Chi è il chirurgo? Come i bias influenzano decisioni e ragionamenti
Inizierò questo articolo, lanciando una sfida.
Si tratta di risolvere un indovinello. L’unica condizione che va rispettata è relativa alla tempistica. Una volta letta la domanda, la risposta deve arrivare entro 33 millesimi di secondo.
Padre e figlio vengono coinvolti in un terribile incidente automobilistico.
L’uomo muore sul colpo. Il ragazzo, ferito gravemente, viene portato in ospedale.
In sala operatoria, il chirurgo reperibile, appena vede il paziente afferma: «Non posso operare – questo è mio figlio».
Come è possibile?
Questo indovinello, noto come dilemma del chirurgo, è utile per (di)mostrare come funzionano i pregiudizi, gli stereotipi, le convinzioni e le credenze. Come e quanto, cioè, ci lasciamo influenzare da bias ed euristiche, o più comunemente trappole mentali, a riprova dell’irrazionalità di cui l’umanità è vittima.
Se, trascorsi i 33 millesimi di secondo, non si arriva a una soluzione, occorre rileggere il quesito e rianalizzare il contesto da una prospettiva differente, facendo attenzione al tempo che la risposta richiederà.
Perché 33 millesimi di secondo? È il tempo che impiega il nostro cervello emotivo, l’istinto, ad analizzare una situazione di incertezza e di rischio e a prepararsi a gestirla, prima cioè che diventiamo consapevoli di ciò che sta accadendo. In altre parole, la soluzione all’enigma più è veloce, più evidenzierà l’impermeabilità all’invadenza di bias, pregiudizi e convinzioni; viceversa, occorrerà riconsiderare il modo in cui vengono prese alcune decisioni.
Tornando al nostro indovinello, prima di dare la soluzione, voglio fare una rassicurazione: l’86% delle persone a cui è stato sottoposto il dilemma non è riuscita a svelare l’arcano. A causa della natura subdola dei pregiudizi inconsci: non siamo consapevoli di averli e questo di per sé rende più difficile identificarli e quindi prevenirli o quanto meno gestirli in modo funzionale.
Good Morning America
Il dilemma del chirurgo è stato proposto in diversi contesti, sia accademici sia pubblici, con risultati sovrapponibili.
Nel 2010 quando il programma televisivo Good Morning America, ha proposto l’enigma, in modo randomico, per le strade di Manhattan (New York), la maggioranza delle persone coinvolte non è stata in grado di dare la soluzione. Quando invece i produttori del programma hanno posto il medesimo quesito a ragazzi di quinta elementare, la maggior parte ha risposto in modo corretto, senza nemmeno doverci pensare troppo.
Le soluzioni via via tentate sono piuttosto creative, come attribuire alla madre una relazione extraconiugale o classificare la coppia come omosessuale. In realtà è tutto molto più semplice di così: il chirurgo è la madre del ragazzo.
Di fronte a un problema si tende a cercare la spiegazione più articolata, ignorando volutamente quella più elementare, proprio perché troppo elementare, anche se nella stragrande maggioranza dei casi è quella giusta. Si tratta di un chiaro riferimento al rasoio di Occam: “Se senti gli zoccoli pensi al cavallo, non alla zebra”. A meno che non tu viva in Africa.
In altre parole: a parità di elementi, la soluzione di un problema è quella più ragionevole. Inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non servono ad arrivare alla soluzione o a rendere edificante qualcosa.
Gender Bias
Adolescenti e bambini, a differenza degli adulti, non hanno idee preformate sul genere che dovrebbe avere un chirurgo. Non danno per scontato che un chirurgo debba essere solo maschio, ecco perché faticano molto meno ad arrivare alla naturale conclusione.
Nello specifico, quello in cui si cade è il gender bias, l’errore che ci fa incasellare e classificare, senza che neanche ce ne accorgiamo, professioni e lavori in base al sesso.
Il dato ancor più interessante è che in quell’86% che ha dato la risposta sbagliata, o non l’ha data affatto, la metà sono donne, molte delle quali medici di professione. Il gender bias, insomma, non risparmia nessuno!
A questo punto si potrebbe obiettare che il dilemma del chirurgo è datato e che nel frattempo le cose potrebbero essere cambiate. Purtroppo, 9 persone su 10, secondo una ricerca del 2020, ad opera dello United Nations Development Program che elabora i dati raccolti in 75 Paesi nel mondo, rappresentativi dell’81% della popolazione globale, ha pregiudizi nei confronti delle donne.
La ricerca è basata su un indice che misura come l’uguaglianza di genere in politica, nel lavoro e nell’istruzione sia ostacolata da credenze sociali profondamente radicate. Gli uomini sembrerebbero avere pregiudizi più forti rispetto alle donne, ma la differenza è minore di quanto si possa pensare: l’86% delle donne e il 91% degli uomini ha almeno un pregiudizio nei confronti dell’universo femminile.
8 persone su 10 ritengono che gli uomini siano leader politici migliori, 4 su 10 pensano che siano più adatti a ricoprire ruoli di leadership nelle aziende e che i posti di lavoro debbano essere assegnati prioritariamente agli uomini in condizioni in cui il lavoro scarseggia. Questi dati risultano ancora più “scioccanti” se si pensa che circa 3 persone su 10 (il 28% degli intervistati) ritengono accettabile che un uomo possa essere violento con la propria moglie.
