Ci sono persone il cui successo è iniziato con un fallimento: Henry Ford fallì prima di fondare la Ford Motor Company; Thomas Edison testò migliaia di materiali prima di creare la lampadina a filamento di carbonio; J.K. Rowling ricevette dodici rifiuti prima che venisse pubblicato il primo libro di Harry Potter.
Esempi stimolanti, senza dubbio. Ma che non raccontano (bene) tutta la storia. Soprattutto non spiegano come queste persone abbiano avuto successo, mentre molte altre no.
A porsi l’interrogativo, Dashun Wang, docente di management e organizzazioni alla Kellogg School, nonché direttore del Center for Science of Science and Innovation (CSSI): “Se capissimo questo processo, potremmo prevedere chi diventerà un vincitore, anche con alle spalle diversi fallimenti“.
In un articolo pubblicato nel numero del 150 ° anniversario di Nature, Wang ha sviluppato un modello matematico per individuare ciò che separa coloro che hanno successo da coloro che semplicemente provano e riprovano senza arrivare a niente.
Wang ha scoperto che il successo si riduce all’imparare dai propri errori precedenti, ad esempio, continuare a migliorare le parti di un’invenzione che non funzionano piuttosto che eliminarle, o riconoscere quali parti, di una domanda di sovvenzione respinta, mantenere e quali riscrivere.
Ma non è semplicemente che coloro che imparano di più dai diversi fallimenti hanno maggiori probabilità di vittoria. Piuttosto, c’è un punto di svolta critico. Se la tua capacità di costruire sui tuoi tentativi precedenti è al di sopra di una certa soglia, prima o poi avrai successo. Ma se è anche solo poco al di sotto di quella soglia, potresti essere condannato a continuare a sfornare un fallimento dopo l’altro per l’eternità.
“Le persone che si trovano da entrambe le parti della soglia potrebbero essere esattamente lo stesso tipo di persone“, afferma Wang, “ma avranno due risultati molto diversi“.
Grazie a questa intuizione, i ricercatori sono in grado di #prevedere il successo a lungo termine di un individuo con solo una piccola quantità di informazioni sui suoi tentativi iniziali.
MISURAZIONE DEL SUCCESSO
Un crescente corpo di ricerca supporta l’idea che una battuta d’arresto all’inizio della carriera spesso prepara gli scienziati per un successo futuro.
Tuttavia, come dimostrano le storie di Ford, Edison e Rowling, la strada per il successo di solito comporta più di un singolo insuccesso. “Non si fallisce una volta sola“, dice Wang. “Si fallisce più e più volte“. E mentre questa litania di fallimenti può migliorare la situazione degli Edison del mondo, sembra ostacolare quella di molte altre persone.
Per capirne il motivo, Wang aveva bisogno di molte informazioni sul processo di caduta, risalita e di nuovi tentativi.
Si è rivolto a tre enormi gruppi di dati, ciascuno contenente informazioni su tipologie molto diverse di fallimenti e successi: 776.721 domande di sovvenzione presentate ai National Institutes of Health (NIH) tra il 1985 e il 2015; il database della National Venture Capital Association contenente tutte le 58.111 startup che hanno ricevuto finanziamenti di capitale dal 1970 al 2016; il Global Terrorism Database, che include 170.350 attacchi tra il 1970 e il 2016.
Queste fonti hanno permesso di monitorare gruppi e individui mentre tentavano ripetutamente nel tempo di raggiungere un obiettivo: ottenere finanziamenti, far sì che la propria azienda venisse acquisita a prezzi elevati o, nel caso di organizzazioni terroristiche, eseguire un attacco con almeno una vittima.
I tre domini “non potevano essere più diversi” – afferma Wang – “ma per quanto diversi possano sembrare, la cosa interessante è che tutti finiscono per mostrare modelli molto simili e prevedibili“.
COSA FA DI UNA PERSONA UN VINCENTE: FORTUNA O APPRENDIMENTO?
Dati alla mano, il team ha iniziato a pensare al successo e al fallimento al livello più semplice. Il successo, hanno teorizzato, deve essere il risultato di uno di due fenomeni di base: #fortuna o #apprendimento. Le persone che hanno successo in un dato ambito migliorano costantemente nel tempo, oppure sono beneficiarie del caso. Quindi i ricercatori hanno testato entrambe le teorie.
Se le vittorie sono principalmente il risultato del caso – ha pensato il team – tutti i tentativi hanno la stessa probabilità di successo o fallimento, proprio come nel lancio di una moneta, dove ciò che è successo prima non influenza molto ciò che succede dopo. Ciò significa che il centesimo tentativo di una persona non avrà più successo del primo, poiché gli individui non migliorano sistematicamente.
Quindi i ricercatori hanno esaminato il primo e il penultimo tentativo (quello appena prima di una vittoria) per ogni aspirante scienziato, imprenditore e terrorista nel loro set di dati. Per misurare il miglioramento (o la sua mancanza) nel tempo, i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti nel modo in cui venivano valutate le domande di sovvenzione degli scienziati, l’importo dei finanziamenti ricevuti dalle startup e il numero di individui feriti negli attacchi terroristici.
L’analisi ha rivelato che la teoria del caso non regge. In tutti e tre i set di dati, il penultimo tentativo di un individuo tendeva ad avere una probabilità di successo più alta rispetto al suo primissimo tentativo.
Eppure, le persone non imparavano nel modo in cui i ricercatori si aspettavano. L’idea classica della curva di apprendimento dice che più fai qualcosa, più aumenta la tua competenza. Quindi, se tutti nel set di dati imparassero in modo affidabile dai loro fallimenti precedenti, le loro probabilità di successo dovrebbero aumentare drasticamente a ogni nuovo tentativo, portando a serie di fallimenti di breve durata prima del successo.
I dati hanno rivelato serie molto più lunghe di quanto previsto.
“Sebbene le tue prestazioni migliorino nel tempo, continui a fallire più di quanto ci aspetteremmo“, spiega Wang. “Ciò suggerisce che sei bloccato da qualche parte, che stai provando ma non stai facendo progressi“.
In altre parole, nessuna delle due teorie poteva spiegare le dinamiche alla base dei ripetuti fallimenti. Quindi i ricercatori hanno deciso di costruire un modello che ne tenesse conto.
UN PREDITTORE DI SUCCESSO
Questo modello presuppone che ogni tentativo abbia diverse componenti, come le sezioni introduzione e budget di una proposta di sovvenzione, ad esempio, o la posizione e le tattiche utilizzate in un attacco terroristico. È importante notare che, anche se un tentativo fallisce nel complesso, alcune delle sue componenti potrebbero comunque essere state valide. Quando si organizza un nuovo tentativo, un individuo deve scegliere, per ogni componente, se cominciar tutto da capo o migliorare una versione di un tentativo precedente (fallito).
Una persona valuta i componenti dei propri tentativi passati in base al feedback ricevuto da altri (per le persone nell’analisi di Wang, il feedback potrebbe provenire dall’NIH, dai capitalisti di rischio o dai piani alti di un’organizzazione terroristica).
Ma il modello riconosce che alcune persone imparano dai loro tentativi falliti più di altre, e coloro che imparano di più incorporano più componenti dei loro tentativi falliti nei loro tentativi successivi.
Da un lato, gli studenti peggiori incorporano zero informazioni dai loro tentativi precedenti, partendo da zero su ogni componente ogni volta. Dall’altro lato, ci sono gli studenti migliori, che considerano tutti i loro fallimenti passati a ogni nuovo tentativo. La maggior parte delle persone si colloca da qualche parte tra questi due estremi.
Mentre gli studenti migliori probabilmente raggiungeranno il successo rapidamente, prevede il modello, gli studenti peggiori hanno scarse possibilità di successo: poiché non imparano mai nulla, si limitano a cercare nuove versioni, sprecando tempo prezioso ricominciando da capo più e più volte.
I ricercatori hanno testato questo modello con i loro dati, utilizzando il tempo medio tra i tentativi come indicatore della capacità di apprendimento di un individuo (poiché gli studenti più bravi partiranno da zero con meno componenti, il che consentirà loro di produrre nuove iterazioni più rapidamente).
Ciò che hanno scoperto è stata una sorprendente relazione tra apprendimento e vittoria finale. Non è che ogni unità di apprendimento aggiuntiva abbia aumentato le probabilità di successo in modo equo. Piuttosto, c’è una soglia di apprendimento singolare che separa i successi finali dal resto.
Wang paragona questa soglia alla transizione tra acqua e ghiaccio. “Immaginate di passare da -5 a -4 gradi Celsius. Non succede nulla. Il ghiaccio rimane ghiaccio“. Ma nel momento in cui la temperatura raggiunge un punto particolare, inizia a sciogliersi.
Allo stesso modo, se la capacità di apprendimento è al di sotto della soglia, è come se quella persona non stesse imparando nulla. Potrebbe migliorare nel tempo, ma non conserverà mai abbastanza componenti buone per produrre un successo. Mentre coloro che sono oltre la soglia dovrebbero disporre di abbastanza lezioni per garantire il successo. Producono nuove iterazioni sempre più velocemente nel tempo, finché alla fine ne hanno una di successo.
In termini pratici questo significa che non è necessario imparare da tutte le esperienze passate per avere successo. Ma c’è un numero minimo di fallimenti da cui devi imparare. Sebbene non sia facilmente quantificabile, i ricercatori hanno individuato la soglia per le sovvenzioni NIH a 3.
IL MODO IN CUI FALLISCI DETERMINA SE AVRAI SUCCESSO
La ricerca respinge l’idea comune secondo cui il successo sia frutto del puro caso e getta nuova luce su ciò che realmente serve per diventare un vincitore.
Semplicemente provare e riprovare, non è sufficiente. I dati mostrano che gli individui al di sotto della soglia di apprendimento hanno fatto tanti tentativi quanti quelli al di sopra, e probabilmente hanno lavorato anche di più, poiché hanno insistito nell’apportare modifiche ai loro tentativi precedenti perfettamente validi. Ma è stato infruttuoso, poiché non hanno incorporato i tentativi passati.
