non dovrebbe esistere una leadership di genere. Percorsi formativi in tal senso servono più a potenziare l’idea per cui le donne non sono sufficientemente preparate e quindi devono essere formate per raggiungere il livello degli uomini. Una contraddizione in termini. E non lo penso in quanto donna. Rispondo allo stesso modo anche quando mi vengono chiesti percorsi per formare gli uomini a sviluppare empatia.

Consapevole di camminare su un terreno minato, anticipo che questo scritto non vuol essere provocatorio, tutt’altro. Vorrei, piuttosto, che mi aiutaste a soddisfare la domanda “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”, affinchè non si trasformi, il quesito, in dilemma.

Ecco il tema controverso, della newsletter di questa settimana.

COSA SUCCEDE INTORNO A NOI

Una fetta di mercato preferisce rinunciare a perseguire le politiche DEI (Diversity, Equality, Integration) anche con il rischio di alienare le simpatie dei consumatori più conservatori.

Jack Daniel’s, produttrice del celebre Tennessee whiskey, l’Old No 7, la cui caratteristica è di essere filtrato al carbone attivo di acero e poi invecchiato in botti fatte a mano, un’icona anche per chi non beve, ha annunciato la cancellazione dei programmi DEI a causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. Temendo di perdere, alla lunga, i clienti conservatori – come accadde l’anno scorso alla birra Bud Light, boicottata negli Usa dopo una promozione con l’attrice e tiktoker transgender Dylan Mulvaney – l’azienda del Kentucky ha scritto ai dipendenti annunciando di cambiare rotta: non più premi e incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi sull’inclusione (vi era destinato il 10% del budget) ma, come accadeva un tempo, correlati alle performance aziendali.

Stessa cosa anche per gli obiettivi sulla diversità nella forza lavoro e sui rapporti preferenziali con aziende partner che praticano la valorizzazione della diversità. Stop alla partecipazione al Corporate Equality Index, strumento della Human Rights Campaign Foundation che redige le pagelle alle aziende in base al trattamento di dipendenti e consumatori LGBT.

Jack Daniel’s vuole essere apprezzata soltanto per il pregio dei suoi whiskey.

Stessa scelta operata da Harley-Davidson: cancellati i programmi di inclusione, le quote di assunzione riservate a donne e a minoranze, gli obiettivi di spesa per fornitori che appartengono a minoranze e disconosciuta l’Human Rights Campaign. Il tutto per «non spaccare la comunità» di harleysti.

Tra le altre aziende, la John Deere che fa macchine agricole e tagliaerba, la Polaris che produce motoslitte e moto d’acqua e la catena Tractor Supply che vende prodotti per l’agricoltura, la casa e il barbecue.

Errato non cercare di capire cosa non ha funzionato.

INCLUSIONE: tutta questione di sfumature?

La ricerca scientifica, per tornare alla domanda inziale, “Quanto è inclusivo essere inclusivi”, si è data una risposta:

un contesto è inclusivo quando è sufficientemente stabile da tenere la sua forma e, allo stesso tempo sufficientemente malleabile da favorire il cambiamento in funzione di chi arriva.

Un po’ astratto il concetto, vista la complessità. Vero è che gli esseri umani hanno bisogno di regole, strutture, logiche e identità precise. Non c’è spazio per le sfumature, mentre dribbliamo fra le mine dell’inclusività a tutti i costi.

Bernardo Ferdman, dottorato a Yale e Cattedra in Psicologia delle organizzazioni, ha aggiunto altre domande, le stesse probabilmente che si è posto ognuno di noi, quando è riuscito a superare, indenne, il campo minato:

  • Per essere inclusivi dobbiamo trattare tutti allo stesso modo?
  • Dobbiamo allinearci allo stesso modo di pensare oppure promuovere completa libertà?
  • Dobbiamo raggruppare le persone per identità oppure mixarle?

Ecco che le sfumature di inclusione sono diventate tre paradossi più qualche soluzione.

TRE PARADOSSI

SENTIRCI SIMILI O DIVERSI? Come promuovere appartenenza così da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e dare valore al gruppo?

