Recruiting e Nudge: come le Neuroscienze possono supportare l’incontro tra Organizzazioni e Persone
Da alcune conversazioni con l’amica Laura Mondino – Consulente, Accademica ed autrice di “Nudge Revolution” – nasce questa “intervista”, che altro non è che una somma di spunti e riflessioni su uno dei temi più complessi – oggi – per la maggior parte delle aziende, ovverosia la capacità di comunicare al meglio con il mercato dei Candidati e, come conseguenza, attrarre e valorizzare i propri talenti e Persone, sin dal momento in cui “ci si sceglie” ed inizia una collaborazione professionale.
Ecco cosa è emerso da mie tre domande (e grazie nuovamente, Laura, per il tempo e l’attenzione delle tue risposte).
Per riferimenti e fonti, tutte le note complete in fondo al testo, augurandovi una buona lettura e di trarne spunti molto concreti ed utili per le vostre aziende e/o organizzazioni.
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Alessio: “I colloqui di selezione e la teoria di nudge: ci sono dei punti di connessione o delle buone pratiche che – se applicate – dal tuo punto di vista, possono rendere più efficace un iter, o anche solo un colloquio di selezione?”
Laura: “Assolutamente sì. Le evidenze scientifiche a sostegno sono molte questo perché i Nudge e più in generale le Neuroscienze (di cui i Nudge rappresentano uno strumento), partono dal fatto che pur credendoci decisori razionali, pecchiamo sistematicamente di soggettività. Le Neuroscienze aiutano a mitigare gli effetti della irrazionalità rendendo, in questo caso, il processo di selezione più analitico e anti-bias.
Entrando nel merito, basti pensare a come siano ancora molti coloro che tengono solo scarsamente in considerazione la mancata oggettività e tutti gli errori che ne conseguono. Quando nel processo di selezione si privilegia la velocità a discapito della qualità: ci si concentra sull’identificazione dei candidati con un buon potenziale, a prescindere dalla posizione ricercata, adattandola al candidato o creandone una ad hoc. Questo approccio riporta alla modalità blitzkrieg, il percorso fulmineo per costruire aziende di valore: la strategia della guerra lampo attuata dal generale nazista Heinz Guderian dove venne data priorità alla velocità rispetto all’efficienza, nonostante il rischio di una sconfitta potenzialmente disastrosa per massimizzare la velocità. Il blitzscaling, più che una ricetta per il successo è vista come il pregiudizio della sopravvivenza mascherato da strategia, benché per i Tech Giants sia stato proprio il blitzscaling a portarli dove sono oggi.
In termini di recruitment, anteporre la rapidità al valore significa assumersi il rischio di individuare velocemente delle risorse che però, nel tempo, potrebbero rivelarsi poco adatte in quel ruolo e in quel contesto.
In fatto di buone pratiche le Neuroscienze aiutano è far meglio percepire a coloro che sono coinvolti nel processo di selezione, a non sottostimare il potere che ha l’irrazionalità su scelte e decisioni. Uno dei suggerimenti più semplici è invitarli ad auto-porsi quesiti che comprendano la particella “se”: “Se il candidato fosse meno aggressivo, porrei più domande complesse?”; – “Se la risorsa non fosse stata presentata come esperta, avrei sollevato più dubbi sui suoi errori in un determinato contesto?”; – “Se il candidato non si fosse laureato nella mia stessa università, avrei ancora pensato che fosse parimenti preparato?”.
Le Neuroscienze si sono dimostrate efficaci anche nel portare l’attenzione sulle parole usate nella job description. Le evidenze scientifiche hanno evidenziato come il 44% delle donne sono dissuase dal candidarsi quando nella descrizione sono utilizzate parole tradizionalmente considerate “maschili” , e una donna su quattro sarebbe scoraggiata dal lavorare in un posto in cui compare la parola “esigente”, meglio utilizzare “diligente” in un contesto “frenetico” .
Stesso principio vale per le candidature interne alle aziende, ai fini di un avanzamento di carriera. Quando nella descrizione viene chiesto “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale”, la ricerca ha scoperto che donne e uomini interpretano la domanda in modo diverso. Le donne sono meno propense a candidarsi in quanto pensano che venga chiesto loro di intraprendere, fin da subito, frequenti viaggi all’estero; gli uomini sono invece più focalizzati sulla visione di insieme del ruolo che sono interessati a ottenere.
Riformulando la domanda da “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale” a “Prenderesti in considerazione un incarico internazionale in futuro”, le candidature inviate dalle donne sono aumentate del 25%.
Per sostenere l’imparzialità dei selezionatori un intervento di Nudging consiglia di rimuovere i fattori di identità demografica quali sesso, età, nome, indirizzo e foto dal CV. Suggerimento già noto, ma ancora poco utilizzato. Oltre a superare il gender bias, si è dimostrato utile a mitigare i bias di selezione, somiglianza e l’effetto alone. Molte persone hanno la tendenza inconsapevole ad assumere candidati che ricordino loro sé stessi: questo può favorire i candidati con caratteristiche in comune con chi li seleziona. L’effetto alone porta a generalizzare una singola caratteristica di una risorsa pensando sia valida anche per altre aree. Il bias di somiglianza porta a preferire candidati dello stesso sesso del recruiter, della sua stessa etnia e della stessa fascia d’età. Oscurare l’età, l’etnia e il genere potrebbe aiutare il recruiter ad aggirare tali pregiudizi.
Oscurare i dati demografici ha però condotto all’effetto opposto nel pubblico impiego. Nel tentativo di eliminare il sessismo, è stato chiesto ai dipendenti pubblici di scegliere candidati ai quali erano stati tolti dal CV genere ed etnia. Il presupposto alla base del processo era che il management avrebbe assunto più donne se avesse considerato solo i meriti professionali dei candidati. Il professore di Harvard Michael Hiscox, supervisore del processo, sorpreso dei risultati, ha esortato alla cautela: “Avevamo previsto che ciò avrebbe avuto un impatto positivo sulla diversità, rendendo più probabile la selezione di candidate donne e di minoranze etniche. Abbiamo scoperto l’opposto, che l’anonimizzazione dei CV riduceva la probabilità che le donne venissero selezionate per il colloquio” . Si è così scoperto che assegnare un nome maschile a un candidato ha ridotto del 3,2% le probabilità di ottenere un colloquio di lavoro; vice versa l’aggiunta di un nome di donna a un CV aumentava le probabilità del 2,9%. I dati non permettono però di considerarla una sperimentazione rigorosa, in quanto oscurare i dati demografici ha portato all’effetto opposto solo nelle assunzioni nel pubblico impiego.
Una ricerca che ha portato a risultati promettenti è quella svolta dall’Institute for Gender Research della Stanford University. Dall’analisi di seimila interviste alla cieca condotte sulle piattaforme di diverse aziende è emerso che, quando i CV erano valutati con metodi tradizionali, solo il 17% delle donne candidate e il 28% delle minoranze venivano invitate a presentarsi ai colloqui formali; con le valutazioni alla cieca questi numeri sono saliti rispettivamente al 59 e al 67%. Nelle stesse aziende, le donne ricevono ora il 43% delle offerte di lavoro rispetto a solo il 26% con i metodi tradizionali. Le minoranze ora ricevono il 39% delle offerte di lavoro rispetto al precedente 19%.
Come ulteriore vantaggio, queste aziende hanno anche ridotto il tempo totale di reclutamento del 26% . In ogni caso, i candidati devono comunque affrontare i colloqui di selezione, in cui risulta complesso oscurare sesso, etnia o età, benché per specifiche posizioni, è possibile organizzare “colloqui alla cieca”. È ciò che avvenne negli anni ’70, quando le giurie delle orchestre statunitensi cambiarono il formato delle loro audizioni, in modo da non potere vedere chi si stesse esibendo: tutti i musicisti facevano l’audizione dietro uno schermo. A quel tempo, le donne costituivano solo il 5% dei musicisti nelle orchestre statunitensi: una volta istituite le audizioni alla cieca il numero iniziò a salire, fino a raggiungere il 46% .
Evidenze scientifiche sono disponibili anche per quanto riguarda le stress interview. L’obiettivo, in questi casi, è valutare come e quanto il candidato sia in grado di gestire la tensione. Il presupposto è che se la risorsa riesce a gestire lo stress durante il colloquio, sarà in automatico capace di gestire lo stress anche in azienda. Ma quello che abbiamo imparato sul cervello e su come risponde a situazioni stressanti è ben diverso: non è così che accade nella vita reale.
Se davvero si vuol capire quali sono le reali capacità di una persona, è meglio metterla in una condizione in cui il suo cervello funzioni al meglio, non al peggio! Stressare arbitrariamente gli intervistati solo per valutare come si comportano, potrebbe non rivelare ciò che quelle persone sono e sanno fare, ottenendo informazioni inaffidabili. Molto più utile è inserirli nel contesto in cui sono richiesti e vedere come reagiscono alle sollecitazioni e alla pressione che quella realtà richiede loro”.
Alessio: “Molti processi di selezione, a tutti i livelli di seniority dei candidati, si stanno spostando sul digitale – abbandonando sempre di più il tempo dedicato da specialisti in carne ed ossa soprattutto nelle prime fasi dei processi di recruiting. È un trend efficiente? Le neuroscienze potrebbero aiutare in questo senso? Se sì, come?”
Laura: “La pandemia ha accelerato i processi di digitalizzazione aziendale e questo ha avuto un impatto anche sui processi di selezione. Ricordiamo che già nel 2017 Boston Consulting Group utilizzava un videogioco nel processo di selezione per giovani ad alto potenziale. Il gioco metteva alla prova capacità di problem solving, leadership, intelligenza emotiva, learning agility e team playing, unitamente all’analisi del curriculum e i colloqui.
Il gioco faceva parte della suite Knack Analytics ideata a Yale e Harvard e testata su Royal Dutch Shell ed era capace di restituire profili allineati alle valutazioni dei selezionatori, ma basati su Data Analytics. Oggi, il tool è sostituito da Arctic Shores, un gioco che segue gli standard della British Psychological Society. Tutti sistemi, questi, che uniscono logiche di Gamification e teoria dei Nudge, il cui scopo è tenere alta l’attenzione e l’engagement creando un circolo virtuoso.