Per Wang, la lezione è chiara: le persone dovrebbero dare molta importanza al feedback e alle lezioni apprese attraverso i fallimenti. Ma solo se si riesce a incorporare le informazioni in nuovi tentativi, confermando il mantra della Silicon Valley secondo cui “fallire meglio” è la chiave del successo.
Lo studio dissipa anche parte del mistero dietro chi ha successo e chi no. I ricercatori hanno scoperto che la capacità di apprendimento di un dato imprenditore, scienziato o terrorista può essere individuata semplicemente misurando la quantità di tempo che passa tra i loro primi tentativi. Di conseguenza, il loro modello è stato in grado di prevedere con precisione quali imprenditori, scienziati e terroristi avrebbero avuto successo molto prima che effettivamente lo avessero.
“Thomas Edison disse: le persone rinunciano perché non sanno quanto sono vicine al successo”, spiega Wang. “Con questo modello ora lo sappiamo. Perché se abbiamo dati su come si fallisce, abbiamo un’idea migliore di dove si sta andando“.
L’AGONIA delle CONVERSAZIONI NOIOSE
Abbiamo tutti esempi di conversazioni noiose in cui siamo rimasti intrappolati e che siamo stati incapaci di chiudere in tempi rapidi. Ciò che però ignoriamo è che spesso, sono entrambi gli interlocutori a volere termine la chiacchierata, prima di quanto poi avviene.
Nolenti o volenti, perdiamo la capacità di soddisfare i nostri interessi e di allinearci a quelli di coloro con cui stiamo chiacchierando. Perdendo tempo prezioso o non sfruttandolo al meglio.
Non siamo cioè né efficaci, né strategici.
LA RICERCA DI HARVARD
A mostrare la nostra incapacità di mettere fine a conversazioni poco utili o a gestirle tanto da farle diventare efficaci se non per noi, almeno per l’altro, due esperimenti condotti da un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia dell’Università di Harvard.
In uno, 252 persone reclutate all’interno del dipartimento di psicologia, sono stati accoppiate per tenere una conversazione che poteva durare, a loro piacimento, fino a 45 minuti.
Nel secondo, a 806 volontari reclutati casualmente, è stato chiesto di rispondere ad alcune domande riguardo alle loro conversazioni più recenti, e nello specifico di dichiarare se il momento in cui avrebbero voluto concludere la conversazione e il momento della fine effettiva, coincidessero.
I RISULTATI
In entrambi i casi:
– più di due terzi ha riferito che la conversazione era durata più a lungo di quanto avesse voluto,
– il 10% dichiarato che la conversazione era stata troppo breve e che avrebbe voluto continuare a parlare,
– a essere soddisfatti della durata appena il 2%.
I risultati complessivi degli esperimenti indicano che la durata desiderata delle conversazioni è di circa la metà rispetto a quella effettiva. È emersa inoltre una generale incapacità di intuire i desideri dell’altra persona. Alcuni partecipanti hanno infatti sovrastimato le intenzioni dell’altro: le ipotesi erano sbagliate nel 64% dei casi.
Dale Barr, psicologo all’Università di Glasgow, ritiene quello di Harvard il primo studio che prova a misurare con precisione quanto sia difficile per le persone bilanciare i propri desideri con ciò che desiderano i loro interlocutori. Altre ricerche, supportano quanto le persone siano meno capaci a decifrare cosa pensano gli altri rispetto a quanto immaginano.
E se a peggiorare la situazione si aggiungessero anche i bias?
QUANDO I BIAS NON AIUTANO
Insomma, non siamo bravi né a soddisfare i nostri interessi né quelli dei nostri interlocutori. Non solo non siamo strategici ma nemmeno efficaci. Almeno in alcuni tipi di conversazione. Tanto da preferire di rimanere intrappolati, per non offendere l’altro, che trovare una vita di uscita.
Una delle ragioni è da attribuirsi al courtesy bias, il pregiudizio che spinge a essere cortesi con coloro che cercano la nostra opinione, o che paiono ascoltarci. Questo impedisce la libera espressione di qualsiasi feedback onesto che potrebbe essere percepito come negativo dal destinatario. Mentre il bias di cortesia può salvare le persone da situazioni di disagio a breve termine, può anche ostacolare scambi costruttivi che possono aiutare a migliorare le cose.
Non è da meno il bias dello status quo, la tendenza a lasciare le cose come stanno. E quindi se anche ci annoiamo, riteniamo che siamo meno faticoso che intervenire cambiando strategia.
Ad annebbiare la nostra percezione potrebbe intervenire anche l’effetto del falso consenso, che induce a vedere le proprie scelte e giudizi come comuni e appropriati alle circostanze esistenti. Presumendo che gli altri la pensino come noi, sopravvalutiamo quanto gli altri possano condividere i nostri pensieri, le nostre azioni e atteggiamenti. Tanto da non farci nemmeno considerare che ciò che stiamo dicendo forse non è così interessante per chi ci sta davanti.
Questo è appena un breve excursus, a cui si sommano molti altri pregiudizi a seconda del contesto e dell’interlocutore che si prende in considerazione all’interno di una qualsiasi interazione. Sarebbe errato ignorarne impatto e portata. Più sfidante, purché si riesca a bypassare lo status quo, è trovare tutti gli altri.
Con il senno di poi, per concludere, è molto chiaro il motivo per cui, in molti casi, preferiamo parlare davanti a un drink o pranzando: a un certo punto il bicchiere vuoto o il conto da pagare offrono un appiglio per porre fine all’agonia di quella conversazione.
L’OPPORTUNITA’ di ESSERE una PECORA NERA (al LAVORO)
Essere definiti una pecora nera non piace a nessuno. Questo perché il termine viene usato a pretesto per connotare negativamente decisioni e comportamenti di persone che si distinguono dalla massa, generando quindi vergogna alla famiglia, al team o all’organizzazione di cui fanno parte.
Tuttavia, ciò che la maggior parte delle persone non sa è che ci sono diversi tipi di pecore nere:
– quelle che si distinguono in un nucleo familiare o organizzativo disfunzionale o tossico
– quelle che non si conformano a una dinamica familiare o aziendale sana
– quelle che sono semplicemente diverse dal nucleo familiare e professionale in generale.
E già solo da questa classificazione si capisce che non tutte le pecore nere vengono per nuocere. Scherzi a parte e senza entrare in ambito analitico (e men che meno nella psicopatologia), la riflessione che voglio generare con questo primo articolo del 2025 è sull’utilità che gli outsider hanno nel nostro quotidiano professionale. Poiché trovo curioso che vengano accusati di provocare imbarazzo, anziché sia chi lo prova a chiedersi il perché…
Posso dire di esserlo. Non sempre, non solo. Talvolta meno di quanto vorrei. Ho fatto tante scelte coraggiose, bollate come insensate. Mi sono sentita dare della kamikaze (quando ho lasciato la carriera di docente universitaria per la libera professione), dell’egoista (quando ho scelto la ricerca anziché un posto fisso in una realtà pubblica), dell’ossessiva (quando in giovane età mi alzavo alle 5 del mattino per allenarmi prima di andare a scuola allo scopo di entrare in nazionale), della persona arida (quando optavo per i turni notturni nel week end per avere più tempo libero in settimana per prendermi una seconda laurea) ecc, ecc.
Raramente mi è stato chiesto il motivo delle scelte difficili. Era più facile etichettarmi… Quante volte mi sono sentita dire “tu sei diversa, non sai divertirti”. Forse è così. Sul divertirsi ho molto da imparare, anche se per me un buon libro o imparare e cimentarmi in cose nuove è un piacere irrinunciabile. Forse, in virtù dei fine anno, quando si tirano un po’ le somme, mi è sembrato un buon motivo spendere sulle pecore nere, me compresa, qualche parola.
La vita è più facile per una pecora bianca
Essere una pecora nera in un mondo pieno di pecore bianche può essere demotivante. La società incoraggia a comportarsi da pecore bianche e molti fingono di esserlo perché semplifica loro la vita in molti modi. Eppure, riconoscere e accettare la propria natura dà almeno una grande ricompensa: consente di ottenere e vivere più cose che si desiderano. Posso dire che la maggior parte delle volte che mi sento profondamente soddisfatta è quando faccio le scelte giuste per me, non quelle che gli altri ritengono giuste per me. E questo dettaglio non è semplice semantica!
Lavorare il doppio
Proprio così. Chi mi conosce sa quanto ho faticato per poter portare avanti le mie idee, con lavori diversi da mettere in equilibrio, che per tanti sembravano antitetici e distanti e io vedevo, a ragione, come una sovrapposizione estesa tra i ruoli poiché ciò che insegnavo e ricercavo accademicamente equivaleva a ciò che mettevo in atto imprenditorialmente.
La vita è più appassionante quando sei una pecora nera
Come ho fatto a sopportare notti insonni, turni massacranti e poche occasioni di svago e divertimento? Semplicemente perché sono profondamente appassionata dalla mia carriera da “pecora nera”. Quindi, anche quando non ho intenzione di lavorare in un giorno particolare, spesso non posso fare a meno di fare qualcosa direttamente o indirettamente correlato al mio lavoro. Difficilmente ciò che faccio si fa (solo) dovere.
Sacrifici
Accettare di essere una pecora nera, significa anche accettare di vivere in un modo più libero ma anche più umile, meno esuberante, almeno inizialmente. Perché? In un mondo governato da pecore bianche, tutte le pecore che sono bianche tendono a essere ricompensate in modo più generoso e affidabile delle pecore nere non convenzionali e anormali.