Succede all’ultimo arrivato in ufficio, ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, a un musulmano in mezzo ai cattolici, a una donna in un contesto maschile…

L’appartenenza accade quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. O quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo conformarci alle regole del sistema.

Il dilemma si muove così: mi dicono che siamo tutti uguali oppure mi dicono che siamo tutti diversi. Come possiamo essere simili e diversi allo stesso tempo?

Andando oltre il paradosso. Essere insieme simili e diversi. Accettare che appartenenza e distintività portano con sé una connessione profonda. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo. Ma anche evitando gli stereotipi e la generalizzazione.

NORME RIGIDE O FLESSIBILI? Cosa definisce chi siamo? Quante sono flessibili o rigide le norme?

“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera conflitto.

L’inclusione delle norme rigide risponde: “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.

La verità sta, come nella maggior parte delle volte, nel mezzo, anche se può non piacere, poiché va a discapito del privilegio.

Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo? Andando oltre il paradosso. Dandosi delle regole precise e saperle ridiscutere.

Immaginiamo un nuovo arrivato in un team formatosi da una decina d’anni. È importante che le regole siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione. Inclusione, non significa assenza di regole o la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.

Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola principe è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è richiesta la divergenza. C’è continuità ma si dà spazio ai nuovi e al nuovo per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.

AL SICURO O A DISAGIO? Come si gestisce la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente inclusivo?

“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio” dice l’inclusione al sicuro.

“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.

La diversità ci obbliga a farci domande e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?

Andando oltre il paradosso. Utilizzando la forza dirompente del disaccordo. Il comfort è importante ma ha dei limiti. Anche quando parliamo di inclusione. Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto. Perché proprio coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo, sono importanti per la crescita personale e collettiva. Il cambiamento è possibile quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi. E’ lì che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri.

SE L’INCLUSIONE (NON) E’ UN  TREND, QUANTO DURERA?

Per cercare di capire se l’inclusione durerà, ho analizzando i tre report più completi sulla D&I:

“Diversity, Equity and Inclusion Lighthouses 2024” del World Economic Forum, che presenta ogni anno visioni puntuali sulle direttrici strategiche lato diversità, equità e inclusione.

–        Il report di McKinsey: “Diversity Matters Even More”.

–        il “World Employment Social Outlook, Trends 2024” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

La risposta non è semplice: lo dimostra anche il fatto che i responsabili D&I non ne possono più: tra il 2018 e il 2021 il 60% dei responsabili D&I delle 500 aziende inserite nell’indice Standard&Poor’s ha lasciato la sua posizione. Ed è così che la D&I è passata da essere un must a una leva di business che richiede competenze specifiche. E per questo le aziende hanno iniziato ad assumere per questo ruolo non più persone appassionate, ma persone competenti. Oltre al fatto che sempre meno dipendenti e consumatori (soprattutto donne e giovani) si lasciano abbindolare da una campagna di comunicazione.

Ho eluso, fin qui, la domanda. Quindi quanto durerà?

Non solo la D&I non è alla fine del suo viaggio, ma secondo i report, è all’inizio di una nuova era: l’inclusione è diventata una questione di impatto sul lungo periodo. Riguarda il lavoro dignitoso, la partecipazione attiva al mondo del lavoro, il Pil, i Paesi ad alto e a basso reddito. Riguarda chi lavora in nero, chi non ha tutele, chi non ne ha abbastanza. Guerre e pandemie. Ma riguarda soprattutto l’ambizione profonda che racconta del mondo che vorremmo abitare. Un po’ come per la sostenibilità ambientale. Rigenerare oggi, per lasciare a chi verrà un posto migliore di quello che abbiamo trovato.

Chiedersi quanto durerà però potrebbe portare a pensare che c’è tempo. Che è possibile continuare a vivere così ancora a lungo. Che è un problema da rimandare, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi.

La risposta non ce l’ho. Anche dopo aver spulciato ricerche e analizzato le scelte di aziende importanti. Forse, un po’ come in tutte le cose, ci vuole equilibrio. Non fanatismo.

