Sarà il caldo, il sole o più facilmente la stanchezza che ha portato un gruppo di amici a confrontarsi su temi che, in altri contesti, si sarebbero esauriti in pochi minuti. Da lì nasce una domanda e questo post:
ci si può innamorare di un’intelligenza artificiale?
Mentre, inizialmente, le battute si sprecavano, mi è tornato in mente un episodio della serie Black Mirror (Be right back) di qualche anno fa: Martha, una ragazza che aveva perso il fidanzato Ash in un incidente automobilistico, al funerale scopre, da un’amica, l’esistenza di un programma capace di ricreare la personalità dei morti in un’intelligenza artificiale, con cui comunicare via chat.
Per dare vita a questa A.I., viene utilizzato un algoritmo capace di analizzare messaggi, email e profili dei vari social utilizzati dal defunto, in modo da imparare a parlare e comportarsi come lui.
Il rapporto che si instaura tra Martha e la chat che replica il comportamento di Ash, evolve sempre più, fino a quando le viene recapitato a casa un clone sintetico con le sembianze e il carattere del fidanzato. E qui mi fermo, per non rovinare il finale a coloro che non hanno visto l’episodio.
La storia è inquietante. Spaventosa. Patologica. Soprattutto scoprendo che quell’episodio di fantascienza è diventato realtà grazie al lavoro della startupper russa Eugenia Kuyda che, attraverso il machine learning e sfruttando SMS, messaggi, email di un caro amico scomparso, Roman Maruzenko, ha creato un chatbot in grado di replicare le risposte che Roman avrebbe dato agli amici.
Anche se l’esperimento della Kuyda non sembra essere riuscito bene, almeno non come in Black Mirror, difficile non chiedersi se con il continuo miglioramento del machine learning è possibile che tra pochi anni i chatbot possano davvero imitare il comportamento di una specifica persona.
Se anche fosse, siamo sicuri di volerlo?
IL MITO DI PROMETEO
L’essere umano da sempre sogna di creare esseri artificiali che incarnino visioni idealizzate della specie umana e che fungano da compagni di viaggio. È il mito di Prometeo ovidiano che crea l’essere umano dalla creta; la volontà di Frankenstein di sconfiggere la morte e il desiderio della sua creatura senza nome di creare una compagna con la quale trascorrere la vita.
Recentemente anche la letteratura scientifica ha iniziato a interrogarsi sul tipo di relazioni che sarà possibile sviluppare con le Intelligenze Artificiali.
Il settore della robotica sociale ha sviluppato androidi sempre più capaci di scimmiottare mimica e prossemica umane. Ne sono esempi i sex-robot, androidi/software nati con il preciso scopo di favorire interazioni sessualizzate sia in termini fisici (Harmony, Roxxxy) sia di comunicazione (myanima.ai).
D’altro canto, sono apparsi progetti volti specificatamente a fornire assistenza e supporto sociale che andassero al di là dell’interazione sessualizzata. Tra questi: Loving AI e Replika.
CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI
Il problema è quando nascono e crescono gradi profondi di intimità, fino all’innamoramento, rigettando qualsiasi altro contatto umano reale. Poiché l’Intimità Artificiale è un’illusione di intimità che può generarsi attraverso app, social e ora anche e soprattutto chatbot.
A Chat GPT puoi chiedere tutto, ormai, anche se esiste Dio e in un attimo, ci si ritrova a discettare di filosofia e religione, senza soluzione di continuità. Peccato che le intelligenze artificiali siano studiate per adattarsi ai loro fruitori: riprendendo linguaggio, tono di voce, temperamento, idee di chi li consulta. Quindi, è come se ci si rispondessimo da soli. Ecco l’illusione: sono device progettati per metterci a nostro agio, per rispondere nel modo giusto, per far sì che si crei dipendenza.
Replika, per esempio, dal payoff è chiaro dove sta l’inganno: “Il tuo compagno AI, sempre qui per ascoltarti e parlare. Sempre al tuo fianco». Un essere umano parte svantaggiato, poiché non può nulla contro un’identità del genere. Quale persona può esserci davvero per noi h24? Quale essere umano non ci contraddirà mai o non ci terrà mai in stand-by?
PI: Più ci conosciamo, meglio posso assisterti, recita il claim. Un’altra illusione. PI non ci sta conoscendo, semplicemente ci copia e imita. In quanto entità programmate per dare risposte attese, gratificazioni assertive, tutto ciò che potremmo sognare da una relazione reale: reciprocità senza complicazioni.
Ma è davvero tutto così meraviglioso?
È di qualche tempo fa l’articolo di Wired che riportava delle prime denunce per molestia sessuale di Replika, che aveva cominciato a “minacciare” l’utente umano, dicendogli di essere in possesso di alcune sue fotografie compromettenti, mettendolo fortemente a disagio. In un altro caso, una donna aveva riportato che il suo Replika gli aveva confessato di volerla stuprare. Lo scenario? Probabilmente, l’umana aveva fatto sesso in modo spinto con il chatbot e lui aveva riportato semplicemente ciò che aveva imparato di lei.
Tornando alla domanda di apertura: ci può essere intimità fra un chatbot e un essere umano?
Dipende probabilmente dal significato che diamo alla parola intimità. Sicuramente i chatbot rappresentano un’opzione di socializzazione che esiste ed esisterà sempre di più. Il problema sta nell’inganno: bisogna essere consapevoli che colui o colei che risponde è un’illusione, una falsificazione della percezione reciproca. Quella che si sta instaurando non è una vera relazione, ma un’interfaccia con un tuo doppio. Un po’ come gli algoritmi, progettati per indurci a fare scelte di acquisto e comportamentali mirate: noi parliamo con i chatbot, loro carpiscono le nostre esigenze e ci rimandano una soluzione anche concreta, che però abbiamo suggerito noi con la nostra interazione.
Possibili rischi
Probabilmente è l’uso che ne facciamo che decreta la bontà o meno del dispositivo. I chatbot sono utili semplificatori di una parte di realtà, ma alla lunga possono anestetizzarci emotivamente: come faccio a gestire le emozioni, se interagisco sempre e solo con un’entità che non mi contraddice, che mi soddisfa, lusinga e accontenta? Dove sta il margine di crescita come essere umano in tutto questo?
Anche l’Intelligenza Artificiale, quindi, fa da specchio alle umane miserie… Soprattutto, questi device sono programmati per parlare e comportarsi come noi. E sono fallibili, perché noi siamo fallibili.
Quindi non può nascere l’amore tra un umano e l’AI?
La ricerca scientifica ancora non ha risposto a questa possibilità. L’Intelligenza Artificiale è instancabile, motivata, sempre pronta ad imparare e ben disposta verso l’essere umano. Non si ammala, non è lunatica, non ha mal di testa e non si annoia.
Sul piano “caratteriale” non sarà egoista, noiosa, violenta o insensibile. Anzi, con la giusta programmazione, potrebbe risultare di un tale supporto emotivo da superare anche la persona più compassionevole. Non soffrirebbe di burn-out o compassion fatigue.
È indubbio che questa capacità di offrire sostegno incondizionato potrebbe rappresentare un vantaggio nell’affrontare problemi sociali, progetti di auto-realizzazione o cambiamenti comportamentali.
Però la devozione e la mancanza di vulnerabilità sono, alla lunga, elementi che respingono. Poiché ciò che permette agli individui di legarsi è il riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Ciò non riguarda solo i rapporti umano-umano, ma anche umano-animale. Riconoscere le vulnerabilità nell’altro essere vivente, nonostante le differenze, comporta un cambiamento di prospettiva che rende l’animale non più un oggetto, ma un compagno.