Osa essere antipatico
Se scegli di vivere la vita come una pecora nera, una cosa è certa: non sarai amato dalla maggior parte delle persone. Le pecore nere sono, per definizione, i membri stravaganti di una famiglia o di una società che non si allineano con gli altri. Sono casi anormali che si discostano dalla norma. Lo spiega bene la curva di adattamento all’innovazione di Everett Rogers:
Quindi vivere e lavorare come una pecora nera innovativa (non solo per il piacere di essere una pecora nera, ovviamente) richiede il coraggio di non piacere ad almeno metà delle persone che incontri. Ma se cerchi di piacere a tutti, finisci per non piacere a nessuno, men che meno a te stesso. Quindi, concentrati sul viaggio, non sulla destinazione.
CONCLUSIONE
Non occorre essere una pecora nera per essere felici e realizzati. Basta essere sé stessi, a prescindere da cosa dicono e vogliono gli altri (per noi). Questo non vuol dire andare contro tutto e tutti, ma essere sufficientemente focalizzati da ascoltare ma poi decidere da soli su ciò che è importante per noi. Ricordandosi che il riconoscimento siamo noi a darcelo e nessun altro. Insomma, essere una pecora nera dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un errore!
Quando la regola 80/20 fallisce: ce lo insegna Audrey Hepburn
Ci sono molti modi per parlare di #performance, #decisioni e best practice. Ad esempio, attraverso gli insegnamenti di Audrey Hepburn, un’icona senza tempo, nonché una delle più grandi attrici della sua epoca.
Nel 1953, divenne la prima attrice a vincere un Academy Award, un Golden Globe e un BAFTA per una singola interpretazione: il suo ruolo da protagonista in Vacanze romane.
Anche oggi, più di mezzo secolo dopo, è una delle sole 15 persone ad aver guadagnato un EGOT vincendo tutti e quattro i principali premi dell’intrattenimento: Emmy, Grammy, Oscar e Tony.
Ma poi è accaduta una cosa: ha smesso di recitare.
Nonostante avesse poco più di 30 anni e fosse all’apice della sua popolarità, la Hepburn ha sostanzialmente smesso di apparire nei film dopo il 1967. Si sarebbe esibita in programmi televisivi o film solo altre cinque volte.
Scelse, in barba alla legge di Pareto, di cambiare direzione. Decise di trascorrere i successivi 25 anni lavorando per l’UNICEF, il ramo delle Nazioni Unite che fornisce cibo e assistenza sanitaria ai bambini nei paesi devastati dalla guerra. Svolgendo attività di volontariato in Africa, Sud America e Asia. Nel dicembre 1992, le è stata conferita la Presidential Medal of Freedom, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti.
Torneremo sulla sua storia tra un momento.
EFFICIENTE VS EFFICACE
Come decidi il modo migliore per trascorrere il tuo tempo? I guru della produttività spesso suggeriscono di concentrarsi sull’essere efficaci e non sull’essere efficienti.
Peter Drucker, ha sintetizzato così il concetto: “Non c’è niente di così inutile come fare in modo efficiente ciò che non dovrebbe essere fatto affatto“. In altre parole, fare progressi non significa solo essere produttivi. Significa essere produttivi sulle cose giuste.
Ma come si fa a decidere quali sono le cose giuste? Uno degli approcci più affidabili è quello di usare il Principio di Pareto o Regola 80/20.
La regola 80/20 afferma che, in un qualsiasi contesto, un piccolo numero di cose spiega la maggior parte dei risultati. Ad esempio, l’80% del territorio in Italia è di proprietà del 20% della popolazione. Oppure, il 75% dei campionati NBA viene vinto dal 20% delle squadre. La somma non deve necessariamente arriva a 100. Il punto è che la maggior parte dei risultati è guidata da una minoranza di cause.
Il LATO POSITIVO della REGOLA 80/20
Applicata alla vita e al lavoro, la regola 80/20 può aiutare a distinguere “i pochi elementi vitali dai molti elementi banali“.
Ad esempio, i titolari di attività potrebbero scoprire che la maggior parte dei ricavi deriva da una manciata di clienti importanti. La regola 80/20 raccomanderebbe che il corso d’azione più efficace sarebbe quello di concentrarsi esclusivamente sul servizio a questi clienti (e sul trovarne altri come loro) e smettere di perdere tempo con gli altri o lasciare che la maggior parte dei clienti svanisca gradualmente perché rappresentano una piccola parte del risultato netto.
Questa stessa strategia può essere utile se traslata sui problemi. Potresti scoprire che la maggior parte dei reclami proviene da una manciata di clienti problematici. La regola 80/20 suggerirebbe di perdere questi clienti.
La regola 80/20 è una sorta di palestra. Trovando esattamente la giusta area su cui applicare pressione, puoi ottenere più risultati con meno sforzo. È un’ottima strategia e l’abbiamo usata tutti molte volte.
Ma c’è anche un lato negativo in questo approccio, che spesso viene trascurato; per comprenderlo dobbiamo tornare ad Audrey Hepburn.
Il LATO NEGATIVO della REGOLA 80/20
Siamo nel 1967. Audrey Hepburn è nel pieno della sua carriera e sta cercando di decidere il da farsi. Se applicasse la regola 80/20 al suo processo decisionale, scoprirebbe la risposta: fare più commedie romantiche.
Molti dei suoi migliori film erano commedie romantiche come Vacanze romane, Sabrina, Colazione da Tiffany e Sciarada. Ha recitato in questi quattro film tra il 1953 e il 1963. Hanno attirato un vasto pubblico, le hanno fatto guadagnare premi e sono stati un percorso ovvio verso una maggiore fama e fortuna. Le commedie romantiche erano efficaci per Audrey Hepburn.
Infatti, anche tenendo conto del suo desiderio di aiutare i bambini tramite l’UNICEF, un’analisi 80/20 avrebbe potuto rivelare che recitare in più commedie romantiche era ancora l’opzione migliore, perché avrebbe potuto massimizzare il suo potere di guadagno e donare i guadagni aggiuntivi all’UNICEF.
Naturalmente, tutto questo funziona se recitare fosse rimasta la conditio. Ma Audrey non voleva fare l’attrice. Voleva aiutare chi aveva più bisogno. E nessuna analisi ragionevole, nel 1967, avrebbe suggerito che il volontariato per l’UNICEF fosse l’uso più efficace che potesse fare del suo tempo.
Ecco lo svantaggio della regola 80/20: all’inizio, un nuovo percorso non sembrerà mai l’opzione più efficace.
OTTIMIZZARE il PASSATO o il FUTURO
Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, ha lavorato a Wall Street e ha scalato i vertici aziendali fino a diventare vicepresidente senior di un hedge fund, prima di abbandonare tutto nel 1994 e fondare la sua azienda.
Se Bezos avesse applicato la regola 80/20, nel 1993, nel tentativo di scoprire le aree più efficaci su cui concentrarsi, è praticamente impossibile immaginare che fondare un’azienda sarebbe stata nella lista. A quel punto, non c’è dubbio che il percorso più efficace, in base al guadagno finanziario, allo status sociale o altro, sarebbe stato quello di continuare la carriera nella finanza.
La regola 80/20 è calcolata e determinata dalla tua efficacia recente. Qualunque cosa sembri, l’uso migliore del tempo in un dato momento, dipenderà dalle tue competenze precedenti e dalle opportunità attuali.
La regola 80/20 ti aiuta a trovare le cose utili nel tuo passato e a ottenerne di più in futuro. Ma se non vuoi che il tuo futuro sia uguale al tuo passato, allora hai bisogno di un approccio diverso.
QUINDI?
Ecco la buona notizia: con abbastanza pratica e abbastanza tempo, la cosa che prima sembrava inefficace può diventare molto efficace. Si diventa bravi in ciò che si pratica.
Quando Audrey Hepburn abbandono la carriera di attrice nel 1967, il volontariato non le sembrò altrettanto efficace. Ma tre decenni dopo, ricevette la Presidential Medal of Freedom, un’impresa notevole che difficilmente avrebbe compiuto recitando in commedie romantiche.
Il processo di apprendimento di una nuova competenza o di avvio di una nuova azienda o di una nuova avventura di qualsiasi tipo spesso richiederà un uso inefficace del tempo, all’inizio. Rispetto alle altre cose che sai già fare, la cosa nuova sembrerà una perdita di tempo. Non vincerà mai l’analisi 80/20.
Ma questo non significa che sia una decisione sbagliata.
Ecco perché questo tema mi è parso il miglior consiglio per un 2025 felice. Qualsiasi cosa voglia dire per ciascuno di noi!
Auguri e felice 2025!
L’ILLUSIONE del GENIO CINICO e lo SCETTICISMO come ANTIDOTO
Li conosciamo tutti i #cinici, freddi, insoddisfatti, indifferenti, insensibili, sfiduciati verso tutto e tutti, costellati di dubbi e con la convinzione che gli altri agiscano per proprio tornaconto o che comunque mentano sulle finalità per cui dichiarano di fare qualcosa.
Per quanto sembri facile codificarli, non sono una categoria fissa, come possono essere i fisioterapisti o gli avvocati. Il cinismo è uno spettro. Abbiamo tutti momenti cinici, o nel mio caso, mesi cinici. La domanda è perché finiamo nella trappola del cinismo, anche se ci fa male.
Se il cinismo fosse una pillola, il bugiardino elencherebbe fra gli effetti, depressione, malattie cardiache e isolamento. In altre parole, un veleno. Allora perché così tanti la ingoiano? Uno dei motivi è pensare che il cinismo abbia anche un importante effetto collaterale positivo: l’intelligenza.
Prima di proseguire, lasciatemi contestualizzare… o saltate il prossimo paragrafo…
DA DOVE HA ORIGINE LA PAROLA
Deriva dal greco antico, dal temine kyon ovvero cane. Cinico si ricollega alla vita misera che professavano Diogene di Sinope e i suoi seguaci nel V secolo a.C. Diogene, e il suo gruppo, denunciavano l’ipocrisia della società: la loro idea filosofica inseguiva uno stile di vita che non sbagliamo a definire minimalista. In particolare, questa filosofia professava l’importanza di vivere in totale sintonia con quelli che erano i ritmi della natura, senza fronzoli. Una vita che lo stesso Diogene definiva “povera come quella di un cane”. Da qui l’abitudine di considerare cinico chi disprezza ogni aspetto della società.