Forse, più semplicemente, non avremo più bisogno di parlarne e dibatterne quando i dati sulla D&I saranno così incoraggianti da non essere considerati più interessanti. Anche se parlarne, un po’ come si fa con l’emergenza climatica, ci fa credere di essere parte attiva, di fare qualcosa, di essere solutori efficaci. Peccato che, solo parlare non basta, o forse sì, almeno per la nostra coscienza. Quando, in fondo, basterebbe non cercare le differenze ma ciò che si ha in comune. A prescindere se sul posto di lavoro o fuori. Anche in assenza di regole di inclusione, anche senza bollini e certificazioni, quasi fosse quello a fare la (vera) differenza…

Voi, cosa ne pensate?

Come PROTEGGERSI da un CAPO senza ETICA: il POTERE dei SIMBOLI

Ti sei mai sentito così tanto sotto pressione, al lavoro, da dover compromettere i tuoi principi?Il tuo capo ti ha mai chiesto di mentire per coprire la sua assenza, quando in realtà era a sciare (o chissà dove per l’ennesima volta) o un responsabile, di chiudere un occhio di fronte a un rimborso spese ritoccato?

Se ti è capitato, o ti capita in modo ricorrente, non sei il solo. Un sondaggio condotto dall’Ethics Resource Center, stima intorno al 10% i lavoratori che dichiarano il fenomeno. Questo ci dice che sono molti di più!

Ricordo, al proposito, un progetto di Business Ethics, realizzato una dozzina di anni fa con una società di consulenza Big4 che avrebbe dovuto avere l’obiettivo di aiutare le aziende a riconoscere, mitigare e quindi prevenire i comportamenti non etici. Progetto complesso che, quando lo si presentava, ci veniva risposto “noi non abbiamo questo problema”… un negare oltre l’evidenza anche quando fatti infelici di cronaca portavano tragicamente le stesse organizzazioni sui Media. Ci dissero che eravamo dei visionari, e forse è così. Oggi le cose non vanno molto meglio ma il carewashing aiuta a ritoccare il fenomeno e farlo sembrare meno grave.

A interessarsi ai comportamenti non etici sul lavoro al fine di prevenirli è Maryam Kouchaki docente di management alla Kellogg School. Con i suoi studi ha dimostrato che esporre un simbolo etico, come un’icona religiosa, un poster di una figura spirituale come Gandhi o una citazione eticamente rilevante, può fungere da amuleto contro la corruzione e i comportamenti non etici sul posto di lavoro. Funziona sia perché stimola la consapevolezza etica sia perché crea la percezione che chi lo espone possieda una indiscussa levatura morale.

In pratica, è l’esempio perfetto dell’applicazione dell’effetto priming nel nudging. Come quella di invadere il parco cittadino di immagini di grandi occhi per spingere le persone a raccogliere da terra le deiezioni dei cani…  credetemi, funziona!

L’idea è che essere autenticamente etici, esserne orgogliosi e dimostrarlo può avere ricadute positive“.

EFFETTO PRIMING: COME L’AGLIO CONTRO I VAMPIRI

Applicare immagini di spiccato senso etico può spingere verso comportamenti più corretti, lo stesso, o quanto meno, molto simile, ragionamento utilizzato dagli abitanti dei villaggi medievali che per tenere lontani i vampiri, si adornavano di totem magici.

A testare la correlazione fra le soluzioni nei due contesti, e cercare di quantificare l’efficacia protettiva di crocefissi e acqua santa, con Kouchaki si è unita Sreedhari Desai della Kenan-Flagler Business School dell’UNC. Hanno condotto sei diversi studi, pubblicandone i risultati in un articolo: Moral Symbols: A Necklace of Garlic Against Unethical Requests.

Continuiamo a sentire storie di persone che dicono di aver dovuto fare cose non etiche per mantenere il lavoro, perché è stato chiesto loro di farle e sentivano di non poter dire di no. Volevamo capire se c’era un modo sottile ma efficace per dire di no e per prevenire situazioni così difficili“.

DENARO VS ETICA

Il primo simbolo morale testato da Desai e Kouchaki è stata una semplice citazione accanto alla firma di un’e-mail. Hanno utilizzato il simbolo come parte di una simulazione chiamata Deception Game, progettata per creare un incentivo finanziario a mentire.