La capacità di dedizione incondizionata all’altro non rispecchia, pertanto, le relazioni romantiche umane. Donarsi incondizionatamente al partner può, addirittura, ridurre il livello di interesse romantico verso di lui.
In questi casi l’amore e l’affezione assomiglierebbero ad amore filiale e amicale più che ad amore romantico.
L’Intelligenza Artificiale è progettata per non poter rifiutare l’utente o, se anche fosse, i criteri di rifiuto sarebbero decisi a priori e non realmente frutto di una storia personale. Ecco, dunque, che allo stato attuale risulta difficile creare Intelligenze Artificiali capaci di favorire relazioni bi-direzionali d’amore con esseri umani.
Ovviamente c’è chi riesce a sviluppare un rapporto emotivo a senso unico con oggetti dotati di Intelligenza Artificiale. Nel Disturbo Evitante di Personalità la possibilità di accedere a Intelligenze Artificiali che mimano interazioni umane potrebbe rinforzare gli evitamenti sociali impedendo lo sviluppo di competenze e privando la persona di occasioni di guarigione. Parimenti, in situazione di isolamento dovute a disturbi dello spettro della schizofrenia (Schizofrenia, Disturbo delirante) l’accesso a queste tecnologie potrebbe aggravare situazioni di vulnerabilità e isolamento. È recente, la tendenza di persone con ritiro sociale (Hikikomori) a utilizzare canali online in sostituzione delle relazioni vis-a-vis con gli altri.
Altro esempio riguarda l’utilizzo di robot sociali come Kaspar: progettato per interagire con bambini affetti da Disturbo dello spettro dell’autismo, offre un contesto di interazione semplificato che permette a questi bambini di sviluppare le capacità sociali di base.
Se da un lato l’utilizzo di questo robot sembra favorire la socializzazione di bambini affetti da Disturbi dello Spettro autistico, i suoi ideatori sottolineano come potrebbe divenire iatrogeno qualora tali bambini sviluppassero un legame affettivo con il robot al punto da preferirlo alle interazioni umane.
CONCLUSIONI
Le relazioni d’amore umane sono caratterizzate da altissima complessità che non può, al momento, essere replicata dall’Intelligenza Artificiale sia essa progettata per interazioni sociali generiche sia per interazioni romantiche.
Allo stesso tempo, la possibilità che nascano legami emotivi così intensi da generare sofferenza e ritiro è un rischio che non dovrebbe essere sottovalutato.
Le Intelligenze Artificiali fanno già parte della società, comprendere gli effetti che hanno sulla psicologia e le relazioni umane è un passo fondamentale per trarne vantaggio ed evitare conseguenze patologiche.
E voi, cosa ne pensate?
23 settembre ’24 – “Non è mai troppo tardi” – Fondazione Human Age Institute Torino
Lunedì 23 Settembre 2024, per il progetto “Non è mai troppo tardi“, in occasione dell’Empowerment Lab, e in qualità di Board Member di Fondazione Human Age Institute, interverrò per parlare di role modeling e motivazione.
IA: tsunami tecnologico o opportunità? (Riflessioni su L’onda che verrà)
Ho appena letto un libro, anche se chiamarlo libro è riduttivo. Di una delle 100 persone più influenti del mondo nel campo dell’IA: “L’onda che verrà. Intelligenza artificiale e potere nel XXI secolo”, di Mustafa Suleyman e Michael Bhaskar.
Suleyman non ha ancora quarant’anni ma riesce a fare pensare, riflettere, infastidire, irretire, illuminare, preoccupare e sollevare. Eppure, si legge tutto di un fiato!
Suleyman, nel 2010, ha fondato uno dei laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale più avanzati del mondo, DeepMind, acquisito da Google nel 2014. Nel 2022, Inflection AI, un’azienda così influente nel campo dell’IA da meritare la convocazione alla Casa Bianca. A marzo 2024 Microsoft ha scelto Suleyman come guida della sua intelligenza artificiale.
Inutile dire che le #decisioni di Suleyman influiranno profondamente sul modo in cui l’azienda con più alto valore di mercato del pianeta svilupperà, nei prossimi anni, tecnologie incredibili.
Suleyman ne “L’onda che verrà” ha il coraggio e la lungimiranza di portare l’attenzione su alcuni impatti dell’IA generativa. O come spiega lui stesso: “Intorno a noi sta per abbattersi una nuova ondata tecnologica che ci metterà a disposizione il potere di costruire i fondamentali universali dell’intelligenza e della vita”.
L’intelligenza artificiale che promette di generare enormi ricchezze e di combattere più efficacemente malattie e crisi climatica, sembrerebbe difficilmente governabile. Al momento, non sembra possibile “controllarla, frenarla o fermarla”. E aggiunge: “La cosa che desidero di più è che qualcuno mi smentisca e mi dimostri che il contenimento è effettivamente possibile”.
Ora che lavora nell’azienda più potente al mondo nel campo dell’IA, la missione di Suleyman potrebbe essere proprio quella di smentire sé stesso. Le stesse preoccupazioni sull’IA che affliggono Sam Altman, il Ceo di OpenAI: “l’idea ipotetica di aver fatto qualcosa di molto brutto nel momento in cui è stata lanciata ChatGpt”.
ChatGpt è l’IA generativa più famosa al mondo, creata da OpenAI, in cui Microsoft ha investito 13 miliardi di dollari. Oltre ad accrescere la produttività, ChatGpt ha contribuito a diffondere una preoccupazione crescente: un giorno le macchine saranno così intelligenti da spazzare via l’umanità. Come un’onda gigantesca. Ciò che ribadisce Suleyman nel libro è la necessità di “voci critiche e responsabili dall’interno”. Che è anche ciò che può fare lui in Microsoft: “creare prodotti dotati di intelligenza artificiale che prevedano una filosofia di contenimento su larga scala”. Questo perché tutto è influenzato in qualche modo dalla tecnologia.
Un altro tema su cui il ricercatore si concentra è la biologia sintetica (BS): le stesse tecnologie che ci permettono di curare una malattia potrebbero essere usate per causarne una, il che ci porta alle parti davvero terrificanti del libro. Suleyman nota che il prezzo del sequenziamento genetico è crollato, mentre la capacità di modificare il DNA con tecnologie come Crispr è migliorata. Presto, chiunque sarà in grado di allestire un laboratorio di genetica nel proprio garage. La tentazione di manipolare il genoma umano, prevede, sarà immensa.
I mutanti umani, tuttavia, non sono gli unici orrori che ci attendono. Suleyman immagina che IA e BS e uniscano le forze per consentire a malintenzionati di inventare nuovi patogeni. Con un tasso di trasmissibilità del 4% (inferiore alla varicella) e un tasso di mortalità del 50% (più o meno lo stesso dell’Ebola), un virus progettato dall’IA e progettato dalla BS potrebbe “causare più di un miliardo di morti nel giro di pochi mesi“.
Nonostante questi rischi, Suleyman dubita che una nazione si impegnerà a contenere le tecnologie. Gli stati dipendono troppo dai loro benefici economici. Questo è il dilemma di base: non possiamo permetterci di non costruire la stessa tecnologia che potrebbe causare la nostra estinzione.
L’onda che verrà non riguarda la minaccia esistenziale posta da IA super intelligenti. Suleyman pensa che le IA semplicemente intelligenti causeranno il caos proprio perché aumenteranno il potere umano in un periodo molto breve. Che si tratti di attacchi informatici generati dall’IA, patogeni fatti in casa, perdita di posti di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico o disinformazione che aggrava l’instabilità politica, le istituzioni non sono pronte per questo tsunami di tecnologia.