Tutta questione di statura
Se la situazione non è edificante per le donne, nemmeno gli uomini escono indenni dai pregiudizi di genere. L’altezza può, a seconda del colore della pelle, essere un acceleratore di carriera o un indicatore di pericolosità.
I leader di sesso maschile con un’altezza superiore al metro e 80 hanno maggiori opportunità di fare carriera, avere promozioni e vantano stipendi più alti del 15% dei loro colleghi di altezza inferiore.
L’altezza è considerata un tratto distintivo molto importante, benché rappresenti lui stesso, un bias. Quando ci si sente importanti, tendiamo a percepirci più alti di quanto realmente siamo e la stessa cosa la proiettiamo sulle persone che ci stanno intorno: più sono influenti e più le vediamo alte.
Questa trappola insidiosa è la stessa che porta molte persone ad attuare éscamotage di ogni tipo per sembrare più alte, come inserire solette nelle scarpe, gonfiare il volume dei capelli, senza contare il nuovo approccio della chirurgia estetica: c’è chi si fa spezzare le ossa per far inserire barre e guadagnare così qualche centimetro in altezza.
La statura può rappresentare un fattore potenziante nella carriera di un uomo. Ma solo se è bianco. Ed ecco che torniamo al gender bias.
Per gli uomini di colore, essere troppo alti favorisce invece l’idea di pericolosità. Le ricerche hanno mostrato che, negli Stati Uniti, gli uomini di colore alti sopra i 190 cm, sono fermati e perquisiti dalle forze dell’ordine 6,2 volte in più dei bianchi di medesima altezza. Oltre a essere considerati meno intelligenti.
Difficile, a questo punto, guardare ancora alla forza dei bias con occhi distratti.
Laura Mondino
Fonti:
Barlow, R. (2014) BU Research: A Riddle Reveals Depth of Gender Bias.
http://www.bu.edu/today/2014/bu-research-riddle-reveals-the-depth-of-gender-bias/
http://hdr.undp.org/sites/default/files/hd_perspectives_gsni.pdf
Rosenberg I.B., Height Discrimination in Employment (Feb 16, 2009). Utah Law Review, No. 3, p. 907, 2009: https://ssrn.com/abstract=1344817 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1344817
Lenzmeier T., Study: being talli s a positive trait for white men; for black men, not so much, UNC Media Hub, April 10, 2018
Hester N., Gray K., For black men, being tall increases threat stereotyping and police stops, Proceedings of the National Academy of Science of the USA, vol. 115, No. 11, p. 2711-2715, March 13, 2018
4 marzo ’21 Carlo Marchesi di “Architetti di Contesti” intervista Laura Mondino a proposito di Nudge & dintorni
Carlo Marchesi di “Architetti di Contesti” si confronta con Laura Mondino su Nudge e dintorni
Chi è il chirurgo? Come i bias influenzano decisioni e ragionamenti
Chi è il chirurgo? Come i bias influenzano decisioni e ragionamenti
Inizierò questo articolo, lanciando una sfida.
Si tratta di risolvere un indovinello. L’unica condizione che va rispettata è relativa alla tempistica. Una volta letta la domanda, la risposta deve arrivare entro 33 millesimi di secondo.
Padre e figlio vengono coinvolti in un terribile incidente automobilistico.
L’uomo muore sul colpo. Il ragazzo, ferito gravemente, viene portato in ospedale.
In sala operatoria, il chirurgo reperibile, appena vede il paziente afferma: «Non posso operare – questo è mio figlio».
Come è possibile?
Questo indovinello, noto come dilemma del chirurgo, è utile per (di)mostrare come funzionano i pregiudizi, gli stereotipi, le convinzioni e le credenze. Come e quanto, cioè, ci lasciamo influenzare da bias ed euristiche, o più comunemente trappole mentali, a riprova dell’irrazionalità di cui l’umanità è vittima.
Se, trascorsi i 33 millesimi di secondo, non si arriva a una soluzione, occorre rileggere il quesito e rianalizzare il contesto da una prospettiva differente, facendo attenzione al tempo che la risposta richiederà.
Perché 33 millesimi di secondo? È il tempo che impiega il nostro cervello emotivo, l’istinto, ad analizzare una situazione di incertezza e di rischio e a prepararsi a gestirla, prima cioè che diventiamo consapevoli di ciò che sta accadendo. In altre parole, la soluzione all’enigma più è veloce, più evidenzierà l’impermeabilità all’invadenza di bias, pregiudizi e convinzioni; viceversa, occorrerà riconsiderare il modo in cui vengono prese alcune decisioni.
Tornando al nostro indovinello, prima di dare la soluzione, voglio fare una rassicurazione: l’86% delle persone a cui è stato sottoposto il dilemma non è riuscita a svelare l’arcano. A causa della natura subdola dei pregiudizi inconsci: non siamo consapevoli di averli e questo di per sé rende più difficile identificarli e quindi prevenirli o quanto meno gestirli in modo funzionale.
Good Morning America
Il dilemma del chirurgo è stato proposto in diversi contesti, sia accademici sia pubblici, con risultati sovrapponibili.
