GASLIGHTING sul LAVORO: la manipolazione messa in atto da (alcuni) capi e colleghi

Ci sono capi che… non esitano ad attribuirsi i meriti dei collaboratori o ne sminuiscono il contributo nella realizzazione di progetti o nel raggiungimento di obiettivi; che… negano di aver assegnato un compito comunicato a voce…  o, ancora, tentano di influenzare il giudizio di una persona, inducendola a dubitare della validità del suo giudizio… o a destabilizzarne il senso della realtà.

Tutti esempi di gaslighting nell’ambiente di lavoro:

forma subdola di comportamenti manipolatori che si verificano quando un individuo o un gruppo cercano di far dubitare una persona della propria memoria, percezione o sanità mentale.

Questa pratica può essere attuata dai superiori, dai colleghi o dai subordinati, creando un ambiente lavorativo tossico, caratterizzato da ansia, stress e una diminuzione della produttività e della soddisfazione lavorativa. Spesso viene nascosto dietro a comportamenti apparentemente innocui o mascherato sottoforma di scherzi o critiche costruttive, così da renderlo difficile da riconoscere e ancor più da contrastare.

Chi lo attua manipola le situazioni a proprio vantaggio, alterando le narrazioni o omettendo informazioni per confondere la vittima, facendola sentire inadeguata o incapace di svolgere le proprie mansioni. Questa dinamica di potere non solo mina l’autostima del lavoratore ma può anche portare a un isolamento professionale e sociale all’interno dell’ambiente di lavoro.

GASLIGHTING: BREVE STORIA DI UN TERMINE

Il termine trae origine dal film del 1944 Gaslight (Angoscia nella versione italiana), diretto da George Cukor, in cui l’interpretazione magistrale di Ingrid Bergman dà corpo a una moglie progressivamente indotta alla follia dal marito manipolatore. Questi altera le luci a gas della casa e nega ostinatamente qualsiasi cambiamento, creando un contesto in cui la protagonista non può più fidarsi delle proprie sensazioni.

Il gaslighting, quindi, si è imposto come metafora potente delle dinamiche abusanti che possono emergere tanto nelle relazioni personali quanto in quelle professionali.

I VOLTI DEL GASLIGHTING SUL LAVORO

Analogamente, nel contesto lavorativo, il gaslighting si manifesta attraverso una serie di comportamenti manipolativi come negare fatti o eventi accaduti, distorcere la realtà per creare confusione, utilizzare informazioni false per discreditare o sminuire la vittima, isolare la persona dal resto del gruppo.

Le vittime possono iniziare a mettere in dubbio le proprie competenze e decisioni, arrivando a credere alle falsità propagate dal manipolatore. Questo stato di continua incertezza e dubbio può avere ripercussioni gravi sulla salute mentale, innescando o aggravando condizioni come lo stress, l’ansia e la depressione. Nel tempo, questo ambiente nocivo non solo erode il morale e la produttività individuale ma può anche contribuire a un clima aziendale negativo, dove la paura e la sfiducia dominano sul senso di comunità e cooperazione.

Inoltre, il gaslighting può ostacolare la crescita professionale. Chi lo subisce evita di prendere iniziative o di esprimere idee innovative per paura di ulteriori critiche o manipolazioni, limitando così le opportunità di avanzamento e contribuendo a un circolo vizioso di sottovalutazione e insoddisfazione lavorativa.

Senza contare che questo fenomeno non interessa solo i capi ma anche i colleghi come forma estrema di competizione. In entrambi i casi, la modalità relazionale è la medesima: per mantenere o ottenere il potere bisogna sottomettere l’altro, anche nel caso in cui l’altro è un collega allo stesso livello.

MOTIVAZIONI E CONSEGUENZE

Perché manipolare un collega?

La risposta, spesso, è la ricerca del controllo sul luogo di lavoro; in altre, necessità gestionali che non si riescono ad affrontare con mezzi più idonei. Un esempio sono quelle organizzazioni dove, per i motivi più disparati, si trovano a dover chiedere ritmi più sostenuti alle risorse, salvo poi negare l’effettivo aumento dei carichi per non dover compensare con premi e benefit.

I contesti dove dilaga questa forma manipolativa, fondata sulla sottomissione, sul controllo, e di fatto sulla sola competizione, crea ambienti altamente controproducenti al lavoro di squadra, al raggiungimento degli obiettivi intesi come responsabilità comune e collettiva. E dalle conseguenze pesanti; perché per chi fa un grosso investimento sulla performance lavorativa, vedersi messo in discussione sulla base di fatti non accaduti può portare al crollo della fiducia e a un senso di impotenza.

COME CAPIRE CHE STAI SUBENDO GASLIGHTING SUL LAVORO

Esamina ciò che accade. I gaslighter cercano deliberatamente di sottomettere e dominare le loro vittime facendole dubitare della realtà e del loro valore. Anche sulla carta, contestano ciò che hanno detto. Si difendono costantemente proiettando i loro difetti su altre persone. Il loro bisogno di comandare può derivare da inettitudine, nervosismo, narcisismo, invidia o meschinità. Se questo è il caso, le probabilità di subire gaslighting sul lavoro sono elevate.

Il feedback negativo arriva costantemente. Se qualcuno ti dice costantemente qualcosa di ingiustificatamente negativo sul tuo operato, probabilmente hai per le mani un gaslighter. La mancanza di critiche costruttive è un chiaro indicatore. A volte possono anche farti sentire un impostore. Tuttavia, i feedback negativi possono essere difficili da valutare, soprattutto se provengono dal capo o da un’altra persona autorevole. Determina se la loro critica è accurata. Verifica con un membro del team se i suggerimenti che ricevi indicano un’azione di gaslighting. Chiedi loro se sono d’accordo dopo aver descritto per intero ciò che ti ha detto il sospetto gaslighter. Potrebbero sostenerti nell’affrontarlo.

Guardati intorno per trovare esperienze simili affrontate da altri. L’abuso di un gaslighter sul lavoro si rivolge occasionalmente a un singolo dipendente. Spesso notano molte persone sulla loro strada e ingannano anche loro. Pertanto, è bene informarsi. Come si comporta con gli altri membri del team? Chiedi ai colleghi se sono disposti a documentare il comportamento di gaslighting se affermano di aver subito un trattamento simile.

Non hai mai modo di prendere decisioni importanti. Il gaslighter esclude da conferenze, discussioni e progetti cruciali senza mai fornire una giustificazione convincente. Cercherà di convincerti che stai esagerando o che eri male informato e non dovevi partecipare quando chiederai perché non sei stato coinvolto. Ti convincerà che qualcosa non è importante, anche quando lo è per il lavoro che stai svolgendo. Se hai la sensazione di essere sempre tagliato fuori, può essere un sintomo che si sta subendo un’azione di gaslighting.

È difficile sfidarli. “Ti stai comportando in modo irrazionale”; “Non credi di reagire in modo troppo forte?”… Con questi commenti, l’aggressore non solo sminuisce i sentimenti, ma si sottrae anche alla responsabilità delle sue azioni. E questo ti porta a credere che la colpa sia tua! Inoltre, ti fanno dubitare della tua intelligenza e capacità e ti fanno sentire folle per aver parlato, il che aumenta la probabilità che continui a ignorare la questione.

Sei costantemente spostato su progetti poco importanti. Potresti scoprire che ti vengono affidati compiti inutili che ti tengono occupato ma che non hanno alcun impatto reale. Potrebbe trattarsi di un tentativo di minare la tua influenza e di ostacolare le tue prestazioni in modo che, al momento della valutazione, non hai nulla da mostrare perché non hai mai ricevuto un lavoro utile e non hai alcun risultato di cui parlare.