Esperienza simile è quella fatta da Unilever che utilizza sistemi digitali di Gamification e Nudging utili a intercettare alcune soft skill meglio dei tradizionali test psicoattitudinali, come la propensione al rischio, l’attitudine a sperimentare e a sviluppare idee in situazioni di discomfort e darebbero dei feedback costanti lungo le fasi del gioco, basate su criteri oggettivi.
UBI Banca non è da meno, gaming App in collaborazione con Open Knowledge, scaricabile gratuitamente, è risultata un buon mezzo per attirare potenziali candidati da sottoporre a una preselezione con un videogioco divertente ambientato nello spazio galattico. Lasciando da parte la gamification che richiede competenze specifiche e un discorso a sè, Linkedin ha implementato la possibilità di allegare un video-curriculum , per far fronte alle necessità legate alla pandemia.
L’apice del processo di digitalizzazione è rappresentato dall’implementazione dell’intelligenza artificiale al percorso di selezione del personale, tema anticipato nel 2018 da Peter Cappelli della Wharton School, in cui evidenziava gli elementi che avrebbero permesso a questo algoritmo, un giorno, di funzionare e l’enorme beneficio che ne sarebbe derivato. “Il tempo medio per l’assunzione di un candidato può essere ridotto da quattro mesi a quattro settimane” .
In Italia, la start up Speechannel ha di recente lanciato il suo algoritmo per analizzare i video-curricula. Non sono però immuni dai bias, nemmeno gli algoritmi: Amazon, nel 2018, ha ammesso di non poter implementare il proprio algoritmo di analisi automatizzata dei curricula, in quanto sessista. L’AI di Amazon era stata basata su un set di dati che erano essi stessi “biased”, cioè parziali, influenzati da anni di cultura tech di stampo maschilista.
Se neppure l’intelligenza artificiale è immune dai pregiudizi, le possibilità di essere vittime dei bias durante i colloqui di selezione digitali è un elemento che sarebbe davvero pericoloso sottovalutare. Se da un lato le videochiamate hanno il vantaggio di celare o mettere solo scarsamente in evidenza attributi fisici, come peso e altezza, che possono rappresentare loro stessi un pregiudizio, l’ambiente virtuale potrebbe fare da bilanciamento per le persone con disabilità fisiche.
Un altro aspetto che viene mitigato nelle videochiamate è la gestualità. Se nelle culture occidentali, una stretta di mano debole può generare una cattiva prima impressione, per quanto banale possa sembrare, può fare la differenza in molti contesti. L’impossibilità di stringere la mano durante i colloqui virtuali elimina i pregiudizi e le contraddizioni che potrebbero nascere da tale semplice gesto.
Il colloquio online ha lo svantaggio di svolgersi in luoghi virtuali differenti (e dunque parziali) che potrebbero influenzare il giudizio del recruiter, difficile non rimanere condizionati dal contesto, soprattutto se rumoroso o disordinato. E la scelta del candidato potrebbe ricadere su colui che vanta uno sfondo più allettante, ma non necessariamente è la persona più preparata. Il rischio che il contesto influenzi l’impressione generale sul candidato.
Senza contare che i colloqui virtuali non favoriscono chi non ha dimestichezza con la tecnologia, anche quando non è una skill richiesta: si hanno maggiori probabilità di giudicare negativamente una persona semplicemente a causa di un problema tecnologico riscontrato durante una videochiamata. Il mondo digitale è sicuramente di ausilio purchè sia chiaro l’obiettivo e si tenga conto del contesto, perché come abbiamo visto non esula da errori umani, proprio perché progettato dall’uomo”.
Alessio: “Per molti non è ancora chiaro se le neuroscienze possano o meno dare un aiuto – concreto ed in tempi ragionevoli – all’ottimizzazione dei processi aziendali: hai qualche considerazione da condividere al riguardo?”
Laura: “Le Neuroscienze si sono dimostrate utili nell’aiutare le organizzazioni in tema di decision making, change management, leadership e risk management. Prendere decisioni o intervenire nei processi aziendali guidati da prove scientifiche fa una grande differenza poiché permette di attuare soluzioni già collaudate in realtà similari e di cui sono note le possibilità di successo e di insuccesso. Utilizzare soluzioni a matrice può quindi abbassare i costi, ridurre i tempi e prevenire gli errori.
I leader trascorrono molto tempo analizzando i dati, pro e contro di diverse alternative e via dicendo, per trarre le giuste conclusioni sulla direzione corretta da seguire. Quindi riuniscono collaboratori e dipendenti per informarli sul da farsi, senza lasciare loro il tempo di capire il perché della decisione. Lamentandosi, spesso di riflesso, che i dipendenti resistono al cambiamento.
È normale resistere a ciò che ci viene imposto dall’alto e senza una spiegazione che faciliti la comprensione della strategia messa in atto. Non dimentichiamo che le persone non distruggono quello che hanno costruito. È più facile che distruggano ciò che non capiscono e pensano possa danneggiarli. Non dimentichiamo che non siamo econi, esseri prettamente razionali, ma persone irrazionali e facili prede dell’emotività.
Le Neuroscienze ci insegnano che le persone non resistono al cambiamento, ma resistono a essere cambiate. Ecco perché tutto ciò che ci viene imposto viene visto con sospetto. Se si conosce come funziona il cervello in fatto di novità e cambiamenti, sarà più facile far accettare nuove idee, progetti e processi.
Il cambiamento è percepito dal cervello come una minaccia. E poco importa che non viviamo più nella giungla e non ci sia alcuna tigre dai denti a sciabola da cui proteggersi. L’incertezza e la novità che derivano da un processo di change management, dall’arrivo di un capo difficile, da scadenze e stress sono interpretate dal cervello come minacce al pari della tigre che tanto faceva paura ai nostri antenati. Le minacce si presentano in modi diversi, ma il modo in cui il cervello risponde è più o meno lo stesso di sempre.
Le Neuroscienze, in tal senso, ci danno il perché di quello che sta succedendo: se capisco il perchè, è più probabile che agisca in modo più informato e razionale e utile al contesto in cui la novità viene attuata.
Conoscere il cervello ci aiuta ad essere più empatici verso gli altri e noi stessi.
Le Neuroscienze, senza perdersi in innumerevoli esempi, permettono di trasformare studi ed evidenze in soluzioni utili e pratiche e fruibili da tutti. E non è poco di questi tempi incerti”
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Note:
[1] Nielsen T.C., Kepinski L., (2020). Inclusion Nudges for talent selection, Action Guide, pp. 94-100
[2] https://business.linkedin.com/content/dam/me/business/en-us/talent-solutions-lodestone/body/pdf/Linkedin-Language-Matters-Report-FINAL-02.08-1.pdf
[3] h t t p s : / / p m c . g o v . a u / n e w s – c e n t r e / d o m e s t i c – p o l i c y / b e t a -report-going-blind-see-more-clearly
[4] https://gender.stanford.edu/news-publications/gender-news/ leveling-playing-field
[5] Goldin C., Rouse C., (2000). Orchestrating Impartiality: The Impact of Blind Auditions on Female Musicians “Blind” orchestra auditions reduce sex-biased hiring and increase the number of female musicians, Harvard Kennedy School, Women and public policy program
[6] https://youmark.it/ym-interactive/linkedin-sta-testando-la-nuova-funzione-video-presentazione-per-aiutare-i-recruiter-nella-scelta-dei-candidati/
[7] Cappelli P., Tambe P., Yakubovich V., (2018). Artificial Intelligence in Human Resources Management: Challenges and a Path Forward, SSRN Electronic Journal
[8] https://codetiburon.com/machine-learning-changing-hr-industry/
[9] https://www.speechannel.com/index.php
(DIS)ONESTI AL LAVORO: è tutta colpa del contesto!
«Ci sono persone oneste nel mondo, ma solo perché il diavolo ritiene che il prezzo che chiedono è incredibilmente alto». Questione di punti di vista, ma è difficile non fare dell’ironia di fronte alla definizione che lo scrittore americano Peter S. Beagle dà a un concetto al contempo tanto concreto quanto astratto.
L’onestà è come la dieta
Comportarsi in modo onesto non è facile, siamo onesti… E non sempre gli esempi resi salienti dagli organi di stampa ci aiutano a rimanere saldi sui nostri buoni propositi. Per fortuna però resistere alla tentazione di mettere in atto comportamenti poco, se non addirittura, non etici, non è una missione impossibile, come invece si potrebbe pensare.
A dirlo lo studio pubblicato sulla rivista Personality and Social Psychology Bulletin. Secondo gli autori della ricerca, l’onestà sarebbe un po’ come una dieta: difficile da seguire se non si tiene bene a mente l’obiettivo (onestà) per cui si è aderito a quello specifico regime alimentare, e le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.
I ricercatori hanno svolto diversi esperimenti con un gruppo di volontari posti di fronte a una serie di dilemmi. In uno, i partecipanti hanno impersonato il venditore di un palazzo storico e un potenziale acquirente, con due obiettivi molto diversi: il venditore doveva evitare che la proprietà fosse distrutta, mentre il compratore puntava a demolirla per costruire, al suo posto, un hotel.
Prima di iniziare, a metà di loro è stato chiesto di ricordare una situazione in cui in passato si erano comportati in modo disonesto e quali conseguenze questo avesse portato. Tra loro il 45% dei compratori ha mentito nel corso della fase di contrattazione per l’acquisto della proprietà, mentre la percentuale nell’altra metà dei partecipanti è stata del 65%.
In un secondo esperimento è invece stato chiesto ai partecipanti di valutare se fossero o meno accettabili una serie di comportamenti disonesti sul lavoro, come darsi malati per prendere un giorno di vacanza, rubare cancelleria dall’ufficio, o rallentare il ritmo di lavoro per evitare di ricevere mansioni aggiuntive. Chiedendo ad alcuni di loro di riflettere su una serie di dilemmi etici, prima di partecipare alla prova, i ricercatori hanno notato che in questo modo diminuiva notevolmente la possibilità che giudicassero accettabili i comportamenti disonesti in esame. Secondo i ricercatori, i risultati indicherebbero che è più facile comportarsi onestamente se ci si ricorda delle conseguenze del comportamento disonesto e se non ci si prepara per tempo per resistere alla tentazione.
La situazione non è dunque così drammatica, per fortuna. E a venire ulteriormente in aiuto, per aumentare la propensione umana all’onestà, ci sono i Nudge. La strategia gentile che aiuta a rendere semplici anche le scelte più complesse.