Ai partecipanti allo studio è stato detto di essere il leader del loro gruppo. Dovevano quindi chiedere ai loro collaboratori di agire per loro. Quando i ricercatori hanno incluso una citazione etica: “Meglio fallire con onore che avere successo con la frode“, hanno osservato due potenti effetti: la citazione ha effettivamente ridotto la probabilità che il leader scegliesse di mentire. Ma l’effetto più sorprendente si è verificato quando il leader ha deciso di mentire anche dopo aver visto la citazione: a quel punto, le probabilità che il collaboratore scegliesse di mentire, su richiesta del leader, sono scese da 1 su 2 a 1 su 4.

Desai e Kouchaki hanno trovato risultati simili usando altri simboli etici, come delle t-shirt. Hanno confrontato gli effetti di una maglietta con il testo “YourMorals.com” con un’altra t-shirt con la scritta “YourMoney.com“. Il sottile indizio sull’etica nella prima maglietta ha reso di nuovo i leader non solo meno propensi a imbrogliare, ma anche molto meno propensi a coinvolgere la persona che presentava il simbolo.

I risultati delle simulazioni di ricerca sono promettenti. Ma funzionano nel mondo reale? Per scoprirlo, Desai e Kouchaki hanno raccolto dati in India, dove i simboli di stampo etico sono comuni sul lavoro. Ne hanno osservato un’ampia varietà: icone di Krishna, del Buddha e della Vergine Maria, rosari, citazioni dal Corano e altri. Indipendentemente dal tipo di simbolo, i dipendenti che li mostravano erano considerati più morali e, cosa più importante, segnalavano meno casi di richieste non etiche da parte dei loro supervisori rispetto a coloro che non mostravano alcun tipo di simbolo etico.

QUINDI PERCHÉ I SIMBOLI ETICI FUNZIONANO?

Funzionano perché aumentano la consapevolezza morale. Ognuno di noi è soggetto a pregiudizi e limitazioni che ci portano a ignorare le dimensioni etiche delle nostre decisioni. Ma piccole spinte gentili ci aiutano a ricordare di preoccuparci dell’etica, e non solo degli utili trimestrali.

La seconda ragione per cui i simboli funzionano è che inviano agli altri il messaggio che l’etica è importante per la persona che li mostra, e si può attribuire a questa persona un’alta levatura morale. Questa ipotesi può portare un supervisore a concludere che una persona etica non è propensa a soddisfare una richiesta non allineata ai suoi valori.

La ricerca evidenzia il fatto che il nostro carattere influenza coloro che ci circondano in modi sottili, gentili ma importanti, persino in coloro che hanno più potere e autorità di noi.

I simboli etici hanno anche un altro vantaggio: sottolineano che “la paura di ritorsioni è la ragione principale per cui i dipendenti sono generalmente riluttanti a segnalare atti illeciti sul lavoro… Un ampio corpus di ricerche riconosce quanto sia difficile ‘dire semplicemente di no’ a un capo“. Il potere dei simboli risiede nel fatto che operano senza la nostra consapevolezza cosciente. E non ci rendono solo più facile dire di no a un capo; spesso fanno in modo che non dobbiamo farlo.

SOLUZIONI

Il lavoro di Desai e Kouchaki suggerisce che può essere utile mettere in evidenza un simbolo etico: perchè aumenta la consapevolezza etica del capo e può anche ridurre la probabilità che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico.

Ecco come farlo:

Autentico, visibile, rispettoso. Il tuo simbolo perché venga percepito come etico, deve essere autentico, quindi assicurati che rappresenti in modo significativo i tuoi valori. Deve essere coerente con le tue azioni. Se mostri un simbolo in modo non autentico, trasmetterai il messaggio sbagliato. Infine, scegli un simbolo che sia rispettoso degli altri. Non sottovalutare l’importanza di scegliere attentamente il tuo simbolo e di conoscere il tuo pubblico. Sebbene il tuo simbolo riguardi te, dovrebbe comunque mostrare rispetto per gli altri.