Si sentono voci false. Parlando alle spalle, i gaslighter possono tentare di minare la tua visione della realtà. Mettendoti i colleghi contro, il gaslighter può mantenere il controllo della situazione e farti sentire in colpa. Se senti voci non vere, cerca di capire da dove provengono. Potresti potenzialmente trovare l’uomo che fa il gaslighter nascosto. Hai il diritto di difenderti e sfatare qualsiasi voce, indipendentemente dalla situazione

STRATEGIE PER MITIGARE E PREVENIRE IL GASLIGHTING

Fidati delle tue percezioni. Se qualcosa non sembra andare per il verso giusto, è importante fidarsi del proprio istinto e cercare conferme oggettive.

Documenta. Tenere un diario degli eventi o delle comunicazioni sospette può servire come prova e aiuta a mantenere una visione chiara della realtà. Quando parli con il sospetto gaslighter, assicurati di prendere appunti e di tenere un registro delle conversazioni. Utilizza il maggior numero possibile di mezzi di comunicazione per registrare e documentare ciò che è stato detto o modificato. Se possibile, fai in modo che durante le riunioni siano presenti dei testimoni, in copia inserisci l’indirizzo e-mail di un compagno di squadra. Se possibile, sii il più esplicito possibile quando parli. Sarà più difficile dubitare della tua integrità e infrangere gli accordi se hai una registrazione in tempo reale degli incontri. In questo modo, potrai anche stabilire se effettivamente sei vittima di gaslighing.

Cerca supporto. Confrontarsi con colleghi fidati o con un professionista può aiutare a valutare la situazione con maggiore oggettività. Il gaslighter sottolinea continuamente i difetti del tuo lavoro? Chiedi a un secondo paio di occhi di controllare questi presunti errori. Il gaslighter continua a sostenere che non hai mai ricevuto critiche alle spalle, di fronte alla squadra? Chiedi a qualcuno che era presente quando è stata fatta questa critica.

Stabilisci confini chiari. Impostare limiti chiari con chi pratica gaslighting può essere un passo importante per fermare il comportamento.

Rivolgi l’attenzione alle politiche aziendali. Informati sulle politiche aziendali riguardanti il benessere dei dipendenti e, se necessario, segnala le situazioni di gaslighting ai responsabili delle risorse umane o ad altri enti preposti.

CONCLUSIONI

Non è semplice contrastare il gaslighting. L’ho vissuto sulla mia pelle e sono consapevole che i suggerimenti descritti non sono esaustivi. Ma essere consapevoli di lavorare in un ambiente tossico, o peggio, di essere vittime di un gaslighter è già molto. Un primo passo da cui partire. Per sé stessi, in primis.

PERCHE’ le PERSONE BUONE diventano CATTIVE (in AZIENDA). In omaggio al prof Zimbardo

Domenica 15 agosto 1971. In una tranquilla e assolata cittadina della California, alcuni studenti vengono arrestati con accuse fumose da una polizia fin troppo zelante e affidati in carcere ad ancor più zelanti agenti di custodia. Sorpresa! Le guardie sono studenti del Dipartimento di psicologia della locale Università al pari dei detenuti, e tutti hanno dato il loro consenso a una ricerca del professor Zimbardo – e persino la prigione è simulata.

Difficile non appassionarsi al racconto. Prima di proseguire, permettetemi di presentarvi (meglio) la mente dell’esperimento che sto per raccontare.

CHI E’ PHILIP ZIMBARDO

È uno dei più importanti psicologi al mondo. Professore emerito alla Stanford University, ha insegnato a Yale e alla Columbia University. Fra i tanti incarichi istituzionali: President dell’American Psychological Association e della Western Psychological Association.

Autore di numerosissime pubblicazioni, articoli, testi e libri su argomenti che spaziano dalla persuasione, alla dissonanza, alla prospettiva temporale, alla de-individuazione, all’ipnosi, alle sette e all’obbedienza all’autorità.

E’ stato il primo a studiare in maniera scientifica la timidezza, fondando una prima clinica per i timidi. Ha dato un grande contributo al tema del controllo delle menti (il riferimento è allo studio sul più grande suicidio di massa del 1979), della propaganda e delle fake news che rimandano sempre a dinamiche psicologiche della manipolazione. Comportamenti devianti legati al contesto e non solo alle singole personalità.

L’ESPERIMENTO CARCERARIO

L’esperimento carcerario di Stanford nacque dal tentativo di “comprendere i processi di trasformazione che si verificano quando persone buone compiono azioni cattive”. La domanda a cui Zimbardo voleva dare risposta era: “Cosa spinge le persone a mettere in atto comportamenti al limite dell’umano?”

Il suo studio è stato capace di mettere in evidenza l’importanza del contesto in tema di comportamenti e, allo stesso tempo, ha mostrato la natura oscura che è dentro ognuno di noi, il cosiddetto effetto Lucifero.

Gli sperimentatori reclutarono i partecipanti all’esperimento attraverso un annuncio sul giornale che prometteva loro 15 dollari al giorno per due settimane, in cambio della partecipazione. Tra le numerose persone che risposero all’annuncio, Zimbardo e i suoi collaboratori, selezionarono 24 studenti universitari, ritenuti idonei perché considerati individui equilibrati, senza inclinazione alla violenza e senza precedenti penali.

Venne quindi allestita una finta prigione all’interno dell’università, con tanto di telecamere e attraverso il lancio di una moneta, i partecipanti vennero divisi in due gruppi: detenuti e guardie. A quest’ultimi vennero fornite delle divise composte da occhiali da sole riflettenti e manganelli. I detenuti vennero privati dei loro indumenti e costretti ad indossarne altri in modo da essere omologati e privati della loro individualità.

Quando l’esperimento ebbe inizio ogni partecipante cominciò ad assumere il ruolo assegnato. Le guardie giravano tra i corridoi delle celle con aria di superiorità. In più, per garantire l’ordine e guadagnare il rispetto dei detenuti, decisero di imporre loro delle regole. D’altra parte, i detenuti stentavano a prendere sul serio le regole imposte, considerando tutto come un gioco e continuando a scherzare. Con il passare dei giorni, ambedue i gruppi iniziarono sempre più a manifestare comportamenti insoliti legati al ruolo diverso assunto all’interno dell’esperimento.

L’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni. Tuttavia, la finzione finì per rivelarsi più reale della realtà, tanto che venne interrotto durante la prima settimana quando cinque detenuti organizzarono rivolte e crearono situazioni caotiche di difficile gestione e alcune guardie obbligarono i prigionieri a svolgere attività svilenti adottando un atteggiamento vessatorio.

L’esperimento che voleva mettere a fuoco soprattutto le reazioni dei detenuti, a poco a poco fece emergere che l’effetto più sconcertante delle dinamiche di gruppo era, invece, la trasformazione delle “guardie” da giovani equilibrati in aguzzini. Ed evidenziò quanto labili fossero i confini tra bene e male, ben prima delle documentate sevizie in carceri come Abu Ghraib, si sono riconosciuti nel volto del carnefice i tratti dell’individuo comune, quello che abitualmente chiamiamo il nostro prossimo.

EFFETTO LUCIFERO

Cosa era successo a quegli individui equilibrati privi di qualsiasi comportamento deviante?