Attenzione a dove si firma
Uno degli éscamotage più efficaci è rendere saliente il valore dell’onestà. Come? Facendo porre la firma su documenti e certificazioni, in alto anziché in basso, prima cioè della compilazione anziché al termine, come invece solitamente avviene. Questo piccolo Nudge ha la funzione di indirizzare l’attenzione su sé stessi e portare a effetti sorprendentemente potenti sul comportamento morale che poi andremo ad agire. La firma è un modo per attivare l’attenzione verso sé stessi e verso i valori in cui crediamo.
Apporre il proprio nome prima di inserire informazioni (piuttosto che alla fine) risveglia in noi il valore dell’onestà e questo ci spingerà a rispondere alle domande in modo più sincero. L’attuale pratica di firmare dopo aver riportato le informazioni suggella il danno: immediatamente dopo aver mentito, le persone si impegnano rapidamente in varie giustificazioni, reinterpretazioni e altri trucchi come sopprimere i pensieri sugli standard morali che consentono loro di mantenere un’immagine di sé positiva nonostante abbiano mentito. Detto in modo semplice, una volta che un individuo ha mentito, è troppo tardi orientarne l’attenzione verso l’etica, richiedendo una firma.
È davvero così semplice? Sì.
A supporto di tale Nudge sono stati condotti alcuni esperimenti: uno di questi è stato misurare l’onestà di un gruppo di volontari impegnati a risolvere problemi matematici e la cui soluzione generava loro dei guadagni.
A seguito del compito loro assegnato, i soggetti sono stati incaricati di comunicare i propri guadagni, le spese e il tempo di viaggio, dopo di che avrebbero ricevuto il pagamento. I soggetti hanno quindi avuto l’opportunità di aumentare il proprio reddito, segnalando guadagni esagerati sul modulo di autodichiarazione.
I risultati dell’esperimento hanno mostrato poca differenza fra i soggetti che avevano firmato una dichiarazione di onestà alla fine del modulo e coloro ai quali non era stato fatto firmare nulla (a imbrogliare è stato il 63% per chi ha firmato a fine modulo e il 79% per coloro cui non è stata richiesta alcuna firma).
Per coloro i quali avevano invece firmato prima di compilare il modulo, le dichiarazioni disoneste si sono attestate intorno al 37%. Ciò suggerisce che rendere saliente il valore dell’onestà prima che le persone agiscano, può avere effetti significativi sulla loro tendenza a essere oneste.
Scarsa consapevolezza
Uno dei motivi per cui le persone tendono a comportarsi in modo poco onesto, è che non sempre hanno un consapevole accesso ai propri standard morali. Non sono cioè attente a ciò che le porta ad agire, ciò che indirizza le loro scelte e decisioni.
Le persone valutano le azioni secondo valori e standard interni. Una mancanza o una lassità di autocoscienza, potrebbe quindi indurle a mostrare comportamenti disonesti, anche se questo non è coerente con il loro standard morale.
Firmare una dichiarazione di onestà in cima al modulo, è in questi casi efficace nel promuovere l’onestà, poiché attiva la bussola morale interna delle persone prima che agiscano.
Anche se questo non è l’unico incentivo progettato per promuovere l’onestà, il suggerimento proposto è abbastanza facile da implementare e può potenzialmente avere grandi benefici sia per l’individuo sia per la società. Come accennato in precedenza, il problema non è che gli individui siano dei bugiardi senza scrupoli, ma che molti di noi siano più inclini a un po’ di disonestà se ne hanno la possibilità. Come suggeriscono le evidenze, le persone possono essere aiutate a rimanere coerenti rispetto i loro standard di onestà, se la loro bussola morale viene attivata appena prima di agire.
Fonti:
Sheldon O.J., Fishback A., Anticipating and Resisting the Temptation to Behave Unethically, May 22, 2015
Shu L., Mazar N., Gino F., Ariely D., Bazerman M. H., Signing at the beginning makes ethics salient and decreases dishonest self-reports in comparison to signing at the end, PNAS September 18, 2012
PERCHE’ PREOCCUPARSI DI UNA CULTURA DEL LAVORO TOSSICA…
Non a caso, tali elementi vengono definiti tossici.
Una cultura del lavoro tossica è il motivo principale per cui le persone lasciano l’azienda, ed è 10 volte più importante della retribuzione, secondo una ricerca pubblicata su MIT Sloan Management Review.
CHE ASPETTO HA UN LUOGO DI LAVORO TOSSICO?
I ricercatori hanno analizzato 1,4 milioni di recensioni su Glassdoor provenienti da 600 importanti aziende statunitensi, scoprendo che i dipendenti descrivono i luoghi di lavoro tossici in cinque modi: non inclusivi, abusivi, irrispettosi, non etici e spietati.
Ciò che è emerso è che questi elementi non sono semplici malcontenti, ma il motivo per cui le persone abbandonano un certo tipo di azienda. Con tutti i costi, in termini di salute per chi ci lavora ed economici per l’organizzazione, stimati intorno ai 44 miliardi di dollari all’anno, secondo la Society of Human Resources Management.
Dipendenti scontenti e demotivati significano minore produttività, senza contare che sostituire una risorsa può costare fino al doppio dello stipendio annuo del dipendente, secondo Gallup.
Ecco perché creare una cultura sana e inclusiva è una necessità irrinunciabile per rimanere competitivi ed attrattivi.
TOXIC FIVE
AMBIENTE DI LAVORO NON INCLUSIVO e ABUSIVO
L’opposto di una cultura inclusiva è la cultura di cricca: un ambiente in cui le persone non si sentono a proprio agio nell’essere se stesse. Dove battute e commenti inappropriati su razza, religione, peso, età, origine, genere, non solo sono tollerati ma addirittura ben visti.
Dove chi non opera con la stessa mentalità dei membri della cricca viene escluso, fatto sentire invisibile e preso di mira. Le cricche minano il team e impediscono connessione, unità e collaborazione.
L’esclusione da una cerchia ristretta invisibile è una forma comune di tossicità nei gruppi. È possibile che un membro del team venga intenzionalmente escluso da e-mail, progetti o riunioni o non venga chiesta la sua opinione. Può essere ovvio o molto sottile, ma può anche essere una forma di capro espiatorio: sacrificare il benessere di una persona per placare l’ego degli altri. Questa esclusione può essere psicologicamente dannosa per le persone.
Non a caso, i comportamenti ostili più frequentemente menzionati sono il bullismo, le urla contro i dipendenti, lo sminuire o umiliare i subordinati, abusare verbalmente dei collaboratori.
Un altro tipo di cricca è la brother culture, in cui i dipendenti maschi bianchi sono considerati superiori. In quanto tali, agli uomini e alle donne non bianche viene impedito di essere coinvolti nel processo decisionale. Ciò porta le donne a lottare per sentirsi apprezzate e accettate, a dover sopportare commenti svalutanti, sessisti e misogini, comportamenti discriminatori e inappropriati, disparità di retribuzione e ostracismo.
AMBIENTE SPIETATO
La collaborazione è un aspetto molto importante per le persone.
Il turnover più elevato è laddove i dipendenti descrivono il loro ambiente di lavoro come “darwiniano”, “cane non mangia cane”, i colleghi “si pugnalano alle spalle”, “si gettano a vicenda sotto il treno”. Non credo serva aggiungere altro…
Sugli ambienti non etici e irrispettosi si è già detto molto.
I COSTI DI UNA CULTURA TOSSICA
Un ampio corpus di ricerche mostra che lavorare in un ambiente tossico è associato a livelli elevati di stress, burnout e problemi di salute mentale e fisica. Quando i dipendenti subiscono ingiustizie sul posto di lavoro, le loro probabilità di soffrire di una grave malattia (tra cui patologie coronariche, asma, diabete e artrite) aumentano dal 35% al 55%.
Una cultura tossica impone anche costi che confluiscono direttamente nei profitti dell’organizzazione.
Secondo uno studio della Society of Human Resource Management, 1 dipendente su 5 ha lasciato il lavoro a causa della cultura tossica. Ecco perché la cultura tossica è considerato il miglior predittore di logoramento di un’azienda e ciò che induce a dimettersi.
Gallup stima che il costo della sostituzione di un dipendente che si licenzia può ammontare fino a due volte il suo stipendio annuale quando vengono contabilizzate tutte le spese dirette e indirette.
Le aziende con una cultura tossica non solo perdono dipendenti, ma lottano anche per sostituire i lavoratori che se ne vanno poiché perdono in attrattività. Tre quarti delle persone in cerca di lavoro prima di fare domanda analizza la cultura dell’azienda. Nell’era delle recensioni online, le aziende non possono mantenere a lungo segreti i propri problemi culturali e una cultura tossica.
A questo, si aggiunga che i dipendenti scontenti sono il 20% meno produttivi. La metà di coloro che si è sentito mancato di rispetto ha ammesso di aver ridotto lo sforzo e il tempo trascorso al lavoro.
Poi c’è il rischio reputazionale. Tra i CEO e CFO intervistati, l’85% concorda sul fatto che una cultura aziendale malsana potrebbe portare a comportamenti non etici o illegali, come il caso Wells Fargo dimostra: la banca ha pagato miliardi di dollari in multe e azioni legali e ha visto la sua reputazione aziendale subire il più grande calo in un solo anno nella storia di Harris Poll.
PERCHE’ I LEADER SI DEVONO PREOCCUPARE DELLA CULTURA TOSSICA
Potresti pensare che la cultura tossica sia un problema che non ti riguardi, limitato a una manciata di aziende di alto profilo come Wells Fargo o The Weinstein Company.
Sfortunatamente, la tossicità culturale è diffusa. In media, il 10% dei dipendenti ha menzionato uno o più elementi di una cultura tossica nelle sue recensioni su Glassdoor.
Anche nelle aziende con le valutazioni Glassdoor più alte, centinaia o migliaia di dipendenti potrebbero percepire la cultura come tossica. Le donne, le minoranze sottorappresentate o i dipendenti più anziani, ad esempio, potrebbero avere una visione meno rosea della cultura rispetto ad altri colleghi.
Nella maggior parte delle organizzazioni, microculture coesistono all’interno della stessa azienda, spesso attraverso unità aziendali, funzioni o aree geografiche.
