QUANDO a venir SCREDITATA è la PERSONA, NON ciò che DICE: la fallacia ad hominem

C’è chi, anziché affrontare l’argomento di discussione, attacca la persona che lo sostiene. Attuando una vera e propria strategia della retorica utile a deviare il dibattito dal contenuto sostanziale alla caratterizzazione personale.

Di fatto, questa tattica serve ad allontanare dal tema del confronto contestando non l’affermazione dell’interlocutore ma l’interlocutore stesso. Strategia che prende il nome di fallacia ad hominem o ad personam (argomento contro l’uomo)

QUALCHE ESEMPIO

A: “Penso che la crisi climatica e l’inquinamento siano i maggiori problemi che abbiamo al momento, se non li risolviamo al più presto ci saranno gravi conseguenze per tutti noi.” B: “Certo, parli te che non fai nemmeno la raccolta differenziata?”

A:Tu sostieni che Dio non esiste, ma tanto non capisci niente!” B: “Secondo te Dio esiste? Beh, perché sei ignorante!”

Come già per la fallacia dell’uomo di paglia, anche questa fallacia è abusatissima nel dibattito politico. Basti pensare quanto spesso, in campagna elettorale, i candidati criticano gli avversari non tanto per le loro idee presenti nel programma, quanto più per le persone che sono per la loro carriera lavorativa o altre loro scelte personali.

A: «In una condizione economica come quella attuale, bisognerebbe aumentare il deficit pubblico per sostenere il sistema privato in ginocchio».

B: «Il collega deputato non ha alcun titolo accademico per argomentare in maniera credibile su questi temi».

COME RICONOSCERE LA FALLACIA AD HOMINEM

  • Attacco personale: l’argomento si concentra sulle caratteristiche personali o sulla credibilità dell’individuo piuttosto che sul merito dell’argomento?
  • Deviazione dal tema: l’attenzione è stata deviata dall’argomento originale per concentrarsi su aspetti irrilevanti della persona?
  • Assenza di contraddittorio: non vengono fornite prove o argomenti per contraddire la posizione avversa, ma solo attacchi personali?

In sintesi:

–        La persona A fa l’affermazione X

–        La persona B fa un attacco alle circostanze di A

–        Quindi X è falsa

Rispondere a un’argomentazione attaccando chi la pone può essere molto facile. Tuttavia, è meglio resistere a questa tentazione. Perché, anche se, a prima vista, può sembrare una risposta coerente, dato che B mette in mostra una presunta ipocrisia di A, in realtà questa non è l’oggetto della discussione, dunque è irrilevante. B dovrebbe, invece, rispondere nel merito dell’argomentazione proposta, dichiarando la sua visione del tema e supportandola con altre argomentazioni.

Domande per smascherare la fallacia

  • Gli attacchi personali sono pertinenti all’argomento in discussione?
  • Sono state affrontate le premesse o le conclusioni dell’argomento avversario?
  • Gli attacchi personali sostituiscono un contraddittorio valido?

Modi per controbattere la fallacia

  • Ricondurre al merito: riportare la discussione al merito dell’argomento originale, ignorando o minimizzando gli attacchi personali.
  • Richiedere argomenti: sollecitare l’interlocutore a fornire argomenti validi invece di attacchi personali.
  • Evidenziare la fallacia: identificare esplicitamente l’uso della fallacia ad hominem come una deviazione dal dibattito razionale.

SOTTOCATEGORIE

Da questa fallacia argomentativa possono derivare delle sottocategorie, vediamone quattro:

AD HOMINEM ABUSIVO. È il caso in cui la controparte, in un dibattito, viene insultata, derisa o ne vengono sminuite le capacità. Come l’ad hominem classico, ciò viene fatto con lo scopo di distrarre e provocare l’avversario, che si sentirà in dovere di difendersi dalle accuse, sviando il discorso dall’argomento principale.

  • Di fatto: la tesi X è sostenuta da A. Ma A ha qualche caratteristica particolarmente negativa. Dunque, si può dubitare fortemente di X.
  • Sei una capra ignorante! (Vittorio Sgarbi ai suoi interlocutori)
  • Non prendo lezioni di vita da uno come te. Sei un pessimo soggetto. Pertanto, i tuoi consigli pedagogici li ignorerò.

AD HOMINEM CIRCOSTANZIALE. Qui vengono prese delle circostanze che riguardano l’avversario per essere usate contro di lui, rigorosamente irrilevanticon l’argomento della discussione.

  • “Ma certo, è proprio ciò che ci si aspetta da uno come te!”
  • “Rousseau è stato un pessimo padre. Perciò, non seguirò i suoi consigli pedagogici”.
  • “Aristotele ebbe schiavi. Non possiamo dunque accettare la sua etica”.

AVVELENAMENTO DEL POZZO. In questo caso, chi sceglie di avvelenare il pozzo decide di giocare d’anticipo e di attaccare la persona ancor prima che questa abbia potuto esprimere il suo parere.

“Solo un assassino potrebbe dichiararsi favorevole all’aborto!”

In questo modo, è come se l’interlocutore posizionasse una trappola nel momento in cui esprime la sua tesi, aspettando solo che l’interlocutore ci caschi.

Un’accusa così forte (chiamare “assassino” chi è favorevole all’aborto), infatti, ha tutto il potenziale per sviare l’oggetto della discussione verso la morale della vittima dell’accusa piuttosto che sul tema principale.

  • Non starlo a sentire, è un poco di buono.”
  • Prima di dare la parola al mio avversario, vi chiedo di ricordare che quelli che si oppongono ai miei progetti non hanno a cuore il bene dell’università… azienda… ecc..
  • Non preoccuparti di quello che dice; è solo un fallito nella vita.”

Questa fallacia, può tradursi nella diffusione di informazioni negative, vere o false che siano, contro il proprio interlocutore, che suggeriscono ad esempio che egli è pazzo, incompetente o, in passato, ha esibito comportamenti disdicevoli, minando, dunque, alla fonte la sua credibilità. La conclusione implicita, in questi casi, è che qualsiasi cosa l’interlocutore affermi, non è accettabile in quanto egli è pazzo, incompetente, ecc. Come fidarsi del resto di qualcuno che possiede quelle caratteristiche negative?

L’avvelenamento del pozzo è una strategia ampiamente utilizzata nei dibattiti contemporanei. In ambito politico, etichettare l’avversario in base alla appartenenza ideologica o partitica serve a decapitarne le tesi sul nascere. Un’accusa di “comunismo” o “fascismo”, precedente a ogni discussione nel merito, può valere a insinuare dubbi e sospetti nei confronti di qualsiasi tesi avanzata dall’interlocutore. È evidente come ciò non consenta di valutare un’iniziativa per i suoi meriti dal momento che l’alone negativo dell’appartenenza politica inibisce ogni seria considerazione della proposta.

Lo stesso avviene se si muove un’accusa di interesse al proprio avversario. Colore della pelle, orientamento sessuale e religioso, provenienza geografica, attività svolta: sono solo alcuni degli elementi su cui è possibile far leva per avvelenare il pozzo della contesa.

TU QUOQUE O APPELLO ALL’IPOCRISIA. Le parole attribuite a Giulio Cesare in punto di morte danno il nome a quest’ultima sottocategoria. Commettiamo questa fallacia quando ci difendiamo da una critica rigirandola verso l’altra persona:

A: “Sai che fumare fa molto male alla salute, dovresti smettere.”

B: “Parli proprio tu che dormi poco, mangi male, sei sempre stressato e non fai attività fisica?”

  • I politici cattolici difendono la famiglia. Eppure, molti di essi sono pure divorziati…
  • Il mio barista mi parla così tanto di onestà e onestà e poi non mi fa neppure lo scontrino.

La critica che B muove ad A sposta l’attenzione dall’oggetto iniziale della discussione pur essendo, di fatto, irrilevante (le pessime abitudini di B non hanno nulla a che vedere con la dipendenza dal fumo di A).

Si ricorre a questa fallacia per giustificare le proprie azioni menzionando azioni analoghe compiute da altri: si cerca cioè di screditare la posizione di un avversario asserendo la sua incoerenza nel mantenere detta posizione. È infatti impiegata come efficace specchietto per le allodole in quanto toglie la patata bollente dalle mani dell’accusato chiamato a difendersi, spostando il bersaglio sulla persona che ha fatto la prima accusa.