Il risultato dell’esperimento carcerario di Stanford è anche definito effetto Lucifero, in quanto è riuscito a dimostrare come persone buone possano compiere atti disumani. L’effetto Lucifero rappresenta il male che le persone possono diventare, non il male che le persone sono. L’interesse di Zimbardo per l’esperimento servì per creare un contesto attraverso cui studiare i fattori situazionali e circostanziali che possono condurre persone normali e buone a compiere del male. E lo portò a evidenziare le forze psicologiche che spingono gli individui a oltrepassare la linea che separa il bene dal male.

Questo effetto suggerisce che la malvagità non è determinata solo da chi siamo, ma anche dalla situazione specifica in cui ci troviamo. Di qui l’importanza dei ruoli sociali nel determinare il comportamento umano: quando una persona assume un determinato ruolo in una situazione specifica, finisce per trasformarsi in quel ruolo che diventa poi la sua stessa identità.

Zimbardo ritiene che la causa della trasformazione delle persone da buone a cattive sia quindi il sistema in cui si trovano e la loro relazione con il potere. Il contesto è ciò che fa la differenza.

L’ESPERIMENTO DI MILGRAM

Per il suo esperimento, Zimbardo si ispirò agli studi di Milgram. Quest’ultimo è conosciuto per un altro esperimento che fece molto discutere e che prese il suo nome. Condotto nel 1961, con l’obiettivo di studiare se e in che modo il comportamento umano potesse essere influenzato dall’obbedienza a una autorità. In breve, venne chiesto ai soggetti coinvolti di infliggere una scarica elettrica ad altri partecipanti – complici dell’esperimento – ogni volta che questi sbagliavano la risposta a un esercizio.

Le scariche elettriche non venivano somministrate realmente, ma i complici fingevano di avvertire dolore. I risultati dell’esperimento mostrarono come molte delle persone arruolate, nonostante esprimessero disaccordo verso questa pratica violenta, obbedirono incondizionatamente agli ordini impartiti, scaricando la propria responsabilità su chi impartiva gli ordini.

LO SCANDALO ABU GHRAIB

Lo studio di Zimbardo tornò all’attenzione della cronaca, con lo scandalo di Abu Ghraib in Iraq, relativamente alle violazioni dei diritti umani commesse dai militari americani nei primi anni Duemila.

Dopo lo scandalo, Zimbardo fu chiamato come testimone esperto per spiegare come individui ordinari, i soldati americani coinvolti, potessero essere indotti a compiere atti di violenza e umiliazione. Sostenne che le dinamiche viste in Iraq erano simili a quelle dell’esperimento di Stanford. Fu chiamato come perito a valutare questi soldati: emerse che c’è corresponsabilità in questi comportamenti devianti che spesso colpiscono solo singoli capri espiatori. Insomma, anche a distanza di anni, l’esperimento di Stanford toglie la maschera ai poteri. Zimbardo è stato psicologo e ricercatore particolarmente scomodo e critico, anche da queste cose emerge la sua personalità. Tempo fa non esitò a definire Trump come persona affetta da disturbo di personalità.

COME QUESTE TEORIE possono tornarci utili nella quotidianità

Potreste essere indotti a sottovalutare il lavoro di Zimbardo, lontano dalle realtà organizzative. C’è un però: i comportamenti aggressivi e sadici avvengono ovunque. Chi non ha avuto a che fare con superiore rabbioso, sadico o vendicativo o un pari grado trasformatosi in una persona poco piacevole una volta ottenuta la promozione?

Pur non volendolo far sembrare un alibi, considerare che i motivi di certe propensioni all’aggressività potrebbero essere indotti dal ruolo e dal potere che ne consegue, permette di intervenire. Un altro elemento che ci viene restituito dall’esperimento è il fatto che il potere venne dato a persone che non avevano ricevuto nessun tipo di training specifico. E questo succede in molte realtà lavorative, in cui i responsabili si ritrovano a gestire i collaboratori non tanto per la loro preparazione o attitudine manageriale, ma per anzianità o fedeltà all’azienda.

Inoltre, molti si adeguano al contesto lavorativo, per avanzare con la carriera o anche solo per non essere boicottati o messi da parte, giustificandosi con il fatto che sia necessario mostrarsi duri e severi per comandare, come indicato loro da chi li ha preceduti. Fautori ma anche vittime dell’effetto Lucifero.

Zimbardo, è doveroso sottolinearlo, non si è solo limitato a svelare la parte oscura; ha provato a interrogarsi su come fosse possibile prevenire i comportamenti scorretti. Se è vero che c’è un effetto Lucifero, quali sono le situazioni che possono renderci migliori? Da qui l’idea di creare percorsi formativi per aiutare le persone a resistere alle pressioni sociali e consentire loro di esprimere il proprio potenziale positivo, che hanno dato vita a uno specifico percorso formativo, l’Heroic Imagination Project che trova la sua applicazione anche in Italia in collaborazione con l’Università di Salerno. Questo progetto prova a fare l’opposto di quanto accadeva nella prigione: creare contesti sani, pro-sociali, di solidarietà… in cui c’è la possibilità di crescere insieme e di dare il meglio in diverse situazioni.

CONCLUSIONI

L’esperimento di Zimbardo è stato oggetto di numerose critiche, non solo sul piano etico. Ma è innegabile il contributo che ne è seguito.

Prima di salutarvi e ringraziare una volta ancora il mio mentore per l’immenso sapere che ha condiviso e le domande a cui non si è mai sottratto dal rispondere, lascio per chi  volesse approfondire il tema qualche consiglio di lettura e visione:

L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?

–            The Experiment, film di P. Scheuring

–            The Experiment. Cercasi cavie umane, film di O. Hirschbiegel

–            Effetto Lucifero (The Stanford Prison Experiment), film di K. P. Alvarez.

Buon viaggio prof!

Come RICONOSCERE il CAREWASHING (e l’OFFICE PEACOCKING) sul LAVORO

Puoi anche mettere il rossetto a un maiale, ma resta sempre un maiale“. Forse una delle migliori espressioni proverbiali per spiegare cosa si intende per carewashing. Pratica che consiste nell’abbellire qualcosa in superficie, mentre la vera sostanza resta poco attraente e, in questo caso, anche maleodorante. E a cui ricorrono diverse realtà aziendali.

Troppe organizzazioni con culture non sostenibili credono (o vogliono far credere) che sia sufficiente offrire ai collaboratori corsi di mindfulness, yoga, massaggi terapeutici o benefit per la salute, senza realmente affrontare i problemi e i disagi dichiarati, per attirare consensi e talenti. In realtà, stanno semplicemente facendo carewashing.

Come il termine più noto greenwashing, carewashing deriva da whitewashing: coprire o dare un’immagine fuorviante al mancato rispetto di un impegno, di una dichiarazione o di uno standard.

CAREWASHING VS OFFICE PEACOCKING

Il carewashing è molto simile all’office peacocking (pavoneggiamento in ufficio), la tattica messa in atto dalle aziende che cercano di riattirare i dipendenti in ufficio (riducendo lo smart working). Il termine si riferisce al deliberato rifacimento degli spazi degli uffici in contesti invitanti che invoglino i collaboratori a trascorrervi più tempo, attraverso, ad esempio, l’installazione di comodi divani, angoli accoglienti, luce naturale e piante che trasformano l’ufficio in un ambiente vivace. Alcune aziende stanno anche investendo in decorazioni di lusso e cucine rifornitissime.

La differenza (sottile) è che il carewashing enfatizza i benefici per la salute mentale per invogliare i dipendenti a tornare in ufficio, quando in realtà i datori di lavoro non si preoccupavano affatto se i collaboratori utilizzeranno o meno i servizi offerti.