Il termine cinismo, nel modo in cui è adoperato oggi, è distante dal significato originario: identifica un disprezzo e una sfiducia verso principi morali, regole, valori, ideali, convenzioni sociali, principi relazionali e altre convenzioni che può anche sfociare nella totale indifferenza. Quello che spinge la persona cinica a comportarsi secondo questo schema è un individualismo fortissimo e una totale sfiducia nelle altre persone che sono tutte allo stesso modo giudicate non credibili, corrotte e inaffidabili. Il cinico non ha scrupoli. Niccolò Machiavelli, uno dei più noti cinici moderni, era solito affermare “il fine giustifica i mezzi”.
IL CINISMO NELLA SOSTANZA
Per capire meglio come si attua il cinismo, immaginate due individui Andrea e Bruno. Andrea crede che la maggior parte delle persone mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe se potesse trarne vantaggio. Quando qualcuno agisce con gentilezza, sospetta secondi fini. Bruno, invece, pensa che la maggior parte delle persone sia altruista e non mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe. Crede che le persone agiscano in modo altruista.
Sapendo solo ciò che avete letto finora, chi scegliereste per ciascuno di questi incarichi: Andrea o Bruno?
Se avete scelto il nostro cinico, Andrea, per i compiti 1 e 3, e Bruno per i 2 e 4, rientrate nella media. I lavori dispari, cognitivi, richiedono un pensiero preciso; quelli pari sono sociali, e richiedono la capacità di connettersi. I ricercatori hanno recentemente chiesto a cinquecento persone di scegliere fra una persona con tratti cinici o una che non ne ha, per molti compiti come questi. Il 90% ha scelto Bruno per i compiti sociali, ma il 70% ha scelto Andrea per quelli cognitivi. Si sono comportati come se i non cinici fossero gentili ma ottusi e i cinici fossero pungenti ma acuti.
Detto in altri termini:
I CINICI IN AZIENDA
In un altro studio, le cavie dovevano selezionare fra due persone, Susanna o Carla, quella che ritenevano più idonea a ricoprire determinati incarichi, fra cui gestire dei colloqui, sapendo che entrambe le risorse avevano mentito per ottenere il lavoro.
Ambedue ugualmente competenti, Susanna tende a “vedere le persone in modo positivo e la sua aspettativa di default è che tutti quelli che incontra siano fondamentalmente affidabili“. Carla invece pensa che “le persone cercheranno di farla franca in ogni modo possibile“.
L’85% degli intervistati ha scelto Carla, convinti che sarebbe stata più brava a individuare i bugiardi.
Più di un secolo fa, lo scrittore George Bernard Shaw ironizzava dicendo che “il potere dell’osservazione accurata è comunemente chiamato cinismo da coloro che non lo possiedono“. Le persone che contano su Andrea e Carla sono d’accordo. Di creduloni è pieno il mondo, ma nel tempo, si impara a non fidarsi a prescindere, e alla fine a fidarsi di nessuno.
CINISMO: SEGNO DI INTELLIGENZA?
Se il cinismo è un segno di intelligenza, allora qualcuno che vuole apparire intelligente potrebbe indossarlo, come si fa con un abito. E in effetti, quando i ricercatori chiedono alle persone di apparire il più competenti possibile, rispondono attaccando, criticando ed esibendo la versione più cupa di se stesse per impressionare gli altri.
La maggior parte di noi valorizza le persone a cui non piacciono le persone. Basta guardare la tv o i social per rendersi conto di quanto i cinici la facciano da padrone, con seguaci infiniti e schiere di follower a difenderli a spada tratta soprattutto quando vengono maltrattati e offesi. Senza contare alcuni proseliti e fautori della leadership gentile: lupi travestiti da agnelli, gentili quanto serve, lupi famelici in azienda. Non è incoerenza, piuttosto l’applicazione del sopracitato consiglio machiavellico.
Però il cinismo non è un segno di saggezza. Più spesso è il contrario. In studi su oltre 200 mila individui in trenta nazioni, i cinici hanno ottenuto punteggi inferiori nei compiti che misurano le capacità cognitive, la risoluzione dei problemi e le capacità matematiche. I cinici non sono nemmeno acuti socialmente, e hanno prestazioni peggiori dei non cinici nell’identificare i bugiardi. Ciò significa che l’85% di noi è anche pessimo nello scegliere i rilevatori di bugie. Scegliamo Carla per arrivare in fondo alle cose quando dovremmo unirci al team di Susanna.
In altre parole, il cinismo sembra intelligente, ma non lo è. Eppure, lo stereotipo del sempliciotto felice e credulone e del misantropo saggio e amareggiato sopravvive, abbastanza ostinato da essere stato definito dagli scienziati “l’illusione del genio cinico“.
SCETTICISMO COME CURA
Se il cinismo è un agente patogeno, possiamo creare resistenza con lo #scetticismo: una riluttanza a credere ad affermazioni senza prove. Cinismo e scetticismo vengono spesso confusi, ma non potrebbero essere più diversi.
I cinici immaginano che l’umanità sia orribile; gli scettici raccolgono informazioni su chi possono fidarsi. Si aggrappano alle convinzioni con leggerezza e imparano rapidamente.
Questa mentalità ci offre un’alternativa al cinismo. In uno studio dopo l’altro, la maggior parte delle persone non riesce a rendersi conto di quanto gli altri siano generosi, affidabili e aperti. La persona media sottovaluta la persona media.
Avvicinandoci allo scetticismo, prestando molta attenzione anziché trarre conclusioni affrettate, potremmo scoprire piacevoli sorprese ovunque. Come dimostra la ricerca, la speranza non è un modo ingenuo di approcciarsi al mondo. È una risposta accurata ai migliori dati disponibili. Si può essere “scettici fiduciosi“, che uniscono l’amore per l’umanità a una mente precisa e curiosa. Questa è una sorta di speranza che persino i cinici possono abbracciare e un’opportunità per sfuggire a bias ed euristiche intrappolano tanti di noi.
OMAN del Sud: l’EREMITA del Medio Oriente
Sono poche le occasioni in cui il sultanato dell’Oman fa parlare di sé: discrezione è la parola che forse meglio caratterizza questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. L’ho capito ancora prima di partire, quando in chi mi chiedeva dove stavo andando, leggevo un certo smarrimento. Una sfida per chi si occupa di #cross culture e #comportamenti.
La posizione geografica, l’affacciarsi sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico, lo Yemen da una parte e l’Arabia Saudita sopra, fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo. Ed è forse per questo che, un altro termine per descriverlo, è neutralità.
Costellato di forti, castelli e torri, nessuno (o quasi) cartellone pubblicitario, il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, l’Oman è il volto dell’#ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’Islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.
Le diversità religiose e culturali sono ben accette: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore, una sorta di azione di discernimento. Si preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.
La sobrietà permea il paese. La veste tradizionale – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo individuare turisti e immigrati.
CULTURA AZIENDALE
La cultura aziendale è conservatrice e la formalità ha la sua importanza. Meglio, al primo approccio, essere presentati da qualcuno che conoscono, con cui hanno un rapporto personale. Quasi la #fiducia necessitasse di un intermediario (noto) per ridurre i rischi, verso cui gli omaniti sono profondamente avversi. Una delle tante contraddizioni, insomma…
Tendono a farsi vicini, durante la conversazione, tanto da violare lo spazio personale. Ma per questo non meno ospitali, anche verso gli stranieri. Per loro è sufficiente che si comprendano le regole del Paese e le si rispetti, come vestirsi in modo appropriato e rispettare il tempo dedicato alla preghiera.
Qualcuno l’ha definita leadership gentile, erroneamente. Perchè anche se il capo tende a non rimproverare pubblicamente dipendenti e collaboratori, per una questione di rispetto e dignità, difficilmente viene messo in discussione. Molto più simile a una sudditanza, in virtù del fatto che nessuno si azzarda a prendere qualsiasi forma di iniziativa: chi non decide, chi non comanda, si limita a fare ciò che gli viene detto. Un’ottima palestra per imparare la delega. In un termine: frustrante all’inverosimile.
CAMBIAMENTO
La propensione al rischio è scarsa. Ogni nuovo progetto viene analizzato attentamente per garantire che qualsiasi rischio rappresenti sia pienamente compreso e affrontato.
Per fare il modo che il #cambiamentoabbia effetto, l’idea deve essere accettata dal gruppo. La sensibilità culturale è importante, poiché l’atteggiamento dell’Oman nei confronti del rischio è fortemente influenzato dalle conseguenze negative del fallimento sia sul singolo individuo che sul gruppo.
Meglio saperlo o si rischia il burn out!
TEMPO E PRIORITA’
Gli omaniti non sono soliti forzare il rispetto di una scadenza. Questo fa sì che, in genere, le cose richiedano più tempo del previsto, perché le riunioni vengono spesso interrotte e potrebbero essere necessari diversi meeting per fare ciò che potrebbe essere gestito con una telefonata a casa. È consigliabile sottolineare l’importanza della scadenza concordata. La pazienza è fondamentale.
COMUNICAZIONE E NEGOZIAZIONE
Lo stile comunicativo è indiretto e ad alto contesto. Salvare la faccia, agire in modo appropriato e proteggere le relazioni sociali sono importanti fattori trainanti.