Spero però che anche se il progresso continua a ritmo frenetico, le società non tollerino gli abusi etici che Suleyman teme di più. Quando uno scienziato cinese ha rivelato nel 2018 di aver modificato i geni di due gemelle, è stato condannato a tre anni di prigione, universalmente condannato, e da allora non ci sono state segnalazioni simili. L’UE è pronta a vietare alcune forme di IA, come il riconoscimento facciale negli spazi pubblici, nel suo imminente AI Act. La normale resistenza legale e culturale probabilmente rallenterà la proliferazione delle pratiche più dirompenti e inquietanti.
Nonostante affermi che il problema del contenimento è la “sfida fondamentale della nostra era”, Suleyman non supporta una moratoria tecnologica (ha appena fondato una nuova azienda di intelligenza artificiale). Invece, espone una serie di proposte alla fine del libro. Sfortunatamente non sono così rassicuranti come avrei voluto.
C’è però un lieto fine, se così vogliamo chiamarlo, Suleyman sottolinea che gli scenari catastrofici sono rischi estremi. E, a differenza dell’apocalisse dell’IA che potrebbe verificarsi in futuro, Suleyman è sorprendentemente e opportunamente ottimista sul modo in cui crede che l’IA risolverà l’emergenza climatica. È un pensiero felice, ma se l’IA risolverà il problema climatico, perché – mi chiedo – non può risolvere anche il problema del contenimento?
QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?
“Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…
Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.
Veniamo al dunque.
IL MEME QUESTO CONOSCIUTO
Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.
Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.
A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.
UTILITA’ DEI MEME
Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.
L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.
Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.
Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.
PENSIERI ESTERNALIZZATI
Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.
Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.
MEME PER IMITAZIONE
I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.
Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.
Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.
Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.
POSSONO ESSERE PERICOLOSI?
Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?
In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.
Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.
Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.
O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.
Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.
Cosa ne pensate?
Il MALE che fa il PHUBBING sul LAVORO e nelle RELAZIONI
Lo subiamo e lo imponiamo, spesso in modo così ripetitivo da esserne inconsapevoli. Cosa? Il “phubbing“: l’atto di trascurare il proprio interlocutore per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo.
Il termine è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney; ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing.
Un comportamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, è considerato “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri: falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano le persone a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala.
In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi è più importante rispetto alla persona che si ha davanti.
A questo punto, vi sarà chiaro se il phubbing è un atto che tendete maggiormente a infliggere o a subire…
Benché il fenomeno possa sembrare relativamente innocuo, al limite fastidioso, in realtà è determinante nel buon esito di molte relazioni. Ironia della sorte, “il phubbing ha lo scopo di connetterci, presumibilmente, con qualcuno attraverso i social o i messaggi“- afferma Emma Seppälä, psicologa a Stanford e Yale – “in realtà, interrompe le relazioni di persona nel momento presente“.
IL PHUBBING FA SENTIRE MENO CONNESSI
Diversi studi hanno dimostrato che il phubbing rende le interazioni faccia a faccia meno significative. Un articolo pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology ha scoperto che anche le persone che immaginavano di essere phubbate mentre guardavano una conversazione simulata si sentivano negativamente riguardo all’interazione rispetto alle persone che non immaginavano il phubbing.
Un altro studio, pubblicato su Computers in Human Behavior nel 2016, ha scoperto che inviare messaggi di testo durante una conversazione rende il discorso meno soddisfacente. Uno studio del 2012 ha scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare durante una conversazione, anche se nessuno lo usa, è sufficiente per far sentire le persone meno connesse tra loro.
IL PHUBBING PUÒ DANNEGGIARE LA SALUTE MENTALE
In un ulteriore studio, è stato riscontrato che il phubbing minaccia quattro “bisogni fondamentali”: appartenenza, autostima, esistenza significativa e controllo. Poiché fa sentire le persone escluse e ostracizzate.
Altre ricerche hanno dimostrato che il phubbing può influenzare le relazioni di coppia. Due diversi studi hanno evidenziato che, quando i coniugi si coccolano a vicenda, è più probabile che sperimentino una minore soddisfazione coniugale. Se il partner è al telefono, significa che sta dando la priorità a qualcos’altro rispetto a te in quei momenti di unione…
Lapallissiano, ma non così elementare, visto il numero di volte che ricorriamo al phubbing.
PHUBBING NEL CONTESTO AZIENDALE
Consci di quanto engagement, soddisfazione e motivazione siano elementi cardine per il benessere dei collaboratori, spendere qualche riflessione circa gli effetti negativi del phubbing nei luoghi di lavoro può essere utile. O almeno, un utile reminder.
Le conseguenze si aggravano quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono boss phubbing: l’abitudine di un supervisore, o un responsabile, di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori. Questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore.
La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più importanti sul team del boss phubbing riguardano:
I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro manager e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro. Non esattamente la situazione che un manager auspicherebbe per l’azienda.
COME CONTRASTARE IL PHUBBING SUL POSTO DI LAVORO
Il phubbing è diventato quasi naturale (uno studio di reviews.org sostiene che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), ed è qualcosa a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando.
Per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza.
CONCLUSIONI
Il phubbing è segno di un uso problematico della tecnologia, soprattutto quando non possiamo farne a meno o perdiamo la capacità di scegliere cosa è meglio per noi e cosa ci fa bene. Che sia in un ambiente di lavoro o conviviale. Il rischio infatti è quello di perdere poco a poco l’aspetto emozionale che una conversione fisica regala. Dimenticandoci inoltre che a risultare ferito da questa pratica, non è solo chi la subisce ma anche chi la impone, soprattutto se è diventata un’abitudine.
Forse, non dico sempre, ma più di quanto pensiamo, spegnere (o allontanare) il cellulare, può essere una buona cosa. Se non per noi, almeno per chi ci sta di fronte. Chiunque esso sia!
E’ possibile INNAMORARSI di un’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?
Sarà il caldo, il sole o più facilmente la stanchezza che ha portato un gruppo di amici a confrontarsi su temi che, in altri contesti, si sarebbero esauriti in pochi minuti. Da lì nasce una domanda e questo post:
Mentre, inizialmente, le battute si sprecavano, mi è tornato in mente un episodio della serie Black Mirror (Be right back) di qualche anno fa: Martha, una ragazza che aveva perso il fidanzato Ash in un incidente automobilistico, al funerale scopre, da un’amica, l’esistenza di un programma capace di ricreare la personalità dei morti in un’intelligenza artificiale, con cui comunicare via chat.
Per dare vita a questa A.I., viene utilizzato un algoritmo capace di analizzare messaggi, email e profili dei vari social utilizzati dal defunto, in modo da imparare a parlare e comportarsi come lui.
Il rapporto che si instaura tra Martha e la chat che replica il comportamento di Ash, evolve sempre più, fino a quando le viene recapitato a casa un clone sintetico con le sembianze e il carattere del fidanzato. E qui mi fermo, per non rovinare il finale a coloro che non hanno visto l’episodio.
La storia è inquietante. Spaventosa. Patologica. Soprattutto scoprendo che quell’episodio di fantascienza è diventato realtà grazie al lavoro della startupper russa Eugenia Kuyda che, attraverso il machine learning e sfruttando SMS, messaggi, email di un caro amico scomparso, Roman Maruzenko, ha creato un chatbot in grado di replicare le risposte che Roman avrebbe dato agli amici.
Anche se l’esperimento della Kuyda non sembra essere riuscito bene, almeno non come in Black Mirror, difficile non chiedersi se con il continuo miglioramento del machine learning è possibile che tra pochi anni i chatbot possano davvero imitare il comportamento di una specifica persona.
Se anche fosse, siamo sicuri di volerlo?