Non sono poche le aziende che vantano programmi per il benessere ma non monitorano l’impegno o i risultati. Se un’organizzazione non ha modo di misurare i risultati sulla salute nel tempo, per determinare se i programmi offerti funzionano davvero, probabilmente non è veramente interessata al benessere e alla salute dei dipendenti.

I tempi cambiano e per rimanere attraenti, le aziende si devono adeguare o quanto meno interrogarsi. Oltre ai benefit, i dipendenti vogliono manager con cui poter parlare, orari di lavoro flessibili, carichi di lavoro ragionevoli e servizi di salute mentale e benessere di cui possano effettivamente usufruire. E non aziende che offrono corsi di yoga aspettandosi come contropartita che tutti si presentino al lavoro allegri e produttivi.

COME AVVIENE IL CAREWASHING

Ci sono alcune motivazioni che spiegano lo scollamento tra ciò che un’organizzazione dice di voler fare e ciò che effettivamente fa in merito alla cultura dell’ambiente di lavoro.

LEADER MAL EQUIPAGGIATI. Il carewashing, involontario o inconsapevole, si verifica quando i leader non hanno la volontà o le competenze per affrontare i problemi di cultura organizzativa esistenti.

MANCANZA DI FOLLOW-UP. Il carewashing si verifica quando le aziende, per far fronte alle sfide immediate di assunzione e retention, dichiarano di dare priorità al benessere dei dipendenti, ma non riescono a garantire che i manager abbiano le competenze e le risorse per realizzare tali impegni.

INTERESSE PERSONALE. Le organizzazioni e i loro leader si trovano a volte di fronte al dilemma fra affrontare i comportamenti problematici e rischiare un danno alla reputazione, oppure di proteggerla ignorando o nascondendo il problema. Un’altra (e una delle più gravi) forme di carewashing si verifica quando i leader che fingono di preoccuparsi del benessere e della sicurezza dei dipendenti ignorano le denunce di molestie sul posto di lavoro e banalizzano il danno subito.

COSA FARE PER FERMARE IL CAREWASHING

Crea consapevolezza e normalizza le conversazioni sulla salute mentale.

Monitora il benessere e i risultati dei programmi esistenti. Raccogli regolarmente i feedback dai dipendenti sulle loro esigenze di sicurezza e benessere dei collaboratori e sull’efficacia dei programmi esistenti e usa questi dati per apportare miglioramenti informati.

Forma i manager. Fornisci ai manager le competenze per riconoscere i segnali di disagio e malessere e fornire supporto. Mostra loro come creare un ambiente aperto in cui le persone si sentano al sicuro.

Semplifica l’accesso ai servizi. Fai in modo che i servizi siano facilmente accessibili e senza procedure macchinose. Riservatezza e facilità d’uso sono cruciali.

Sii chi dici di essere. Cura l’allineamento tra impegni e capacità. Seleziona un numero limitato di impegni relativi al benessere e alla sicurezza che sai di poter rispettare in un determinato periodo di tempo e assicurati che l’attuazione sia all’altezza della comunicazione. Sii trasparente e riconosci i punti deboli.

Fai domande e sii pronti ad ascoltare davvero. Potresti ricevere feedback negativi e scomodi. Per questo motivo, è necessario salvaguardarne l’integrità. Non è raro che, di fronte a risultati negativi, questi vengano alterati perché “la direzione ha bisogno di fare bella figura”, innescando il malumore dei dipendenti che non hanno visto rispecchiate le loro risposte o preoccupazioni. Impegnati a condividere il percorso di miglioramento continuo con gli stakeholder e a coinvolgere i dipendenti nel processo di co-creazione.

Allinea i criteri di leadership ai valori organizzativi. Le organizzazioni che si concentrano esclusivamente sui profitti a breve termine possono basare la selezione dei leader su competenze come il carisma, l’estroversione, la capacità di influenzare gli altri, l’orientamento agli obiettivi, la capacità di prendere decisioni difficili e l’elevata tolleranza al rischio, ignorando le capacità interpersonali. Per creare un ambiente di lavoro sicuro e salutare, le organizzazioni dovrebbero verificare la presenza di valori e competenze basati sulle persone (empatia, capacità di ascolto, apertura verso gli altri, attenzione) e di comportamenti etici al momento dell’assunzione e della promozione; valutare le prestazioni in base a criteri che vadano oltre i risultati superficiali e a breve termine; implementare (nei fatti, non solo a parole) politiche e procedure che riconoscano e affrontino i segnali di allarme nei comportamenti dei leader.

Sii consapevole. I leader senior che vogliono evitare il carewashing devono avere la saggezza e l’umiltà di ammettere di non avere tutte le risposte, di essere disposti a essere vulnerabili e di mostrare curiosità e una mentalità di apprendimento. Non riconoscere l’impatto della cultura emotiva sulla produttività dei dipendenti è una caratteristica centrale del carewashing.

In una vera cultura del caring, i leader creano un senso di fiducia che consente ai dipendenti di condividere le proprie difficoltà, esigenze e aspirazioni in un ambiente sicuro. L’uso di affermazioni non comprovate sul benessere dei dipendenti come strumento di marketing è una soluzione rapida che avrà conseguenze negative a lungo termine. Ma trovare il coraggio di affrontare la cultura emotiva come una realtà condivisa dal team, dove la cura è un fatto piuttosto che una finzione, aiuterà i leader a creare in modo sostenibile organizzazioni che attraggono, motivano e trattengono i migliori talenti.

E infine… Oggi i social media rendono più facile smascherare le aziende che applicano il carewashing. Le recensioni negative su piattaforme come Glassdoor e LinkedIn possono rapidamente rovinare l’immagine di un’azienda; quando i dipendenti criticano pubblicamente il datore di lavoro per un supporto inadeguato alla salute e al benessere, questo può fortemente scoraggiare potenziali talenti e clienti.

Le TRAPPOLE dei LEADER e della LEADERSHIP

Il potere ha un impatto non indifferente sulle persone, poiché ne cambia le percezioni, il giudizio e il comportamento. Non solo in coloro che lo detengono ma anche in coloro che stanno intorno, collaboratori, amici e colleghi.

Quando si ricopre una posizione di comando, infatti, non si è più visti come individui bensì come simbolo di autorità. Ed è facile che se ne sopravvalutino le idee, si tenda a dare feedback meno onesti e accurati, a essere meno disposti a parlare, a fidarsi e ad assumersi dei rischi, così come chiudere un occhio sulle eventuali cattive condotte. O si ripongano aspettative irrealistiche su ciò che il leader può realizzare o, al contrario, considerarlo con scetticismo, per vedere se è degno del nuovo status.

Il risultato?

Il modo in cui le persone reagiscono al potere, modella il leader in modi di cui non è facile rendersi conto. Senza la consapevolezza di questa dinamica, è facile cadere nelle trappole che il potere crea, minando la capacità di fare ciò che è giusto per l’organizzazione. Gli studi dimostrano che quando i leader usano male il loro potere, la motivazione dei collaboratori e delle persone loro vicine diminuisce, così come la loro intenzione di dare il massimo contributo all’organizzazione.

Per questo è importante evidenziare le trappole che possono mettere a rischio i leader a tutti i livelli: più a lungo si ricopre un ruolo apicale, più potenzialmente estreme – e pericolose – possono diventare le trappole. Sebbene non sia possibile controllare il modo in cui le persone reagiscono, è possibile però controllare il nostro comportamento e impiegare strategie per mitigare le conseguenze negative.