Affrettare le cose, potrebbe mettere a repentaglio i rapporti d’affari. A guidare gli omaniti sono gli eventi e non il tempo. L’incontro in sé è più importante della tempestività o dell’esito. Gli omaniti sono abili negoziatori: vedono la contrattazione come un intrattenimento e la negoziazione segue generalmente un atteggiamento vinci/perdi. Preparatevi a scendere sia nei prezzi che nelle condizioni. Meglio non fissare un prezzo iniziale così alto da far apparire evidente, dal prezzo finale, che non ti aspettavi di saldare l’ordine a quel prezzo. C’è la tendenza a evitare di dare cattive notizie e a dare accettazioni fiorite, che possono significare solo forse.
COSTUMI SOCIALI
L’Oman è una società tribale, sebbene l’influenza tribale stia gradualmente diminuendo. Le usanze sociali sono meno rigide di quelle della vicina Arabia Saudita: il consumo di bevande alcoliche, ad esempio, è illegale per i cittadini omaniti, ma è consentito ai visitatori nei ristoranti autorizzati.
La maggior parte degli uomini indossa una tradizionale tunica di cotone intrecciato, e il copricapo consiste in un leggero turbante di cotone o lana. Molti uomini continuano a portare con sé un pugnale corto, largo, curvo e spesso molto decorato, infilato nella cintura anteriore.
Il momento del pasto è il centro degli incontri sociali. Il pasto tipico è composto da riso, agnello o pesce speziato, datteri e caffè o tè. A fine pasto viene bruciato l’incenso.
LE DONNE
In Oman le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un’attività. Grazie ai proventi del petrolio e alla mentalità progressista, il paese è catapultato nell’era moderna. Relegate un tempo nelle case ed escluse dalla vita pubblica, molte sono, oggi, in grado di intraprendere una vera carriera. Nel 2002 è stato istituito il suffragio universale per tutti i cittadini sopra i 21 anni. Nel 2008 un decreto reale ha stabilito uguali diritti ereditari e la presenza femminile nelle scuole è in costante ascesa.
Il Sultano, precedente, così come quello attuale, ha sempre enfatizzato l’importanza delle donne nel processo di crescita del paese, con numerosi ambasciatori e ministri di sesso femminile. Hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di istruzione e possono usufruire di permessi per le gravidanze e l’allattamento.
Sfortunatamente esistono ancora molti pregiudizi e numerose attività, in campi come l’agricoltura e l’ingegneria, sono state giudicate “inappropriate”. Il maggior ostacolo è rappresentato dalla mentalità conservatrice degli uomini arabi che sono convinti della propria superiorità e ritengono che il sostentamento della famiglia sia responsabilità esclusivamente maschile. Molto diffuso, l’effetto “soffitto di vetro” che blocca le carriere e impedisce l’accesso alle posizioni di potere.
Nelle realtà rurali, dove è ancora forte il modello patriarcale, i cambiamenti sono pochi e i matrimoni combinati. Le unioni d’amore sono rarissime anche negli strati più alti della società. Nonostante la legge omanita sancisca la libertà, prevale la tradizione: è il padre a essere responsabile della felicità della propria figlia. La verginità è un requisito imprescindibile e il mancato superamento della verifica getterà onta su tutto il clan.
Nei nuclei familiari poligami, la prima moglie è solitamente una cugina e la seconda una parente alla lontana. Benché l’Islam consenta di avere sino a 4 mogli, gli uomini preferiscono divorziare e risposarsi, lasciando così la prima moglie senza reddito né supporto. Nelle case vivono normalmente tre generazioni anche se cominciano a vedersi coppie indipendenti che, tuttavia, mantengono stretti legami con il resto della famiglia.
L’uomo più anziano detiene la massima autorità mentre la donna più anziana è responsabile dell’organizzazione domestica. La legge ereditaria è governata dalla Sharìa e nelle società beduine le donne spesso cedono la loro eredità a figli o fratelli in cambio della promessa di assistenza nella vecchiaia.
Benché le donne siano, almeno formalmente, libere di interagire con l’altro sesso, preferiscono essere accompagnate agli eventi pubblici da un parente maschio. Fuori casa si avvolgono nell’abaya nera, il volto coperto dal velo che lascia liberi solo gli occhi, pesantemente truccati. Le donne beduine, invece, indossano coloratissimi abiti tradizionali che prevedono l’uso del burqa, sormontata da una cresta che le fa assomigliare ad uccelli rapaci. Un tempo usate per proteggersi da sole e sabbia, oggi queste maschere più che un obbligo sono un vezzo. Sotto l’abaya si celano abiti colorati, eleganti e sensuali, destinati a essere sfoggiati solo in famiglia.
Nonostante la modernizzazione, è ancora in uso, soprattutto nel Dhofar, dove ho passato diversi giorni di questo mio ultimo soggiorno, la pratica della circoncisione femminile: negli ospedali omaniti, in accordo con le direttive delle Nazioni Unite, la mutilazione genitale femminile è bandita ma nelle corsie delle maternità si aggirano ancora le donne con l’incensiere, chiamate dalle stesse madri per perpetrare questa usanza ancestrale. L’argomento è tabù. Non viene discusso nemmeno in privato e, spesso, gli uomini sono tenuti all’oscuro.
Mentre nel nord si tratta ormai soltanto di una cerimonia dal valore simbolico, nel sudè brutale e prevede l’asportazione del clitoride e talvolta anche delle piccole labbra. Retaggio della tradizione e non di un obbligo religioso. Le credenze popolari vogliono che il taglio di parte dei genitali esterni delle donne ne stemperi l’ardore e il desiderio sessuale con buona pace delle famiglie. Il cammino verso la conquista della libertà è arduo e faticoso ma, almeno in Oman, il primo seme è stato gettato.
CONCLUDENDO…
Nelle contraddizioni di un paese costellato di culture così eterogenee ho imparato molto, ho fatto a botte con la pazienza e il tempo, l’incapacità di avere risposte a domande neanche troppo complesse, camminato su spiagge incontaminate per chilometri, respirato sabbia e nuotato in un oceano arrabbiatissimo popolato di pesci dai colori brillanti. E se al Nord le cose sono quasi semplici, al sud, specie al confine con lo Yemen, non c’è posto per il turista distratto, poco avvezzo ai viaggi. Ogni passo si fa pesante, conflittuale. Non si respira aria di guerra ma di tradizioni. E quelle, si sa, sono dure a morire. E sentirsi soli e diversi è un attimo!
SLASH WORKERS: perche’ dicono NO al modello SINGOLA PROFESSIONE, SINGOLO DATORE di LAVORO
Ho sempre avuto la propensione a lavorare su più fronti, immergermi in contesti apparentemente antitetici e distanti, un po’ per sconfiggere la noia, un po’ per soddisfare sia la mia parte razionale sia la creativa.
Mi sono divisa, nel corso degli anni, fra un lavoro in un reparto ospedaliero ad alta complessità e quello di giornalista; ho insegnato neuroscienze in università e al contempo scrivevo racconti; ancor oggi saltello fra consulenza, ricerca, divulgazione e one to one. Mix eclettico che mi realizza e mi tiene sul pezzo.
Mentirei se negassi che più di qualcuno, nel tempo, mi ha richiamato all’ordine. A 50 anni suonati, è facile pensare che io non abbia ancora capito cosa voglio fare da grande. In realtà lo so benissimo, ma vai a spiegare che il mio modo di vivere non è un trend, una questione umorale, ma il risultato di analisi, prove ed errori che hanno portato a una scelta consapevole.
SLASH WORKER: E’ SOLO UN TREND?
Ed è su questo che voglio spendere qualche parola: sui trend, sulle mode del momento. La propensione che hanno i fenomeni di modificarsi, mantenendo la propria crescita o decrescita costante nel tempo. Nello specifico, ho recentemente scoperto di essere sempre stata una slash worker: persone che volontariamente ignorano il modello “singola professione, singolo datore di lavoro”. Quando questo termine ancora non esisteva e neanche sui trend si perdevano troppe parole.
Difficile pensare che questo fenomeno sia etichettabile come un banale trend. Perché, piaccia o meno, il lavoro ha molto a che fare con la felicità. E se cambiare marcia, provare professioni diverse e applicare e apprendere un set di competenze più ampio permette di stare bene, stare meglio, con sé stessi e con gli altri, non dovrebbe limitarsi a una moda passeggera.
Anche perché, facendo un confronto con il lavoratore tradizionale, se un lavoro si interrompe, questo si ritrova dall’oggi al domani senza lavoro, lo slash worker ha più opzioni su cui contare e probabilmente avrà un rischio minore di disoccupazione.
DAL CV AL PORTFOGLIO
Il CV rappresenta chi siamo: una visione lineare di lavori e responsabilità e un elenco di aziende per cui si è lavorato o il ruolo che si è ricoperto. L’attenzione è rivolta alla creazione di un caso per la durata e la qualità dell’esperienza professionale.
Il curriculum dello slash worker è il portfoglio: una visione olistica dei risultati. L’obiettivo è raccontare una storia avvincente e coerente sulle capacità professionali, non periodi, utilizzando aneddoti, dati, referral, lavoro prodotto e risultati raggiunti. Ciò che era un dato di fatto circoscritto nei campi creativi, si sta ampliando a tutte le professioni. Il KPI si sta spostando da “per chi hai lavorato” a “cosa hai fatto“.
MODELLO: DALLE 8 ALLE 5
Se il modello tradizionale prevede di timbrare entrata e uscita, le prestazioni sono strettamente legate al tempo trascorso sul posto di lavoro e si baratta la libertà personale per una retribuzione prevedibile, nell’economia Slash Worker, i contratti si concentrano sui risultati, non sul tempo trascorso. Le persone si impegnano a produrre una specifica quantità di lavoro in un periodo di tempo concordato di comune accordo, con una maggiore gestione della libertà professionale a fronte del potenziale di un lavoro futuro meno prevedibile. Anche se, è giusto sottolinearlo, dribblare fra più attività, può limitare e non di poco il tempo libero. La cosa importante è negoziare bene con sé stessi cosa è prioritario: lavoro, soldi, carriera, successo, tempo libero, famiglia…
SPIRITO IMPRENDITORIALE
Un’altra differenza è che il lavoratore dipendente è parte dell’organizzazione e, nella maggior parte dei ruoli, non gli è richiesto di essere anche un imprenditore, perché è l’azienda ad occuparsene. Oltre al fatto che molte attività sono delegabili, per esempio il back office, segreteria, logistica, ecc.