Spero che questa breve carrellata sia stata utile a fornire qualche utile strumento per meglio gestire confronti e negoziazioni critiche. Alla prossima fallacia…

NON LASCIARTI SCREDITARE dall’UOMO di PAGLIA e dagli ERRORI di RAGIONAMENTO

Ci sono persone che, quando parlano, hanno la capacità di portare il #discorso laddove vogliono loro, lasciando poco spazio all’interlocutore di turno. Senza perdersi in dissertazioni sul fatto che si tratti di #persuasione o #manipolazione, ciò che più spesso si dimentica è che lo stesso #potere è disponibile all’uso di entrambi gli interlocutori. E la cosa che più ancora dovrebbe far riflettere non è nemmeno tanto che compaiono discorsi poco veritieri e corretti, ma che non si sappia individuarli e neutralizzarli.

Ecco perché conoscere gli inganni discorsivi serve a scoprirli, evitarli e utilizzarli a proprio piacimento, quando serve.

Di inganni discorsivi, o più tecnicamente #fallacie, ce ne sono molti. Uno dei più comuni è la fallacia dell’uomo di paglia o straw man fallacy.

COSA SONO LE FALLACIE

Le fallacie sono errori nella formulazione di un ragionamento che rendono le argomentazioni non valide dal punto di vista logico: sono di fatto le frasi che impediscono a una discussione – pubblica o privata, a tavola o per iscritto, in famiglia o in contesto aziendale e politico, ecc – di progredire logicamente e, di fatto, rendono la conversazione inutile.

Spesso nascoste, talvolta utilizzate di proposito, hanno l’intento di ingannare chi ascolta e convincerlo che chi parla ha ragione: per questo sono molto frequenti, per esempio, nel dibattito politico, nei contesti sociali e religiosi.

La fallacia dell’uomo di paglia è una delle più utilizzate.

STRAW MAN FALLACY

È una tesi che una persona, in una discussione, attribuisce all’interlocutore, malgrado quest’ultimo non l’abbia sostenuta. La tesi è una forzatura volutamente assurda, sciocca o falsa, in modo da essere facilmente contraddetta.

Ecco un esempio:

Mario sostiene che “la pena di morte è ingiusta”.

Il suo oppositore, Andrea, risponde che “Mario sostiene che non bisogna punire gli assassini”.

In realtà Mario non ha mai sostenuto che non bisogna punire gli assassini, ma Andrea gli ha attribuito questa opinione e ora Mario dovrà affannarsi a dire che non è vero, ripartendo da una posizione svantaggiata.

È evidente il tentativo di cattiva argomentazione, contenente una fallacia: un errore argomentativo nascosto, di solito costruito ad arte. Trucco molto abusato che funziona pressoché sempre in quanto costringe l’ingannato, nel nostro esempio Mario, a una smentita che facilmente risulta debole o irritata e a quel punto ecco un altro trucco da bambini: “se ti irriti, allora è vero”!

Dare un nome al giochino è utile perché permette, una volta che sia noto e condiviso, di definirlo e smontarlo all’istante!

COME SI STRUTTURA LA FALLACIA

o   Una persona solleva l’argomento “A”.

o   Il suo avversario lo distorce e lo sostituisce con l’argomento “B”. Che è simile, ma fuorviante.

o   La prima persona confuta l’argomento “B”.

o   Quindi, poiché ha equiparato i due argomenti, dà l’impressione che anche “A” sia stato confutato.

Chi si avvale di questo trucco vuole:

  • Travisare l’argomentazione dell’interlocutore
  • Esagerare e distorcere l’argomento per rendere più facile la confutazione
  • Distogliere l’attenzione dalla reale tesi dell’interlocutore

Altri esempi (classici)

A: Sono d’accordo con la legalizzazione della marijuana.

B: In modo che tutti diventino dipendenti e il traffico di droga aumenti?

A: È importante avere una dieta equilibrata e sana.

B: Quindi continuiamo a uccidere animali innocenti.

A: Penso che dovresti modificare questo articolo.

B: Perché mi dici sempre che non scrivo bene?

COME CONFUTARE L’UOMO DI PAGLIA

Il modo migliore è anticipare l’interlocutore/avversario e offrire un argomento il più chiaro e preciso possibile.

Se la fallacia viene ignorata e l’avversario continua a insistere con la sua argomentazione volutamente travisata, è molto probabile che vinca la discussione. Inoltre, se difendi ciò che ha affermato l’avversario, sarà sempre più difficile provare la distorsione che era nel suo punto di vista.

Pertanto, la strategia più conveniente si basa sulla prevenzione. Ecco perché, per giocare di anticipo, occorre esprimere il punto di vista o le diverse argomentazioni nel modo più chiaro possibile, senza lasciare spazio a fraintendimenti.

Un’altra tattica è indicare l’uomo di paglia. Chiamare cioè in causa l’avversario per l’uso che fa dalla fallacia, spiegando perché il suo argomento è errato e come sta distorcendo la tua posizione originale. Si può inoltre metterlo sulla difensiva chiedendogli di giustificare perché crede che la posizione distorta che presenta sia la stessa che hai proposto tu originariamente.

Poiché le due posizioni sono diverse, il tuo interlocutore sarà costretto ad ammettere che il suo argomento non era valido, oppure cercherà di giustificarlo usando un ragionamento ancora più fallace, che puoi quindi attaccare.

In taluni casi si può ignorare la versione distorta del tuo argomento presentata dall’avversario e continuare a sostenere la posizione originale. Continuare però a concentrarsi sull’uomo di paglia richiederà, con molta probabilità, di dover smascherare la fallacia usata dalla controparte.

Insomma, seppur non sia facile non cadere nella trappola, iniziare con il riconoscerla più essere un vantaggio non da poco che vale la pena allenarsi a intercettare. Oltre il fatto che ci dirà molto del nostro interlocutore… e non è poco di questi tempi.

Bibliografia

D’Agostini F., Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, 2010.

Bermejo Luque L. Falacias y Argumentacion, Editori Plaza e Valdés, 2014.

Hamblin C.L. Fallacies, Advanced Reasoning Forum, 2022

https://www.researchgate.net/publication/316138189_Le_fallacie_argomentative_tra_logica_e_dialettica

MODELLI DECISIONALI al LAVORO: QUALI usare e QUANDO

Ti sei mai chiesto quale modello decisionaletendi maggiormente a utilizzare quando devi prendere una decisione?

Conoscere i diversi modelli a cui attingere permette di fare scelte informate e cadere meno facilmente vittime dell’irrazionalità, a prescindere dal #contesto.

COSA SONO I MODELLI DECISIONALI?

Sono una descrizione sintetica degli elementi essenziali del processo decisionale, riconducibili a: caratteristiche del decisore, attributi cognitivi, come avviene la ricerca e la valutazione delle soluzioni e come viene effettuata la scelta.

Di fatto i modelli fungono da roadmap e permettono di scegliere l’approccio migliore a seconda del problema e del contesto. Per esempio, se si hanno molti dati a disposizione, il modello a cui ricorrere non è lo stesso rispetto a una situazione in cui non è possibile accedere a informazioni fattuali.

I 5 MODELLI DECISIONALI AL LAVORO

Ecco i cinque dei modelli decisionali più comuni e conosciuti.

1. IL MODELLO RAZIONALE

Dà priorità alla logica e all’analisi, delineando otto passaggi precisi:

  1. Chiarire l’obiettivo
  2. Determinare i criteri decisionali
  3. Definire l’importanza relativa di ciascun criterio
  4. Cercare alternative
  5. Raccogliere informazioni su ogni possibile soluzione
  6. Determinare la migliore alternativa
  7. Eseguire la decisione
  8. Valutare la decisione

Supponiamo tu stia pianificando di assumere dei collaboratori da remoto da parti diverse nel mondo e debba decidere quale provider è meglio utilizzare per pagarli.

Per prima cosa, chiarisci l’obiettivo: trova il modo più economico e affidabile per trasferire i soldi a livello internazionale. I criteri decisionali saranno quindi: il costo per la azienda, il costo per i dipendenti, l’affidabilità e la velocità. Di questi criteri, classifichi (sempre a titolo esemplificativo) l’affidabilità come il più importante, quindi il costo per la tua azienda, dopo ancora il costo per i dipendenti e infine le tempistiche. Poi elenchi le opzioni, cerchi informazioni su prezzi e recensioni. Sulla base di questi dati, scegli il provider migliore e lo condividi con i neoassunti. Infine, accetti feedback su eventuali problemi che potrebbero farti propendere per un altro fornitore.

Il modello razionale funziona bene in un mondo ideale in cui hai tutto il #tempo e le #informazioni di cui hai bisogno. Ma, come ha sottolineato Herbert Simon poche decisioni sono completamente razionali. In pratica, è più probabile che utilizzi un modello di razionalità limitata: agisci nel modo più logico possibile a seconda del contesto cognitivo e ambientale.

Utilizza il modello razionale quando hai un’idea chiara delle opzioni disponibili e puoi ottenere informazioni dettagliate su ciascuna di esse.