LA TRAPPOLA DEL SALVATORE

Si manifesta con la tendenza a dare una moltitudine di consigli, spesso non richiesti, avere tutte le risposte ed essere eccessivamente disponibili. Questo può spingere il leader a identificarsi in una sorta di salvatore, annientando il team. O ancora, dire la propria su ogni cosa, anche su questioni che non rientrano nella sua area di competenza. I sintomi della trappola del salvatore includono il tentativo di risolvere i problemi di tutti, la microgestione di progetti o prodotti e l’offerta di suggerimenti che non sono necessari o che esulano dalle proprie competenze.

Perché è un problema?

Quando si è presi dal salvare gli altri, si ha un’eccessiva fiducia nelle proprie capacità (overconfidence bias). Il bisogno di essere utili o di controllare rende il leader più a rischio di fallimento. Inoltre, limita la capacità e la motivazione dei collaboratori a contribuire o sviluppare nuove idee, fino a sentirsi sempre meno autonomi e responsabili.

Per evitare la trappola del potere:

·      Prima di proporre soluzioni e risposte, abituati a porre domande.

·      Sii onesto con te stesso. Quante delle idee e dei suggerimenti che condividi in riunione vengono effettivamente attuati? Chiedi ai colleghi di valutare anonimamente l’utilità dei tuoi suggerimenti.

·      Quando gli altri sono competenti ma cauti su un obiettivo o un compito, ascolta attivamente le loro preoccupazioni e facilita la soluzione dei problemi.

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

In un ruolo di responsabilità, volenti o nolenti, si diventa spesso l’esperto elettivo, quello che ha le risposte. A differenza della trappola del salvatore, questa trappola corrisponde a un calo della curiosità. Poiché si pensa di sapere tutto, si fanno meno domande, si presume di aver capito il problema e non si sollecitano ulteriori informazioni, si considera il silenzio come consenso e si presume che ci sia vero accordo e non compiacenza.

Cadere nella trappola dell’autocompiacimento significa non arrivare alla verità perché non si è cercato di approfondire la discussione. Non ci si è chiesti: “Mi sto perdendo qualcosa?” o “Cosa potrei aver trascurato?”. Quando qualcuno viene a chiedervi aiuto, gli date la risposta invece di chiedere: “Cosa avete provato?” o “Quale pensate sia il problema?”.

Perché è un problema?

L’autocompiacimento rischia di farci perdere le informazioni e i dati necessari per prendere buone decisioni. Inoltre, non si è nelle condizioni di aiutare il team a sviluppare il pensiero critico e diventare autosufficienti nella risoluzione di problemi.

Per superare la trappola dell’autocompiacimento:

·      Sviluppa una pratica di indagine che metta in luce le ipotesi, i valori e le convinzioni insite nella discussione. Chiedi: “Quali ipotesi stiamo facendo?”. “Cosa non abbiamo ancora chiesto?”. “Cosa potrebbero vedere uno stakeholder esterno, un competitor o un cliente che non abbiamo ancora considerato?”.

·      Usa la tecnica dei “cinque perché” nelle discussioni. Quando qualcuno pone una domanda o solleva un problema, chiedi “perché” fino a quando non avrete individuato la causa principale o il livello più profondo del problema.

·      Condividi in modo proattivo ciò che stai imparando, in modo che l’autocompiacimento non diventi mai un’abitudine e che l’apprendimento continuo diventi un valore.

·      Sii presente. La compiacenza può essere un sintomo di distrazione, il risultato del multitasking e della disattenzione. Stacca il telefono quando parli con qualcuno. Se sei in riunione, fai domande. In questo modo aumenterai la presenza e la curiosità e, di conseguenza, dimostrerai agli altri che ciò che dicono e hanno da offrire è importante.

LA TRAPPOLA DELL’EVITAMENTO

Una posizione di potere consente di prendere scorciatoie. Se da un lato offre maggiore autonomia, possibilità di scelta e opportunità, dall’altro permette di evitare compiti spiacevoli affidandoli ad altri o, quando possibile, evitandoli del tutto. Come, ad esempio, non affrontare una conversazione difficile o dare un feedback severo, o un conflitto che si sta incancrenendo all’interno del team.

Perché questo è un problema?

Evitare le parti spiacevoli e difficili del ruolo può alleggerire il carico nel breve termine, ma finisce per indebolire la capacità di fare da soli. Un leader che sceglie i propri compiti trasmette il messaggio che rendere conto del ruolo è facoltativo. Viene visto come inaffidabile e la mancanza di affidabilità è nota per diminuire la fiducia e nell’organizzazione che lo consente.

Per evitare la trappola dell’evitamento e orientarsi verso le sfide:

·      Chiediti: “Quali sono i doveri del mio ruolo? Cosa richiede? È il mio lavoro? Devo farlo?”.

·      Chiediti: “Qual è il costo dell’inazione per me stesso, gli altri, il team e l’azienda?”. “Se non affronti il problema, quali potrebbero essere le conseguenze?”.Stai dando al team esempi che ti costeranno nel lungo termine?”. “Stai riducendo o aumentando il tuo carico di lavoro evitando il problema?”.

·      Cambia mentalità, passando da una in cui lo stress è debilitante a una in cui lo stress è positivo. Il modo in cui percepisci la sfida influenza il grado di stress connesso alla sfida stessa. Sviluppando una mentalità secondo cui lo stress è benefico per affrontare situazioni difficili ti renderà un leader più forte, sarai meno incline a evitare compiti spiacevoli.

·      Tendiamo ad evitare le cose per le quali ci sentiamo inadeguati. Fai un elenco dei compiti richiesti dal ruolo che preferisci evitare o su cui tendi a procrastinare. Fatti aiutare da un mentor per esaminare la lista, identificando le competenze necessarie per affrontarli.

LA TRAPPOLA DELL’AMICO

Il potere può essere scomodo e i leader che faticano a far proprio il ruolo possono cadere, con i propri collaboratori, nella trappola dell’amico: ossia comportarsi come un pari quando non lo si è.

Tali leader fanno eccessivo affidamento sul loro potere personale e rinunciano al potere posizionale, nel tentativo di essere apprezzati e minimizzare la loro autorità. Lo vediamo quando qualcuno viene promosso e si trova a dover gestire un ex collega. Il nuovo leader può avere difficoltà a responsabilizzare le persone o a prendere decisioni. Può anche condividere informazioni riservate o fare favoritismi: tutte cose che seminano confusione e caos.

Perché è un problema?

L’abuso di potere è tanto un atto di omissione (non fare la cosa giusta) quanto un atto di commissione (fare qualcosa di sbagliato). Quando i leader non incarnano il potere della loro posizione, le persone che li circondano non sanno cosa ci si aspetta da loro, il che compromette la loro capacità di concentrarsi ed eseguire. Inoltre, il fatto di non intervenire in ciò che richiede la propria autorità lascia un vuoto che spesso viene riempito dalla persona più dominante del team, non necessariamente la più competente, con conseguenti tensioni e conflitti.

Per navigare nella trappola dell’amico:

·      Prendi nota del motivo per cui sei stato promosso; molto probabilmente hai le competenze per adempiere agli obblighi del ruolo. Fai un elenco delle ragioni per cui sei la persona giusta e appendilo in un posto a te accessibile.

·      Fai pace con il potere. Sappiamo che molte persone non si sentono a proprio agio con il potere a causa di tutti i modi in cui lo hanno visto usato male. Pensa alle persone che usano il potere in modo efficace. “Che cosa li rende efficaci?”; “Ci sono comportamenti che potresti mettere in pratica anche tu?”.