Nel 2010 quando il programma televisivo Good Morning America, ha proposto l’enigma, in modo randomico, per le strade di Manhattan (New York), la maggioranza delle persone coinvolte non è stata in grado di dare la soluzione. Quando invece i produttori del programma hanno posto il medesimo quesito a ragazzi di quinta elementare, la maggior parte ha risposto in modo corretto, senza nemmeno doverci pensare troppo.
Le soluzioni via via tentate sono piuttosto creative, come attribuire alla madre una relazione extraconiugale o classificare la coppia come omosessuale. In realtà è tutto molto più semplice di così: il chirurgo è la madre del ragazzo.
Di fronte a un problema si tende a cercare la spiegazione più articolata, ignorando volutamente quella più elementare, proprio perché troppo elementare, anche se nella stragrande maggioranza dei casi è quella giusta. Si tratta di un chiaro riferimento al rasoio di Occam: “Se senti gli zoccoli pensi al cavallo, non alla zebra”. A meno che non tu viva in Africa.
In altre parole: a parità di elementi, la soluzione di un problema è quella più ragionevole. Inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non servono ad arrivare alla soluzione o a rendere edificante qualcosa.
Gender Bias
Adolescenti e bambini, a differenza degli adulti, non hanno idee preformate sul genere che dovrebbe avere un chirurgo. Non danno per scontato che un chirurgo debba essere solo maschio, ecco perché faticano molto meno ad arrivare alla naturale conclusione.
Nello specifico, quello in cui si cade è il gender bias, l’errore che ci fa incasellare e classificare, senza che neanche ce ne accorgiamo, professioni e lavori in base al sesso.
Il dato ancor più interessante è che in quell’86% che ha dato la risposta sbagliata, o non l’ha data affatto, la metà sono donne, molte delle quali medici di professione. Il gender bias, insomma, non risparmia nessuno!
A questo punto si potrebbe obiettare che il dilemma del chirurgo è datato e che nel frattempo le cose potrebbero essere cambiate. Purtroppo, 9 persone su 10, secondo una ricerca del 2020, ad opera dello United Nations Development Program che elabora i dati raccolti in 75 Paesi nel mondo, rappresentativi dell’81% della popolazione globale, ha pregiudizi nei confronti delle donne.
La ricerca è basata su un indice che misura come l’uguaglianza di genere in politica, nel lavoro e nell’istruzione sia ostacolata da credenze sociali profondamente radicate. Gli uomini sembrerebbero avere pregiudizi più forti rispetto alle donne, ma la differenza è minore di quanto si possa pensare: l’86% delle donne e il 91% degli uomini ha almeno un pregiudizio nei confronti dell’universo femminile.
8 persone su 10 ritengono che gli uomini siano leader politici migliori, 4 su 10 pensano che siano più adatti a ricoprire ruoli di leadership nelle aziende e che i posti di lavoro debbano essere assegnati prioritariamente agli uomini in condizioni in cui il lavoro scarseggia. Questi dati risultano ancora più “scioccanti” se si pensa che circa 3 persone su 10 (il 28% degli intervistati) ritengono accettabile che un uomo possa essere violento con la propria moglie.
Tutta questione di statura
Se la situazione non è edificante per le donne, nemmeno gli uomini escono indenni dai pregiudizi di genere. L’altezza può, a seconda del colore della pelle, essere un acceleratore di carriera o un indicatore di pericolosità.
I leader di sesso maschile con un’altezza superiore al metro e 80 hanno maggiori opportunità di fare carriera, avere promozioni e vantano stipendi più alti del 15% dei loro colleghi di altezza inferiore.
L’altezza è considerata un tratto distintivo molto importante, benché rappresenti lui stesso, un bias. Quando ci si sente importanti, tendiamo a percepirci più alti di quanto realmente siamo e la stessa cosa la proiettiamo sulle persone che ci stanno intorno: più sono influenti e più le vediamo alte.
Questa trappola insidiosa è la stessa che porta molte persone ad attuare éscamotage di ogni tipo per sembrare più alte, come inserire solette nelle scarpe, gonfiare il volume dei capelli, senza contare il nuovo approccio della chirurgia estetica: c’è chi si fa spezzare le ossa per far inserire barre e guadagnare così qualche centimetro in altezza.
La statura può rappresentare un fattore potenziante nella carriera di un uomo. Ma solo se è bianco. Ed ecco che torniamo al gender bias.
Per gli uomini di colore, essere troppo alti favorisce invece l’idea di pericolosità. Le ricerche hanno mostrato che, negli Stati Uniti, gli uomini di colore alti sopra i 190 cm, sono fermati e perquisiti dalle forze dell’ordine 6,2 volte in più dei bianchi di medesima altezza. Oltre a essere considerati meno intelligenti.
Difficile, a questo punto, guardare ancora alla forza dei bias con occhi distratti.