Evita il modello razionale quando lavori con tempi stretti o non hai tutte le informazioni necessarie.

2. IL MODELLO INTUITIVO

È l’opposto dell’approccio razionale. Invece di ragionare in modo logico, decidi in base all’opzione che ti sembra giusta.

Fidarsi del proprio #intuito funziona meglio quando si ha molta esperienza o conoscenza dell’argomento. Questo perché, mentre sembra che la soluzione arrivi da sola, il tuo subconscio cerca scheminelle informazioni che ricevi e collega le nuove informazioni alle conoscenze implicite che hai già.

La maggior parte dei manager prende non poche decisioni in modo intuitivo. Uno studio ha scoperto che l’89% dei manager segue sempre il proprio intuito quando prende decisioni; la maggioranza (59%) ha affermato di usare spesso l’intuito per prendere decisioni.

Poiché l’intuizione è per lo più inconscia, quando si utilizza questo metodo è importante proteggersi dai seguenti bias:

  • Bias di conferma: tendenza a prestare attenzione alle nuove informazioni coerenti con le proprie convinzioni e a ignorare quelle che le contraddicono.
  • Bias di ancoraggio: tendenza a fare eccessivo affidamento sulla prima informazione che otteniamo. Il nostro primo punto di riferimento spesso funge da “ancora”.
  • Bias di disponibilità: tendenza a basare le decisioni sulle informazioni più recenti a disposizione. Ad esempio, se stai decidendo a chi dare un aumento, potresti voler premiare qualcuno che ha fatto un lavoro eccellente su un progetto appena terminato anzichè qualcuno che ha avuto prestazioni costantemente buone nell’ultimo anno.
  • Ingroup bias: la tendenza a favorire le persone appartenenti al gruppo a cui si appartiene.

Utilizza il modello intuitivo quando hai esperienza specifica nel settore e sei sotto pressione per mancanza di tempo.

Evita il modello intuitivo quando sai che non sarai in grado di controllare i tuoi pregiudizi (ad esempio se è coinvolta una persona a te vicina).

3. IL MODELLO BASATO SUL RICONOSCIMENTO

È strettamente correlato al modello intuitivo e si concentra sul processo decisionale intuitivo delle persone che svolgono professioni particolarmente stressanti, come i vigili del fuoco, il personale sanitario e l’esercito.

Gary Klein, lo sviluppatore di questo modello, era affascinato dal modo in cui i vigili del fuoco esperti prendono decisioni salvavita così rapidamente. Notò che molti vigili del fuoco riuscivano a capire quando una situazione era fuori dall’ordinario, anche se non riuscivano a capirne bene il motivo.

Klein ha scoperto che queste persone non generano una serie di opzioni e non le prendono in considerazione una per una (approccio razionale), ma non si affidano nemmeno completamente al loro intuito.  Usano invece la conoscenza contestualeper riconoscere le caratteristiche più importanti della situazione e lasciano che guidino la loro decisione. Poi giocano mentalmente con le opzioni di risposta. Se notano un problema con la risposta simulata, modificano l’approccio o ne scelgono un altro.

Anche se non stai prendendo decisioni di vita o di morte, puoi usare questo modello quando devi prendere una decisione velocemente. Per esempio, un bravo collaboratore ti dice che ha un’altra offerta e sta pensando di licenziarsi. L’esperienza in queste situazioni ti potrebbe aver insegnato che rifiutare l’offerta è la miglior cosa da fare, quindi, immagini mentalmente cosa succederebbe se lo facessi anche in questo contesto. Ma immaginando cosa potrebbe dirti, ti rendi conto che questa persona, in particolare, apprezza la flessibilità rispetto alla sicurezza economica.  Così potresti decidere di offrirle un giorno alla settimana in più di smart working.

Utilizza il modello basato sul riconoscimento quando hai una conoscenza contestuale approfondita e devi adattarti a circostanze mutevoli.

Evita il modello basato sul riconoscimento quando non sei un esperto, non conosci la situazione abbastanza bene da prevedere le probabili risposte e non hai vincoli di tempo.

4. IL MODELLO CREATIVO

È ideale quando pensare out of the box potrebbe produrre soluzioni innovative. I passaggi per questo approccio dipendono dal fatto che tu stia prendendo la decisione da solo o con altri, ma la sequenza approssimativa è la seguente:

  1. Chiarisci la decisione: cosa stai cercando di ottenere?
  2. Immergiti:scopri tutto quello che puoi sul problema e sulle opzioni disponibili.
  3. Fai una pausa o brainstorming: se sei da solo, fai una pausa e non pensare al problema per un po’. Se sei in un gruppo, questo è il momento giusto per fare brainstorming.
  4. Sviluppa la tua idea:se sei da solo, una soluzione potrebbe esserti venuta in mente dopo il periodo di stop. In caso contrario, torna al secondo passaggio. Se sei in un gruppo, scegli alcune delle idee del brainstorming, sperimenta le migliori e usa i risultati per sceglierne una.
  5. Applica la soluzione: implementa la tua idea e valutala.

Utilizza il modello creativoquando c’è spazio per l’imprevedibilità e la sperimentazione.

Evita il modello creativo quando non hai bisogno di sviluppare nulla di nuovo.

5. IL MODELLO DECISIONALE DI WROOM-YETTON

I grandi leader non prendono solo buone decisioni sul campo, ma prendono decisioni ponderate su come affrontare il processo decisionale. Il modello Vroom-Yettonti aiuta a decidere quale approccio adottare nelle situazioni più diverse. Per iniziare, poniti le seguenti domande:

  1. Devi scegliere l’opzione migliore in assoluto (massimizzazione) oppure puoi accontentarti di una buona opzione che soddisfi i criteri minimi (soddisfacente)?
  2. Hai bisogno dell’approvazione di altri?
  3. Hai bisogno di maggiori informazioni da altri?
  4. Le alternative sono evidenti?
  5. Il tuo team protesterebbe se prendessi la decisione senza consultarli?
  6. Tutti i membri del tuo team hanno lo stesso obiettivo?
  7. Il tuo team accetterà pacificamente la tua decisione finale?

Il modello Vroom-Yetton ti guida quindi, attraverso un albero decisionale, verso una delle cinque possibili strategie decisionali basate sulle tue risposte. Ad esempio, se è sufficiente l’approccio soddisfacente e non hai bisogno dell’adesione del team, dovresti prendere una decisione unilaterale dall’alto verso il basso, dove cioè chi è al comando stabilisce il piano e gli altri eseguono i compiti.

Se invece ti occorre un approccio massimizzante, ma sai che per raggiungere l’obiettivo ti serve la compliance del gruppo, non potrai esimerti dal coinvolgerlo per trovare una soluzione.

Utilizza il modello Vroom-Yetton quando non sei sicuro di quale approccio decisionale adottare.

Evitare il modello Vroom-Yetton quando ci sono già dei vincoli su come prendere la decisione (ad esempio, l’organizzazione ha le proprie linee guida da seguire per il processo decisionale collaborativo).

Arrivare alla decisione migliore è solo una parte della sfida. Come suggeriscono i modelli intuitivi e basati sul riconoscimento, le tue decisioni diventano più precise con la pratica; quindi, non ti resta che allenarti!

LEADER è (anche) CHI pone DOMANDE

Viene quasi automatico… trovare #risposte coerenti, appropriate, gentili, assertive, dirette, corrette, sprezzanti… piuttosto che porre (giuste) #domande. Piaccia o meno, a rivelare quando siamo #leader è anche la capacità di padroneggiare l’arte dell’indagine e dell’osservazione, l’abilità ad andare oltre conversazioni superficiali e scoprire verità più profonde.

Ecco alcune domande che possono tornare utili e che forse non ci poniamo così spesso come dovremmo, o sbaglio?

Cosa non vedo?

Questa domanda aiuta a demolire i #preconcetti e riconoscere i punti ciechi. Ponitela prima di decisioni importanti e dopo le riunioni con il team. Quando cerchi prospettive diverse, crei fiducia e cogli intuizioni che altri potrebbero esitare a condividere. Questa domanda trasforma i compagni di squadra in preziosi consiglieri.

Come si allinea questo con i valori… dell’organizzazione, del team…?

I #valori guidano le decisioni, ma spesso li ignoriamo o non ne verifichiamo l’allineamento. Chieditelo quando ti trovi di fronte a scelte difficili o valuti nuove opportunità. I membri più forti del team osservano come sostenete i valori. Questa domanda rivela incongruenze tra parole e azioni. Garantisce che le decisioni rafforzino piuttosto che indeboliscano la cultura organizzativa.

Cosa renderebbe impossibile ignorarlo?