·      Fai un inventario dei tuoi punti di forza e di come puoi sfruttarli per il ruolo. Quando dai per scontato i tuoi poteri personali, è facile che li userai in modo casuale invece che deliberato. Qualsiasi punto di forza, anche la cordialità, può diventare un ostacolo, se usato in modo eccessivo.

·      Stabilisci esplicitamente le nuove relazioni e responsabilità con il team. Prendi in considerazione l’utilizzo di un quadro decisionale per progetti specifici. Le discussioni intenzionali eliminano i dubbi su come utilizzare il nuovo potere.

LA TRAPPOLA DELLO STRESS

La leadership è intrinsecamente stressante e i leader sono sottoposti a enormi pressioni per ottenere risultati. I rapidi cambiamenti tecnologici e la volatilità del mercato creano incertezza e instabilità costanti. Molti leader sono anche schiacciati tra i dipendenti e l’alta dirigenza, destreggiandosi tra scadenze e risultati, tagli al budget e turnover.

Lo stress non gestito è deleterio, non solo per il leader che lo subisce, ma anche per chi gli sta accanto. Se si inviano e-mail nel cuore della notte, si risponde in modo sgarbato alle richieste o si esegue una microgestione per ansia, si crea uno “stress di seconda mano”, trasmettendo il proprio stato emotivo agli altri. Tutto ciò è amplificato dalla lente del tuo potere. A tutti è concesso di avere una giornata storta, ma quando sei il capo, potresti pensare di essere solo un po’ scontroso; per i collaboratori, invece, potrebbe essere molto di più.

Perché è un problema?

Per evitare di trovarsi sulla linea di tiro, i collaboratori diretti potrebbero minimizzare le cattive notizie o non dire quando le cose non vanno bene finché non è troppo tardi. Le persone non riescono a pensare in modo chiaro e creativo in un’atmosfera di sovraccarico.

Per navigare in questa trappola:

· Riconosci di essere sotto stress quando lo sei e i comportamenti e i segnali disfunzionali o poco strategici che metti in atto

. Sviluppa attività per gestire lo stress: mindfulness, tecniche di respirazione o di rilassamento, terapia cognitivo-comportamentale o altri approcci.

·      Riduci e gestisci lo stress migliorando le routine quotidiane. Fai pause tra una riunione e l’altra, esercizio fisico, mangia correttamente e prevedi piccole pause.

·      Lo stress è inevitabile, quindi, per esempio, rimanda la scrittura di un’e-mail difficile o la risposta a una richiesta impegnativa fino a quando non avrai avuto il tempo di riflettere, di parlarne con qualcuno, fare una passeggiata, ecc.

CONCLUDENDO

Le trappole sono evitabili e mitigabili, ma trattandosi di un terreno scivoloso è comunque facile cadervi. Se sei fortunato da ricevere un feedback che ti dice che sei intrappolato in una di queste dinamiche di potere o ti accorgi di dipendere eccessivamente da una posizione di comfort che il ruolo ti offre, fanne buon uso e correggi il tiro!

Poiché quando rafforzi il modo in cui eserciti la tua leadership, dai potere a chi ti circonda e crei ambienti generativi e risultati migliori per l’organizzazione.

PS. hai riconosciuto la trappola in cui tendi a cadere più facilmente?

3 Ottobre ’24 – Nudge Management e Neuroscienze al lavoro – Castello di Grinzane Cavour

Giovedì 3 Ottobre ’24 dalle 17.45 presentazione del libro: “Playthebrain – Neuroscienze al lavoro. Esperienze e strumenti pratici per comprendere le dinamiche relazionali sui luoghi di lavoro”, edito da Franco Angeli Editore. Il manuale è frutto di una collaborazione sinergica fra esperti per offrire un’innovativa chiave di lettura su temi quali: emozioni, nudge, decision making, sicurezza psicologica e memoria.

La presentazione avverrà nel Castello di Grinzane Cavour.

Il mio intervento verterà su Nudge management: l’applicazione della spinta gentile nel contesto organizzativo.

Apre i lavori:
Riccardo Bubbio, Vice Presidente AIDP Piemonte e Valle d’Aosta
Clara Rocca, Consigliera Nazionale AIDP – Associazione Italiana per la Direzione del Personale e referente AIDP per la provincia di hashtagCuneo

Intervengono gli autori del libro🔥
Diana Boccalatte, Riccardo Bubbio, Roberto Ceschina, Monica Ciallie, Lara Martini, Federica Riccardi, Clara Rocca e Laura Mondino

PERCHE’ le DONNE vengono SPINTE giù dalla SCOGLIERA di VETRO…

Non lasciatevi ingannare dal nome poetico, quasi romantico, di un fenomeno frequente ma di cui si parla poco, troppo poco: il glass cliff o scogliera di cristallo. Che attanaglia le donne al comando in ambienti tradizionalmente appannaggio degli uomini.

Se una volta l’incubo delle donne in carriera di chiamava glass ceiling (soffitto di vetro), quelle situazioni lavorative in cui l’avanzamento di carriera viene impedito per discriminazioni (in genere di carattere razziale o sessuale), oggi l’ostacolo peggiore è il glass cliff (scogliera di vetro).

Coniato da Michelle Ryan e Alex Haslam dell’Università di Exeter, nel 2004, il termine indica la situazione in cui si trovano quelle donne che, pur avendo successo in ruoli tradizionalmente maschili, sono più a rischio di perdere il lavoro e di essere giudicate più severamente o meno competenti dei colleghi maschi, di fronte allo stesso errore.

Come dimostra lo studio dell’Università di Yale “How Won and Easily Lost” che ha analizzato come sono state percepite le decisioni del capo della polizia, prese durante una rissa in una manifestazione. Quando il numero di agenti inviati sul posto era inferiore rispetto la portata degli scontri, se il capo era donna veniva giudicata molto più severamente rispetto se al comando c’era un collega uomo e malgrado i due avessero commesso lo stesso errore.

Lo studio di Yale ha preso in esame anche altre occupazioni: nell’ingegneria aerospaziale e in qualità di giudice supremo. Va riconosciuto che l’effetto non risparmia gli uomini: quando sono chiamati a fare lavori tradizionalmente femminili le conclusioni sono risultate le stesse.

Entriamo nel dettaglio.

COS’È L’EFFETTO SCOGLIERA DI VETRO?

L’effetto Glass Cliff è un fenomeno che descrive la tendenza delle donne a ricoprire posizioni di leadership durante periodi di crisi o quando c’è un alto rischio di fallimento. Questo concetto si basa sull’idea che le donne sono considerate più brave nel trattare con le persone e vengono quindi messe alla guida quando c’è bisogno di un approccio empatico o educativo. Tuttavia, ciò significa anche che le donne hanno maggiori probabilità di fallire, poiché spesso vengono loro affidate le redini quando le cose stanno già andando male.

Ciò suggerisce che le donne sono spesso viste come “ultima risorsa” e vengono coinvolte per cercare di cambiare la situazione.

Altri studi hanno confermato l’esistenza dell’effetto Glass Cliff in vari contesti. Una ricerca sulle elezioni politiche nel Regno Unito ha rilevato che le donne avevano maggiori probabilità di essere selezionate come candidate in seggi impossibili da vincere, mentre gli uomini avevano maggiori probabilità di essere selezionati in seggi considerati sicuri. Ciò suggerisce che le donne vengono spesso messe in posizioni in cui il successo è improbabile e hanno quindi maggiori probabilità di sperimentare il fallimento.