I leader creano loro stessi sottoculture all’interno del loro team. Qualunque sia la loro origine, le microculture possono discostarsi dalla più ampia cultura aziendale, il che significa che anche le migliori culture possono contenere sacche di tossicità culturale.
In un prossimo articolo, tratterò degli step concreti che si possono intraprendere per creare una cultura aziendale sana. Il primo passo, tuttavia, è riconoscere che esistono sacche di tossicità anche nelle culture aziendali considerate sane. Occorre cercare in profondità e valutare la cultura a livello di singoli team, solo così si previene la possibilità che micro culture tossiche possano infettare anche i gruppi e gli elementi più virtuosi.
21 Aprile ’22 – I Nudge e le politiche Assicurative – Cherasco
Giovedì 21 Aprile 2022 Convegno formativo per lo SNA – Sindacato nazionale Agenti di Assicurazione a Cherasco su i Nudge e le politiche Assicurative – dalle ore 14,30
RIESCO A FARMI PAGARE PER QUELLO CHE VALGO?
Chi non ha mai ricevuto una e-mail (o una proposta) di questo tipo?
Cosa fai? Accetti o rifiuti?
Spesso, si accetta. Raccontandosi “quello specifico progetto mi servirà per fare esperienza, guadagnare qualcosa (meno è meglio di niente), e comunque mi farò pagare di più la prossima volta…”.
Purtroppo, essere un libero professionista non è facile e talvolta scendere a compromessi può avere i suoi vantaggi. Ma non li ha se accettare compensi ridotti è legato al fatto che non ci apprezziamo a sufficienza da chiedere ciò che noi e il nostro lavoro meritano.
Dietro scelte economicamente poco vantaggiose si possono celare alcuni miti che abbiamo su noi stessi quando si tratta di denaro. Difficoltà che abbiamo avuto tutti in una certa fase della vita, ma che si fanno passaggio obbligato se si vuole esprimersi al meglio professionalmente.
Se faccio un buon lavoro, il cliente lo vedrà e mi pagherà di più la prossima volta…
L’approccio è sbagliato a priori, perché così facendo svalutiamo il lavoro che siamo chiamati a fare, ancor prima di farlo.
Se un cliente ci affida un incarico, vuol dire che disponiamo delle abilità e competenze che è importante e prezioso avere per soddisfare la sua richiesta. Farsi pagare un compenso adeguato, è il modo coerente per quantificare il valore di quelle abilità e competenze.
È importante considerare che le tariffe che accettiamo dai clienti finiscono per stabilire e influenzare il prezzo di mercato, impattando sugli standard di tutti i liberi professionisti che operano in quel dato settore. Se la maggior parte dei liberi professionisti accetta compensi inferiori alla media, sarà più difficile negoziare tariffe eque in futuro.
Per evitare che questo accada, occorre avere maggiore consapevolezza circa il proprio valore e al proprio grado di expertise rispetto a colleghi e competitor.
Ciò che è importante tenere a mente è che la partita non si gioca sul prezzo: si tratta di vendere la soluzione che si è in grado di generare per il cliente o il cambiamento di cui il cliente ha bisogno.
A questo punto, quanto vale il tuo lavoro?
Per avere lavoro sufficiente, dovrei accettare tutti gli incarichi che mi vengono offerti. Potrei anche fare alcuni lavori gratis, solo così posso fare l’esperienza…
Quando non si ha molto lavoro, accettare tutto ciò che arriva sembra la soluzione più saggia. Così come non ritenere di avere “abbastanza” esperienza, spinge ad accettare lavori sottopagati.
Ma quando saprai di avere “abbastanza” esperienza e lavori?
Il lavoro di un freelance dipende dalle sue capacità e conoscenze. Probabilmente hai impiegato molto tempo ed energia per padroneggiare il mestiere, ed è un’abilità di cui le aziende hanno bisogno.
Quindi, possiamo dire che “abbastanza” è quando hai a disposizione e sai gestire tutto quello che serve a soddisfare le esigenze di un cliente.
In parole semplici: se sei in grado di fare il lavoro, sei anche in grado di farti pagare. Anche se c’è sempre margine di miglioramento, il tuo lavoro merita, comunque, di essere retribuito in denaro e non in esperienza.
Di fatto, se qualcuno si rivolge a te, vuol dire che ti ha cercato. E questo è già un valore.
Non importa in che modo valuti le tue potenzialità, ma se gli altri ti chiedono aiuto per risolvere un problema significa che le tue capacità valgono.
Se voglio diventare un libero professionista, non posso essere troppo esigente: potrebbe danneggiare la mia reputazione. E poi, se rifiuto un lavoro perché non remunerativo, il cliente andrà da qualcun altro…
“Beggars can’t be choosers”, i mendicanti non possono scegliere, è un chiaro esempio di mindset sbagliato. Una sorta di “questo è quanto passa il convento”.
E’ importante saper distinguere quali progetti sono interessanti per te. Non dovresti cioè sentirti forzato ad accettare un lavoro che non vuoi fare o che va contro i tuoi valori e la tua etica solo perché sei preoccupato di apparire “difficile” o che “te la tiri”.
Accettare un lavoro che non è nelle nostre corde serve solo a generare rabbia e risentimento. Accettare opportunità che non ci soddisfano e/o sottopagate può portare a un circolo vizioso fatto di super lavoro e spreco di tempo dal quale può poi essere molto difficile uscire.
Se rifiuti un lavoro, non vuol necessariamente dire che non ti verranno offerte altre opportunità. Anzi, potrebbe essere un modo per differenziarti da chi non è ben posizionato e focalizzato su ciò che sa e sa fare bene.
Pensaci, tu vorresti un professionista che spazia da un ambito all’altro e accetta compromessi di ogni tipo, economicamente cheap, al limite del frustrato e stressato?
dr. Cini (Dikton) Intervista Laura Mondino a proposito di Recruiting e Nudge
Recruiting e Nudge: come le Neuroscienze possono supportare l’incontro tra Organizzazioni e Persone
Da alcune conversazioni con l’amica Laura Mondino – Consulente, Accademica ed autrice di “Nudge Revolution” – nasce questa “intervista”, che altro non è che una somma di spunti e riflessioni su uno dei temi più complessi – oggi – per la maggior parte delle aziende, ovverosia la capacità di comunicare al meglio con il mercato dei Candidati e, come conseguenza, attrarre e valorizzare i propri talenti e Persone, sin dal momento in cui “ci si sceglie” ed inizia una collaborazione professionale.
Ecco cosa è emerso da mie tre domande (e grazie nuovamente, Laura, per il tempo e l’attenzione delle tue risposte).
Per riferimenti e fonti, tutte le note complete in fondo al testo, augurandovi una buona lettura e di trarne spunti molto concreti ed utili per le vostre aziende e/o organizzazioni.
…
Alessio: “I colloqui di selezione e la teoria di nudge: ci sono dei punti di connessione o delle buone pratiche che – se applicate – dal tuo punto di vista, possono rendere più efficace un iter, o anche solo un colloquio di selezione?”
Laura: “Assolutamente sì. Le evidenze scientifiche a sostegno sono molte questo perché i Nudge e più in generale le Neuroscienze (di cui i Nudge rappresentano uno strumento), partono dal fatto che pur credendoci decisori razionali, pecchiamo sistematicamente di soggettività. Le Neuroscienze aiutano a mitigare gli effetti della irrazionalità rendendo, in questo caso, il processo di selezione più analitico e anti-bias.
Entrando nel merito, basti pensare a come siano ancora molti coloro che tengono solo scarsamente in considerazione la mancata oggettività e tutti gli errori che ne conseguono. Quando nel processo di selezione si privilegia la velocità a discapito della qualità: ci si concentra sull’identificazione dei candidati con un buon potenziale, a prescindere dalla posizione ricercata, adattandola al candidato o creandone una ad hoc. Questo approccio riporta alla modalità blitzkrieg, il percorso fulmineo per costruire aziende di valore: la strategia della guerra lampo attuata dal generale nazista Heinz Guderian dove venne data priorità alla velocità rispetto all’efficienza, nonostante il rischio di una sconfitta potenzialmente disastrosa per massimizzare la velocità. Il blitzscaling, più che una ricetta per il successo è vista come il pregiudizio della sopravvivenza mascherato da strategia, benché per i Tech Giants sia stato proprio il blitzscaling a portarli dove sono oggi.
In termini di recruitment, anteporre la rapidità al valore significa assumersi il rischio di individuare velocemente delle risorse che però, nel tempo, potrebbero rivelarsi poco adatte in quel ruolo e in quel contesto.
In fatto di buone pratiche le Neuroscienze aiutano è far meglio percepire a coloro che sono coinvolti nel processo di selezione, a non sottostimare il potere che ha l’irrazionalità su scelte e decisioni. Uno dei suggerimenti più semplici è invitarli ad auto-porsi quesiti che comprendano la particella “se”: “Se il candidato fosse meno aggressivo, porrei più domande complesse?”; – “Se la risorsa non fosse stata presentata come esperta, avrei sollevato più dubbi sui suoi errori in un determinato contesto?”; – “Se il candidato non si fosse laureato nella mia stessa università, avrei ancora pensato che fosse parimenti preparato?”.
Le Neuroscienze si sono dimostrate efficaci anche nel portare l’attenzione sulle parole usate nella job description. Le evidenze scientifiche hanno evidenziato come il 44% delle donne sono dissuase dal candidarsi quando nella descrizione sono utilizzate parole tradizionalmente considerate “maschili” , e una donna su quattro sarebbe scoraggiata dal lavorare in un posto in cui compare la parola “esigente”, meglio utilizzare “diligente” in un contesto “frenetico” .
Stesso principio vale per le candidature interne alle aziende, ai fini di un avanzamento di carriera. Quando nella descrizione viene chiesto “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale”, la ricerca ha scoperto che donne e uomini interpretano la domanda in modo diverso. Le donne sono meno propense a candidarsi in quanto pensano che venga chiesto loro di intraprendere, fin da subito, frequenti viaggi all’estero; gli uomini sono invece più focalizzati sulla visione di insieme del ruolo che sono interessati a ottenere.
Riformulando la domanda da “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale” a “Prenderesti in considerazione un incarico internazionale in futuro”, le candidature inviate dalle donne sono aumentate del 25%.