I simboli etici possono aiutare, ma bisogna comunque essere preparati. Tieni presente che nessun simbolo etico può eliminare del tutto le richieste non etiche. Nella migliore delle ipotesi, i simboli riducono il rischio che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico. In quanto tali, non sono un sostituto della preparazione a fare la cosa giusta attraverso la formazione e le prove per un’azione etica. È meglio usarli come complemento, non come sostituto, di metodi più tradizionali.

CONCLUDENDO…

  • I simboli etici che mostriamo possono ridurre i comportamenti non etici nelle persone che ci circondano, compresi i nostri supervisori, capi, ecc.
  • I supervisori che chiedono ai subordinati di fare qualcosa di non etico hanno meno probabilità di scegliere un subordinato che esibisce un simbolo etico.
  • I simboli funzionano perché accrescono la consapevolezza etica e inviano segnali sul carattere morale delle persone che li ostentano.

PERCHÉ alcuni raggiungono il SUCCESSO DOPO un FALLIMENTO e altri continuano a FALLIRE?

Ci sono persone il cui successo è iniziato con un fallimento: Henry Ford fallì prima di fondare la Ford Motor Company; Thomas Edison testò migliaia di materiali prima di creare la lampadina a filamento di carbonio; J.K. Rowling ricevette dodici rifiuti prima che venisse pubblicato il primo libro di Harry Potter.

Esempi stimolanti, senza dubbio. Ma che non raccontano (bene) tutta la storia. Soprattutto non spiegano come queste persone abbiano avuto successo, mentre molte altre no.

A porsi l’interrogativo, Dashun Wang, docente di management e organizzazioni alla Kellogg School, nonché direttore del Center for Science of Science and Innovation (CSSI): “Se capissimo questo processo, potremmo prevedere chi diventerà un vincitore, anche con alle spalle diversi fallimenti“.

In un articolo pubblicato nel numero del 150 ° anniversario di Nature, Wang ha sviluppato un modello matematico per individuare ciò che separa coloro che hanno successo da coloro che semplicemente provano e riprovano senza arrivare a niente.

Wang ha scoperto che il successo si riduce all’imparare dai propri errori precedenti, ad esempio, continuare a migliorare le parti di un’invenzione che non funzionano piuttosto che eliminarle, o riconoscere quali parti, di una domanda di sovvenzione respinta, mantenere e quali riscrivere.

Ma non è semplicemente che coloro che imparano di più dai diversi fallimenti hanno maggiori probabilità di vittoria. Piuttosto, c’è un punto di svolta critico. Se la tua capacità di costruire sui tuoi tentativi precedenti è al di sopra di una certa soglia, prima o poi avrai successo. Ma se è anche solo poco al di sotto di quella soglia, potresti essere condannato a continuare a sfornare un fallimento dopo l’altro per l’eternità.

Le persone che si trovano da entrambe le parti della soglia potrebbero essere esattamente lo stesso tipo di persone“, afferma Wang, “ma avranno due risultati molto diversi“.

Grazie a questa intuizione, i ricercatori sono in grado di #prevedere il successo a lungo termine di un individuo con solo una piccola quantità di informazioni sui suoi tentativi iniziali.

MISURAZIONE DEL SUCCESSO

Un crescente corpo di ricerca supporta l’idea che una battuta d’arresto all’inizio della carriera spesso prepara gli scienziati per un successo futuro.

Tuttavia, come dimostrano le storie di Ford, Edison e Rowling, la strada per il successo di solito comporta più di un singolo insuccesso. “Non si fallisce una volta sola“, dice Wang. “Si fallisce più e più volte“. E mentre questa litania di fallimenti può migliorare la situazione degli Edison del mondo, sembra ostacolare quella di molte altre persone.

Per capirne il motivo, Wang aveva bisogno di molte informazioni sul processo di caduta, risalita e di nuovi tentativi.

Si è rivolto a tre enormi gruppi di dati, ciascuno contenente informazioni su tipologie molto diverse di fallimenti e successi: 776.721 domande di sovvenzione presentate ai National Institutes of Health (NIH) tra il 1985 e il 2015; il database della National Venture Capital Association contenente tutte le 58.111 startup che hanno ricevuto finanziamenti di capitale dal 1970 al 2016; il Global Terrorism Database, che include 170.350 attacchi tra il 1970 e il 2016.