LE RAGIONI DEL GLASS CLIFF

Le donne sono spesso viste come più premurose ed empatiche, e quindi si ritiene siano più brave a trattare con le persone. Ciò può renderle una buona scelta per posizioni di leadership in cui è necessario un approccio collaborativo. Tuttavia, ciò può anche significare che sono considerate meno competenti quando si tratta di competenze difficili come la finanza o la strategia. Ciò significa che hanno maggiori probabilità di venir criticate rispetto agli uomini, il che può rendere loro più difficile il successo. Uno studio condotto su CEO donne ha rilevato che avevano maggiori probabilità di essere prese di mira da investitori attivisti rispetto agli AD uomini.

NATURA DI GENERE E ASSUNZIONE DI RISCHI

La leadership e l’assunzione di rischi sono stati a lungo associati alla mascolinità. Gli uomini sono spesso visti come leader naturali e amanti del rischio, mentre le donne come più avverse al rischio e meno propense ad assumere posizioni di leadership. Questa percezione di genere ha portato le donne a essere sottorappresentate nelle posizioni di comando e a essere trascurate per opportunità ad alto rischio e ad alto rendimento. Tuttavia, recenti ricerche hanno dimostrato che le donne:

– Non sono intrinsecamente avverse al rischio; sono semplicemente più caute quando si tratta di potenziali perdite.

– Hanno maggiori probabilità di essere nominate in posizioni di comando in tempi di crisi o situazioni ad alto rischio perché meglio attrezzate per gestire tali contesti e migliori problem solvers. Ciò significa però che le probabilità di fallire sono maggiori.

– Quando vengono nominate in posizioni di leadership durante una crisi, ricevono meno sostegno e risorse rispetto ai colleghi maschi. Ciò rende loro più difficile avere successo e può far sì che il loro fallimento venga visto come una prova del fatto che non siano efficaci in quel ruolo.

CASI ECLATANTI

La letteratura ha dimostrato che le donne in posizioni di comando durante i periodi di crisi sono spesso destinate al fallimento, poiché le sfide da affrontare sono più complesse.

Nel 2003, Carly Fiorina divenne AD di Hewlett-Packard. È stata la prima donna a guidare un’azienda Fortune 20, ma il suo mandato è stato segnato da forti polemiche e alla fine si è concluso con il licenziamento. La sua nomina è arrivata in un momento in cui HP stava affrontando un calo delle vendite e dei profitti e le è stato affidato il compito di risanare l’azienda.

Nel 2014, Marissa Mayer ha preso il timone di Yahoo, che faticava a competere con Google e Facebook. È stata acclamata come una salvatrice per l’azienda, ma il suo mandato è stato segnato da polemiche. Nonostante gli sforzi per risanare l’azienda, alla fine è stata rimossa dalla posizione.

Theresa May, Primo Ministro del Regno Unito nel 2016. Le è stato affidato il compito di guidare il Paese attraverso uno dei periodi più difficili della sua storia. Nonostante i suoi sforzi per negoziare un accordo sulla Brexit, la sua leadership è stata criticata e alla fine è stata costretta a dimettersi.

L’IMPORTANZA DI UN CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO

La necessità di un cambiamento organizzativo è un aspetto cruciale che non può essere ignorato quando si parla dell’effetto scogliera di vetro. Nelle situazioni di crisi l’organizzazione è già in una posizione vulnerabile e ci si aspetta che il leader cambi la situazione. La pressione per avere successo è elevata e le conseguenze del fallimento sono disastrose.

Per cominciare, le aziende devono riconoscere il valore della diversità e dell’inclusione. Ciò significa che alle donne dovrebbero essere assegnati ruoli di leadership sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi, non solo quando un’azienda è in crisi. Significa anche che le donne dovrebbero avere le stesse opportunità di avanzamento degli uomini.

Le donne devono essere sostenute e guidate durante tutta la loro carriera. Ciò può essere fatto attraverso programmi formali di mentoring o creando una cultura in cui le donne sono incoraggiate a cercare mentori e sponsor.

Le aziende devono affrontare le questioni sistemiche che contribuiscono all’effetto glass cliff. Ciò include la lotta ai pregiudizi nelle decisioni di assunzione e promozione, nonché la creazione di una cultura che supporti l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Di fatto per andare oltre al glass cliff è importante riconoscere che non è solo responsabilità delle donne. Anche gli uomini svolgono un ruolo fondamentale nella creazione di un contesto lavorativo più equo. E dovrebbero essere incoraggiati a essere alleati nella lotta per l’uguaglianza di genere.

Insomma, il discorso è ampio. Parlarne, affrontarlo apertamente è il primo passo. Anzichè guardare dall’altra parte…

23 settembre ’24 – “Non è mai troppo tardi” – Fondazione Human Age Institute Torino

Lunedì 23 Settembre 2024, per il progetto “Non è mai troppo tardi“, in occasione dell’Empowerment Lab, e in qualità di Board Member di Fondazione Human Age Institute, interverrò per parlare di role modeling e motivazione.

IA: tsunami tecnologico o opportunità? (Riflessioni su L’onda che verrà)

Ho appena letto un libro, anche se chiamarlo libro è riduttivo. Di una delle 100 persone più influenti del mondo nel campo dell’IA: “L’onda che verrà. Intelligenza artificiale e potere nel XXI secolo”, di Mustafa Suleyman e Michael Bhaskar.

Suleyman non ha ancora quarant’anni ma riesce a fare pensare, riflettere, infastidire, irretire, illuminare, preoccupare e sollevare. Eppure, si legge tutto di un fiato!

Suleyman, nel 2010, ha fondato uno dei laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale più avanzati del mondo, DeepMind, acquisito da Google nel 2014. Nel 2022, Inflection AI, un’azienda così influente nel campo dell’IA da meritare la convocazione alla Casa Bianca. A marzo 2024 Microsoft ha scelto Suleyman come guida della sua intelligenza artificiale.

Inutile dire che le #decisioni di Suleyman influiranno profondamente sul modo in cui l’azienda con più alto valore di mercato del pianeta svilupperà, nei prossimi anni, tecnologie incredibili.

Suleyman ne “L’onda che verrà” ha il coraggio e la lungimiranza di portare l’attenzione su alcuni impatti dell’IA generativa. O come spiega lui stesso: “Intorno a noi sta per abbattersi una nuova ondata tecnologica che ci metterà a disposizione il potere di costruire i fondamentali universali dell’intelligenza e della vita”.

L’intelligenza artificiale che promette di generare enormi ricchezze e di combattere più efficacemente malattie e crisi climatica, sembrerebbe difficilmente governabile. Al momento, non sembra possibile “controllarla, frenarla o fermarla”. E aggiunge: “La cosa che desidero di più è che qualcuno mi smentisca e mi dimostri che il contenimento è effettivamente possibile”.

Ora che lavora nell’azienda più potente al mondo nel campo dell’IA, la missione di Suleyman potrebbe essere proprio quella di smentire sé stesso. Le stesse preoccupazioni sull’IA che affliggono Sam Altman, il Ceo di OpenAI: “l’idea ipotetica di aver fatto qualcosa di molto brutto nel momento in cui è stata lanciata ChatGpt”.

ChatGpt è l’IA generativa più famosa al mondo, creata da OpenAI, in cui Microsoft ha investito 13 miliardi di dollari. Oltre ad accrescere la produttività, ChatGpt ha contribuito a diffondere una preoccupazione crescente: un giorno le macchine saranno così intelligenti da spazzare via l’umanità. Come un’onda gigantesca. Ciò che ribadisce Suleyman nel libro è la necessità di “voci critiche e responsabili dall’interno”. Che è anche ciò che può fare lui in Microsoft: “creare prodotti dotati di intelligenza artificiale che prevedano una filosofia di contenimento su larga scala”. Questo perché tutto è influenzato in qualche modo dalla tecnologia.