Per sostenere l’imparzialità dei selezionatori un intervento di Nudging consiglia di rimuovere i fattori di identità demografica quali sesso, età, nome, indirizzo e foto dal CV. Suggerimento già noto, ma ancora poco utilizzato. Oltre a superare il gender bias, si è dimostrato utile a mitigare i bias di selezione, somiglianza e l’effetto alone. Molte persone hanno la tendenza inconsapevole ad assumere candidati che ricordino loro sé stessi: questo può favorire i candidati con caratteristiche in comune con chi li seleziona. L’effetto alone porta a generalizzare una singola caratteristica di una risorsa pensando sia valida anche per altre aree. Il bias di somiglianza porta a preferire candidati dello stesso sesso del recruiter, della sua stessa etnia e della stessa fascia d’età. Oscurare l’età, l’etnia e il genere potrebbe aiutare il recruiter ad aggirare tali pregiudizi.
Oscurare i dati demografici ha però condotto all’effetto opposto nel pubblico impiego. Nel tentativo di eliminare il sessismo, è stato chiesto ai dipendenti pubblici di scegliere candidati ai quali erano stati tolti dal CV genere ed etnia. Il presupposto alla base del processo era che il management avrebbe assunto più donne se avesse considerato solo i meriti professionali dei candidati. Il professore di Harvard Michael Hiscox, supervisore del processo, sorpreso dei risultati, ha esortato alla cautela: “Avevamo previsto che ciò avrebbe avuto un impatto positivo sulla diversità, rendendo più probabile la selezione di candidate donne e di minoranze etniche. Abbiamo scoperto l’opposto, che l’anonimizzazione dei CV riduceva la probabilità che le donne venissero selezionate per il colloquio” . Si è così scoperto che assegnare un nome maschile a un candidato ha ridotto del 3,2% le probabilità di ottenere un colloquio di lavoro; vice versa l’aggiunta di un nome di donna a un CV aumentava le probabilità del 2,9%. I dati non permettono però di considerarla una sperimentazione rigorosa, in quanto oscurare i dati demografici ha portato all’effetto opposto solo nelle assunzioni nel pubblico impiego.
Una ricerca che ha portato a risultati promettenti è quella svolta dall’Institute for Gender Research della Stanford University. Dall’analisi di seimila interviste alla cieca condotte sulle piattaforme di diverse aziende è emerso che, quando i CV erano valutati con metodi tradizionali, solo il 17% delle donne candidate e il 28% delle minoranze venivano invitate a presentarsi ai colloqui formali; con le valutazioni alla cieca questi numeri sono saliti rispettivamente al 59 e al 67%. Nelle stesse aziende, le donne ricevono ora il 43% delle offerte di lavoro rispetto a solo il 26% con i metodi tradizionali. Le minoranze ora ricevono il 39% delle offerte di lavoro rispetto al precedente 19%.
Come ulteriore vantaggio, queste aziende hanno anche ridotto il tempo totale di reclutamento del 26% . In ogni caso, i candidati devono comunque affrontare i colloqui di selezione, in cui risulta complesso oscurare sesso, etnia o età, benché per specifiche posizioni, è possibile organizzare “colloqui alla cieca”. È ciò che avvenne negli anni ’70, quando le giurie delle orchestre statunitensi cambiarono il formato delle loro audizioni, in modo da non potere vedere chi si stesse esibendo: tutti i musicisti facevano l’audizione dietro uno schermo. A quel tempo, le donne costituivano solo il 5% dei musicisti nelle orchestre statunitensi: una volta istituite le audizioni alla cieca il numero iniziò a salire, fino a raggiungere il 46% .
Evidenze scientifiche sono disponibili anche per quanto riguarda le stress interview. L’obiettivo, in questi casi, è valutare come e quanto il candidato sia in grado di gestire la tensione. Il presupposto è che se la risorsa riesce a gestire lo stress durante il colloquio, sarà in automatico capace di gestire lo stress anche in azienda. Ma quello che abbiamo imparato sul cervello e su come risponde a situazioni stressanti è ben diverso: non è così che accade nella vita reale.
Se davvero si vuol capire quali sono le reali capacità di una persona, è meglio metterla in una condizione in cui il suo cervello funzioni al meglio, non al peggio! Stressare arbitrariamente gli intervistati solo per valutare come si comportano, potrebbe non rivelare ciò che quelle persone sono e sanno fare, ottenendo informazioni inaffidabili. Molto più utile è inserirli nel contesto in cui sono richiesti e vedere come reagiscono alle sollecitazioni e alla pressione che quella realtà richiede loro”.
Alessio: “Molti processi di selezione, a tutti i livelli di seniority dei candidati, si stanno spostando sul digitale – abbandonando sempre di più il tempo dedicato da specialisti in carne ed ossa soprattutto nelle prime fasi dei processi di recruiting. È un trend efficiente? Le neuroscienze potrebbero aiutare in questo senso? Se sì, come?”
Laura: “La pandemia ha accelerato i processi di digitalizzazione aziendale e questo ha avuto un impatto anche sui processi di selezione. Ricordiamo che già nel 2017 Boston Consulting Group utilizzava un videogioco nel processo di selezione per giovani ad alto potenziale. Il gioco metteva alla prova capacità di problem solving, leadership, intelligenza emotiva, learning agility e team playing, unitamente all’analisi del curriculum e i colloqui.
Il gioco faceva parte della suite Knack Analytics ideata a Yale e Harvard e testata su Royal Dutch Shell ed era capace di restituire profili allineati alle valutazioni dei selezionatori, ma basati su Data Analytics. Oggi, il tool è sostituito da Arctic Shores, un gioco che segue gli standard della British Psychological Society. Tutti sistemi, questi, che uniscono logiche di Gamification e teoria dei Nudge, il cui scopo è tenere alta l’attenzione e l’engagement creando un circolo virtuoso.
Esperienza simile è quella fatta da Unilever che utilizza sistemi digitali di Gamification e Nudging utili a intercettare alcune soft skill meglio dei tradizionali test psicoattitudinali, come la propensione al rischio, l’attitudine a sperimentare e a sviluppare idee in situazioni di discomfort e darebbero dei feedback costanti lungo le fasi del gioco, basate su criteri oggettivi.
UBI Banca non è da meno, gaming App in collaborazione con Open Knowledge, scaricabile gratuitamente, è risultata un buon mezzo per attirare potenziali candidati da sottoporre a una preselezione con un videogioco divertente ambientato nello spazio galattico. Lasciando da parte la gamification che richiede competenze specifiche e un discorso a sè, Linkedin ha implementato la possibilità di allegare un video-curriculum , per far fronte alle necessità legate alla pandemia.
L’apice del processo di digitalizzazione è rappresentato dall’implementazione dell’intelligenza artificiale al percorso di selezione del personale, tema anticipato nel 2018 da Peter Cappelli della Wharton School, in cui evidenziava gli elementi che avrebbero permesso a questo algoritmo, un giorno, di funzionare e l’enorme beneficio che ne sarebbe derivato. “Il tempo medio per l’assunzione di un candidato può essere ridotto da quattro mesi a quattro settimane” .
In Italia, la start up Speechannel ha di recente lanciato il suo algoritmo per analizzare i video-curricula. Non sono però immuni dai bias, nemmeno gli algoritmi: Amazon, nel 2018, ha ammesso di non poter implementare il proprio algoritmo di analisi automatizzata dei curricula, in quanto sessista. L’AI di Amazon era stata basata su un set di dati che erano essi stessi “biased”, cioè parziali, influenzati da anni di cultura tech di stampo maschilista.
Se neppure l’intelligenza artificiale è immune dai pregiudizi, le possibilità di essere vittime dei bias durante i colloqui di selezione digitali è un elemento che sarebbe davvero pericoloso sottovalutare. Se da un lato le videochiamate hanno il vantaggio di celare o mettere solo scarsamente in evidenza attributi fisici, come peso e altezza, che possono rappresentare loro stessi un pregiudizio, l’ambiente virtuale potrebbe fare da bilanciamento per le persone con disabilità fisiche.
Un altro aspetto che viene mitigato nelle videochiamate è la gestualità. Se nelle culture occidentali, una stretta di mano debole può generare una cattiva prima impressione, per quanto banale possa sembrare, può fare la differenza in molti contesti. L’impossibilità di stringere la mano durante i colloqui virtuali elimina i pregiudizi e le contraddizioni che potrebbero nascere da tale semplice gesto.
Il colloquio online ha lo svantaggio di svolgersi in luoghi virtuali differenti (e dunque parziali) che potrebbero influenzare il giudizio del recruiter, difficile non rimanere condizionati dal contesto, soprattutto se rumoroso o disordinato. E la scelta del candidato potrebbe ricadere su colui che vanta uno sfondo più allettante, ma non necessariamente è la persona più preparata. Il rischio che il contesto influenzi l’impressione generale sul candidato.
Senza contare che i colloqui virtuali non favoriscono chi non ha dimestichezza con la tecnologia, anche quando non è una skill richiesta: si hanno maggiori probabilità di giudicare negativamente una persona semplicemente a causa di un problema tecnologico riscontrato durante una videochiamata. Il mondo digitale è sicuramente di ausilio purchè sia chiaro l’obiettivo e si tenga conto del contesto, perché come abbiamo visto non esula da errori umani, proprio perché progettato dall’uomo”.
Alessio: “Per molti non è ancora chiaro se le neuroscienze possano o meno dare un aiuto – concreto ed in tempi ragionevoli – all’ottimizzazione dei processi aziendali: hai qualche considerazione da condividere al riguardo?”
Laura: “Le Neuroscienze si sono dimostrate utili nell’aiutare le organizzazioni in tema di decision making, change management, leadership e risk management. Prendere decisioni o intervenire nei processi aziendali guidati da prove scientifiche fa una grande differenza poiché permette di attuare soluzioni già collaudate in realtà similari e di cui sono note le possibilità di successo e di insuccesso. Utilizzare soluzioni a matrice può quindi abbassare i costi, ridurre i tempi e prevenire gli errori.
I leader trascorrono molto tempo analizzando i dati, pro e contro di diverse alternative e via dicendo, per trarre le giuste conclusioni sulla direzione corretta da seguire. Quindi riuniscono collaboratori e dipendenti per informarli sul da farsi, senza lasciare loro il tempo di capire il perché della decisione. Lamentandosi, spesso di riflesso, che i dipendenti resistono al cambiamento.