Laura Mondino
Fonti:
Barlow, R. (2014) BU Research: A Riddle Reveals Depth of Gender Bias.
http://www.bu.edu/today/2014/bu-research-riddle-reveals-the-depth-of-gender-bias/
http://hdr.undp.org/sites/default/files/hd_perspectives_gsni.pdf
Rosenberg I.B., Height Discrimination in Employment (Feb 16, 2009). Utah Law Review, No. 3, p. 907, 2009: https://ssrn.com/abstract=1344817 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1344817
Lenzmeier T., Study: being talli s a positive trait for white men; for black men, not so much, UNC Media Hub, April 10, 2018
Hester N., Gray K., For black men, being tall increases threat stereotyping and police stops, Proceedings of the National Academy of Science of the USA, vol. 115, No. 11, p. 2711-2715, March 13, 2018
BRAINSTORMING: la SCELTA PERFETTA per ANNIENTARE la CREATIVITA’
Ha un nome elegante. E’ facile da applicare. E’ gratis. Per questo (forse) in tanti ne fanno uso.
Il brainstorming, tecnica creativa di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema iniziò a diffondersi nel 1957, grazie al libro Applied Imagination del dirigente pubblicitario Alex Faickney Osborn.
Eppure non è il modo migliore per produrre idee.
Osbord insoddisfatto per l’insufficiente creatività dei collaboratori, o meglio per la paura che questi accusavano quando si trattava di esporre le idee, in quanto terrorizzati dal possibile giudizio dei colleghi, ideò il metodo di brainstorming per fare in modo che i membri di un team producessero idee in un ambiente accogliente, senza censure e giudizi.
Osborn era fortemente convinto che i gruppi producessero idee migliori e in maggiori quantità rispetto alle persone che lavorano da sole e non smise mai di tesserne le lodi.
Eppure il brainstorming di gruppo non funziona, nonostante se ne faccia, spesso, un uso indiscriminato.
A sostegno le ricerche di un professore di psicologia Marvin Dunnette, che nel 1963 condusse i primi studi. Dunette coinvolse nella sua ricerca 96 dipendenti maschi, 48 pubblicitari e 48 ricercatori della 3M, chiedendo loro di partecipare a sessioni di brainstorming di gruppo e individuali. La sua ipotesi iniziale era che i pubblicitari, più loquaci, avrebbero beneficiato del brainstorming di gruppo, mentre i ricercatori, più introversi, avrebbero funzionato meglio in attività solitarie.
In realtà nella quasi totalità dei casi, le persone coinvolte produssero più idee quando lavoravano da sole, e non solo: idee di uguale e maggiore qualità rispetto a quando erano in gruppo, senza differenze fra ricercatori e pubblicitari o comunque persone intro o estroverse. I pubblicitari inoltre non si dimostrarono più adatti al lavoro di gruppo rispetto ai ricercatori.
Quelle di Dunnette furono solo le prime di una lunga serie di ricerche, giunte tutte alla stessa conclusione: il brainstorming di gruppo non funziona. Anzi, studi recenti mostrano addirittura che la performance peggiora con l’aumento delle dimensioni del gruppo.
In parole semplici e citando Adrian Furnham: “le persone motivate e di talento è meglio incoraggiarle a lavorare da sole, se le tue priorità sono efficienza o creatività”.
Fa eccezione il brainstorming online. Se ben gestiti i gruppi che fanno brainstorming online non solo ottengono risultati più performanti rispetto ai singoli, ma migliorano al crescere della dimensione del gruppo. Lo stesso vale per la ricerca accademica con docenti che collaborano in rete. Non a caso dalle collaborazioni digitali sono nate Linux e Wikipedia. Collaborazioni così performanti che hanno fatto sopravvalutare tutti i lavori di gruppo a scapito della riflessione individuale. “Non ci accorgiamo che – scrive Susan Cain in Quiet – partecipare a un gruppo di lavoro online è a sua volta una forma di solitudine e diamo invece per scontato che il successo delle collaborazioni virtuali si trasferirà identico anche a quelle faccia a faccia”.
Quando è utile il brainstorming? Per rafforzare i gruppi e far crescere la coesione fra i membri ma non quale stimolo alla creatività.
SANPA: DOVE ci si può SPINGERE per SALVARE una VITA?
Ho appena terminato di guardare su NetFlix, la docuserie SanPa.
Nonostante abbia l’innegabile merito di essere un prodotto italiano unico nel suo genere, e che nulla ha da invidiare a Going Clear – Scientology e la prigione della fede (HBO) o Wild Wild Country (Netflix), riesce a districarsi elegantemente dalla questione etica/morale lasciando al pubblico la scelta più difficile e controversa: scendere a patti con la propria coscienza e decidere in libertà se assolvere o condannare Vincenzo Muccioli. L’enigmatico fondatore della comunità terapeutica per tossicodipendenti più grande d’Europa.
Non mi sono mai dovuta confrontare con il tema della droga, non ho neppure mai fumato una sigaretta, ancor meno uno spinello e non mi sono mai nemmeno ubriacata, riconosco quindi una lacuna esperienziale personale che mi toglie, probabilmente, qualsiasi velleità di giudizio per quanto riguarda le dipendenze.
Eppure, pur immersa nella mia ignoranza esperienziale, mi è difficile pensare che il fine giustifichi i mezzi. Sempre. Almeno a San Patrignano.
Dove, in quel salvatore, spesso elevato a dio, mi è difficile non intravedere una smania scellerata e incontrollata di onnipotenza, dove il rispetto delle regole, sue incontestabili regole, è la conditio sine qua non, per stare in una casa dove è semplice entrare, ma da cui è impossibile uscire.