Queste fonti hanno permesso di monitorare gruppi e individui mentre tentavano ripetutamente nel tempo di raggiungere un obiettivo: ottenere finanziamenti, far sì che la propria azienda venisse acquisita a prezzi elevati o, nel caso di organizzazioni terroristiche, eseguire un attacco con almeno una vittima.

I tre domini “non potevano essere più diversi” – afferma Wang – “ma per quanto diversi possano sembrare, la cosa interessante è che tutti finiscono per mostrare modelli molto simili e prevedibili“.

COSA FA DI UNA PERSONA UN VINCENTE: FORTUNA O APPRENDIMENTO?

Dati alla mano, il team ha iniziato a pensare al successo e al fallimento al livello più semplice. Il successo, hanno teorizzato, deve essere il risultato di uno di due fenomeni di base: #fortuna o #apprendimento. Le persone che hanno successo in un dato ambito migliorano costantemente nel tempo, oppure sono beneficiarie del caso. Quindi i ricercatori hanno testato entrambe le teorie.

Se le vittorie sono principalmente il risultato del caso – ha pensato il team – tutti i tentativi hanno la stessa probabilità di successo o fallimento, proprio come nel lancio di una moneta, dove ciò che è successo prima non influenza molto ciò che succede dopo. Ciò significa che il centesimo tentativo di una persona non avrà più successo del primo, poiché gli individui non migliorano sistematicamente.

Quindi i ricercatori hanno esaminato il primo e il penultimo tentativo (quello appena prima di una vittoria) per ogni aspirante scienziato, imprenditore e terrorista nel loro set di dati. Per misurare il miglioramento (o la sua mancanza) nel tempo, i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti nel modo in cui venivano valutate le domande di sovvenzione degli scienziati, l’importo dei finanziamenti ricevuti dalle startup e il numero di individui feriti negli attacchi terroristici.

L’analisi ha rivelato che la teoria del caso non regge. In tutti e tre i set di dati, il penultimo tentativo di un individuo tendeva ad avere una probabilità di successo più alta rispetto al suo primissimo tentativo.

Eppure, le persone non imparavano nel modo in cui i ricercatori si aspettavano. L’idea classica della curva di apprendimento dice che più fai qualcosa, più aumenta la tua competenza. Quindi, se tutti nel set di dati imparassero in modo affidabile dai loro fallimenti precedenti, le loro probabilità di successo dovrebbero aumentare drasticamente a ogni nuovo tentativo, portando a serie di fallimenti di breve durata prima del successo.

I dati hanno rivelato serie molto più lunghe di quanto previsto.

Sebbene le tue prestazioni migliorino nel tempo, continui a fallire più di quanto ci aspetteremmo“, spiega Wang. “Ciò suggerisce che sei bloccato da qualche parte, che stai provando ma non stai facendo progressi“.

In altre parole, nessuna delle due teorie poteva spiegare le dinamiche alla base dei ripetuti fallimenti. Quindi i ricercatori hanno deciso di costruire un modello che ne tenesse conto.

UN PREDITTORE DI SUCCESSO

Questo modello presuppone che ogni tentativo abbia diverse componenti, come le sezioni introduzione e budget di una proposta di sovvenzione, ad esempio, o la posizione e le tattiche utilizzate in un attacco terroristico. È importante notare che, anche se un tentativo fallisce nel complesso, alcune delle sue componenti potrebbero comunque essere state valide. Quando si organizza un nuovo tentativo, un individuo deve scegliere, per ogni componente, se cominciar tutto da capo o migliorare una versione di un tentativo precedente (fallito).

Una persona valuta i componenti dei propri tentativi passati in base al feedback ricevuto da altri (per le persone nell’analisi di Wang, il feedback potrebbe provenire dall’NIH, dai capitalisti di rischio o dai piani alti di un’organizzazione terroristica).