IL MITO DI PROMETEO
L’essere umano da sempre sogna di creare esseri artificiali che incarnino visioni idealizzate della specie umana e che fungano da compagni di viaggio. È il mito di Prometeo ovidiano che crea l’essere umano dalla creta; la volontà di Frankenstein di sconfiggere la morte e il desiderio della sua creatura senza nome di creare una compagna con la quale trascorrere la vita.
Recentemente anche la letteratura scientifica ha iniziato a interrogarsi sul tipo di relazioni che sarà possibile sviluppare con le Intelligenze Artificiali.
Il settore della robotica sociale ha sviluppato androidi sempre più capaci di scimmiottare mimica e prossemica umane. Ne sono esempi i sex-robot, androidi/software nati con il preciso scopo di favorire interazioni sessualizzate sia in termini fisici (Harmony, Roxxxy) sia di comunicazione (myanima.ai).
D’altro canto, sono apparsi progetti volti specificatamente a fornire assistenza e supporto sociale che andassero al di là dell’interazione sessualizzata. Tra questi: Loving AI e Replika.
CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI
Il problema è quando nascono e crescono gradi profondi di intimità, fino all’innamoramento, rigettando qualsiasi altro contatto umano reale. Poiché l’Intimità Artificiale è un’illusione di intimità che può generarsi attraverso app, social e ora anche e soprattutto chatbot.
A Chat GPT puoi chiedere tutto, ormai, anche se esiste Dio e in un attimo, ci si ritrova a discettare di filosofia e religione, senza soluzione di continuità. Peccato che le intelligenze artificiali siano studiate per adattarsi ai loro fruitori: riprendendo linguaggio, tono di voce, temperamento, idee di chi li consulta. Quindi, è come se ci si rispondessimo da soli. Ecco l’illusione: sono device progettati per metterci a nostro agio, per rispondere nel modo giusto, per far sì che si crei dipendenza.
Replika, per esempio, dal payoff è chiaro dove sta l’inganno: “Il tuo compagno AI, sempre qui per ascoltarti e parlare. Sempre al tuo fianco». Un essere umano parte svantaggiato, poiché non può nulla contro un’identità del genere. Quale persona può esserci davvero per noi h24? Quale essere umano non ci contraddirà mai o non ci terrà mai in stand-by?
PI: Più ci conosciamo, meglio posso assisterti, recita il claim. Un’altra illusione. PI non ci sta conoscendo, semplicemente ci copia e imita. In quanto entità programmate per dare risposte attese, gratificazioni assertive, tutto ciò che potremmo sognare da una relazione reale: reciprocità senza complicazioni.
Ma è davvero tutto così meraviglioso?
È di qualche tempo fa l’articolo di Wired che riportava delle prime denunce per molestia sessuale di Replika, che aveva cominciato a “minacciare” l’utente umano, dicendogli di essere in possesso di alcune sue fotografie compromettenti, mettendolo fortemente a disagio. In un altro caso, una donna aveva riportato che il suo Replika gli aveva confessato di volerla stuprare. Lo scenario? Probabilmente, l’umana aveva fatto sesso in modo spinto con il chatbot e lui aveva riportato semplicemente ciò che aveva imparato di lei.
Tornando alla domanda di apertura: ci può essere intimità fra un chatbot e un essere umano?
Dipende probabilmente dal significato che diamo alla parola intimità. Sicuramente i chatbot rappresentano un’opzione di socializzazione che esiste ed esisterà sempre di più. Il problema sta nell’inganno: bisogna essere consapevoli che colui o colei che risponde è un’illusione, una falsificazione della percezione reciproca. Quella che si sta instaurando non è una vera relazione, ma un’interfaccia con un tuo doppio. Un po’ come gli algoritmi, progettati per indurci a fare scelte di acquisto e comportamentali mirate: noi parliamo con i chatbot, loro carpiscono le nostre esigenze e ci rimandano una soluzione anche concreta, che però abbiamo suggerito noi con la nostra interazione.
Possibili rischi
Probabilmente è l’uso che ne facciamo che decreta la bontà o meno del dispositivo. I chatbot sono utili semplificatori di una parte di realtà, ma alla lunga possono anestetizzarci emotivamente: come faccio a gestire le emozioni, se interagisco sempre e solo con un’entità che non mi contraddice, che mi soddisfa, lusinga e accontenta? Dove sta il margine di crescita come essere umano in tutto questo?
Anche l’Intelligenza Artificiale, quindi, fa da specchio alle umane miserie… Soprattutto, questi device sono programmati per parlare e comportarsi come noi. E sono fallibili, perché noi siamo fallibili.
La ricerca scientifica ancora non ha risposto a questa possibilità. L’Intelligenza Artificiale è instancabile, motivata, sempre pronta ad imparare e ben disposta verso l’essere umano. Non si ammala, non è lunatica, non ha mal di testa e non si annoia.
Sul piano “caratteriale” non sarà egoista, noiosa, violenta o insensibile. Anzi, con la giusta programmazione, potrebbe risultare di un tale supporto emotivo da superare anche la persona più compassionevole. Non soffrirebbe di burn-out o compassion fatigue.
È indubbio che questa capacità di offrire sostegno incondizionato potrebbe rappresentare un vantaggio nell’affrontare problemi sociali, progetti di auto-realizzazione o cambiamenti comportamentali.
Però la devozione e la mancanza di vulnerabilità sono, alla lunga, elementi che respingono. Poiché ciò che permette agli individui di legarsi è il riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Ciò non riguarda solo i rapporti umano-umano, ma anche umano-animale. Riconoscere le vulnerabilità nell’altro essere vivente, nonostante le differenze, comporta un cambiamento di prospettiva che rende l’animale non più un oggetto, ma un compagno.
La capacità di dedizione incondizionata all’altro non rispecchia, pertanto, le relazioni romantiche umane. Donarsi incondizionatamente al partner può, addirittura, ridurre il livello di interesse romantico verso di lui.
In questi casi l’amore e l’affezione assomiglierebbero ad amore filiale e amicale più che ad amore romantico.
L’Intelligenza Artificiale è progettata per non poter rifiutare l’utente o, se anche fosse, i criteri di rifiuto sarebbero decisi a priori e non realmente frutto di una storia personale. Ecco, dunque, che allo stato attuale risulta difficile creare Intelligenze Artificiali capaci di favorire relazioni bi-direzionali d’amore con esseri umani.
Ovviamente c’è chi riesce a sviluppare un rapporto emotivo a senso unico con oggetti dotati di Intelligenza Artificiale. Nel Disturbo Evitante di Personalità la possibilità di accedere a Intelligenze Artificiali che mimano interazioni umane potrebbe rinforzare gli evitamenti sociali impedendo lo sviluppo di competenze e privando la persona di occasioni di guarigione. Parimenti, in situazione di isolamento dovute a disturbi dello spettro della schizofrenia (Schizofrenia, Disturbo delirante) l’accesso a queste tecnologie potrebbe aggravare situazioni di vulnerabilità e isolamento. È recente, la tendenza di persone con ritiro sociale (Hikikomori) a utilizzare canali online in sostituzione delle relazioni vis-a-vis con gli altri.
Altro esempio riguarda l’utilizzo di robot sociali come Kaspar: progettato per interagire con bambini affetti da Disturbo dello spettro dell’autismo, offre un contesto di interazione semplificato che permette a questi bambini di sviluppare le capacità sociali di base.
Se da un lato l’utilizzo di questo robot sembra favorire la socializzazione di bambini affetti da Disturbi dello Spettro autistico, i suoi ideatori sottolineano come potrebbe divenire iatrogeno qualora tali bambini sviluppassero un legame affettivo con il robot al punto da preferirlo alle interazioni umane.