Una dinamica settaria, dunque, come dimostrano le critiche che SanPa ha riversato contro la serie, commentate dall’ex portavoce Fabio Anibaldi su La Stampa
Nelle 5 ore di filmati e interviste, emerge incontrastato il rapporto di dipendenza fra i giovani tossicodipendenti e il padre-padrone Muccioli. Banalmente potremmo azzardare che una dipendenza sostituisce un’altra dipendenza. Ma guarire è un’altra cosa.
E’ innegabile l’opera del fondatore verso i migliaia di ragazzi strappati alla droga, non lo metto in dubbio. Ma le punizioni, le privazioni ai danni dei ragazzi tossicodipendenti, quando incatenati e nudi, al gelo, nel canile, nella piccionaia o in vere e proprie celle di fortuna e a volte picchiati, in una occasione fino alla morte come dimostra l’omicidio del povero Roberto Maranzano, sono difficili da ignorare.
Immediata è la comparazione a ciò che succede in qualsiasi setta: all’adepto che vuol andare via viene resa impossibile la vita, con la forza, e poi punito per evitare che fugga ancora, o si lamenti o possa anche solo manifestare dissenso. Insieme all’esigenza di costruire un nemico esterno per compattare il gruppo all’interno ed evitare defezioni.
SanPa è dunque da assolvere o condannare?
Macchiavelli parteggerebbe per Muccioli, i fautori dello stato di diritto e della rule of law, assolutamente no. Ma anche volendo stare in nessuno dei due schieramenti, la domanda rimane senza risposta: dove ci si può spingere per salvare una vita umana?
27 Gennaio 2021 – Digital Neuromarketing MasterMind intervista Laura Mondino a proposito di Nudge, bias e processi decisionali
Il 27 Gennaio 2021 – ore 19,30 – Digital Neuromarketing MasterMind intervista Laura Mondino a proposito di Nudge, bias e processi decisionali.
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Two (worthwhile) ways of thinking
There are many ways to test our decision-making ability. What I propose is a simple riddle, but one that must be answered instinctively.
“In a lawn, there is a sod of grass; every day the sod doubles in size; it takes 48 days to cover the entire lawn. How many days does it take to cover half a lawn?”.
The majority of people have the certainty of making decisions in a rational way, i.e. weighing the alternatives optimally, evaluating the pros and cons of each option in order to arrive at the most functional choice with respect to the set objective in a sustainable time.
If the option chosen was 47, this is probably the case.
If it was 24 or 96, it’s proof that instinct, at least at this juncture, was smarter than reason. What is too often underestimated is the fact that intuition leads astray. Systematically, recurrently, and predictably. As biases and heuristics teach.
Why is it so easy to make mistakes?
Proving this point, there are two personalities who are both strong and antithetical at the same time. Both grandchildren of Eastern European rabbis, sharing a deep interest in the way “people function in their normal states, practicing psychology as an exact science, and both searching for simple, powerful truths […], gifted with minds of shocking productivity”. Both Jewish atheists in Israel.”
Their names were Amos Tversky and the Nobel Prize-winning economist Daniel Kahneman.
Amos Tversky was optimistic and brilliant because “When you’re a pessimist and the bad thing happens, you experience it twice: once when you worry and the second time when it happens.” He was able to resonate about scientific conversations with experts in fields far removed from his own, but almost ethereal, intolerant of social conventions and metaphors: “They replace genuine uncertainty about the world with semantic ambiguity. A metaphor is a cover-up.”
Instead, Kahneman was born in Tel Aviv, and spent his childhood in Paris. In 1940, the German occupation put the family at risk. Hidden in the south of France, they managed to survive (with the exception of his father, who died of untreated diabetes). After the war, the rest of the family emigrated to Palestine.
If Tversky was a night owl, Kahneman is an early riser who often wakes up alarmed about something. He is prone to pessimism, claiming that by “expecting the worst, one is never disappointed.” This pessimism extends to the expectations he has for his research, which he likes to question, “I have a sense of discovery whenever I find a flaw in my thinking.”
Tversky liked to say, “People aren’t that complicated. Relationships between people are complicated.” But then he would stop and add, “Except for Danny.”
They were different, but anyone seeing them together, as they spent endless hours talking, knew that something special was happening, and they are credited with understanding why we make mistakes in making decisions.
Kahneman’s is an immense work, dedicated to his late colleague: in the end, it’s all about being slow or fast.
It’s all about being slow or fast
When it comes to thinking or making a decision, two systems are mobilized by the brain: system 1 (S1) and system 2 (S2), where S1 is intuitive, impulsive, loves to jump to conclusions, automatic, unconscious, fast and economical. S2, on the other hand, is conscious, deliberative, slow, often lazy, laborious to initiate, and reflective.
S1 and S2 don’t really exist, they are a handy analogy (or a label), which helps us understand what’s going on in our heads. For instance, it is thanks to S1 that we can quickly tie our shoes without really paying mental attention to the action itself or notice that an object is further away or closer than another, or even instantly intercept the fear on a person’s face and answer in a few moments the question: “What is the capital of France?”.
It is thanks to S2 if we can focus on the voice of a specific person in a noisy room full of people. If we can find our car in a crowded parking lot, dictate our phone number, fill out questionnaires, do math calculations and learn poems by heart. It would not be possible to perform complex tasks like these simultaneously. We can perform several actions together, but only if they are simple and require little mental effort.