Obiettivi mediocri generano risultati mediocri. Poniti questa domanda quando stabilisci degli obiettivi o lanci delle iniziative. Questa domanda spinge a guardare oltre, a considerare i cambiamenti trasformativi. Converte i progetti di routine in missioni avvincenti che richiedono attenzione.

Chi non sto ascoltando?

Le voci silenziose spesso contengono intuizioni cruciali. Chiedilo durante le discussioni e le sessioni di pianificazione. I membri più silenziosi del team potrebbero vedere #problemi e #soluzioni che altri non vedono. Questa domanda svela prospettive trascurate e crea spazio per un pensiero diversificato. Trasforma le dinamiche di gruppo e previene costosi punti ciechi.

Quale storia creerà?

Ogni azione racconta una #storia. Chieditelo prima di prendere decisioni chiave. I membri più astuti del team interpretano le tue scelte come segnali. Questa domanda rivela l’impatto più ampio delle tue decisioni sulla #cultura e la #motivazione del team. Ti aiuta a dare forma a narrazioni che ispirano anziché confondere.

Le #domande hanno un immenso potere di rimodellare le capacità di leadership. Creano spazi per la scoperta, sfidano il pensiero consolidato e sbloccano nuove possibilità. Le domande giuste, poste in modo coerente e coraggioso, trasformano non solo le conversazioni, ma intere organizzazioni. Inoltre, quando poni domande potenti, non ottieni solo risposte, ma accendi le menti e stimoli l’innovazione, la creatività e il pensiero critico.

L’AGONIA delle CONVERSAZIONI NOIOSE

Abbiamo tutti esempi di conversazioni noiose in cui siamo rimasti intrappolati e che siamo stati incapaci di chiudere in tempi rapidi. Ciò che però ignoriamo è che spesso, sono entrambi gli interlocutori a volere termine la chiacchierata, prima di quanto poi avviene.

Nolenti o volenti, perdiamo la capacità di soddisfare i nostri interessi e di allinearci a quelli di coloro con cui stiamo chiacchierando. Perdendo tempo prezioso o non sfruttandolo al meglio.

Non siamo cioè né efficaci, né strategici.

LA RICERCA DI HARVARD

A mostrare la nostra incapacità di mettere fine a conversazioni poco utili o a gestirle tanto da farle diventare efficaci se non per noi, almeno per l’altro, due esperimenti condotti da un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia dell’Università di Harvard.

In uno, 252 persone reclutate all’interno del dipartimento di psicologia, sono stati accoppiate per tenere una conversazione che poteva durare, a loro piacimento, fino a 45 minuti.

Nel secondo, a 806 volontari reclutati casualmente, è stato chiesto di rispondere ad alcune domande riguardo alle loro conversazioni più recenti, e nello specifico di dichiarare se il momento in cui avrebbero voluto concludere la conversazione e il momento della fine effettiva, coincidessero.

I RISULTATI

In entrambi i casi:

–        più di due terzi ha riferito che la conversazione era durata più a lungo di quanto avesse voluto,

–        il 10% dichiarato che la conversazione era stata troppo breve e che avrebbe voluto continuare a parlare,

–        a essere soddisfatti della durata appena il 2%.

I risultati complessivi degli esperimenti indicano che la durata desiderata delle conversazioni è di circa la metà rispetto a quella effettiva. È emersa inoltre una generale incapacità di intuire i desideri dell’altra persona. Alcuni partecipanti hanno infatti sovrastimato le intenzioni dell’altro: le ipotesi erano sbagliate nel 64% dei casi.

Dale Barr, psicologo all’Università di Glasgow, ritiene quello di Harvard il primo studio che prova a misurare con precisione quanto sia difficile per le persone bilanciare i propri desideri con ciò che desiderano i loro interlocutori. Altre ricerche, supportano quanto le persone siano meno capaci a decifrare cosa pensano gli altri rispetto a quanto immaginano.

E se a peggiorare la situazione si aggiungessero anche i bias?

QUANDO I BIAS NON AIUTANO

Insomma, non siamo bravi né a soddisfare i nostri interessi né quelli dei nostri interlocutori. Non solo non siamo strategici ma nemmeno efficaci. Almeno in alcuni tipi di conversazione. Tanto da preferire di rimanere intrappolati, per non offendere l’altro, che trovare una vita di uscita.

Una delle ragioni è da attribuirsi al courtesy bias, il pregiudizio che spinge a essere cortesi con coloro che cercano la nostra opinione, o che paiono ascoltarci. Questo impedisce la libera espressione di qualsiasi feedback onesto che potrebbe essere percepito come negativo dal destinatario. Mentre il bias di cortesia può salvare le persone da situazioni di disagio a breve termine, può anche ostacolare scambi costruttivi che possono aiutare a migliorare le cose.

Non è da meno il bias dello status quo, la tendenza a lasciare le cose come stanno. E quindi se anche ci annoiamo, riteniamo che siamo meno faticoso che intervenire cambiando strategia.

Ad annebbiare la nostra percezione potrebbe intervenire anche l’effetto del falso consenso, che induce a vedere le proprie scelte e giudizi come comuni e appropriati alle circostanze esistenti. Presumendo che gli altri la pensino come noi, sopravvalutiamo quanto gli altri possano condividere i nostri pensieri, le nostre azioni e atteggiamenti. Tanto da non farci nemmeno considerare che ciò che stiamo dicendo forse non è così interessante per chi ci sta davanti.

Questo è appena un breve excursus, a cui si sommano molti altri pregiudizi a seconda del contesto e dell’interlocutore che si prende in considerazione all’interno di una qualsiasi interazione. Sarebbe errato ignorarne impatto e portata. Più sfidante, purché si riesca a bypassare lo status quo, è trovare tutti gli altri.

Con il senno di poi, per concludere, è molto chiaro il motivo per cui, in molti casi, preferiamo parlare davanti a un drink o pranzando: a un certo punto il bicchiere vuoto o il conto da pagare offrono un appiglio per porre fine all’agonia di quella conversazione.

L’OPPORTUNITA’ di ESSERE una PECORA NERA (al LAVORO)

Essere definiti una pecora nera non piace a nessuno. Questo perché il termine viene usato a pretesto per connotare negativamente decisioni e comportamenti di persone che si distinguono dalla massa, generando quindi vergogna alla famiglia, al team o all’organizzazione di cui fanno parte.

Tuttavia, ciò che la maggior parte delle persone non sa è che ci sono diversi tipi di pecore nere:

–         quelle che si distinguono in un nucleo familiare o organizzativo disfunzionale o tossico

–         quelle che non si conformano a una dinamica familiare o aziendale sana

–         quelle che sono semplicemente diverse dal nucleo familiare e professionale in generale.

E già solo da questa classificazione si capisce che non tutte le pecore nere vengono per nuocere. Scherzi a parte e senza entrare in ambito analitico (e men che meno nella psicopatologia), la riflessione che voglio generare con questo primo articolo del 2025 è sull’utilità che gli outsider hanno nel nostro quotidiano professionale. Poiché trovo curioso che vengano accusati di provocare imbarazzo, anziché sia chi lo prova a chiedersi il perché…

Posso dire di esserlo. Non sempre, non solo. Talvolta meno di quanto vorrei. Ho fatto tante scelte coraggiose, bollate come insensate. Mi sono sentita dare della kamikaze (quando ho lasciato la carriera di docente universitaria per la libera professione), dell’egoista (quando ho scelto la ricerca anziché un posto fisso in una realtà pubblica), dell’ossessiva (quando in giovane età mi alzavo alle 5 del mattino per allenarmi prima di andare a scuola allo scopo di entrare in nazionale), della persona arida (quando optavo per i turni notturni nel week end per avere più tempo libero in settimana per prendermi una seconda laurea) ecc, ecc.

Raramente mi è stato chiesto il motivo delle scelte difficili. Era più facile etichettarmi… Quante volte mi sono sentita dire “tu sei diversa, non sai divertirti”. Forse è così. Sul divertirsi ho molto da imparare, anche se per me un buon libro o imparare e cimentarmi in cose nuove è un piacere irrinunciabile. Forse, in virtù dei fine anno, quando si tirano un po’ le somme, mi è sembrato un buon motivo spendere sulle pecore nere, me compresa, qualche parola.

La vita è più facile per una pecora bianca

Essere una pecora nera in un mondo pieno di pecore bianche può essere demotivante. La società incoraggia a comportarsi da pecore bianche e molti fingono di esserlo perché semplifica loro la vita in molti modi. Eppure, riconoscere e accettare la propria natura dà almeno una grande ricompensa: consente di ottenere e vivere più cose che si desiderano. Posso dire che la maggior parte delle volte che mi sento profondamente soddisfatta è quando faccio le scelte giuste per me, non quelle che gli altri ritengono giuste per me. E questo dettaglio non è semplice semantica!