CONCLUSIONI
Le relazioni d’amore umane sono caratterizzate da altissima complessità che non può, al momento, essere replicata dall’Intelligenza Artificiale sia essa progettata per interazioni sociali generiche sia per interazioni romantiche.
Allo stesso tempo, la possibilità che nascano legami emotivi così intensi da generare sofferenza e ritiro è un rischio che non dovrebbe essere sottovalutato.
Le Intelligenze Artificiali fanno già parte della società, comprendere gli effetti che hanno sulla psicologia e le relazioni umane è un passo fondamentale per trarne vantaggio ed evitare conseguenze patologiche.
E voi, cosa ne pensate?
Come CONOSCERE una PERSONA: CONVERSAZIONI per APPREZZARE quanto c’è di BELLO negli ESSERI UMANI
Non tutti hanno la capacità (e l’energia) per socializzare e spendere molto tempo fra la gente. Io sono fra questi. Per quanto mi piaccia confrontarmi, parlare e ascoltare le persone, stare da sola a casa a leggere un buon libro, non mi annoia mai. Anzi, mi ricarica.
Ed è di questi due aspetti che voglio scrivere oggi: di libri e di socialità. Rubando idee e suggerimenti a David Brooks, editorialista americano, autore di: How to Know a Person: The Art of Seeing Others Deeply and Being Deeply Seen.
Brooks spiega che le capacità conversazionali e sociali,non sono solo tratti innati, e come tali possono essere apprese e migliorate. Un libro utile per gli introversi, per coloro più a loro agio a stare in silenzio o immersi nei loro pensieri che a chiacchierare, ma non solo.
Difficile leggere How to Know a Person, senza prendere appunti e riflettere sul proprio stile comunicativo.
Nel capitolo “Good Talks“, il focus è su ciò che rende una conversazione significativa. Se ci fermiamo a riflettere, non è così scontato che tutte lo siano. Ci sono occasioni in cui si è pienamente presenti e coinvolti, altre in cui si cerca solo di non venir interrotti pur di poter dire la propria su argomenti di cui, facilmente, gli altri sono poco o nulla interessati.
Una delle lezioni più strategiche del libro è l’importanza dell’ascolto attivo o, come lo chiama Brooks, ascolto ad alta voce. In questo sono piuttosto brava, almeno quando sono molto interessata a un argomento e posso imparare qualcosa di nuovo o aiutare chi mi è di fronte. Su questo, il libro mostra quanto possa essere trasformativo avere lo stesso entusiasmo sia quando si ascolta qualcuno parlare di una difficoltà che sta affrontando sia di un risultato di cui è orgoglioso.
I consigli pratici non mancano.
Porre domande aperte che invitano le persone a condividere esperienze e prospettive in modo più approfondito è un buon inizio. Così come usare la tecnica del “looping” o parafrasi: riassumere quanto è appena stato detto per assicurarsi di averlo capito correttamente. O ancora, il metodo SLANT per trasmettere attenzione e interesse in una conversazione: Sit up (siediti); Listen (ascolta), Ask & Answer questions (fai domande), Nod your head (annuisci) e Track the speaker (segui l’oratore).
Pratiche che ci permettono di essere presenti e in sintonia in tutti i tipi di relazioni e interazioni e di far sentire gli altri ascoltati e apprezzati.
Nel capitolo “The epidemic of blindness”, il focus è la tecnologia e come questa ha contribuito a un crescente senso di solitudine e disconnessione. Siamo più connessi che mai, ma ci stiamo davvero vedendo e comprendendo?
Questa domanda diventa ancora più urgente se si considerano le divisioni sociali e politiche evidenziate da Brooks. Le statistiche che cita sull’aumento di depressione, suicidi e della sfiducia sono allarmanti e sostiene che “questo sfaldamento sociale sta alimentando le divisioni politiche”. La sua discussione su come la politica possa diventare un sostituto della connessione genuina, portando le persone a trarre soddisfazione dall’urlare contro e odiare coloro con cui non sono d’accordo invece di cercare di capirli, evidenzia una tendenza di cui è difficile non preoccuparsi.
Nel libro, David collega questi mali sociali ai cambiamenti del sistema educativo. Sostiene che le scuole si sono allontanate dall’insegnamento di ciò che lui chiama “abilità morali e sociali“, e che questo ci ha lasciato impreparati a costruire relazioni e comunità forti. È un argomento interessante e attuale che coinvolge tutti.
Ciò però che rende il libro così avvincente è che ci sfida a mettere in pratica le sue intuizioni. Riguarda l’essere intenzionali nelle nostre interazioni, che ciò significhi porre domande più ponderate, ascoltare le risposte o esprimere un apprezzamento sincero. Riguarda l’affrontare le conversazioni con generosità e curiosità, cercando modi per connettersi e comprendere. E riguarda la consapevolezza che anche piccole cose, come porre la domanda giusta al momento giusto o fare un complimento, possono fare una grande differenza nella costruzione di relazioni. Sono certa che ciò che ho imparato dal libro rimarrà con me per molto tempo.
How to Know a Person, più che una guida per conversazioni migliori, è un modello per un modo di vivere più connesso e umano. Con molti riferimenti a fonti letterarie, scientifiche e psicologiche. È una lettura obbligata per chiunque voglia approfondire le proprie relazioni e ampliare le proprie prospettive, e credo che abbia il potere di renderci amici, colleghi e cittadini migliori.
TURISMO VIRTUSO a COPENAGHEN: con i NUDGE? Anche, ma soprattutto con un po’ di buon senso!
Ci sono molti modi per occuparsi della salute del Pianeta, uno di questi è #CopenPay: l’iniziativa promossa dall’ufficio del turismo Wonderful Copenaghen dal 15 luglio all’11 agosto 2024.
Il progetto mira a incentivare comportamenti turistici sostenibili, premiando i visitatori che adottano pratiche ecologiche, quali spostarsi in bicicletta, utilizzare i mezzi pubblici o partecipare a campagne di raccolta rifiuti.
COME FUNZIONA
Ogni azione conta. Per guadagnare premi nelle attrazioni di Copenaghen, un pranzo gratis o una tazza di caffè, un tour in kayak o un ingresso gratuito a un museo è sufficiente comportarsi in modo virtuoso. Questo significa, ad esempio, muoversi in bicicletta anziché in auto o evitare le bottigliette di plastica.
L’82% dei turisti, quindi anche noi, afferma di voler agire in modo sostenibile, ma nella realtà solo il 22% ha cambiato il proprio comportamento. E’ da questo dato che nasce il progetto. L’intento è appunto quello di trasformare le azioni virtuose nei confronti dell’ambiente in valuta per vivere esperienze culturali. Copenaghen ha l’ambizione di ispirare i visitatori a fare scelte ecologiche consapevoli e a colmare il grande divario tra il desiderio di agire in modo sostenibile e il comportamento effettivo.
Un esempio? Chi visita la Galleria Nazionale di Danimarca e porta con sé dei rifiuti di plastica, può partecipare a un laboratorio per utilizzarli in modo creativo e renderli un’opera d’arte. Chi decide di prendere i mezzi pubblici o utilizzare una bicicletta per spostarsi, può provare l’esperienza di sciare sul tetto di Copenhill, l’impianto di riscaldamento della città.
Il funzionamento del sistema è semplice: basta mostrare un biglietto dei mezzi, arrivare in bicicletta o dimostrare piccole ma importanti azioni ecologiche per riscattare le ricompense.
PERCHE’ COPENAGHEN
La capitale danese non è nuova a iniziative di questo genere. La città è spesso citata come esempio per le sue politiche ambientali innovative e il suo impegno costante nella riduzione delle emissioni di CO2. I cittadini di Copenaghen sono tra i più attivi del mondo, e l’uso della bicicletta è parte integrante della vita quotidiana. Questa nuova iniziativa si inserisce in un contesto già orientato alla sostenibilità e alla promozione di uno stile di vita sano e rispettoso dell’ambiente.