È normale resistere a ciò che ci viene imposto dall’alto e senza una spiegazione che faciliti la comprensione della strategia messa in atto. Non dimentichiamo che le persone non distruggono quello che hanno costruito. È più facile che distruggano ciò che non capiscono e pensano possa danneggiarli. Non dimentichiamo che non siamo econi, esseri prettamente razionali, ma persone irrazionali e facili prede dell’emotività.
Le Neuroscienze ci insegnano che le persone non resistono al cambiamento, ma resistono a essere cambiate. Ecco perché tutto ciò che ci viene imposto viene visto con sospetto. Se si conosce come funziona il cervello in fatto di novità e cambiamenti, sarà più facile far accettare nuove idee, progetti e processi.
Il cambiamento è percepito dal cervello come una minaccia. E poco importa che non viviamo più nella giungla e non ci sia alcuna tigre dai denti a sciabola da cui proteggersi. L’incertezza e la novità che derivano da un processo di change management, dall’arrivo di un capo difficile, da scadenze e stress sono interpretate dal cervello come minacce al pari della tigre che tanto faceva paura ai nostri antenati. Le minacce si presentano in modi diversi, ma il modo in cui il cervello risponde è più o meno lo stesso di sempre.
Le Neuroscienze, in tal senso, ci danno il perché di quello che sta succedendo: se capisco il perchè, è più probabile che agisca in modo più informato e razionale e utile al contesto in cui la novità viene attuata.
Conoscere il cervello ci aiuta ad essere più empatici verso gli altri e noi stessi.
Le Neuroscienze, senza perdersi in innumerevoli esempi, permettono di trasformare studi ed evidenze in soluzioni utili e pratiche e fruibili da tutti. E non è poco di questi tempi incerti”
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Note:
[1] Nielsen T.C., Kepinski L., (2020). Inclusion Nudges for talent selection, Action Guide, pp. 94-100
[2] https://business.linkedin.com/content/dam/me/business/en-us/talent-solutions-lodestone/body/pdf/Linkedin-Language-Matters-Report-FINAL-02.08-1.pdf
[3] h t t p s : / / p m c . g o v . a u / n e w s – c e n t r e / d o m e s t i c – p o l i c y / b e t a -report-going-blind-see-more-clearly
[4] https://gender.stanford.edu/news-publications/gender-news/ leveling-playing-field
[5] Goldin C., Rouse C., (2000). Orchestrating Impartiality: The Impact of Blind Auditions on Female Musicians “Blind” orchestra auditions reduce sex-biased hiring and increase the number of female musicians, Harvard Kennedy School, Women and public policy program
[6] https://youmark.it/ym-interactive/linkedin-sta-testando-la-nuova-funzione-video-presentazione-per-aiutare-i-recruiter-nella-scelta-dei-candidati/
[7] Cappelli P., Tambe P., Yakubovich V., (2018). Artificial Intelligence in Human Resources Management: Challenges and a Path Forward, SSRN Electronic Journal
[8] https://codetiburon.com/machine-learning-changing-hr-industry/
[9] https://www.speechannel.com/index.php
E’ TEMPO di ESSERE GENTILI…
Siamo sommersi da consigli su come fare carriera, raggiungere obiettivi ambiziosi, guadagnare di più e da dati e grafici che si riversano sulla scrivania, spesso più di quanti saremo mai in grado di leggere e verificare in una vita intera.
Raramente però consideriamo la gentilezza quale abilità da migliorare, al pari di tutte le altre. La ignoriamo, o nel peggiore dei casi, la denigriamo.
sosteneva il Dr House, nella omonima serie di grandissimo successo, così lontano dai modelli di leadership descritti nei testi di management, considerati ridondanti, eccessivamente buonisti rispetto alla realtà dove il leader che ha successo deve, per stereotipo, essere autoritario, freddo, cinico e possibilmente dispotico.
Personalmente preferisco un medico che mi consideri sia mentre miglioro, sia mentre sto male. L’empatia non è (e non dovrebbe essere) un’emozione che si accende a comando, si allena ma non si simula: i neuroni a specchio difficilmente si lasciano ingannare.
Lo stile autoritario è sicuramente utile per raggiungere obiettivi funzionali alla carriera, ma una volta all’apice, oltre al “cosa” (l’obiettivo raggiunto) conta molto anche il “come” lo si è raggiunto. Le modalità con cui si conseguono i risultati aziendali contano più di prima perché, in qualità di CEO e quindi di rappresentante degli azionisti, per definizione si dovrebbe essere più interessati a logiche di medio-lungo periodo e soprattutto ad assicurare all’azienda performance sostenibili e durature”.
Lo spiegano bene le ricerche della Harvard Business School: “anche prima di stabilire la propria credibilità o competenza, i leader che proiettano calore sono più efficaci delle persone che guidano con tenacia”. Gentilezza e calore sembrano accelerare la fiducia, considerando che gentilezza e leadership non hanno un impatto solo nel rapporto che si ha con dipendenti e collaboratori, ma anche sulla performance.
I ricercatori dell’Università di Oxford hanno analizzato centinaia di articoli che hanno studiato la relazione tra gentilezza e felicità: 21 studi hanno dimostrano che essere gentili con gli altri ci rende più felici, e l’Università di Warwick ha rivelato che le persone felici sono il 12% più produttive sul lavoro rispetto alle infelici.
Senza contare che a differenza di altre abilità, come ha dimostrato la ricerca condotta dall’Università del Wisconsin, essere gentili non richiede tempo e skill uniche: non è un segno di debolezza o rinuncia all’autorità essere gentili e mostrare interesse verso il lavoro dei dipendenti. Si può essere assertivi, empatici e forti tutto allo stesso tempo.
Senza dimenticare che la gentilezza è contagiosa e calmante: la Mayo Clinic ci esorta a “fissare intenzionalmente un obiettivo per essere più gentili con gli altri“, poichè gli atti di gentilezza attivano la parte del cervello che ci fa provare piacere e “rilascia ossitocina, un ormone che aiuta a modulare le interazioni sociali e le emozioni. Essere gentili fa bene alla salute mentale nostra e dei nostri dipendenti.” E questo si traduce in un miglioramento del morale e delle prestazioni e in una riduzione dell’assenteismo.
COSA CARATTERIZZA LA LEADERSHIP GENTILE
Ascolto attivo. Un buon leader deve avere a cuore le opinioni di tutti in azienda, non giudicare e saper incoraggiare le domande. “Quando qualcuno condivide una difficoltà, non saprai sempre cosa dire o fare“, si legge nella Harvard Business Review . “La cosa più importante è ascoltare come stanno veramente i membri del team. Potrebbero non voler condividere molti dettagli, il che va benissimo. Sapere che possono condividere preoccupazioni o difficoltà è ciò che conta“.
Empatia. Chiedersi come dipendenti e collaboratori vivono progetti e attività è importante anche per alimentare relazioni efficaci. la MIT Sloan Management Review, per esempio, ha sottolineato che essere single e lavorare da soli in quarantena, comporta molto più stress rispetto all’essere membro di una famiglia con bambini piccoli: pause caffè virtuali quotidiane possono già fare la differenza.
Grazie. Dillo con sincerità e dillo spesso.
Celebra i successi del team. Una ricerca, condotta dalla OC Tanner Institute, mostra che quando ai dipendenti è stato chiesto cosa l’azienda o il capo avrebbero potuto fare per motivarli e farli sentire meglio sul posto di lavoro, il riconoscimento era la risposta numero uno, prima ancora di aumenti salariali, promozioni, formazione e autonomia.
Supporta in modo gentile. Tutti noi abbiamo vite impegnate e stressanti. Qualunque ruolo tu rivesta, chiedere “Come ti posso aiutare?” aiuta la carriera.
Dai feedback. Uno studio della Harvard Business Review mostra che il motivo principale per cui alcuni manager non riescono a fare carriera è la loro incapacità di creare fiducia. Come leader, a volte dobbiamo dire ai dipendenti quando non soddisfano le aspettative. Per quanto sia difficile, è una fase utile a creare un clima di fiducia, se gestita con gentilezza, perchè significa che si ha effettivamente il desiderio di aiutare un dipendente a migliorare e non solamente ad aumentare il fatturato.
Le persone non sono macchine. La parte più difficile è ricordarsi che i team sono fatti di persone. Non si spengono quando finiscono il lavoro. Passano ad occuparsi di responsabilità personali, problemi di salute, finanziari e relazionali. Gli atti casuali di gentilezza sono importanti. Ma, se davvero vogliamo creare fiducia, dobbiamo concentrarci sull’unica cosa che i grandi leader praticano intenzionalmente, la gentilezza, specialmente verso le persone che supportano le nostre carriere ogni giorno.
Insieme all’empatia e all’intelligenza emotiva, la gentilezza è una delle competenze trasversali essenziali per una buona leadership. Di questi tempi, potrebbe addirittura rivelarsi la più cruciale. Senza contare che, parafrasando Henry David Thoreau, la gentilezza è un investimento che non fallisce mai.
Tu, come manifesti la tua leadership gentile? Come può la tua esperienza essere di aiuto agli altri?
Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort
Ci sono due uomini:
Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.
LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI
Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.
Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.
OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA
Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.
Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.
Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.
COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE
1. Identifica i tuoi progetti personali principali
– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?
– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?
– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.
Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.
2. Identifica la tua nicchia riparatrice
Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.
La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.
Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?
Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?
3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti
Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.
Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”.
Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.
Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.
La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.
In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.
UN AVVERTIMENTO
I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.
L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.
Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.
Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.
Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?
PENSARE POSITIVO… Se fosse SOLO un MODO per VENDERCI QUALCOSA?
Se si digita “pensiero positivo” su un qualsiasi motore di ricerca, escono una grande quantità di articoli. La maggior parte con il chiaro intento di venderci la formula magica per una vita di successo, ricchezza e ovviamente salute. Ciò che tanti ignorano e a tanti fa comodo che non si sappia, è che pensare positivo non aiuta a raggiungere gli obiettivi, non ci rende persone di successo, non facilita la carriera e non ci rende nemmeno più simpatici.
Molto di ciò che si è detto e si dice sul pensiero positivo come panacea di tutti i mali e acceleratore di successo è falso. Così come è falso credere che sia sufficiente scrivere gli obiettivi su carta per renderli realizzarli.