Per lo Slash Worker, la carriera è di per sé un’azienda, che ha il suo marchio, posizionamento, fasi, struttura legale e clienti. E dividendosi fra molte realtà organizzative, non solo una, il lavoro amministrativo si accumula, così tutte quelle incombenze non sempre economicamente delegabili. Senza contare che ogni cliente vuole essere trattato come unico, non vuole aspettare e saperti diviso fra molti altri. E qui entra il gioco la capacità negoziale e di consapevolezza dei propri limiti e spazi.
UN LAVORO PER LA PASSIONE E UNO PER LA PAGNOTTA
Guardando a posteriori, ciò che più di ogni altra cosa mi ha spinto a optare per più lavori, è stato il bisogno di alimentare la mia passione per la scrittura e la divulgazione. Ai tempi, non mi avrebbe consentito di guadagnare in modo sufficiente. Così dividersi fra più attività mi ha concesso tempo, analisi, sgravandomi dal peso dell’urgenza. E la passione non si è appassita dietro incombenze non necessarie.
C’è chi, infatti, per seguire la propria passione, un esempio fra tanti, per la musica, conscio che “la musica non ti fa guadagnare soldi” (quindi suonare in una band è considerata una perdita di tempo), pur di perseguire ciò che ama è disposto a pagare per questo. Dividendosi fra un lavoro più tradizionale e sicuro fino a quando non raggiunge la giusta maturità per fare il salto o dedicarsi alla passione in altro modo, come insegnare in una scuola.
Forse, almeno i più tradizionalisti, storceranno il naso di fronte alla mania dello slash life ma, la società sta diventando sempre più diversificata e proiettata verso l’autorealizzazione. E affidarsi al lavoro e al denaro per acquisire un maggior senso di autostima, funziona poco o per breve tempo. Meglio è, almeno in taluni casi, praticare una filosofia carpe diem e creare le proprie identità.
Cosa ne pensate? Qual è il vostro sogno infranto e se poteste tornare indietro cambiereste le vostre scelte?
20 novembre ’24 – La fiducia negli ambienti di lavoro: tra bias, rischi ed opportunità – WeDinar Dikton
Mercoledì 20 Novembre 2024, dalle ore 11, interverrò con Alessio Cini e Serena Valenzano (co-founder e partner Dikton) al Webinar: La fiducia negli ambienti di lavoro tra bias, rischi ed opportunità.
QUANTO è INCLUSIVO essere INCLUSIVI?
L’inclusività è utile fin quando non esclude. Mi ritrovo a spiegare a chi mi chiede percorsi di formazione aziendali su empowerment e leadership femminile. Non dovrebbe esistere una leadership di genere. Percorsi formativi in tal senso servono più a potenziare l’idea per cui le donne non sono sufficientemente preparate e quindi devono essere formate per raggiungere il livello degli uomini. Una contraddizione in termini. E non lo penso in quanto donna. Rispondo allo stesso modo anche quando mi vengono chiesti percorsi per formare gli uomini a sviluppare empatia.
Consapevole di camminare su un terreno minato, anticipo che questo scritto non vuol essere provocatorio, tutt’altro. Vorrei, piuttosto, che mi aiutaste a soddisfare la domanda “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”, affinchè non si trasformi, il quesito, in dilemma.
Ecco il tema controverso, della newsletter di questa settimana.
COSA SUCCEDE INTORNO A NOI
Una fetta di mercato preferisce rinunciare a perseguire le politiche DEI (Diversity, Equality, Integration) anche con il rischio di alienare le simpatie dei consumatori più conservatori.
Jack Daniel’s, produttrice del celebre Tennessee whiskey, l’Old No 7, la cui caratteristica è di essere filtrato al carbone attivo di acero e poi invecchiato in botti fatte a mano, un’icona anche per chi non beve, ha annunciato la cancellazione dei programmi DEI a causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. Temendo di perdere, alla lunga, i clienti conservatori – come accadde l’anno scorso alla birra Bud Light, boicottata negli Usa dopo una promozione con l’attrice e tiktoker transgender Dylan Mulvaney – l’azienda del Kentucky ha scritto ai dipendenti annunciando di cambiare rotta: non più premi e incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi sull’inclusione (vi era destinato il 10% del budget) ma, come accadeva un tempo, correlati alle performance aziendali.
Stessa cosa anche per gli obiettivi sulla diversità nella forza lavoro e sui rapporti preferenziali con aziende partner che praticano la valorizzazione della diversità. Stop alla partecipazione al Corporate Equality Index, strumento della Human Rights Campaign Foundation che redige le pagelle alle aziende in base al trattamento di dipendenti e consumatori LGBT.
Jack Daniel’s vuole essere apprezzata soltanto per il pregio dei suoi whiskey.
Stessa scelta operata da Harley-Davidson: cancellati i programmi di inclusione, le quote di assunzione riservate a donne e a minoranze, gli obiettivi di spesa per fornitori che appartengono a minoranze e disconosciuta l’Human Rights Campaign. Il tutto per «non spaccare la comunità» di harleysti.
Tra le altre aziende, la John Deere che fa macchine agricole e tagliaerba, la Polaris che produce motoslitte e moto d’acqua e la catena Tractor Supply che vende prodotti per l’agricoltura, la casa e il barbecue.
Errato non cercare di capire cosa non ha funzionato.
INCLUSIONE: tutta questione di sfumature?
La ricerca scientifica, per tornare alla domanda inziale, “Quanto è inclusivo essere inclusivi”, si è data una risposta:
Un po’ astratto il concetto, vista la complessità. Vero è che gli esseri umani hanno bisogno di regole, strutture, logiche e identità precise. Non c’è spazio per le sfumature, mentre dribbliamo fra le mine dell’inclusività a tutti i costi.
Bernardo Ferdman, dottorato a Yale e Cattedra in Psicologia delle organizzazioni, ha aggiunto altre domande, le stesse probabilmente che si è posto ognuno di noi, quando è riuscito a superare, indenne, il campo minato:
Ecco che le sfumature di inclusione sono diventate tre paradossi più qualche soluzione.
TRE PARADOSSI
SENTIRCI SIMILI O DIVERSI? Come promuovere appartenenza così da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e dare valore al gruppo?
Succede all’ultimo arrivato in ufficio, ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, a un musulmano in mezzo ai cattolici, a una donna in un contesto maschile…
L’appartenenza accade quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. O quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo conformarci alle regole del sistema.
Il dilemma si muove così: mi dicono che siamo tutti uguali oppure mi dicono che siamo tutti diversi. Come possiamo essere simili e diversi allo stesso tempo?
Andando oltre il paradosso. Essere insieme simili e diversi. Accettare che appartenenza e distintività portano con sé una connessione profonda. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo. Ma anche evitando gli stereotipi e la generalizzazione.
NORME RIGIDE O FLESSIBILI? Cosa definisce chi siamo? Quante sono flessibili o rigide le norme?
“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera conflitto.
L’inclusione delle norme rigide risponde: “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.
La verità sta, come nella maggior parte delle volte, nel mezzo, anche se può non piacere, poiché va a discapito del privilegio.
Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo? Andando oltre il paradosso. Dandosi delle regole precise e saperle ridiscutere.
Immaginiamo un nuovo arrivato in un team formatosi da una decina d’anni. È importante che le regole siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione. Inclusione, non significa assenza di regole o la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.
Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola principe è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è richiesta la divergenza. C’è continuità ma si dà spazio ai nuovi e al nuovo per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.
AL SICURO O A DISAGIO? Come si gestisce la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente inclusivo?
“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio” dice l’inclusione al sicuro.
“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.
La diversità ci obbliga a farci domande e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?
Andando oltre il paradosso. Utilizzando la forza dirompente del disaccordo. Il comfort è importante ma ha dei limiti. Anche quando parliamo di inclusione. Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto. Perché proprio coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo, sono importanti per la crescita personale e collettiva. Il cambiamento è possibile quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi. E’ lì che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri.
SE L’INCLUSIONE (NON) E’ UN TREND, QUANTO DURERA?
Per cercare di capire se l’inclusione durerà, ho analizzando i tre report più completi sulla D&I:
– “Diversity, Equity and Inclusion Lighthouses 2024” del World Economic Forum, che presenta ogni anno visioni puntuali sulle direttrici strategiche lato diversità, equità e inclusione.
– Il report di McKinsey: “Diversity Matters Even More”.
– il “World Employment Social Outlook, Trends 2024” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
La risposta non è semplice: lo dimostra anche il fatto che i responsabili D&I non ne possono più: tra il 2018 e il 2021 il 60% dei responsabili D&I delle 500 aziende inserite nell’indice Standard&Poor’s ha lasciato la sua posizione. Ed è così che la D&I è passata da essere un must a una leva di business che richiede competenze specifiche. E per questo le aziende hanno iniziato ad assumere per questo ruolo non più persone appassionate, ma persone competenti. Oltre al fatto che sempre meno dipendenti e consumatori (soprattutto donne e giovani) si lasciano abbindolare da una campagna di comunicazione.
Ho eluso, fin qui, la domanda. Quindi quanto durerà?
Non solo la D&I non è alla fine del suo viaggio, ma secondo i report, è all’inizio di una nuova era: l’inclusione è diventata una questione di impatto sul lungo periodo. Riguarda il lavoro dignitoso, la partecipazione attiva al mondo del lavoro, il Pil, i Paesi ad alto e a basso reddito. Riguarda chi lavora in nero, chi non ha tutele, chi non ne ha abbastanza. Guerre e pandemie. Ma riguarda soprattutto l’ambizione profonda che racconta del mondo che vorremmo abitare. Un po’ come per la sostenibilità ambientale. Rigenerare oggi, per lasciare a chi verrà un posto migliore di quello che abbiamo trovato.