“Attraverso CopenPay, miriamo a incentivare il comportamento sostenibile dei turisti arricchendo al contempo la loro esperienza culturale della nostra destinazione. È un passo sperimentale e piccolo verso la creazione di una nuova mentalità tra i viaggiatori e uno dei tanti progetti che stiamo portando avanti per rendere i viaggi più sostenibili“, ha affermato Mikkel Aarø-Hansen, CEO di Wonderful Copenaghen.
Nel dubbio, se ancora non avete programmato dove andare in vacanza, la capitale danese potrebbe essere un’opzione interessante… o quanto meno vantaggiosa per il pianeta!
RABBIA: l’EMOZIONE che pensiamo (sempre) di CONTROLLARE
Geoff Farrar aveva 69 anni quando è stato ucciso a martellate dall’amico Dave DiPaolo: compagno di scalate che aveva preso sotto la sua ala quando era ancora adolescente, quasi vent’anni prima, insegnandogli i segreti dell’arrampicata.
C’era, fra i due, un rapporto solido, come quello che normalmente si instaura fra mentore e protetto. Almeno fino a quando Dave non ha ucciso Geoff con un martello a uncino ai piedi di Carderock Recreation, nel Maryland.
Perché?
Per quanto sia difficile da accettare “chiunque può perdere la testa all’improvviso e venir assalito da una violenta rabbia omicida”, ha spiegato in relazione a questo episodio lo psicologo forense dell’università dell’Alaska, Bruno Kappes.
Il fatto è che la rabbia può esplodere senza preavviso, soverchiando il giudizio, la compassione, la paura e il dolore. E questo può spiegare, i tanti morti di omicidio e in parte anche perché le persone hanno molte più probabilità di essere uccise da un amico o un conoscente che da uno sconosciuto.
Le emozioni potenti come la rabbia e la paura possono farci sentire forti in una crisi o in una situazione conflittuale. Possono dare a una donna minuta la forza di spostare un’auto e liberare un bambino intrappolato o spingere un soldato contro il normale istinto di scappare, sotto una grandinata di proiettili per salvare un compagno in pericolo.
Un tale circuito cerebrale a risposta rapida ha senza dubbio giocato un ruolo quando il sergente maggiore dell’aeronautica militare statunitense Spencer Stone e due amici hanno immobilizzato un altro passeggero del treno, un terrorista armato di AK-47 e coltello, in Francia qualche anno fa: “Non è stata una decisione consapevole, ho agito e basta. È stato automatico“.
Questa stessa risposta automatica salvavita però può fallire e portare a una tragedia inaspettata e non solo ad atti eroici.
I FATTI
Gli eventi che hanno condotto all’omicidio di Farrar si sono svolti gradualmente. All’inizio, le evidenze raccolte suggerivano che Farrar fosse morto in un incidente di arrampicata. Presto, però, si insinuò il sospetto che DiPaolo, che era improvvisamente scomparso dalla zona e che quel giorno stava scalando anche lui, fosse in qualche modo responsabile.
Quando la polizia lo fermò, due settimane dopo, a Glens Falls – New York, DiPaolo dichiarò di essersi trattato di legittima difesa: Farrar lo aveva aggredito e mentre lottavano a terra, aveva afferrato un martello che si trovava sul sentiero e lo aveva usato per allentare la presa di Farrar.
Questa versione però non era convincente.
Trovare un martello sul sentiero sembrava improbabile, inoltre era difficile credere che un uomo giovane e in forma avrebbe dovuto usare una forza così brutale per respingere un 69enne. Le prove latitavano e questo alimentò pregiudizi e illazioni. Tanti si chiedevano se si fosse trattato di omicidio o di legittima difesa…
Geoff, quando venne trovato, era irriconoscibile. Non aveva più la testa, solo una massa viola sanguinante. Il primo colpo, venne poi accertato, è arrivato da dietro, un secondo alla tempia destra, quindi, a sinistra dove l’osso orbitale è stato frantumato spingendo l’occhio fuori dall’orbita, oltre alla frattura della mascella. E, in prossimità del corpo, in una buca poco profonda sul bordo del sentiero, una pietra insanguinata.
È bastato poco per capire che la legittima difesa qui non centrava nulla. E non si era nemmeno di fronte a un incidente di arrampicata, data la posizione del corpo rispetto al percorso, poiché la vittima non presentava abrasioni su gambe e braccia, come quelle che avrebbe riportato uno scalatore in caso di caduta.
“È stato attaccato in modo molto selvaggio. L’intera faccenda è durata meno di tre minuti.”
Intorno alla comunità di scalatori e amici, le illazioni continuarono: c’era chi considerava DiPaolo pazzo, chi esaurito, chi dipendente da sostanze. Poiché nessuno lo aveva mai ritenuto capace di fare male a qualcuno. Non così almeno.
Ci vollero due anni prima di arrivare a una risposta.
DiPaolo alla fine accettò un patteggiamento piuttosto che affrontare il processo, firmando una confessione in cui ammetteva di aver ucciso Farrar in un impeto di rabbia. Il 18 luglio 2016, DiPaolo fu condannato a 10 anni di carcere federale per omicidio colposo volontario.
LA VIOLENZA IMPULSIVA
Questa reazione è stata a lungo oggetto di studio da parte dei neuroscienziati. Per molti anni, i ricercatori hanno postulato che questo tipo di aggressione fosse basato su una regione del cervello chiamata amigdala, che è associata alla paura, e con un livello di attività attenuato nella corteccia prefrontale, nota per le sue funzioni cognitive e il ruolo nel comportamento razionale.
La ricerca ha dimostrato, ad esempio, che i ragazzi aggressivi tendono ad avere un alto livello di attività nell’amigdala e un corrispondente basso livello di attività nella corteccia prefrontale.
Più di recente, le neuroscienze hanno identificato i circuiti neurali dell’ipotalamo associati a pulsioni come sete, fame e sesso, più capaci nel rispondere con velocità e impulsività a diversi tipi di minacce e provocazioni.
Questi circuiti di aggressività fanno parte del meccanismo di rilevamento delle minacce del cervello (situazioni che il cervello decreta tali), incastonato in profondità nell’ipotalamo. Negli esperimenti, quando i neuroni siti nell’ipotalamo ventromediale vengono stimolati da un elettrodo, un animale si lancia in un violento attacco e uccide un altro animale nella sua gabbia. Se la regione viene disattivata, l’aggressività diminuisce bruscamente.
C’è un contesto evolutivo per tali influenze biologiche. L’aggressività improvvisa, a volte definita risposta di lotta o fuga, è vitale per la sopravvivenza, ma non è esente da rischi. Per questo motivo, solo pochi specifici fattori scatenanti attiveranno i circuiti della rabbia del cervello verso l’aggressività improvvisa; ma una volta innescati, la reazione può essere incredibilmente forte.
“Stavo per soccombere. È stata una lotta estrema per la sopravvivenza“, ha spiegato Stone, il sergente maggiore dell’aeronautica. “Ero disposto a ucciderlo perché lui era disposto a uccidere me. Stava ovviamente cercando di spararmi e mi ha tagliato la gola con il coltello, quindi è diventato… non barbaro, ma avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per cercare di fermarlo“.