Bias, heuristics and intuitions
The two systems are both active during our waking period, but while the first one works automatically, the second one is placed in a mode where it can make the least amount of effort and only a small percentage of its capacity is used. Its order is to consume as few calories as possible.
Normally S2 follows S1’s advice, without making any changes. However, if System 1 is in trouble, he disturbs System 2 to help him analyze the information and suggest a solution to the problem. In the same way, when S2 realizes that his partner is making a mistake, he activates: for example, when you would like to insult the boss, but then something stops you. That something is System 2.
However, S2 is not always involved in the judgments of System 1 and this leads to error. How? Just like it happened with the riddle proposed in the opening of the article.
If it is indisputable that System 1 is at the origin of most of our errors (i.e. bias and heuristics), it is also true that it produces many “expert intuitions”, the automatic reflexes that are essential in our lives to make important decisions in a few fractions of a second. It’s thanks to System 1 if a surgeon in the operating room or a firefighter facing a fire can make life and death choices to deal with emergencies and very often make the right decision in those few moments.
The trouble is that S1 doesn’t know his own limits. He has a tendency to make unforgivable mistakes in assessing the statistical probability of an event. Generally using System 1 we underestimate the risk that rare events occur.
We generally underestimate the risk that rare catastrophic events will occur, while overestimating the probability that they will recur soon after these disasters have occurred. To cut the long story short, if on one side it helps us to take an infinite number of decisions, its rapidity generates errors, just because it doesn’t analyze the data at disposal in how much time that operation requires, and he prefers to jump to conclusions to show us quickly and effortlessly the way to act.
System 1 is therefore easily influenced. This is why, in order to prevent errors, but above all to protect people so that they do not end up shredded because of the volatility of their System 1 or the slowness of System 2, nudges are born; the need for a gentle push that Kahneman cites as the bible of behavioral economics “that directs people to make the right choice”.
Ci sono molti modi per mettere alla prova la nostra capacità decisionale, quello che propongo è un semplice indovinello, a cui occorre però rispondere d’istinto.
«In un prato c’è una zolla d’erba; ogni giorno la zolla raddoppia di dimensione; ci vogliono 48 giorni per coprire l’intero prato. Quanti giorni ci vogliono per coprire metà prato?».
La maggioranza delle persone ha la certezza di prendere decisioni in modo razionale, ponderando cioè in modo ottimale le alternative, valutando pro e contro di ogni opzione per giungere in tempi sostenibili alla scelta più funzionale rispetto l’obiettivo prefissato.
Se l’opzione scelta è stata 47 probabilmente è così.
Se è stata 24 o 96 è la prova che l’istinto, almeno in questo frangente, è stato più scaltro della ragione.
Ciò che troppo spesso si sottovaluta è il fatto che l’intuizione porta fuori strada. In modo sistematico, ricorrente e prevedibile. Come bias ed euristiche insegnano.
Perché è così facile sbagliare?
A dimostrarlo, due personalità forti e antitetiche allo stesso tempo. Entrambi nipoti di rabbini dell’Europa dell’Est, con in comune l’interesse profondo per il modo in cui «le persone funzionano nei loro stati normali, praticano la psicologia come una scienza esatta, ed entrambi alla ricerca di verità semplici e forti […], dotati di menti di sconvolgente produttività. Entrambi ebrei atei in Israele».
Si chiamavano Amos Tversky e il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman.
Amos Tversky era ottimista e geniale perché: «Quando sei un pessimista e la cosa brutta accade, la vivi due volte: una volta quando ti preoccupi e la seconda volta quando succede». Capace di illuminare conversazioniscientifiche con esperti di settori lontani dal proprio, ma quasi etereo, insofferente alle convenzioni sociali e alle metafore: «Sostituiscono l’autentica incertezza sul mondo con ambiguità semantica. Una metafora è un insabbiamento».
Kahneman nasce invece a Tel Aviv, trascorre l’infanzia a Parigi. Nel 1940, l’occupazione tedesca mette a rischio la famiglia. Nascosti nel sud della Francia, riescono a sopravvivere (ad eccezione del padre, morto a causa del diabete non trattato). Dopo la guerra, il resto della famiglia emigra in Palestina.
Se Tversky era un nottambulo, Kahneman è un mattiniero che si sveglia spesso allarmato per qualcosa. È incline al pessimismo, sostenendo che «aspettandosi il peggio, non è mai deluso». Questo pessimismo si estende alle aspettative che ha per la sua ricerca, che gli piace mettere in discussione: «Ho il senso della scoperta ogni volta che trovo un difetto nel mio modo di pensare».
A Tversky piaceva dire: «Le persone non sono così complicate. Le relazioni tra le persone sono complicate». Ma poi si fermava e aggiungeva «Tranne Danny».
Erano diversi, ma chi li vedeva insieme mentre trascorrevano infinite ore a parlare, sapeva che accadeva qualcosa di speciale ed è a loro che si deve il merito di aver capito il perché sbagliamo nel prendere decisioni.
Quello di Kahneman è un lavoro immenso, dedicato al collega scomparso: alla fine è tutta una questione di lentezza o di velocità.