Quest’ultima falsa credenza si deve a una ricerca che si fa ricondurre a Yale, nel 1953, dove a degli studenti sarebbe stato chiesto se avessero l’abitudine di scrivere gli obiettivi che intendevano raggiungere. Solo il 3% degli intervistati avrebbe risposto positivamente. Vent’anni dopo le stesse persone sarebbero state ricontattate, scoprendo che quel 3% rappresentava l’80% della ricchezza del paese. Questo studio viene citato ancora oggi per vendere alle persone il metodo infallibile per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Se così fosse, saremmo tutti persone di successo. Ciò che però molti non sanno è che quello studio non è mai stato svolto: è un falso. A scoprirlo, nel 1996, è stato Lawrence Tabak, giornalista della rivista Fast Company, su cui scrisse anche un pezzo: “If your goal is success, don’t consult these gurus” (Se il tuo obiettivo è il successo, non consultare questi guru).
Per comprendere meglio il fenomeno occorre però andare ancora più indietro nel tempo.
KEEP CALM AND CARRY ON
Se siete stati in un qualsiasi souvenir shop di Londra, non avrete potuto non notare la scritta Keep calm and carry on, impressa ovunque, dalle tazze da the, alle magliette, a una marea di accessori di ogni genere.
Nel 1939, il governo inglese commissionò al ministero dell’Informazione una serie di poster di propaganda, con l’obiettivo di rassicurare i cittadini preoccupati per l’imminente conflitto. Furono realizzati tre diversi modelli, utilizzando un font creato appositamente e la corona Tudor come “marchio di garanzia”.
La versione Keep calm and carry on – di cui furono stampate 2,5 milioni di copie – fu tenuta da parte, per essere utilizzata solo in casi di grave crisi o invasione. Per tutta la durata del conflitto il Ministero dell’Informazione non ritenne opportuno diffondere l’ultima versione del poster, che non fu quindi mai mostrata al pubblico.
Per oltre 50 anni le copie furono conservate in qualche remoto archivio del Regno Unito, fino a quando, nel 2000, i proprietari di una piccola libreria si aggiudicarono all’asta un baule contenente libri usati. All’interno scoprirono il manifesto, che diventò subito richiestissimo prima tra i clienti del negozio e poi in tutta Europa.
Testate come il Guardian, The Independent e il New York Times si interrogarono sul perché questo poster riscuotesse tale successo, collegandone la fama al clima politico depresso e alla crisi economica che nel 2009 ricordavano il periodo pre-bellico.
Nonostante il contesto sia cambiato, una marea di coach, formatori, fanatici del fitness, guru spirituali e quant’altro continua a proporre la propria visione del mondo, frasi e post motivazionali dove, dicono, tutto è raggiungibile, se vuoi, e se non riesci è solo perché hai pensieri negativi.
TOXIC POSITIVITY
L’estremizzazione del pensiero positivo è stato chiamato in diversi modi: “Toxic positivity”, “Oppressive positivity”, “Fake positivity”, tutti termini che si riferiscono sia alla cultura dell’ottimismo tout court sia alla rigogliosa industria che la sostiene: il problema non è condividere la scritta “Stay positive” o frasi motivazionali, ma il fatto che chi le posta sta cercando di venderci qualcosa, con la promessa di cambiare le nostre vite in meglio. E poco conta se tanto ardore positivo abbia ben poca presa sulla sua…
Ciò che è utile sottolineare è che l’approccio, promosso da Martin Seligman ex presidente della American Psychology Association, divenuto famoso per i suoi studi sulla psicologia positiva, si concentrava sull’aspetto patologico della salute mentale, e non sull’ottimismo e la felicità. Questi concetti introdotti vent’anni fa, vengono spesso svuotati e semplificati per un consumo immediato diventando, come dice Nicholas Gilmore sul Saturday Evening Post, materiale “da workshop motivazionali e meeting aziendali”. Il marketing ha sempre sfruttato la felicità per venderci di tutto, ma ora sembra che si sia creata una “meta-industria” che usa questi valori non per proporci un prodotto, ma la felicità in sé.
Il sistema si autoalimenta in modo sapiente ma lascia poco spazio al pensiero critico: la falsa positività ci induce a nascondere le emozioni negative e riduce la complessità dei nostri sentimenti portandoci a valutare tutto in modo binario: buoni e cattivi, felici e tristi… che a lungo andare si rivela nocivo. La repressione genera frustrazione, e di conseguenza nuove emozioni negative: non basta fare pensieri felici per essere felici, anzi, questa convinzione può rivelarsi controproducente. Secondo due studi pubblicati dalla rivista scientifica Motivation and Emotion, le persone che credono che le proprie emozioni possano essere cambiate con la forza di volontà e la positività sono più inclini a incolparsi per le proprie emozioni negative.
L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o tristi: la falsa positività è una forma di gaslighting, che invalida emozioni che tutti proviamo, con l’aggravante di farlo spesso nel nome del profitto.
LA CHIAVE è NELLA AGILITA’ EMOZIONALE
“Essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale”, ha spiegato la psicologa della Harvard Medical School Susan David in un Ted Talk, “Alle persone col cancro viene detto che basta pensare positivo. Alle donne viene detto di non essere così arrabbiate. E la lista va avanti. È una tirannia. È la tirannia della positività, ed è crudele, ingiusta e inefficace”. La cosa fondamentale per sottrarsi a questo dominio dell’ottimismo è interpretare le emozioni non come un’imposizione, ma come dati da cui partire per analizzare la propria condizione. Secondo la studiosa, la chiave è nella ‘agilità emozionale’. Uno strumento che consentirebbe di silenziare il giudizio sulle proprie emozioni, fino al punto di smettere di chiedersi se esse siano giuste o sbagliate. Per raggiungere questo obbiettivo può essere utile chiamare le emozioni con il loro nome. Rabbia con rabbia, odio con odio e non un generico ‘sono stressato’.
A sfatare l’idea che il pensiero positivo sia la soluzione ci hanno pensato anche Gabriele Oettingen e Thomas Walden dell’Università della Pennsylvania, i quali hanno seguito, per un intero anno, delle donne in sovrappeso iscritte a un programma di dimagrimento.
A inizio dieta, i ricercatori hanno sottoposto le donne a una serie di domande su come avrebbero affrontato l’anno, classificando le risposte sulla base della loro positività o negatività: quelle che davano importanza agli aspetti negativi della motivazione (“Non voglio mai più vedermi grassa”) e quelle che prestavano attenzione agli aspetti positivi (“Non vedo l’ora di poter indossare quei vestiti”).
Terminato l’anno, i ricercatori hanno scoperto che le donne motivate dal pensiero positivo erano dimagrite 12 kg in meno rispetto alle altre. Oettingen ha poi ripetuto questi studi anche in altri contesti, ottenendo risultati simili.
Non dimentichiamo quindi che il Keep calm and carry on serviva a nascondere agli inglesi che sarebbe arrivata l’invasione nazista.
LE RIUNIONI, quelle UTILI e che LE PERSONE AMANO (davvero)
Questo è uno stralcio di conversazione avuta con un cliente. Gli ci è voluto un momento per capire dove volevo arrivare, stanco e frustrato per le ore di riunione che ha dovuto sostenere perché per lui, il lavoro, è ciò che accade tra una riunione e l’altra.
Nel peggiore dei casi, le riunioni sono simili a brevi prigionie che costringono a contare i minuti/ore che mancano al rilascio. Per fortuna, ci sono anche incontri utili, produttivi e divertenti.
Nel mio lavoro, ho trovato tre tipi di riunioni che vale la pena elencare.
I meeting a colazione
Il successo è legato alla capacità del team di condividere informazioni, e capire le giuste connessioni fra persone ed eventi. È utile, questa tipologia di incontri, per porre domande difficili e offrire feedback schietti e diretti. Oltre al fatto che incontrarsi fuori ufficio alimenta lo spirito di gruppo, il cameratismo, che va oltre il tempo del breakfast e fa sembrare le informazioni più preziose.
La mischia
L’ Economist ha pubblicato un resoconto degli incontri editoriali del lunedì mattina in cui vengono presentate le storie, viene pianificata la copertina e discussa la posizione del settimanale sugli eventi globali.
Ciò che rende le riunioni dell’Economist così produttive è la loro natura egualitaria. Grado e ruolo viene messo da parte e tutti sono incoraggiati a contribuire.
Immagina se altre organizzazioni seguissero questa pratica. Il coinvolgimento aumenterebbe perché investirebbero nella discussione. I pregiudizi potrebbero essere mitigati e le opinioni divergenti palesate e dibattute. Le persone avrebbero la possibilità di affinare il loro pensiero critico e la capacità di argomentazione costruttiva. La qualità delle decisioni migliorerebbe.
Il focus
Ogni mattina dal 12 settembre 2001, le persone interessate alla sicurezza e alla protezione all’aeroporto internazionale di Boston Logan si incontrano per condividere informazioni sui probabili eventi della giornata. Scossi dagli attacchi dell’11 settembre, i funzionari hanno deciso che ottimizzare la collaborazione e il coordinamento tra le varie agenzie e società afferenti all’aeroporto, fosse fondamentale per migliorare la sicurezza. A differenza della maggior parte di tante nobili iniziative, questa dura sette giorni alla settimana da allora. Non è un incontro obbligatorio. Le persone continuano a partecipare perché lo trovano prezioso e utile.
L’incontro è incentrato su tutto ciò che potrebbe avere un impatto sull’aeroporto quel giorno o nell’immediato futuro: il ritorno a casa di una squadra sportiva, un temporale, i lavori in corso o un allarme dell’intelligence. Tutto ciò che è rilevante per il gruppo è il benvenuto. Anche “oggi niente” è un contributo accettabile, e riduce al minimo la tentazione di riempire il tempo in modo infruttuoso. L’incontro dura non un minuto in meno o più del necessario, ma mai più di un’ora.
È un modo efficiente per connettersi, condividere, ricevere informazioni e porre domande. L’incontro è una componente chiave della costruzione di una cultura duratura in cui la collaborazione e il coordinamento attraverso i confini organizzativi sono la norma, eliminando la rete di canali secondari che può portare a lacune informative e incomprensioni.
4 CONSIGLI PER MIGLIORARE LE RIUNIONI AL LAVORO
Sebbene questi tre tipi di incontri siano molto diversi fra loro, ci sono alcuni concetti essenziali di facile applicazione.
Invita solo le persone utili. Sii chiaro sullo scopo, il formato, le decisioni necessarie da prendere e il risultato desiderato. Crea e definisci norme sociali che si allineino con quei parametri. Sii puntuale e mantieni la rotta.