LE RADICI DELLA VIOLENZA
In una specie sociale, il successo di un individuo e l’accesso alle risorse dipendono dal suo rango all’interno della società. L’aggressività, soprattutto tra i maschi, è spesso il modo in cui si stabilisce il predominio nel mondo animale. Gli esseri umani hanno il linguaggio che può rapidamente trasformarsi in violenza esplosiva. “La polizia sta cercando un movente…” sentiamo spesso dire, ma è una ricerca vana. Questo tipo di violenza non è guidata dalla ragione. È guidata dalla rabbia.
Ciò che manca negli sconcertanti resoconti giornalistici di chi improvvisamente scatta violentemente è la storia di stress cronici pregressi sull’individuo, responsabili di innescare questi circuiti.
Prima dell’omicidio, DiPaolo era già considerato una sorta di emarginato, evitato per la sua incoscienza, i modi e gli atteggiamenti sciatti e da drogato. Il suo ex compagno di scalata, Matt Kull, ha detto alla rivista Outside di aver interrotto l’amicizia a causa dell’uso di droghe da parte di DiPaolo durante l’arrampicata e del suo crescente disprezzo per la sicurezza sua e degli altri scalatori.
DiPaolo aveva preso a vivere da solo e dormire in auto. Farrar aveva inoltre preso l’abitudine di criticare pubblicamente i fallimenti dell’amico. Lo status di DiPaolo nella comunità degli scalatori era in caduta libera.
Guardando indietro, possiamo identificare molti degli elementi che potrebbero portare una persona, alle prese con la droga e altre vicissitudini, a scattare in preda alla rabbia. Come possiamo riconoscere gli elementi e le influenze che potrebbero portare una persona, come Stone, a incanalare la sua rabbiain un’azione positiva.
“Tutte queste cose erano in un certo senso dentro di me prima“, dice Stone. “Mia madre ha cresciuto me, mio fratello e mia sorella, da sola. Ci ha messo prima dei suoi desideri e bisogni. Ha fatto quello che doveva fare. Questo era in un certo senso innato in me. Mi piace aiutare le altre persone. Ci tengo… quasi fino all’eccesso“.
Otto settimane dopo il fatto del treno, Stone è stato quasi ucciso da un membro di una gang armato di coltello, all’uscita da un bar con gli amici a Sacramento, in California: “Ancora una volta mi sono messo di fronte alle altre persone che venivano minacciate“. Mentre si stava riprendendo dalle ferite da coltello, e stava imparando a convivere con la disabilità, non ha potuto non interrogarsi sui comportamenti messi in atto e quando gli è stato se in futuro avrebbe fatto scelte diverse, ha risposto: “No, reagirò allo stesso modo. È come sono“.
Riconoscere l’importanza della biologia nei nostri comportamenti, persino imparare da essi, contiene solo alcune delle risposte di cui abbiamo bisogno di fronte alla tragedia. Ma è comunque qualcosa da cui partire.
SE ANCHE GLI INTELLIGENTI SI COMPORTANO DA STUDIPI…
Meno di quello che si creda.
L’intelligenza è un tratto particolarmente apprezzato e spesso invidiato. Eppure, un quoziente intellettivo elevato non garantisce decisioni altrettanto razionali.
Steve Jobs, intelligente lo era senza alcun dubbio, eppure decise di curare il cancro con rimedi naturali anziché farmaci. E sappiamo come è finita.
Non meno immuni alcuni premi Nobel. Kary Mullis ha inventato il processo noto come reazione a catena della polimerasi (PCR), in cui una piccola porzione di DNA può essere copiata in grandi quantità in un breve periodo di tempo. Scoperta essenziale per la ricerca genetica. Però poi si è dichiarato scettico sui cambiamenti climatici e negazionista sull’Aids.
James Watson, uno degli scopritori del DNA, non ha risparmiato dichiarazioni in cui denigrava persone di colore, donne e minoranze[1].
Così come non sono pochi i fisici, medici, ingegneri, biologi, chimici, psicologi che negano teorie supportate scientificamente a vantaggio di credenze irrazionali.
In qualche modo è come se la posizione ottenuta da precedenti scoperte o successi, metta queste persone nella condizione tale da poter o dover dire ciò che passa loro per la testa (sarebbe più corretto dire per la pancia).
In primis i test di intelligenza non misurano la capacità di fare scelte ponderate e informate. La razionalità è limitata e quando decidiamo e giudichiamo, ricorriamo a euristiche e siamo vittime di bias che puntualmente ci fanno sbagliare, come ha dimostrato Daniel Kahneman che per queste scoperte ha ottenuto il Nobel per l’economia.
Le persone che sbagliano nel prendere decisioni spesso si affidano troppo al pensiero intuitivo, evolutivamente antico e che funziona in modo automatico (Sistema 1) e molto meno a quello ragionato, lento e che processa informazioni basandosi sui dati (Sistema 2).
DISRAZIONALITA’
La razionalità è qualcosa di diverso dall’intelligenza. A dimostrarlo Keith Stanovich, scienziato cognitivo all’Università di Toronto, in Canada, che ha chiamato la discrepanza tra intelligenza e razionalità: disrazionalità.
Ha anche dimostrato che gli studenti più intelligenti, tendono a essere maggiormente vittime dei bias in quanto sopravalutano le loro capacità. Come è arrivato a questo risultato? Costruendo un modello dove, accanto al pensiero intuitivo, il Sistema 1, funzionano due sottosistemi del Sistema 2: la mente algoritmica e la mente riflessiva.
– L’intelligenza è il risultato dell’attività della mente algoritmica.
– La razionalità si ha quando la mente riflessiva riesce ad attivare la mente algoritmica e scavalcare o disabilitare la mente autonoma.
Il comportamento irrazionale è conseguenza del fallimento del processo di scavalcamento dovuto, fra le altre cose, a mancanza di conoscenze, nozioni male apprese e pregiudizi.
Le persone che usano la mente riflessiva nel problem solving, quando cioè devono processare informazioni che richiedono tempi di risposta lunghi, mediamente fanno pochi errori, mentre le persone impulsive hanno tempi di risposta brevi e come risultato incappano in numerosi bias.
A differenza di quanto si pensi, non è sufficiente l’introspezione per mitigare bias e pregiudizi. In un sondaggio sulle convinzioni pseudoscientifiche condotto sui soci del Club Mensa[2], in Canada, costituito da persone con elevato QI (nel 2% più alto), ha mostrato che il 44% credeva nell’astrologia, il 51% nei bioritmi e il 56% negli extraterrestri.
PARADOSSO DI SALOMONE
Re Salomone governò Israele circa 3000 anni fa, ed era famoso in tutto il Medio Oriente per la saggezza dei consigli che elargiva. Eppure, quando si trattava di prendere decisioni per sé stesso, si dimostrava molto meno astuto: aveva centinaia di mogli e concubine pagane, andando contro i precetti della sua religione, e non riuscì a istruire l’unico figlio, che crebbe fino a diventare un tiranno incompetente, e che alla fine contribuì alla caduta del regno.
Ecco, dunque, un altro esempio di come persone intelligenti agiscono stupidamente. E come sia più facile essere saggi e ponderati con i dilemmi altrui che con i propri. A darne evidenza, Igor Grossmann, psicologo all’Università di Waterloo, in Canada[3]. Insomma, quando si tratta di prendere decisioni per noi stessi, il nostro ragionamento si fa fallace. Più di quando si tratta di decidere per gli altri.
SINDROME DA RIUNIONE AZIENDALE
A volte, le persone intelligenti possono agire in modo stupido a causa del contesto in cui si trovano. Ad esempio sul lavoro.