Lavorare il doppio

Proprio così. Chi mi conosce sa quanto ho faticato per poter portare avanti le mie idee, con lavori diversi da mettere in equilibrio, che per tanti sembravano antitetici e distanti e io vedevo, a ragione, come una sovrapposizione estesa tra i ruoli poiché ciò che insegnavo e ricercavo accademicamente equivaleva a ciò che mettevo in atto imprenditorialmente.

La vita è più appassionante quando sei una pecora nera

Come ho fatto a sopportare notti insonni, turni massacranti e poche occasioni di svago e divertimento? Semplicemente perché sono profondamente appassionata dalla mia carriera da “pecora nera”. Quindi, anche quando non ho intenzione di lavorare in un giorno particolare, spesso non posso fare a meno di fare qualcosa direttamente o indirettamente correlato al mio lavoro. Difficilmente ciò che faccio si fa (solo) dovere.

Sacrifici

Accettare di essere una pecora nera, significa anche accettare di vivere in un modo più libero ma anche più umile, meno esuberante, almeno inizialmente. Perché? In un mondo governato da pecore bianche, tutte le pecore che sono bianche tendono a essere ricompensate in modo più generoso e affidabile delle pecore nere non convenzionali e anormali.

Osa essere antipatico

Se scegli di vivere la vita come una pecora nera, una cosa è certa: non sarai amato dalla maggior parte delle persone. Le pecore nere sono, per definizione, i membri stravaganti di una famiglia o di una società che non si allineano con gli altri. Sono casi anormali che si discostano dalla norma. Lo spiega bene la curva di adattamento all’innovazione di Everett Rogers:

  • Nel mondo degli affari e della società, le pecore nere sono spesso gli innovatori che guidano il cambiamento e si rifiutano di adattarsi (2,5%).
  • Le uniche altre persone a cui piace ciò che fanno questi pionieri sono i primi utilizzatori (13,5%), che favoriscono allo stesso modo il progresso e il cambiamento e li supportano approvando e parlando del lavoro degli innovatori.
  • Il restante 84% delle persone non ama i cambiamenti e ti considera una pecora nera innovativa, con un certo divertimento (maggioranza iniziale, 33%), un leggero fastidio (maggioranza tardiva, 33%) o una grande disapprovazione (ritardatari, 18%).

Quindi vivere e lavorare come una pecora nera innovativa (non solo per il piacere di essere una pecora nera, ovviamente) richiede il coraggio di non piacere ad almeno metà delle persone che incontri. Ma se cerchi di piacere a tutti, finisci per non piacere a nessuno, men che meno a te stesso. Quindi, concentrati sul viaggio, non sulla destinazione.

CONCLUSIONE

Non occorre essere una pecora nera per essere felici e realizzati. Basta essere sé stessi, a prescindere da cosa dicono e vogliono gli altri (per noi). Questo non vuol dire andare contro tutto e tutti, ma essere sufficientemente focalizzati da ascoltare ma poi decidere da soli su ciò che è importante per noi. Ricordandosi che il riconoscimento siamo noi a darcelo e nessun altro. Insomma, essere una pecora nera dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un errore!

Quando la regola 80/20 fallisce: ce lo insegna Audrey Hepburn

Ci sono molti modi per parlare di #performance, #decisioni e best practice. Ad esempio, attraverso gli insegnamenti di Audrey Hepburn, un’icona senza tempo, nonché una delle più grandi attrici della sua epoca.

Nel 1953, divenne la prima attrice a vincere un Academy Award, un Golden Globe e un BAFTA per una singola interpretazione: il suo ruolo da protagonista in Vacanze romane.

Anche oggi, più di mezzo secolo dopo, è una delle sole 15 persone ad aver guadagnato un EGOT vincendo tutti e quattro i principali premi dell’intrattenimento: Emmy, Grammy, Oscar e Tony.

Ma poi è accaduta una cosa: ha smesso di recitare.

Nonostante avesse poco più di 30 anni e fosse all’apice della sua popolarità, la Hepburn ha sostanzialmente smesso di apparire nei film dopo il 1967. Si sarebbe esibita in programmi televisivi o film solo altre cinque volte.

Scelse, in barba alla legge di Pareto, di cambiare direzione. Decise di trascorrere i successivi 25 anni lavorando per l’UNICEF, il ramo delle Nazioni Unite che fornisce cibo e assistenza sanitaria ai bambini nei paesi devastati dalla guerra. Svolgendo attività di volontariato in Africa, Sud America e Asia. Nel dicembre 1992, le è stata conferita la Presidential Medal of Freedom, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti.

Torneremo sulla sua storia tra un momento.

EFFICIENTE VS EFFICACE

Come decidi il modo migliore per trascorrere il tuo tempo? I guru della produttività spesso suggeriscono di concentrarsi sull’essere efficaci e non sull’essere efficienti.

L’efficienza consiste nel fare più cose. L’efficacia consiste nel fare le cose giuste.

Peter Drucker, ha sintetizzato così il concetto: “Non c’è niente di così inutile come fare in modo efficiente ciò che non dovrebbe essere fatto affatto“. In altre parole, fare progressi non significa solo essere produttivi. Significa essere produttivi sulle cose giuste.

Ma come si fa a decidere quali sono le cose giuste? Uno degli approcci più affidabili è quello di usare il Principio di Pareto o Regola 80/20.

La regola 80/20 afferma che, in un qualsiasi contesto, un piccolo numero di cose spiega la maggior parte dei risultati. Ad esempio, l’80% del territorio in Italia è di proprietà del 20% della popolazione. Oppure, il 75% dei campionati NBA viene vinto dal 20% delle squadre. La somma non deve necessariamente arriva a 100. Il punto è che la maggior parte dei risultati è guidata da una minoranza di cause.

Il LATO POSITIVO della REGOLA 80/20

Applicata alla vita e al lavoro, la regola 80/20 può aiutare a distinguere “i pochi elementi vitali dai molti elementi banali“.

Ad esempio, i titolari di attività potrebbero scoprire che la maggior parte dei ricavi deriva da una manciata di clienti importanti. La regola 80/20 raccomanderebbe che il corso d’azione più efficace sarebbe quello di concentrarsi esclusivamente sul servizio a questi clienti (e sul trovarne altri come loro) e smettere di perdere tempo con gli altri o lasciare che la maggior parte dei clienti svanisca gradualmente perché rappresentano una piccola parte del risultato netto.

Questa stessa strategia può essere utile se traslata sui problemi. Potresti scoprire che la maggior parte dei reclami proviene da una manciata di clienti problematici. La regola 80/20 suggerirebbe di perdere questi clienti.

La regola 80/20 è una sorta di palestra. Trovando esattamente la giusta area su cui applicare pressione, puoi ottenere più risultati con meno sforzo. È un’ottima strategia e l’abbiamo usata tutti molte volte.

Ma c’è anche un lato negativo in questo approccio, che spesso viene trascurato; per comprenderlo dobbiamo tornare ad Audrey Hepburn.

Il LATO NEGATIVO della REGOLA 80/20

Siamo nel 1967. Audrey Hepburn è nel pieno della sua carriera e sta cercando di decidere il da farsi. Se applicasse la regola 80/20 al suo processo decisionale, scoprirebbe la risposta: fare più commedie romantiche.

Molti dei suoi migliori film erano commedie romantiche come Vacanze romane, Sabrina, Colazione da Tiffany e Sciarada. Ha recitato in questi quattro film tra il 1953 e il 1963. Hanno attirato un vasto pubblico, le hanno fatto guadagnare premi e sono stati un percorso ovvio verso una maggiore fama e fortuna. Le commedie romantiche erano efficaci per Audrey Hepburn.

Infatti, anche tenendo conto del suo desiderio di aiutare i bambini tramite l’UNICEF, un’analisi 80/20 avrebbe potuto rivelare che recitare in più commedie romantiche era ancora l’opzione migliore, perché avrebbe potuto massimizzare il suo potere di guadagno e donare i guadagni aggiuntivi all’UNICEF.

Naturalmente, tutto questo funziona se recitare fosse rimasta la conditio. Ma Audrey non voleva fare l’attrice. Voleva aiutare chi aveva più bisogno. E nessuna analisi ragionevole, nel 1967, avrebbe suggerito che il volontariato per l’UNICEF fosse l’uso più efficace che potesse fare del suo tempo.

Ecco lo svantaggio della regola 80/20: all’inizio, un nuovo percorso non sembrerà mai l’opzione più efficace.

OTTIMIZZARE il PASSATO o il FUTURO

Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, ha lavorato a Wall Street e ha scalato i vertici aziendali fino a diventare vicepresidente senior di un hedge fund, prima di abbandonare tutto nel 1994 e fondare la sua azienda.