È tutta una questione di lentezza o velocità
Quando si tratta di pensare o di prendere una decisione si mobilitano nel cervello due sistemi: il sistema 1 (S1) e il sistema 2 (S2), dove S1 è intuitivo, impulsivo, adora saltare alle conclusioni, automatico, inconscio, veloce ed economico. S2 è invece consapevole, deliberativo, lento, spesso pigro, faticoso da avviare e riflessivo.
S1 e S2 non esistono nella realtà, sono una pratica analogia (un’etichetta), che ci aiuta a capire ciò che accade nella nostra testa. Per esempio, è grazie a S1 se riusciamo a completare velocemente e senza pensarci la frase «rosso di sera…», ad allacciarci le scarpe senza veramente porre attenzione mentale all’azione stessa, notare che un oggetto è più lontano o vicino di un altro o ancora intercettare istantaneamente la paura sul volto di una persona e rispondere in pochi istanti alla domanda: «Qual è capitale della Francia?».
È merito di S2 se riusciamo a concentrarci sulla voce di una persona specifica in una stanza rumorosa e piena di gente. Se riusciamo a trovare la nostra macchina in un parcheggio affollato, a dettare il nostro numero di telefono, a compilare dei questionari, a fare dei calcoli matematici e a imparare poesie a memoria. Non sarebbe possibile svolgere compiti complessi come questi simultaneamente. Possiamo compiere più azioni insieme, ma solo se sono semplici e se richiedono scarso sforzo mentale.
Bias, euristiche e intuizioni
I due sistemi sono entrambi attivi durante il nostro periodo di veglia, ma se il primo funziona in modo automatico, il secondo si posiziona in una modalità in cui può fare il minimo sforzo e solo una piccola percentuale delle sue capacità viene utilizzata. Il suo Diktat è consumare meno calorie possibili.
Normalmente S2 segue i consigli di S1, senza apportare modifiche. Se però il Sistema 1 è in difficoltà, disturba il Sistema 2 affinché lo aiuti ad analizzare le informazioni e suggerisca una soluzione al problema. Allo stesso modo S2, quando si accorge che il suo compagno sta prendendo una cantonata, si attiva: per esempio quando vorresti insultare il capo, ma poi qualcosa ti blocca. Quel qualcosa è il Sistema 2.
Non sempre però S2 viene coinvolto nei giudizi del Sistema 1 e questo porta all’errore. Come? Proprio come è accaduto con l’indovinello proposto in apertura dell’articolo.
Se è indiscutibile che il Sistema 1 è all’origine della maggior parte dei nostri errori (ossia bias ed euristiche) è anche vero che produce tante “intuizioni esperte”, i riflessi automatici che sono essenziali nella nostra vita, per prendere decisioni importanti in poche frazioni di secondo.
Un chirurgo in sala operatoria o un vigile del fuoco di fronte a un incendio, grazie al Sistema 1 fanno scelte di vita e di morte per affrontare delle emergenze e molto spesso prendono la decisione giusta in quei pochi attimi. Il guaio è che S1 non conosce i propri limiti. Ha la tendenza a fare degli errori imperdonabili nella valutazione delle probabilità statistiche di un evento.
Generalmente usando il Sistema 1 sottovalutiamo il rischio che avvengano eventi rari di tipo catastrofico; salvo invece sovrastimare la probabilità che si ripresentino subito dopo che questi disastri sono accaduti.
Insomma, se da un lato ci aiuta a prendere un numero infinito di decisioni, la sua rapidità genera errori, proprio perché non analizza i dati a disposizione, in quanto questa operazione richiede tempo e lui preferisce saltare a conclusioni per indicarci celermente e senza sforzo la strada da prendere.
Il Sistema 1 è dunque facilmente influenzabile. Ecco che, per prevenire gli errori, ma soprattutto per proteggere le persone affinché non finiscano triturate a causa della volatilità del loro Sistema 1 o della lentezza del Sistema 2 nascono i nudge; la necessità di una spinta gentile che Kahneman cita come la bibbia dell’economia comportamentale «che indirizzi a fare la scelta giusta».
Sources
Lewis M., A Nobel friendship. Kahneman and Tversky, the meeting that changed the way we think, Raffaello Cortina Editore, Milan, 2017 pp. 165-166
Stanovich K., West R., Individual differences in reasoning: Implications for the rationality debate?, Behavioral and brain sciences (2000) 23, 645-726 http://pages.ucsd.edu/~mckenzie/StanovichBBS.pdf
Kahneman D., Slow and fast thinking, Mondadori, Milan 2016, p. 23.
CREDITI SOCIALI CINESI: non tutte le spinte sono gentili
Ci sono persone che sanno intavolare un confronto costruttivo, farti riflettere e contemporaneamente spingerti a delle soluzioni. E’ ciò che è successo con #marcolarosa che con una sola domanda mi ha regalato una dose sufficiente di dopamina da arrivare all’anno nuovo.
Il sistema dei crediti sociali cinesi è un esempio di applicazione dei Nudge?