Le informazioni pertinenti devono fluire alle persone giuste al momento giusto. Le riunioni utili riducono al minimo le speculazioni e migliorano la coesione del gruppo.
Non mettere tutte o tante persone in una stanza se è più utile agire per piccoli gruppi. Cerca di capire quando e che tipo di informazioni vanno condivise e come, e quale modo è più efficace.
Anche le riunioni hanno dei costi. Calcola l’equivalente di stipendio approssimativo per le ore in cui le persone sono presenti e stima il ritorno su tale investimento, per ciascun partecipante. Qual è il contributo di ogni persona e cosa riceve in cambio? Qual è il ritorno per l’organizzazione? Un modo per scoprire se le persone ritengono che un incontro valga la pena è renderlo facoltativo e vedere chi si presenta.
Le riunioni scandiscono il ritmo della nostra vita organizzativa; in alcuni casi, sembrano essere fine a sé stesse. Ma gli incontri sopra descritti sono un utile investimento di tempo, talento ed energia. I partecipanti ricevono e danno valore. È così che crei incontri che le persone abbracciano con entusiasmo.
Se NON sei PRONTO a SBAGLIARE NON PENSERAI mai FUORI dagli SCHEMI: il legame fra rischio e creatività
Forte è la tentazione di unire creatività e follia, genialità ed eccesso. Forse perché risveglia l’ideale romantico con cui siamo stati cresciuti fin da bambini. Eppure, la creatività ha poco a che fare con la follia e meno ancora con la sregolatezza.
Il fatto che Picasso soffrisse di depressione, non ha legami con la creatività. Lucy in the Sky with Diamonds può anche essere nata da un viaggio lisergico, ma è stata composta dalla collaborazione di due musicisti scrupolosi e perfezionisti: John Lennon e Paul McCartney. Le poesie di Rimbaud, autore maledetto per eccellenza, sono il frutto di ore di lavoro e non di una unica idea geniale. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, suonava il bongo in un night club per non ammuffire nelle aule universitarie e avere nuovi stimoli. Edvard Munch gravitava fra arte, ansie e allucinazioni, Einstein raccoglieva mozziconi di sigarette per strada e Henry Cavendish, il primo a identificare l’idrogeno, viveva in totale isolamento e con frugalità, nonostante fosse uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra.
A prescindere dalla genialità, i risultati creativi arrivano se c’è metodo e dedizione. Non esistono scorciatoie. Anzi, è probabile che la sregolatezza sia un limite che frena il talento, non il segreto che dà vita alla creatività.
Ecco perchè lasciarsi sedurre dal mito “genio e sregolatezza”, al pari di un pregiudizio, induce irrimediabilmente all’errore.
LA VOGLIA DI SPERIMENTARE
La creatività ha molto più a che fare con la volontà di sperimentare al di fuori dei confini del pensiero convenzionale e nell’essere consci che ciò che si pensa di sapere, potrebbe essere sbagliato.
Nel contesto aziendale, più che genio–sregolatezza, il binomio più evidente, ma forse più trascurato è quello che unisce la creatività al rischio. Proprio perché la creatività consiste nel provare qualcosa di nuovo, esplorare l’ignoto e accettare l’incertezza e la possibilità di fallire. Ci piaccia o meno, è la creatività ad alimentare la strategia e l’innovazione.
In altre parole, il vero potere della creatività va oltre la visione artistica e la capacità di immaginare e costruire qualcosa di nuovo. Grandi artisti, scienziati e pensatori sono disposti a fallire, venire sommersi da critiche negative e vedere andare in frantumi la propria reputazione, pur di portare avanti le loro idee. Sir Ken Robinson ha ben spiegato questo concetto nel TED Talk più visto di sempre : “Se non sei pronto a sbagliare, non ti verrà mai in mente nulla di originale”.
RISCHI, GIOCHI E RISULTATI
Sebbene la connessione tra creatività e assunzione di rischi sembri intuitiva, gli scienziati sociali hanno faticato a mostrarne il legame diretto. Questo perché misurare la creatività è difficile.
“Studi passati che miravano a esplorare la relazione tra creatività e assunzione di rischi hanno equiparato la creatività alla fluidità associativa, al pensiero divergente, alla tolleranza dell’ambiguità e allo stile di vita“, hanno evidenziato gli psicologi Tyagi, Hanoch, Hall e Denham dell’Università della Georgia e Runco della Plymouth University in Frontiers in Psychology . Ma, hanno aggiunto “ognuna di queste misure fornisce solo una visione ristretta della creatività“.
Adottando un approccio diverso, i ricercatori hanno considerato la creatività come un tratto multidimensionale che coinvolge la personalità, i risultati, il processo di formazione di nuove idee, la risoluzione dei problemi. Hanno misurato il rischio utilizzando due test. Uno prevedeva di giocare alla roulette e l’altro la compilazione di un questionario che analizzava la probabilità di assunzione di diversi tipi di rischi: etici, finanziari, sanitari, legati alla sicurezza, ricreativi e sociali. L’analisi risultante ha suggerito che il legame più forte tra creatività e assunzione di rischi coinvolge il rischio sociale, ovvero esporre tesi e idee anche quando le dinamiche di gruppo o di relazione incoraggiano i membri del team a rimanere in silenzio.
ESSERE CREATIVITI VUOL DIRE ASSUMERSI DEI RISCHI
“Essere creativi significa correre il rischio che le tue idee vengano criticate o che falliscano miseramente“, sostiene Todd Dewett . Durante il dottorato, Dewett ha notato una lacuna nella ricerca sul legame tra creatività e assunzione di rischi. Quindi ha progettato uno studio attorno a un concetto che chiama disponibilità al rischio: un tipo specifico di assunzione di rischi che ha lo scopo di portare a risultati produttivi in un’organizzazione, anche se può avere conseguenze personali negative per l’individuo che si assume il rischio. Ad esempio, i dipendenti possono rischiare di essere rimproverati o ostracizzati se segnalano potenziali errori di un progetto particolarmente caro al capo, propongono miglioramenti a un venerato prodotto di punta o sostengono le innovazioni in un’azienda quando i loro colleghi resistono al cambiamento o sono più propensi a proteggere il loro territorio.
“Lo sviluppo e la discussione di nuove idee è rischioso, perché rappresentano rumors nelle routine, nelle relazioni, negli equilibri di potere e nella sicurezza di un”organizzazione“, ha scritto Dewett sul Journal of Creative Behavior. La sua ricerca ha documentato una stretta relazione tra creatività e disponibilità al rischio. Dewett ha creato un sondaggio che ha somministrato a 1.100 dipendenti di una società di ricerca e sviluppo con sede negli Stati Uniti. Il sondaggio ha esaminato come specifici comportamenti dei manager siano in grado di influenzare le decisioni dei dipendenti riguardo creatività e propensione al rischio.
Ciò che è emerso è che i manager garantivano ai dipendenti l’autonomia, ovvero la sensazione di libertà di scegliere come svolgere un’attività, sostenendo la loro volontà di rischiare ma non la loro creatività.
Secondo Dewey, le aziende possono aumentare la creatività individuale e di squadra in vari modi. Tutti implicano che i dipendenti si sentano più a loro agio a parlare e ad assumersi dei rischi. Le organizzazioni più innovative possono includere formalmente la disponibilità al rischio nelle valutazioni delle prestazioni, ponendo ai dipendenti domande come: “Quali cambiamenti hai apportato? Che tipo di idee o cambiamenti hai sostenuto o chi hai sostenuto per facilitare un cambiamento?”
LA CREATIVITA’ IN AZIENDA
Una volta che inizi a cercare il tipo di assunzione di rischio sociale costruttivo che va di pari passo con la creatività, potresti trovare sorgenti creative dove non te lo aspettavi.
Ecco perché le persone che sono disposte a parlare indipendentemente dal fatto che siano o meno le benvenute, potrebbero essere le più grandi risorse di un’azienda. Il vantaggio è duplice: portano ossigeno, incentivano il pensare fuori dagli schemi a supporto di nuove opportunità e contemporaneamente sono disposte a evidenziare problematiche che possono aiutare l’organizzazione a evitare perdite onerose e inutili.
E se questo non bastasse si può sempre ricorrere, per spingere le persone ad assumersi qualche rischio in più, alla tecnica dei piccoli passi dello psicologo di Stanford passi di Albert Bandura. La tecnica è nata inizialmente per aiutare le persone a superare le fobie. Una fra tante, quella dei serpenti. La creatività in fondo è un po’ come maneggiare serpenti, secondo quanto sostiene un bell’articolo sulla Harvard Business Review: sperimentare senza temere il giudizio altrui, proprio come facevamo da bambini.
Un modo per farlo è appunto quello di superare gradualmente le paure apprese. All’inizio ci può sentire a disagio ma, piano piano con la creatività come con i serpenti, al timore si sostituiscono fiducia e capacità nuove. La prima regola è abbandonare le certezze e la protezione offerta dal proprio ufficio, misurarsi con il mondo, sia che si tratti di inventare un’app che cambierà gli eventi o progettare la start up del secolo.
Il successo, spesso, nasce dal fallimento, come insegna l’economista Albert Hirschman.
In realtà, nessuno si imbarca in imprese che vanno così male da dover richiedere una soluzione creativa. Eppure, proprio quando mal giudichiamo la natura del compito che ci stiamo assumendo sottovalutandone i rischi, poi succede che il precipitare stesso degli eventi ci forzi a tirar fuori soluzioni creative. Non a caso la vita di Hirschman, economista eretico, si svolge all’insegna del mettersi in gioco. “Gli ostacoli portano alla frustrazione, la frustrazione all’ansia, e nessuno vuole essere ansioso – dice -. Eppure, l’ansia è il fattore di motivazione più potente, l’emozione che guida alla ricerca di soluzioni”.
Il punto è che tra creatività e rischio c’è una connessione spesso sottovalutata. “La creatività fallisce, e la buona creatività fallisce spesso”. Ma non solo: creatività vuol dire trovare connessioni inaspettate e quindi sottoporre il cervello a un grande sforzo e a una immane fatica. E come si può rendere accattivante tutta quella fatica? Non lasciandogli alternative. Prendendosi qualche rischio in più e cercando stimoli nuovi, perché i rischi spingono la mente a pensare fuori dagli schemi.