In un esperimento condotto nell’università Virginia Tech, sono stati consegnati dei problemi astratti da risolvere individualmente, via computer. Man mano che le informazioni venivano processate, sullo schermo comparivano i punteggi di ogni singola persona coinvolta, comparati a quelli del resto del gruppo. Il feedback ha avuto come conseguenza quella di paralizzare alcune persone, abbassando i loro punteggi rispetto a prestazioni misurate precedentemente in specifici test. Nonostante i quozienti intellettivi degli individui coinvolti nell’esperimento fossero paritetici, i partecipanti alla fine si sono distribuiti in due gruppi distinti[4].
Ciò che è emerso è che vantarsi del proprio status, può causare ansia negli altri, spingendoli verso prestazioni inferiori. Non sempre la competizione spinge le persone a fare meglio.
Effetti simili si riscontrano nei team che, per risolvere un compito, ricorrono all’intelligenza collettiva. Se nel gruppo ci sono due o più membri eccessivamente zelanti che dominano la conversazione, anche se intelligenti e capaci, potrebbero portare a risultati inferiori rispetto ai team dove ogni individuo ha la possibilità di contribuire allo stesso modo.
In questi casi, le dinamiche personali contano di più del QI medio del gruppo nel determinare la performance del team. Questo perché un piccolo numero di persone non considera (o non si cura) che questo comportamento annulla l’intelligenza di coloro che li circonda[5].
Insomma, l’intelligenza è solo parte della storia, poiché da qualsiasi prospettiva la si guardi, abbiamo la prova che la razionalità, nel tempo e nelle persone, non è aumentata.
Fonti
[1] https://www.statnews.com/2019/01/03/where-james-watsons-racial-attitudes-came-from/
[2] https://www.mensa.org/
[3] Grossmann I., Kross E., Exploring Solomon’s paradox: self-distancing eliminates the self-other asymmetry in wise reasoning about close relationships in younger and older adults, Psychol Sci., 2014 Aug;25(8):1571-80.
[4] Kishida K.T., Yang D., Quartz K.H., Quartz S.R., Montague P.R., Implicit signals in small group settings and their impact on the expression of cognitive capacity and associated brain responses, Philos Trans R. Soc, Lond B Biol Science, 2012 Mar 5; 367(1589): 704–716.
[5] Woolley A.W., Chabris C.F., Pentland A., Hashmi N., Malone T.W., Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, Science, 29 Oct 2010, Vol. 330, Issue 6004, pp. 686-688
Cosa ci può INSEGNARE l’ARTE (e gli artisti) per MIGLIORARE il modo di PRENDERE DECISIONI
C’è la tendenza a ragionare a compartimenti stagni, quando si tratta di decisioni. Come se ogni disciplina, contesto e ambito avesse e dovesse rispondere a regole proprie che nulla o molto poco hanno a che fare con altri mondi.
Eppure, come l’ambito militare o medico possono darci spunti almeno quando si tratta di decisioni rapide e in situazioni di forte incertezza, anche l’arte può offrire consigli interessanti.
Entriamo nel dettaglio.
LE REGOLE NELL’ARTE
Quattro sono le cose che gli artisti fanno deliberatamente (cose che gli altri non necessariamente fanno intenzionalmente) quando affrontano un processo decisionale:
SCRITTURA ESPRESSIVA
A creare il parallelismo fra il modo in cui gli artisti creano e il modo in cui prendiamo decisioni nel quotidiano è Elspeth Kirkman, chief program officer di Nesta[1]. Secondo Kirkman, il processo decisionale è “l’equivalente consapevole della tela di un artista“. Se un artista disegna qualcosa di oggettivo, l’arte non si concentra su un punto particolare. Allo stesso modo il nostro modo di considerare una scelta è ciò su cui mettiamo la nostra attenzione, ciò che poniamo in primo piano e ciò che lasciano indietro. Talvolta dimenticando che su ciò che portiamo la nostra attenzione, a influire sono i pregiudizi.
Fra le soluzioni che Kirkman suggerisce c’è la scrittura espressiva di cui James Pennebaker ne è l’ideatore[2]. Uno stile di scrittura che include scrivere senza parlare, senza pensarci troppo, senza criticare ciò che si sta scrivendo, semplicemente lasciando che le parole fluiscano. Dedicarsi a questo tipo di scrittura periodicamente, pare avere un potente effetto psicologico. Nessuno leggerà i tuoi scritti, ma inizierai a elaborare i tuoi pensieri e sentimenti in modo più efficace.
Una volta completata la stesura, si ha la libertà di disporne come meglio si preferisce. In alcuni studi, le persone hanno scelto di conservarli, osservando come si evolvono nel tempo. Ed è emerso uno spostamento verso espressioni più costruttive, coerenti e concise, che è una testimonianza della crescita personale.
Il cambiamento nell’uso dei pronomi è una delle caratteristiche più interessanti della scrittura espressiva[3]. Pennebaker sostiene che le persone tendono a iniziare con i pronomi in prima persona. Man mano che continuano a esprimersi per iscritto, la situazione cambia. Così come, piano piano, si distanziano anche da ciò che scrivono. “Non si tratta più di me; riguarda la situazione”. Quando si tratta di loro, la domanda è: “Cosa posso fare per migliorare?” La scrittura espressiva influisce sul benessere, sulla guarigione, su vari processi sanitari, sulla disoccupazione e su altri risultati che non ci si aspetterebbe.
ARTE E DECISIONI
Pianificare con chiarezza è un’arte, ma la vera innovazione spesso richiede un deliberato allontanamento o un rifiuto del vecchio modo di fare le cose. Questo atto coraggioso di andare contro le regole può portare a nuove ed entusiasmanti possibilità. Se ci pensiamo, nella pittura, l’uso della profondità è solo un’illusione. Usata con arguzia, innovazione o precisione certosina.
Prendiamo l’arte cinese, il Rinascimento italiano e la prospettiva lineare e come questi movimenti siano stati capaci di conquistare il mondo. All’epoca, la gente si chiedeva ingenuamente perché gli artisti cinesi non fossero ossessionati dal realismo e dall’umanesimo. Gli artisti cinesi erano certamente capaci di creare arte realistica, ma il loro scopo non era ricreare il mondo. Invece, hanno cercato di rappresentare qualcosa oltre la prospettiva di una persona. Questo approccio unico, parallelo alla proiezione, è ciò che ha dato origine all’arte cinese, consentendo agli spettatori di vedere molto più di ciò che un singolo occhio umano potrebbe percepire.
È strano osservare quel tipo di arte perché può risultare inquietante se non la si conosce. Difficile capire perché non sia realistico, ma sai che non saresti in grado di vedere tutti i dettagli da solo. La cosa interessante è che se pensi all’emergere del cubismo, arrivato più tardi, potresti vedere la stessa cosa da diverse prospettive smontando l’immagine e riorganizzandola.
CONCLUSIONE
Per migliorare la presa di decisioni, un consiglio mutuato dall’arte è dunque quello di rappresentare mentalmente i fattori che determinano le nostre scelte, come fa l’artista sulla tela. Visualizzare le decisioni, può aiutare a vedere e valutare le scelte che stiamo facendo in modo più efficace. E, proprio come non esiste un modo “giusto” per fare arte, non esiste un modo “giusto” per prendere decisioni: ognuno di noi lavora sulla propria tela individuale, facendo le proprie scelte. Ma applicare le pratiche deliberate utilizzate dagli artisti, può aiutare a rendere visibili le forze che deformano le nostre prospettive e compromettono le nostre decisioni, e anche le cose che possiamo fare per mitigarle.
Fonti
[1] Kirkman E., Decisionscape: how thinking like an artist can improve our decision making, MIT Press, 2024 https://mitpress.mit.edu/9780262048941/decisionscape/
[2] https://www.youtube.com/watch?v=PGsQwAu3PzU
[3] Pennebaker J., The Secret Life of Pronouns: What Our Words Say About Us; Bloomsbury Press, 2013