Se Bezos avesse applicato la regola 80/20, nel 1993, nel tentativo di scoprire le aree più efficaci su cui concentrarsi, è praticamente impossibile immaginare che fondare un’azienda sarebbe stata nella lista. A quel punto, non c’è dubbio che il percorso più efficace, in base al guadagno finanziario, allo status sociale o altro, sarebbe stato quello di continuare la carriera nella finanza.

La regola 80/20 è calcolata e determinata dalla tua efficacia recente. Qualunque cosa sembri, l’uso migliore del tempo in un dato momento, dipenderà dalle tue competenze precedenti e dalle opportunità attuali.

La regola 80/20 ti aiuta a trovare le cose utili nel tuo passato e a ottenerne di più in futuro. Ma se non vuoi che il tuo futuro sia uguale al tuo passato, allora hai bisogno di un approccio diverso.

Lo svantaggio dell’essere efficaci è che spesso si punta all’ottimizzazione in base al passato anziché al futuro.

QUINDI?

Ecco la buona notizia: con abbastanza pratica e abbastanza tempo, la cosa che prima sembrava inefficace può diventare molto efficace. Si diventa bravi in ciò che si pratica.

Quando Audrey Hepburn abbandono la carriera di attrice nel 1967, il volontariato non le sembrò altrettanto efficace. Ma tre decenni dopo, ricevette la Presidential Medal of Freedom, un’impresa notevole che difficilmente avrebbe compiuto recitando in commedie romantiche.

Il processo di apprendimento di una nuova competenza o di avvio di una nuova azienda o di una nuova avventura di qualsiasi tipo spesso richiederà un uso inefficace del tempo, all’inizio. Rispetto alle altre cose che sai già fare, la cosa nuova sembrerà una perdita di tempo. Non vincerà mai l’analisi 80/20.

Ma questo non significa che sia una decisione sbagliata.

Ecco perché questo tema mi è parso il miglior consiglio per un 2025 felice. Qualsiasi cosa voglia dire per ciascuno di noi!

Auguri e felice 2025!

L’ILLUSIONE del GENIO CINICO e lo SCETTICISMO come ANTIDOTO

Li conosciamo tutti i #cinici, freddi, insoddisfatti, indifferenti, insensibili, sfiduciati verso tutto e tutti, costellati di dubbi e con la convinzione che gli altri agiscano per proprio tornaconto o che comunque mentano sulle finalità per cui dichiarano di fare qualcosa.

Per quanto sembri facile codificarli, non sono una categoria fissa, come possono essere i fisioterapisti o gli avvocati. Il cinismo è uno spettro. Abbiamo tutti momenti cinici, o nel mio caso, mesi cinici. La domanda è perché finiamo nella trappola del cinismo, anche se ci fa male.

Se il cinismo fosse una pillola, il bugiardino elencherebbe fra gli effetti, depressione, malattie cardiache e isolamento. In altre parole, un veleno. Allora perché così tanti la ingoiano? Uno dei motivi è pensare che il cinismo abbia anche un importante effetto collaterale positivo: l’intelligenza.

Prima di proseguire, lasciatemi contestualizzare… o saltate il prossimo paragrafo…

DA DOVE HA ORIGINE LA PAROLA

Deriva dal greco antico, dal temine kyon ovvero cane. Cinico si ricollega alla vita misera che professavano Diogene di Sinope e i suoi seguaci nel V secolo a.C. Diogene, e il suo gruppo, denunciavano l’ipocrisia della società: la loro idea filosofica inseguiva uno stile di vita che non sbagliamo a definire minimalista. In particolare, questa filosofia professava l’importanza di vivere in totale sintonia con quelli che erano i ritmi della natura, senza fronzoli. Una vita che lo stesso Diogene definivapovera come quella di un cane”. Da qui l’abitudine di considerare cinico chi disprezza ogni aspetto della società.

Il termine cinismo, nel modo in cui è adoperato oggi, è distante dal significato originario: identifica un disprezzo e una sfiducia verso principi morali, regole, valori, ideali, convenzioni sociali, principi relazionali e altre convenzioni che può anche sfociare nella totale indifferenza. Quello che spinge la persona cinica a comportarsi secondo questo schema  è un individualismo fortissimo e una totale sfiducia nelle altre persone che sono tutte allo stesso modo giudicate non credibili, corrotte e inaffidabili. Il cinico non ha scrupoli. Niccolò Machiavelli, uno dei più noti cinici moderni, era solito affermare il fine giustifica i mezzi”.

IL CINISMO NELLA SOSTANZA

Per capire meglio come si attua il cinismo, immaginate due individui Andrea e Bruno. Andrea crede che la maggior parte delle persone mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe se potesse trarne vantaggio. Quando qualcuno agisce con gentilezza, sospetta secondi fini. Bruno, invece, pensa che la maggior parte delle persone sia altruista e non mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe. Crede che le persone agiscano in modo altruista.

Sapendo solo ciò che avete letto finora, chi scegliereste per ciascuno di questi incarichi: Andrea o Bruno?

  1. Scrivere un saggio argomentativo efficace
  2. Prendersi cura di un gatto randagio
  3. Calcolare gli interessi su un prestito
  4. Rallegrare un adolescente malato d’amore

Se avete scelto il nostro cinico, Andrea, per i compiti 1 e 3, e Bruno per i 2 e 4, rientrate nella media. I lavori dispari, cognitivi, richiedono un pensiero preciso; quelli pari sono sociali, e richiedono la capacità di connettersi. I ricercatori hanno recentemente chiesto a cinquecento persone di scegliere fra una persona con tratti cinici o una che non ne ha, per molti compiti come questi. Il 90% ha scelto Bruno per i compiti sociali, ma il 70% ha scelto Andrea per quelli cognitivi. Si sono comportati come se i non cinici fossero gentili ma ottusi e i cinici fossero pungenti ma acuti.

Detto in altri termini:

la maggior parte delle persone pensa che i cinici siano intelligenti dal punto di vista sociale, capaci di fare a pezzi la menzogna e di tirare fuori la verità.

I CINICI IN AZIENDA

In un altro studio, le cavie dovevano selezionare fra due persone, Susanna o Carla, quella che ritenevano più idonea a ricoprire determinati incarichi, fra cui gestire dei colloqui, sapendo che entrambe le risorse avevano mentito per ottenere il lavoro.

Ambedue ugualmente competenti, Susanna tende a “vedere le persone in modo positivo e la sua aspettativa di default è che tutti quelli che incontra siano fondamentalmente affidabili“. Carla invece pensa che “le persone cercheranno di farla franca in ogni modo possibile“.

L’85% degli intervistati ha scelto Carla, convinti che sarebbe stata più brava a individuare i bugiardi.

Più di un secolo fa, lo scrittore George Bernard Shaw ironizzava dicendo che “il potere dell’osservazione accurata è comunemente chiamato cinismo da coloro che non lo possiedono“. Le persone che contano su Andrea e Carla sono d’accordo. Di creduloni è pieno il mondo, ma nel tempo, si impara a non fidarsi a prescindere, e alla fine a fidarsi di nessuno.

CINISMO: SEGNO DI INTELLIGENZA?

Se il cinismo è un segno di intelligenza, allora qualcuno che vuole apparire intelligente potrebbe indossarlo, come si fa con un abito. E in effetti, quando i ricercatori chiedono alle persone di apparire il più competenti possibile, rispondono attaccando, criticando ed esibendo la versione più cupa di se stesse per impressionare gli altri.

La maggior parte di noi valorizza le persone a cui non piacciono le persone. Basta guardare la tv o i social per rendersi conto di quanto i cinici la facciano da padrone, con seguaci infiniti e schiere di follower a difenderli a spada tratta soprattutto quando vengono maltrattati e offesi. Senza contare alcuni proseliti e fautori della leadership gentile: lupi travestiti da agnelli, gentili quanto serve, lupi famelici in azienda. Non è incoerenza, piuttosto l’applicazione del sopracitato consiglio machiavellico.

Però il cinismo non è un segno di saggezza. Più spesso è il contrario. In studi su oltre 200 mila individui in trenta nazioni, i cinici hanno ottenuto punteggi inferiori nei compiti che misurano le capacità cognitive, la risoluzione dei problemi e le capacità matematiche. I cinici non sono nemmeno acuti socialmente, e hanno prestazioni peggiori dei non cinici nell’identificare i bugiardi. Ciò significa che l’85% di noi è anche pessimo nello scegliere i rilevatori di bugie. Scegliamo Carla per arrivare in fondo alle cose quando dovremmo unirci al team di Susanna.