Ma il modello riconosce che alcune persone imparano dai loro tentativi falliti più di altre, e coloro che imparano di più incorporano più componenti dei loro tentativi falliti nei loro tentativi successivi.

Da un lato, gli studenti peggiori incorporano zero informazioni dai loro tentativi precedenti, partendo da zero su ogni componente ogni volta. Dall’altro lato, ci sono gli studenti migliori, che considerano tutti i loro fallimenti passati a ogni nuovo tentativo. La maggior parte delle persone si colloca da qualche parte tra questi due estremi.

Mentre gli studenti migliori probabilmente raggiungeranno il successo rapidamente, prevede il modello, gli studenti peggiori hanno scarse possibilità di successo: poiché non imparano mai nulla, si limitano a cercare nuove versioni, sprecando tempo prezioso ricominciando da capo più e più volte.

I ricercatori hanno testato questo modello con i loro dati, utilizzando il tempo medio tra i tentativi come indicatore della capacità di apprendimento di un individuo (poiché gli studenti più bravi partiranno da zero con meno componenti, il che consentirà loro di produrre nuove iterazioni più rapidamente).

Ciò che hanno scoperto è stata una sorprendente relazione tra apprendimento e vittoria finale. Non è che ogni unità di apprendimento aggiuntiva abbia aumentato le probabilità di successo in modo equo. Piuttosto, c’è una soglia di apprendimento singolare che separa i successi finali dal resto.

Wang paragona questa soglia alla transizione tra acqua e ghiaccio. “Immaginate di passare da -5 a -4 gradi Celsius. Non succede nulla. Il ghiaccio rimane ghiaccio“. Ma nel momento in cui la temperatura raggiunge un punto particolare, inizia a sciogliersi.

Allo stesso modo, se la capacità di apprendimento è al di sotto della soglia, è come se quella persona non stesse imparando nulla. Potrebbe migliorare nel tempo, ma non conserverà mai abbastanza componenti buone per produrre un successo. Mentre coloro che sono oltre la soglia dovrebbero disporre di abbastanza lezioni per garantire il successo. Producono nuove iterazioni sempre più velocemente nel tempo, finché alla fine ne hanno una di successo.

In termini pratici questo significa che non è necessario imparare da tutte le esperienze passate per avere successo. Ma c’è un numero minimo di fallimenti da cui devi imparare. Sebbene non sia facilmente quantificabile, i ricercatori hanno individuato la soglia per le sovvenzioni NIH a 3.

IL MODO IN CUI FALLISCI DETERMINA SE AVRAI SUCCESSO

La ricerca respinge l’idea comune secondo cui il successo sia frutto del puro caso e getta nuova luce su ciò che realmente serve per diventare un vincitore.

Semplicemente provare e riprovare, non è sufficiente. I dati mostrano che gli individui al di sotto della soglia di apprendimento hanno fatto tanti tentativi quanti quelli al di sopra, e probabilmente hanno lavorato anche di più, poiché hanno insistito nell’apportare modifiche ai loro tentativi precedenti perfettamente validi. Ma è stato infruttuoso, poiché non hanno incorporato i tentativi passati.

Per Wang, la lezione è chiara: le persone dovrebbero dare molta importanza al feedback e alle lezioni apprese attraverso i fallimenti. Ma solo se si riesce a incorporare le informazioni in nuovi tentativi, confermando il mantra della Silicon Valley secondo cui “fallire meglio” è la chiave del successo.

Lo studio dissipa anche parte del mistero dietro chi ha successo e chi no. I ricercatori hanno scoperto che la capacità di apprendimento di un dato imprenditore, scienziato o terrorista può essere individuata semplicemente misurando la quantità di tempo che passa tra i loro primi tentativi. Di conseguenza, il loro modello è stato in grado di prevedere con precisione quali imprenditori, scienziati e terroristi avrebbero avuto successo molto prima che effettivamente lo avessero.

Thomas Edison disse: le persone rinunciano perché non sanno quanto sono vicine al successo”, spiega Wang. “Con questo modello ora lo sappiamo. Perché se abbiamo dati su come si fallisce, abbiamo un’idea migliore di dove si sta andando“.