All’università mi sono specializzata in Neuroscienze e, come corso di perfezionamento, in Umberto Eco. O forse il contrario. Erano gli anni ’90, e mentre i miei coetanei tappezzavano le pareti di poster dei cantanti del momento, io orgogliosamente affiggevo articoli di giornali a firma di saggisti, ricercatori, scienziati e scrittori. La curiosità e una certa impazienza mi invitavano a mettere ordine al caos che trovavo nel mondo e la rigorosa logica delle discipline scientifiche era la panacea di tutti i mali.
Univo in un apparente disordine la passione per le Scienze sociali, economiche e comportamentali a quelle comunicative, scoprendo molti anni dopo che tutte avevano a che fare con la razionalità e l’irrazionalità umana e le parole per divulgarle.
Le parole, come le ferite, non fanno subito effetto. Penetrano sotto pelle e rimangono. A volte fanno danni invisibili, a volte regalano tante piccole assoluzioni. Ecco perché viviamo in una continua ricerca: tutto il nostro mondo, pensieri, fantasie, emozioni, sentimenti, guarigione, malattie, crescita, evoluzione e monotonia passa attraverso le parole.
E così quando non mi curavo di scienza, scrivevo (per usare le parole di Marguerite Duras), per liberare “l’ignoto che abbiamo dentro: scrivere vuol dire raggiungerlo».
L’uomo, mi sono sempre detta, ha raccontato storie per migliaia di anni: è il modo in cui impara e ricorda e non c’è nessun motivo per cui i miei articoli non debbano fare lo stesso.
C’è una linea sottile tra lo spiegare concetti complessi in un modo comprensibile e semplificarli al punto da introdurre delle imprecisioni. Non sopporto le imprecisioni negli articoli scientifici. Non sopporto la superficialità nei rapporti, nelle amicizie. Non sopporto l’approssimazione in generale. Tendo infatti ad affrontare la complessità di un argomento, piuttosto che evitarla, perché è proprio lì che la scienza – e il processo scientifico – possono essere più affascinanti.
Curiosa nel dna, e con tutti i limiti del tempo, mi ritengo una convinta sostenitrice del pensiero di Bacone secondo cui «la conoscenza è potere». È attraverso il sapere che è possibile neutralizzare o rendere meno incisivi gli idola, le superstizioni, i pregiudizi, ossia bias ed euristiche, teorizzate dalle scienze economiche e comportamentali, così capaci di convincerci di cose sbagliate, di indurci in errore, quando si tratta di fare una scelta.
Che ci piaccia o no la logica da sola non è in grado di spiegare il funzionamento della nostra mente e di tutto quello che ne consegue. Non a caso, nonostante siano in nostro possesso tutte le informazioni necessarie per prendere decisioni, il nostro sistema percettivo viene regolarmente ingannato. Semplicemente perché le decisioni che prendiamo non sono affatto razionali e sanno condurci verso scelte svantaggiose (ma prevedibili) per i nostri interessi.
Ogni giorno prendiamo in media 35.000 decisioni, la maggior parte involontarie.
E tutti, quando ci troviamo davanti a una decisione, siamo soggetti a trappole cognitive e motivazionali, bias ed euristiche, che ci fanno deviare dal comportamento perfettamente razionale. Su questi fattori è consigliabile soffermarsi e agire con metodo.
Questo è ciò di cui la scienza mi ha dotato, e che come un equilibrista ho traslato non solo nel mio lavoro in Azienda, ma anche individuale, con le persone. Aiutandole a districare l’ingarbugliata matassa che sottende alle loro scelte, anche quelle più ininfluenti. E guidarle ad andare più veloce o a sbagliar meno. A ognuno, la parola che preferisce.
Eco e l’amore per la Scienza mi hanno portato fino a qui: a riconoscere emozioni e pensieri che ci abitano nel profondo, sempre disposti a giocare a nascondino. Anche quando noi vorremmo fare tutt’altro.