In altre parole, il cinismo sembra intelligente, ma non lo è. Eppure, lo stereotipo del sempliciotto felice e credulone e del misantropo saggio e amareggiato sopravvive, abbastanza ostinato da essere stato definito dagli scienziati “l’illusione del genio cinico“.

SCETTICISMO COME CURA

Se il cinismo è un agente patogeno, possiamo creare resistenza con lo #scetticismo: una riluttanza a credere ad affermazioni senza prove. Cinismo e scetticismo vengono spesso confusi, ma non potrebbero essere più diversi.

Il cinismo è una mancanza di fede nelle persone; lo scetticismo è una mancanza di fede nelle ipotesi.

I cinici immaginano che l’umanità sia orribile; gli scettici raccolgono informazioni su chi possono fidarsi. Si aggrappano alle convinzioni con leggerezza e imparano rapidamente.

Questa mentalità ci offre un’alternativa al cinismo. In uno studio dopo l’altro, la maggior parte delle persone non riesce a rendersi conto di quanto gli altri siano generosi, affidabili e aperti. La persona media sottovaluta la persona media.

Avvicinandoci allo scetticismo, prestando molta attenzione anziché trarre conclusioni affrettate, potremmo scoprire piacevoli sorprese ovunque. Come dimostra la ricerca, la speranza non è un modo ingenuo di approcciarsi al mondo. È una risposta accurata ai migliori dati disponibili. Si può essere “scettici fiduciosi“, che uniscono l’amore per l’umanità a una mente precisa e curiosa. Questa è una sorta di speranza che persino i cinici possono abbracciare e un’opportunità per sfuggire a bias ed euristiche intrappolano tanti di noi.

OMAN del Sud: l’EREMITA del Medio Oriente

Sono poche le occasioni in cui il sultanato dell’Oman fa parlare di sé: discrezione è la parola che forse meglio caratterizza questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. L’ho capito ancora prima di partire, quando in chi mi chiedeva dove stavo andando, leggevo un certo smarrimento. Una sfida per chi si occupa di #cross culture e #comportamenti.

La posizione geografica, l’affacciarsi sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico, lo Yemen da una parte e l’Arabia Saudita sopra, fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo. Ed è forse per questo che, un altro termine per descriverlo, è neutralità.

Costellato di forti, castelli e torri, nessuno (o quasi) cartellone pubblicitario, il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, l’Oman è il volto dell’#ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’Islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.

Le diversità religiose e culturali sono ben accette: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore, una sorta di azione di discernimento. Si preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.

La sobrietà permea il paese. La veste tradizionale – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo individuare turisti e immigrati.

CULTURA AZIENDALE

La cultura aziendale è conservatrice e la formalità ha la sua importanza. Meglio, al primo approccio, essere presentati da qualcuno che conoscono, con cui hanno un rapporto personale. Quasi la #fiducia necessitasse di un intermediario (noto) per ridurre i rischi, verso cui gli omaniti sono profondamente avversi. Una delle tante contraddizioni, insomma…

Tendono a farsi vicini, durante la conversazione, tanto da violare lo spazio personale. Ma per questo non meno ospitali, anche verso gli stranieri. Per loro è sufficiente che si comprendano le regole del Paese e le si rispetti, come vestirsi in modo appropriato e rispettare il tempo dedicato alla preghiera.

Qualcuno l’ha definita leadership gentile, erroneamente. Perchè anche se il capo tende a non rimproverare pubblicamente dipendenti e collaboratori, per una questione di rispetto e dignità, difficilmente viene messo in discussione. Molto più simile a una sudditanza, in virtù del fatto che nessuno si azzarda a prendere qualsiasi forma di iniziativa: chi non decide, chi non comanda, si limita a fare ciò che gli viene detto. Un’ottima palestra per imparare la delega. In un termine: frustrante all’inverosimile.

CAMBIAMENTO

La propensione al rischio è scarsa. Ogni nuovo progetto viene analizzato attentamente per garantire che qualsiasi rischio rappresenti sia pienamente compreso e affrontato.

Per fare il modo che il #cambiamentoabbia effetto, l’idea deve essere accettata dal gruppo. La sensibilità culturale è importante, poiché l’atteggiamento dell’Oman nei confronti del rischio è fortemente influenzato dalle conseguenze negative del fallimento sia sul singolo individuo che sul gruppo.

Meglio saperlo o si rischia il burn out!

TEMPO E PRIORITA’

Gli omaniti non sono soliti forzare il rispetto di una scadenza. Questo fa sì che, in genere, le cose richiedano più tempo del previsto, perché le riunioni vengono spesso interrotte e potrebbero essere necessari diversi meeting per fare ciò che potrebbe essere gestito con una telefonata a casa. È consigliabile sottolineare l’importanza della scadenza concordata. La pazienza è fondamentale.

COMUNICAZIONE E NEGOZIAZIONE

Lo stile comunicativo è indiretto e ad alto contesto. Salvare la faccia, agire in modo appropriato e proteggere le relazioni sociali sono importanti fattori trainanti.

Affrettare le cose, potrebbe mettere a repentaglio i rapporti d’affari. A guidare gli omaniti sono gli eventi e non il tempo. L’incontro in sé è più importante della tempestività o dell’esito. Gli omaniti sono abili negoziatori: vedono la contrattazione come un intrattenimento e la negoziazione segue generalmente un atteggiamento vinci/perdi. Preparatevi a scendere sia nei prezzi che nelle condizioni. Meglio non fissare un prezzo iniziale così alto da far apparire evidente, dal prezzo finale, che non ti aspettavi di saldare l’ordine a quel prezzo. C’è la tendenza a evitare di dare cattive notizie e a dare accettazioni fiorite, che possono significare solo forse.

COSTUMI SOCIALI

L’Oman è una società tribale, sebbene l’influenza tribale stia gradualmente diminuendo. Le usanze sociali sono meno rigide di quelle della vicina Arabia Saudita: il consumo di bevande alcoliche, ad esempio, è illegale per i cittadini omaniti, ma è consentito ai visitatori nei ristoranti autorizzati.

La maggior parte degli uomini indossa una tradizionale tunica di cotone intrecciato, e il copricapo consiste in un leggero turbante di cotone o lana. Molti uomini continuano a portare con sé un pugnale corto, largo, curvo e spesso molto decorato, infilato nella cintura anteriore.

Il momento del pasto è il centro degli incontri sociali. Il pasto tipico è composto da riso, agnello o pesce speziato, datteri e caffè o tè. A fine pasto viene bruciato l’incenso.

LE DONNE

In Oman le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un’attività. Grazie ai proventi del petrolio e alla mentalità progressista, il paese è catapultato nell’era moderna. Relegate un tempo nelle case ed escluse dalla vita pubblica, molte sono, oggi, in grado di intraprendere una vera carriera. Nel 2002 è stato istituito il suffragio universale per tutti i cittadini sopra i 21 anni. Nel 2008 un decreto reale ha stabilito uguali diritti ereditari e la presenza femminile nelle scuole è in costante ascesa.

Il Sultano, precedente, così come quello attuale, ha sempre enfatizzato l’importanza delle donne nel processo di crescita del paese, con numerosi ambasciatori e ministri di sesso femminile. Hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di istruzione e possono usufruire di permessi per le gravidanze e l’allattamento.

Sfortunatamente esistono ancora molti pregiudizi e numerose attività, in campi come l’agricoltura e l’ingegneria, sono state giudicate “inappropriate”. Il maggior ostacolo è rappresentato dalla mentalità conservatrice degli uomini arabi che sono convinti della propria superiorità e ritengono che il sostentamento della famiglia sia responsabilità esclusivamente maschile. Molto diffuso, l’effetto “soffitto di vetro” che blocca le carriere e impedisce l’accesso alle posizioni di potere.

Nelle realtà rurali, dove è ancora forte il modello patriarcale, i cambiamenti sono pochi e i matrimoni combinati. Le unioni d’amore sono rarissime anche negli strati più alti della società. Nonostante la legge omanita sancisca la libertà, prevale la tradizione: è il padre a essere responsabile della felicità della propria figlia. La verginità è un requisito imprescindibile e il mancato superamento della verifica getterà onta su tutto il clan.

Nei nuclei familiari poligami, la prima moglie è solitamente una cugina e la seconda una parente alla lontana. Benché l’Islam consenta di avere sino a 4 mogli, gli uomini preferiscono divorziare e risposarsi, lasciando così la prima moglie senza reddito né supporto. Nelle case vivono normalmente tre generazioni anche se cominciano a vedersi coppie indipendenti che, tuttavia, mantengono stretti legami con il resto della famiglia.

L’uomo più anziano detiene la massima autorità mentre la donna più anziana è responsabile dell’organizzazione domestica. La legge ereditaria è governata dalla Sharìa e nelle società beduine le donne spesso cedono la loro eredità a figli o fratelli in cambio della promessa di assistenza nella vecchiaia.