Chiedersi quanto durerà però potrebbe portare a pensare che c’è tempo. Che è possibile continuare a vivere così ancora a lungo. Che è un problema da rimandare, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi.
La risposta non ce l’ho. Anche dopo aver spulciato ricerche e analizzato le scelte di aziende importanti. Forse, un po’ come in tutte le cose, ci vuole equilibrio. Non fanatismo.
Forse, più semplicemente, non avremo più bisogno di parlarne e dibatterne quando i dati sulla D&I saranno così incoraggianti da non essere considerati più interessanti. Anche se parlarne, un po’ come si fa con l’emergenza climatica, ci fa credere di essere parte attiva, di fare qualcosa, di essere solutori efficaci. Peccato che, solo parlare non basta, o forse sì, almeno per la nostra coscienza. Quando, in fondo, basterebbe non cercare le differenze ma ciò che si ha in comune. A prescindere se sul posto di lavoro o fuori. Anche in assenza di regole di inclusione, anche senza bollini e certificazioni, quasi fosse quello a fare la (vera) differenza…
Voi, cosa ne pensate?
Come PROTEGGERSI da un CAPO senza ETICA: il POTERE dei SIMBOLI
Ti sei mai sentito così tanto sotto pressione, al lavoro, da dover compromettere i tuoi principi?Il tuo capo ti ha mai chiesto di mentire per coprire la sua assenza, quando in realtà era a sciare (o chissà dove per l’ennesima volta) o un responsabile, di chiudere un occhio di fronte a un rimborso spese ritoccato?
Se ti è capitato, o ti capita in modo ricorrente, non sei il solo. Un sondaggio condotto dall’Ethics Resource Center, stima intorno al 10% i lavoratori che dichiarano il fenomeno. Questo ci dice che sono molti di più!
Ricordo, al proposito, un progetto di Business Ethics, realizzato una dozzina di anni fa con una società di consulenza Big4 che avrebbe dovuto avere l’obiettivo di aiutare le aziende a riconoscere, mitigare e quindi prevenire i comportamenti non etici. Progetto complesso che, quando lo si presentava, ci veniva risposto “noi non abbiamo questo problema”… un negare oltre l’evidenza anche quando fatti infelici di cronaca portavano tragicamente le stesse organizzazioni sui Media. Ci dissero che eravamo dei visionari, e forse è così. Oggi le cose non vanno molto meglio ma il carewashing aiuta a ritoccare il fenomeno e farlo sembrare meno grave.
A interessarsi ai comportamenti non etici sul lavoro al fine di prevenirli è Maryam Kouchaki docente di management alla Kellogg School. Con i suoi studi ha dimostrato che esporre un simbolo etico, come un’icona religiosa, un poster di una figura spirituale come Gandhi o una citazione eticamente rilevante, può fungere da amuleto contro la corruzione e i comportamenti non etici sul posto di lavoro. Funziona sia perché stimola la consapevolezza etica sia perché crea la percezione che chi lo espone possieda una indiscussa levatura morale.
In pratica, è l’esempio perfetto dell’applicazione dell’effetto priming nel nudging. Come quella di invadere il parco cittadino di immagini di grandi occhi per spingere le persone a raccogliere da terra le deiezioni dei cani… credetemi, funziona!
EFFETTO PRIMING: COME L’AGLIO CONTRO I VAMPIRI
Applicare immagini di spiccato senso etico può spingere verso comportamenti più corretti, lo stesso, o quanto meno, molto simile, ragionamento utilizzato dagli abitanti dei villaggi medievali che per tenere lontani i vampiri, si adornavano di totem magici.
A testare la correlazione fra le soluzioni nei due contesti, e cercare di quantificare l’efficacia protettiva di crocefissi e acqua santa, con Kouchaki si è unita Sreedhari Desai della Kenan-Flagler Business School dell’UNC. Hanno condotto sei diversi studi, pubblicandone i risultati in un articolo: Moral Symbols: A Necklace of Garlic Against Unethical Requests.
DENARO VS ETICA
Il primo simbolo morale testato da Desai e Kouchaki è stata una semplice citazione accanto alla firma di un’e-mail. Hanno utilizzato il simbolo come parte di una simulazione chiamata Deception Game, progettata per creare un incentivo finanziario a mentire.
Ai partecipanti allo studio è stato detto di essere il leader del loro gruppo. Dovevano quindi chiedere ai loro collaboratori di agire per loro. Quando i ricercatori hanno incluso una citazione etica: “Meglio fallire con onore che avere successo con la frode“, hanno osservato due potenti effetti: la citazione ha effettivamente ridotto la probabilità che il leader scegliesse di mentire. Ma l’effetto più sorprendente si è verificato quando il leader ha deciso di mentire anche dopo aver visto la citazione: a quel punto, le probabilità che il collaboratore scegliesse di mentire, su richiesta del leader, sono scese da 1 su 2 a 1 su 4.
Desai e Kouchaki hanno trovato risultati simili usando altri simboli etici, come delle t-shirt. Hanno confrontato gli effetti di una maglietta con il testo “YourMorals.com” con un’altra t-shirt con la scritta “YourMoney.com“. Il sottile indizio sull’etica nella prima maglietta ha reso di nuovo i leader non solo meno propensi a imbrogliare, ma anche molto meno propensi a coinvolgere la persona che presentava il simbolo.
I risultati delle simulazioni di ricerca sono promettenti. Ma funzionano nel mondo reale? Per scoprirlo, Desai e Kouchaki hanno raccolto dati in India, dove i simboli di stampo etico sono comuni sul lavoro. Ne hanno osservato un’ampia varietà: icone di Krishna, del Buddha e della Vergine Maria, rosari, citazioni dal Corano e altri. Indipendentemente dal tipo di simbolo, i dipendenti che li mostravano erano considerati più morali e, cosa più importante, segnalavano meno casi di richieste non etiche da parte dei loro supervisori rispetto a coloro che non mostravano alcun tipo di simbolo etico.
QUINDI PERCHÉ I SIMBOLI ETICI FUNZIONANO?
Funzionano perché aumentano la consapevolezza morale. Ognuno di noi è soggetto a pregiudizi e limitazioni che ci portano a ignorare le dimensioni etiche delle nostre decisioni. Ma piccole spinte gentili ci aiutano a ricordare di preoccuparci dell’etica, e non solo degli utili trimestrali.
La seconda ragione per cui i simboli funzionano è che inviano agli altri il messaggio che l’etica è importante per la persona che li mostra, e si può attribuire a questa persona un’alta levatura morale. Questa ipotesi può portare un supervisore a concludere che una persona etica non è propensa a soddisfare una richiesta non allineata ai suoi valori.
I simboli etici hanno anche un altro vantaggio: sottolineano che “la paura di ritorsioni è la ragione principale per cui i dipendenti sono generalmente riluttanti a segnalare atti illeciti sul lavoro… Un ampio corpus di ricerche riconosce quanto sia difficile ‘dire semplicemente di no’ a un capo“. Il potere dei simboli risiede nel fatto che operano senza la nostra consapevolezza cosciente. E non ci rendono solo più facile dire di no a un capo; spesso fanno in modo che non dobbiamo farlo.
SOLUZIONI
Il lavoro di Desai e Kouchaki suggerisce che può essere utile mettere in evidenza un simbolo etico: perchè aumenta la consapevolezza etica del capo e può anche ridurre la probabilità che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico.
Ecco come farlo:
Autentico, visibile, rispettoso. Il tuo simbolo perché venga percepito come etico, deve essere autentico, quindi assicurati che rappresenti in modo significativo i tuoi valori. Deve essere coerente con le tue azioni. Se mostri un simbolo in modo non autentico, trasmetterai il messaggio sbagliato. Infine, scegli un simbolo che sia rispettoso degli altri. Non sottovalutare l’importanza di scegliere attentamente il tuo simbolo e di conoscere il tuo pubblico. Sebbene il tuo simbolo riguardi te, dovrebbe comunque mostrare rispetto per gli altri.
I simboli etici possono aiutare, ma bisogna comunque essere preparati. Tieni presente che nessun simbolo etico può eliminare del tutto le richieste non etiche. Nella migliore delle ipotesi, i simboli riducono il rischio che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico. In quanto tali, non sono un sostituto della preparazione a fare la cosa giusta attraverso la formazione e le prove per un’azione etica. È meglio usarli come complemento, non come sostituto, di metodi più tradizionali.
CONCLUDENDO…
PERCHÉ alcuni raggiungono il SUCCESSO DOPO un FALLIMENTO e altri continuano a FALLIRE?
Ci sono persone il cui successo è iniziato con un fallimento: Henry Ford fallì prima di fondare la Ford Motor Company; Thomas Edison testò migliaia di materiali prima di creare la lampadina a filamento di carbonio; J.K. Rowling ricevette dodici rifiuti prima che venisse pubblicato il primo libro di Harry Potter.
Esempi stimolanti, senza dubbio. Ma che non raccontano (bene) tutta la storia. Soprattutto non spiegano come queste persone abbiano avuto successo, mentre molte altre no.
A porsi l’interrogativo, Dashun Wang, docente di management e organizzazioni alla Kellogg School, nonché direttore del Center for Science of Science and Innovation (CSSI): “Se capissimo questo processo, potremmo prevedere chi diventerà un vincitore, anche con alle spalle diversi fallimenti“.
In un articolo pubblicato nel numero del 150 ° anniversario di Nature, Wang ha sviluppato un modello matematico per individuare ciò che separa coloro che hanno successo da coloro che semplicemente provano e riprovano senza arrivare a niente.
Wang ha scoperto che il successo si riduce all’imparare dai propri errori precedenti, ad esempio, continuare a migliorare le parti di un’invenzione che non funzionano piuttosto che eliminarle, o riconoscere quali parti, di una domanda di sovvenzione respinta, mantenere e quali riscrivere.