Il mio articolo sul blog: neurowebcopywriting
https://www.neurowebcopywriting.com/crediti-sociali-cinesi-e-nudge-laura-mondino/
CARO PRESIDENTE CONTE, TI SCRIVO…
Non si crea compliance, adesione alle norme sociali, usando la leva della paura e/o del divieto così come viene. Lo sanno anche i muri. Gli unici ancora a non saperlo, mi viene da pensare (ma vorrei essere contraddetta) sono i nostri decisori…
E’ a questo che penso da mesi, stupita che nelle varie task force non ci siano esperti e profondi conoscitori anche delle Scienze comportamentali e/o dell’economia comportamentale o di Neuroscienze applicate alla Comunicazione. Non so se i nostri governanti ignorino l’importanza di queste discipline o preferiscano starci volutamente lontani per le ragioni che si possono ben immaginare.
Su questo rifletto mentre ascolto il video discorso di Emmanuel Macron, il presidente francese, risultato positivo al coronavirus giovedì
In una parola: rassicurante. Avvolgente. Empatico. Un messaggio non autoreferenziale, puntuale e descrittivo e al tempo stesso ingaggiante. Per chi mastica di bias… un buon uso del principio di riprova sociale. A tutti piace sentirsi parte di un gruppo, essere accettati e condividere preoccupazioni e speranze.
Difficile non fare un paragone, con il nostro Presidente del Consiglio e non della Repubblica (come freudianamente si lasciò sfuggire nel discorso dell’8 settembre) Conte che, quando si tratta di fare annunci, sembra ignorare le normali regole non solo delle Neuroscienze, ma della comunicazione base.
Stile dittatoriale, in un Paese democratico… la contraddizione è già evidente così… forse quel lapsus è molto più predittivo, di quanto vorremmo credere!
Entrando nel merito, difficile dimenticare le sue frasi cult:
In realtà, nei momenti di incertezza (che non piacciono a nessuno) servono regole chiare, indicazioni precise, coerenza e autorevolezza. Mi sembra che questi ingredienti siano mancati tutti o quasi. Chi si farebbe operare da un chirurgo che in sala operatoria prima di mettere mano ai ferri ci dicesse
Chi decide e guida, deve esprimere autorevolezza e direzione, non ulteriore incertezza.. o paure e preoccupazioni… Sperare e auspicare sono verbi che non fanno troppo bene alla nostra amigdala.
Ancor più i continui e non programmati divieti che ci vengono offerti come si fa con le caramella ai bambini ad Halloween. Non sapendo che altro fare, vieto… Non funziona neanche questo approccio: quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.
Quando ci si sente eccessivamente costretti in una direzione che non si condivide, l’unico risultato che si ottiene è il comportamento opposto.
Il magazine NEUROWEBCOPYWRITING – Intervista Laura Mondino su “Come APPLICARE i NUDGES alle MICROCOPY
Cosa succede se le microcopy, i testi stringati ma strategici, che ci convincono a compiere un’azione e che precedono o sostituiscono i comandi e le call to action, incontrano i nudges, o spinte gentili, il nuovo approccio (premiato con il Nobel) elaborato dalla neuroeconomia per ridurre l’impatto di bias ed euristiche e facilitare il decision making?
La risposta nell’intervista-chiacchierata che mi ha fatto Marco La Rosa, web content writer & copywriter, pubblicata sul suo magazine Neurowebcopywriting
Ecco un estratto:
In due parole, cos’è un nudge e come si può applicare alle microcopy?
I nudge sono strategie che aiutano le persone a fare scelte funzionali al loro benessere, alla salute, al portafoglio e alla loro felicità. Senza scendere in eccessivi tecnicismi possiamo pensare ai Nudge come alle strategie che Sun Tzu ha raccolto nell’Arte della guerra. I cui principi insegnano a vincere il nemico senza combattere, usandone a proprio vantaggio la forza. I nudge utilizzano la umana irrazionalità (bias ed euristiche), per costruire opzioni di scelta vantaggiose per il comportamento che vogliamo incentivare.
Un esempio di nudge applicato alle microcopy è quello del sistema opt-in nella donazione degli organi. In alcuni Paesi, fra cui l’Italia, esiste un sistema opt-in, per cui un cittadino deve esprimere attivamente il consenso alla donazione. Senza il consenso esplicito, non è possibile prelevare i suoi organi dopo la morte. In altri Paesi vige invece un sistema di opt-out, per cui tutti i cittadini, sin dalla loro nascita, sono “di default” donatori di organi. Solo se esprimono esplicitamente il loro dissenso diventano non donatori.
Nei Paesi opt- out, il tasso di donazione degli organi è superiore al 90%, in quelli opt-in è del 15%. La libertà di scelta è la medesima, non sono stati imposti divieti né obblighi: il cittadino è libero di scegliere, ma nel caso del sistema opt-out è stato “spinto” verso una scelta che è un beneficio per l’intera comunità.
Ora, se l’opzione di default funziona quando si tratta di donare gli organi, a maggior ragione può funzionare su decisioni di gran lunga meno importanti, come quelle che facciamo ogni giorno quando acquistiamo qualcosa online.
Un esempio su tutti? Il rinnovo automatico di un abbonamento a un servizio. Nella maggior parte dei casi, questa opzione è quella di default, per cui l’utente deve attivarsi (anche semplicemente deselezionando una casella) per disattivare questa funzione. Usando il rinnovo automatico come opzione di default, le aziende traggono molti benefici dall’inerzia e dalla pigrizia dei loro utenti.
L’intervista completa: https://www.neurowebcopywriting.com/nudges-microcopy-intervista-laura-mondino/
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