Benché le donne siano, almeno formalmente, libere di interagire con l’altro sesso, preferiscono essere accompagnate agli eventi pubblici da un parente maschio. Fuori casa si avvolgono nell’abaya nera, il volto coperto dal velo che lascia liberi solo gli occhi, pesantemente truccati. Le donne beduine, invece, indossano coloratissimi abiti tradizionali che prevedono l’uso del burqa, sormontata da una cresta che le fa assomigliare ad uccelli rapaci. Un tempo usate per proteggersi da sole e sabbia, oggi queste maschere più che un obbligo sono un vezzo. Sotto l’abaya si celano abiti colorati, eleganti e sensuali, destinati a essere sfoggiati solo in famiglia.

Nonostante la modernizzazione, è ancora in uso, soprattutto nel Dhofar, dove ho passato diversi giorni di questo mio ultimo soggiorno, la pratica della circoncisione femminile: negli ospedali omaniti, in accordo con le direttive delle Nazioni Unite, la mutilazione genitale femminile è bandita ma nelle corsie delle maternità si aggirano ancora le donne con l’incensiere, chiamate dalle stesse madri per perpetrare questa usanza ancestrale. L’argomento è tabù. Non viene discusso nemmeno in privato e, spesso, gli uomini sono tenuti all’oscuro.

Mentre nel nord si tratta ormai soltanto di una cerimonia dal valore simbolico, nel sudè brutale e prevede l’asportazione del clitoride e talvolta anche delle piccole labbra. Retaggio della tradizione e non di un obbligo religioso. Le credenze popolari vogliono che il taglio di parte dei genitali esterni delle donne ne stemperi l’ardore e il desiderio sessuale con buona pace delle famiglie. Il cammino verso la conquista della libertà è arduo e faticoso ma, almeno in Oman, il primo seme è stato gettato.

CONCLUDENDO…

Nelle contraddizioni di un paese costellato di culture così eterogenee ho imparato molto, ho fatto a botte con la pazienza e il tempo, l’incapacità di avere risposte a domande neanche troppo complesse, camminato su spiagge incontaminate per chilometri, respirato sabbia e nuotato in un oceano arrabbiatissimo popolato di pesci dai colori brillanti. E se al Nord le cose sono quasi semplici, al sud, specie al confine con lo Yemen, non c’è posto per il turista distratto, poco avvezzo ai viaggi. Ogni passo si fa pesante, conflittuale. Non si respira aria di guerra ma di tradizioni. E quelle, si sa, sono dure a morire. E sentirsi soli e diversi è un attimo!

 

SLASH WORKERS: perche’ dicono NO al modello SINGOLA PROFESSIONE, SINGOLO DATORE di LAVORO

Ho sempre avuto la propensione a lavorare su più fronti, immergermi in contesti apparentemente antitetici e distanti, un po’ per sconfiggere la noia, un po’ per soddisfare sia la mia parte razionale sia la creativa.

Mi sono divisa, nel corso degli anni, fra un lavoro in un reparto ospedaliero ad alta complessità e quello di giornalista; ho insegnato neuroscienze in università e al contempo scrivevo racconti; ancor oggi saltello fra consulenza, ricerca, divulgazione e one to one. Mix eclettico che mi realizza e mi tiene sul pezzo.

Mentirei se negassi che più di qualcuno, nel tempo, mi ha richiamato all’ordine. A 50 anni suonati, è facile pensare che io non abbia ancora capito cosa voglio fare da grande. In realtà lo so benissimo, ma vai a spiegare che il mio modo di vivere non è un trend, una questione umorale, ma il risultato di analisi, prove ed errori che hanno portato a una scelta consapevole.

SLASH WORKER: E’ SOLO UN TREND?

Ed è su questo che voglio spendere qualche parola: sui trend, sulle mode del momento. La propensione che hanno i fenomeni di modificarsi, mantenendo la propria crescita o decrescita costante nel tempo. Nello specifico, ho recentemente scoperto di essere sempre stata una slash worker: persone che volontariamente ignorano il modello “singola professione, singolo datore di lavoro”. Quando questo termine ancora non esisteva e neanche sui trend si perdevano troppe parole.

Difficile pensare che questo fenomeno sia etichettabile come un banale trend. Perché, piaccia o meno, il lavoro ha molto a che fare con la felicità. E se cambiare marcia, provare professioni diverse e applicare e apprendere un set di competenze più ampio permette di stare bene, stare meglio, con sé stessi e con gli altri, non dovrebbe limitarsi a una moda passeggera.

Anche perché, facendo un confronto con il lavoratore tradizionale, se un lavoro si interrompe, questo si ritrova dall’oggi al domani senza lavoro, lo slash worker ha più opzioni su cui contare e probabilmente avrà un rischio minore di disoccupazione.

DAL CV AL PORTFOGLIO

Il CV rappresenta chi siamo: una visione lineare di lavori e responsabilità e un elenco di aziende per cui si è lavorato o il ruolo che si è ricoperto. L’attenzione è rivolta alla creazione di un caso per la durata e la qualità dell’esperienza professionale.

Il curriculum dello slash worker è il portfoglio: una visione olistica dei risultati. L’obiettivo è raccontare una storia avvincente e coerente sulle capacità professionali, non periodi, utilizzando aneddoti, dati, referral, lavoro prodotto e risultati raggiunti. Ciò che era un dato di fatto circoscritto nei campi creativi, si sta ampliando a tutte le professioni. Il KPI si sta spostando da “per chi hai lavorato” a “cosa hai fatto“.

MODELLO: DALLE 8 ALLE 5

Se il modello tradizionale prevede di timbrare entrata e uscita, le prestazioni sono strettamente legate al tempo trascorso sul posto di lavoro e si baratta la libertà personale per una retribuzione prevedibile, nell’economia Slash Worker, i contratti si concentrano sui risultati, non sul tempo trascorso. Le persone si impegnano a produrre una specifica quantità di lavoro in un periodo di tempo concordato di comune accordo, con una maggiore gestione della libertà professionale a fronte del potenziale di un lavoro futuro meno prevedibile. Anche se, è giusto sottolinearlo, dribblare fra più attività, può limitare e non di poco il tempo libero. La cosa importante è negoziare bene con sé stessi cosa è prioritario: lavoro, soldi, carriera, successo, tempo libero, famiglia…

SPIRITO IMPRENDITORIALE

Un’altra differenza è che il lavoratore dipendente è parte dell’organizzazione e, nella maggior parte dei ruoli, non gli è richiesto di essere anche un imprenditore, perché è l’azienda ad occuparsene. Oltre al fatto che molte attività sono delegabili, per esempio il back office, segreteria, logistica, ecc.

Per lo Slash Worker, la carriera è di per sé un’azienda, che ha il suo marchio, posizionamento, fasi, struttura legale e clienti. E dividendosi fra molte realtà organizzative, non solo una, il lavoro amministrativo si accumula, così tutte quelle incombenze non sempre economicamente delegabili. Senza contare che ogni cliente vuole essere trattato come unico, non vuole aspettare e saperti diviso fra molti altri. E qui entra il gioco la capacità negoziale e di consapevolezza dei propri limiti e spazi.

UN LAVORO PER LA PASSIONE E UNO PER LA PAGNOTTA

Guardando a posteriori, ciò che più di ogni altra cosa mi ha spinto a optare per più lavori, è stato il bisogno di alimentare la mia passione per la scrittura e la divulgazione. Ai tempi, non mi avrebbe consentito di guadagnare in modo sufficiente. Così dividersi fra più attività mi ha concesso tempo, analisi, sgravandomi dal peso dell’urgenza. E la passione non si è appassita dietro incombenze non necessarie.

C’è chi, infatti, per seguire la propria passione, un esempio fra tanti, per la musica, conscio che “la musica non ti fa guadagnare soldi” (quindi suonare in una band è considerata una perdita di tempo), pur di perseguire ciò che ama è disposto a pagare per questo. Dividendosi fra un lavoro più tradizionale e sicuro fino a quando non raggiunge la giusta maturità per fare il salto o dedicarsi alla passione in altro modo, come insegnare in una scuola.

Forse, almeno i più tradizionalisti, storceranno il naso di fronte alla mania dello slash life ma, la società sta diventando sempre più diversificata e proiettata verso l’autorealizzazione. E affidarsi al lavoro e al denaro per acquisire un maggior senso di autostima, funziona poco o per breve tempo. Meglio è, almeno in taluni casi, praticare una filosofia carpe diem e creare le proprie identità.

Cosa ne pensate? Qual è il vostro sogno infranto e se poteste tornare indietro cambiereste le vostre scelte?