Ma non è semplicemente che coloro che imparano di più dai diversi fallimenti hanno maggiori probabilità di vittoria. Piuttosto, c’è un punto di svolta critico. Se la tua capacità di costruire sui tuoi tentativi precedenti è al di sopra di una certa soglia, prima o poi avrai successo. Ma se è anche solo poco al di sotto di quella soglia, potresti essere condannato a continuare a sfornare un fallimento dopo l’altro per l’eternità.
“Le persone che si trovano da entrambe le parti della soglia potrebbero essere esattamente lo stesso tipo di persone“, afferma Wang, “ma avranno due risultati molto diversi“.
Grazie a questa intuizione, i ricercatori sono in grado di #prevedere il successo a lungo termine di un individuo con solo una piccola quantità di informazioni sui suoi tentativi iniziali.
MISURAZIONE DEL SUCCESSO
Un crescente corpo di ricerca supporta l’idea che una battuta d’arresto all’inizio della carriera spesso prepara gli scienziati per un successo futuro.
Tuttavia, come dimostrano le storie di Ford, Edison e Rowling, la strada per il successo di solito comporta più di un singolo insuccesso. “Non si fallisce una volta sola“, dice Wang. “Si fallisce più e più volte“. E mentre questa litania di fallimenti può migliorare la situazione degli Edison del mondo, sembra ostacolare quella di molte altre persone.
Per capirne il motivo, Wang aveva bisogno di molte informazioni sul processo di caduta, risalita e di nuovi tentativi.
Si è rivolto a tre enormi gruppi di dati, ciascuno contenente informazioni su tipologie molto diverse di fallimenti e successi: 776.721 domande di sovvenzione presentate ai National Institutes of Health (NIH) tra il 1985 e il 2015; il database della National Venture Capital Association contenente tutte le 58.111 startup che hanno ricevuto finanziamenti di capitale dal 1970 al 2016; il Global Terrorism Database, che include 170.350 attacchi tra il 1970 e il 2016.
Queste fonti hanno permesso di monitorare gruppi e individui mentre tentavano ripetutamente nel tempo di raggiungere un obiettivo: ottenere finanziamenti, far sì che la propria azienda venisse acquisita a prezzi elevati o, nel caso di organizzazioni terroristiche, eseguire un attacco con almeno una vittima.
I tre domini “non potevano essere più diversi” – afferma Wang – “ma per quanto diversi possano sembrare, la cosa interessante è che tutti finiscono per mostrare modelli molto simili e prevedibili“.
COSA FA DI UNA PERSONA UN VINCENTE: FORTUNA O APPRENDIMENTO?
Dati alla mano, il team ha iniziato a pensare al successo e al fallimento al livello più semplice. Il successo, hanno teorizzato, deve essere il risultato di uno di due fenomeni di base: #fortuna o #apprendimento. Le persone che hanno successo in un dato ambito migliorano costantemente nel tempo, oppure sono beneficiarie del caso. Quindi i ricercatori hanno testato entrambe le teorie.
Se le vittorie sono principalmente il risultato del caso – ha pensato il team – tutti i tentativi hanno la stessa probabilità di successo o fallimento, proprio come nel lancio di una moneta, dove ciò che è successo prima non influenza molto ciò che succede dopo. Ciò significa che il centesimo tentativo di una persona non avrà più successo del primo, poiché gli individui non migliorano sistematicamente.
Quindi i ricercatori hanno esaminato il primo e il penultimo tentativo (quello appena prima di una vittoria) per ogni aspirante scienziato, imprenditore e terrorista nel loro set di dati. Per misurare il miglioramento (o la sua mancanza) nel tempo, i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti nel modo in cui venivano valutate le domande di sovvenzione degli scienziati, l’importo dei finanziamenti ricevuti dalle startup e il numero di individui feriti negli attacchi terroristici.
L’analisi ha rivelato che la teoria del caso non regge. In tutti e tre i set di dati, il penultimo tentativo di un individuo tendeva ad avere una probabilità di successo più alta rispetto al suo primissimo tentativo.
Eppure, le persone non imparavano nel modo in cui i ricercatori si aspettavano. L’idea classica della curva di apprendimento dice che più fai qualcosa, più aumenta la tua competenza. Quindi, se tutti nel set di dati imparassero in modo affidabile dai loro fallimenti precedenti, le loro probabilità di successo dovrebbero aumentare drasticamente a ogni nuovo tentativo, portando a serie di fallimenti di breve durata prima del successo.
I dati hanno rivelato serie molto più lunghe di quanto previsto.
“Sebbene le tue prestazioni migliorino nel tempo, continui a fallire più di quanto ci aspetteremmo“, spiega Wang. “Ciò suggerisce che sei bloccato da qualche parte, che stai provando ma non stai facendo progressi“.
In altre parole, nessuna delle due teorie poteva spiegare le dinamiche alla base dei ripetuti fallimenti. Quindi i ricercatori hanno deciso di costruire un modello che ne tenesse conto.
UN PREDITTORE DI SUCCESSO
Questo modello presuppone che ogni tentativo abbia diverse componenti, come le sezioni introduzione e budget di una proposta di sovvenzione, ad esempio, o la posizione e le tattiche utilizzate in un attacco terroristico. È importante notare che, anche se un tentativo fallisce nel complesso, alcune delle sue componenti potrebbero comunque essere state valide. Quando si organizza un nuovo tentativo, un individuo deve scegliere, per ogni componente, se cominciar tutto da capo o migliorare una versione di un tentativo precedente (fallito).
Una persona valuta i componenti dei propri tentativi passati in base al feedback ricevuto da altri (per le persone nell’analisi di Wang, il feedback potrebbe provenire dall’NIH, dai capitalisti di rischio o dai piani alti di un’organizzazione terroristica).
Ma il modello riconosce che alcune persone imparano dai loro tentativi falliti più di altre, e coloro che imparano di più incorporano più componenti dei loro tentativi falliti nei loro tentativi successivi.
Da un lato, gli studenti peggiori incorporano zero informazioni dai loro tentativi precedenti, partendo da zero su ogni componente ogni volta. Dall’altro lato, ci sono gli studenti migliori, che considerano tutti i loro fallimenti passati a ogni nuovo tentativo. La maggior parte delle persone si colloca da qualche parte tra questi due estremi.
Mentre gli studenti migliori probabilmente raggiungeranno il successo rapidamente, prevede il modello, gli studenti peggiori hanno scarse possibilità di successo: poiché non imparano mai nulla, si limitano a cercare nuove versioni, sprecando tempo prezioso ricominciando da capo più e più volte.
I ricercatori hanno testato questo modello con i loro dati, utilizzando il tempo medio tra i tentativi come indicatore della capacità di apprendimento di un individuo (poiché gli studenti più bravi partiranno da zero con meno componenti, il che consentirà loro di produrre nuove iterazioni più rapidamente).
Ciò che hanno scoperto è stata una sorprendente relazione tra apprendimento e vittoria finale. Non è che ogni unità di apprendimento aggiuntiva abbia aumentato le probabilità di successo in modo equo. Piuttosto, c’è una soglia di apprendimento singolare che separa i successi finali dal resto.
Wang paragona questa soglia alla transizione tra acqua e ghiaccio. “Immaginate di passare da -5 a -4 gradi Celsius. Non succede nulla. Il ghiaccio rimane ghiaccio“. Ma nel momento in cui la temperatura raggiunge un punto particolare, inizia a sciogliersi.
Allo stesso modo, se la capacità di apprendimento è al di sotto della soglia, è come se quella persona non stesse imparando nulla. Potrebbe migliorare nel tempo, ma non conserverà mai abbastanza componenti buone per produrre un successo. Mentre coloro che sono oltre la soglia dovrebbero disporre di abbastanza lezioni per garantire il successo. Producono nuove iterazioni sempre più velocemente nel tempo, finché alla fine ne hanno una di successo.
In termini pratici questo significa che non è necessario imparare da tutte le esperienze passate per avere successo. Ma c’è un numero minimo di fallimenti da cui devi imparare. Sebbene non sia facilmente quantificabile, i ricercatori hanno individuato la soglia per le sovvenzioni NIH a 3.
IL MODO IN CUI FALLISCI DETERMINA SE AVRAI SUCCESSO
La ricerca respinge l’idea comune secondo cui il successo sia frutto del puro caso e getta nuova luce su ciò che realmente serve per diventare un vincitore.
Semplicemente provare e riprovare, non è sufficiente. I dati mostrano che gli individui al di sotto della soglia di apprendimento hanno fatto tanti tentativi quanti quelli al di sopra, e probabilmente hanno lavorato anche di più, poiché hanno insistito nell’apportare modifiche ai loro tentativi precedenti perfettamente validi. Ma è stato infruttuoso, poiché non hanno incorporato i tentativi passati.
Per Wang, la lezione è chiara: le persone dovrebbero dare molta importanza al feedback e alle lezioni apprese attraverso i fallimenti. Ma solo se si riesce a incorporare le informazioni in nuovi tentativi, confermando il mantra della Silicon Valley secondo cui “fallire meglio” è la chiave del successo.
Lo studio dissipa anche parte del mistero dietro chi ha successo e chi no. I ricercatori hanno scoperto che la capacità di apprendimento di un dato imprenditore, scienziato o terrorista può essere individuata semplicemente misurando la quantità di tempo che passa tra i loro primi tentativi. Di conseguenza, il loro modello è stato in grado di prevedere con precisione quali imprenditori, scienziati e terroristi avrebbero avuto successo molto prima che effettivamente lo avessero.
“Thomas Edison disse: le persone rinunciano perché non sanno quanto sono vicine al successo”, spiega Wang. “Con questo modello ora lo sappiamo. Perché se abbiamo dati su come si fallisce, abbiamo un’idea migliore di dove si sta andando“.