Un altro tema su cui il ricercatore si concentra è la biologia sintetica (BS): le stesse tecnologie che ci permettono di curare una malattia potrebbero essere usate per causarne una, il che ci porta alle parti davvero terrificanti del libro. Suleyman nota che il prezzo del sequenziamento genetico è crollato, mentre la capacità di modificare il DNA con tecnologie come Crispr è migliorata. Presto, chiunque sarà in grado di allestire un laboratorio di genetica nel proprio garage. La tentazione di manipolare il genoma umano, prevede, sarà immensa.

I mutanti umani, tuttavia, non sono gli unici orrori che ci attendono. Suleyman immagina che IA e BS e uniscano le forze per consentire a malintenzionati di inventare nuovi patogeni. Con un tasso di trasmissibilità del 4% (inferiore alla varicella) e un tasso di mortalità del 50% (più o meno lo stesso dell’Ebola), un virus progettato dall’IA e progettato dalla BS potrebbe “causare più di un miliardo di morti nel giro di pochi mesi“.

Nonostante questi rischi, Suleyman dubita che una nazione si impegnerà a contenere le tecnologie. Gli stati dipendono troppo dai loro benefici economici. Questo è il dilemma di base: non possiamo permetterci di non costruire la stessa tecnologia che potrebbe causare la nostra estinzione.

L’onda che verrà non riguarda la minaccia esistenziale posta da IA super intelligenti. Suleyman pensa che le IA semplicemente intelligenti causeranno il caos proprio perché aumenteranno il potere umano in un periodo molto breve. Che si tratti di attacchi informatici generati dall’IA, patogeni fatti in casa, perdita di posti di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico o disinformazione che aggrava l’instabilità politica, le istituzioni non sono pronte per questo tsunami di tecnologia.

Spero però che anche se il progresso continua a ritmo frenetico, le società non tollerino gli abusi etici che Suleyman teme di più. Quando uno scienziato cinese ha rivelato nel 2018 di aver modificato i geni di due gemelle, è stato condannato a tre anni di prigione, universalmente condannato, e da allora non ci sono state segnalazioni simili. L’UE è pronta a vietare alcune forme di IA, come il riconoscimento facciale negli spazi pubblici, nel suo imminente AI Act. La normale resistenza legale e culturale probabilmente rallenterà la proliferazione delle pratiche più dirompenti e inquietanti.

Nonostante affermi che il problema del contenimento è la “sfida fondamentale della nostra era”, Suleyman non supporta una moratoria tecnologica (ha appena fondato una nuova azienda di intelligenza artificiale). Invece, espone una serie di proposte alla fine del libro. Sfortunatamente non sono così rassicuranti come avrei voluto.

C’è però un lieto fine, se così vogliamo chiamarlo, Suleyman sottolinea che gli scenari catastrofici sono rischi estremi. E, a differenza dell’apocalisse dell’IA che potrebbe verificarsi in futuro, Suleyman è sorprendentemente e opportunamente ottimista sul modo in cui crede che l’IA risolverà l’emergenza climatica. È un pensiero felice, ma se l’IA risolverà il problema climatico, perché – mi chiedo – non può risolvere anche il problema del contenimento?

QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Il MALE che fa il PHUBBING sul LAVORO e nelle RELAZIONI

Lo subiamo e lo imponiamo, spesso in modo così ripetitivo da esserne inconsapevoli. Cosa? Il “phubbing“: l’atto di trascurare il proprio interlocutore per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo.

Il termine è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney; ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing.

Un comportamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, è considerato “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri: falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano le persone a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala.

In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi è più importante rispetto alla persona che si ha davanti.

A questo punto, vi sarà chiaro se il phubbing è un atto che tendete maggiormente a infliggere o a subire…

Benché il fenomeno possa sembrare relativamente innocuo, al limite fastidioso, in realtà è determinante nel buon esito di molte relazioni. Ironia della sorte, “il phubbing ha lo scopo di connetterci, presumibilmente, con qualcuno attraverso i social o i messaggi“- afferma Emma Seppälä, psicologa a Stanford e Yale – “in realtà, interrompe le relazioni di persona nel momento presente“.

IL PHUBBING FA SENTIRE MENO CONNESSI

Diversi studi hanno dimostrato che il phubbing rende le interazioni faccia a faccia meno significative. Un articolo pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology ha scoperto che anche le persone che immaginavano di essere phubbate mentre guardavano una conversazione simulata si sentivano negativamente riguardo all’interazione rispetto alle persone che non immaginavano il phubbing.

Un altro studio, pubblicato su Computers in Human Behavior nel 2016, ha scoperto che inviare messaggi di testo durante una conversazione rende il discorso meno soddisfacente. Uno studio del 2012 ha scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare durante una conversazione, anche se nessuno lo usa, è sufficiente per far sentire le persone meno connesse tra loro.

IL PHUBBING PUÒ DANNEGGIARE LA SALUTE MENTALE

In un ulteriore studio, è stato riscontrato che il phubbing minaccia quattro “bisogni fondamentali”: appartenenza, autostima, esistenza significativa e controllo. Poiché fa sentire le persone escluse e ostracizzate.

Altre ricerche hanno dimostrato che il phubbing può influenzare le relazioni di coppia. Due diversi studi hanno evidenziato che, quando i coniugi si coccolano a vicenda, è più probabile che sperimentino una minore soddisfazione coniugale. Se il partner è al telefono, significa che sta dando la priorità a qualcos’altro rispetto a te in quei momenti di unione…

Lapallissiano, ma non così elementare, visto il numero di volte che ricorriamo al phubbing.

PHUBBING NEL CONTESTO AZIENDALE

Consci di quanto engagement, soddisfazione e motivazione siano elementi cardine per il benessere dei collaboratori, spendere qualche riflessione circa gli effetti negativi del phubbing nei luoghi di lavoro può essere utile. O almeno, un utile reminder.

Le conseguenze si aggravano quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono boss phubbing: l’abitudine di un supervisore, o un responsabile, di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori. Questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore.

La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più importanti sul team del boss phubbing riguardano:

  • mancanza di fiducia nel supervisore (76%)
  • diminuzione dell’autostima e del benessere mentale (75%)
  • inferiore impegno nelle attività lavorative (5%)

I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro manager e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro. Non esattamente la situazione che un manager auspicherebbe per l’azienda.

COME CONTRASTARE IL PHUBBING SUL POSTO DI LAVORO

Il phubbing è diventato quasi naturale (uno studio di reviews.org  sostiene che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), ed è qualcosa a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando.

Per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza.

CONCLUSIONI

Il phubbing è segno di un uso problematico della tecnologia, soprattutto quando non possiamo farne a meno o perdiamo la capacità di scegliere cosa è meglio per noi e cosa ci fa bene. Che sia in un ambiente di lavoro o conviviale. Il rischio infatti è quello di perdere poco a poco l’aspetto emozionale che una conversione fisica regala. Dimenticandoci inoltre che a risultare ferito da questa pratica, non è solo chi la subisce ma anche chi la impone, soprattutto se è diventata un’abitudine.

Forse, non dico sempre, ma più di quanto pensiamo, spegnere (o allontanare) il cellulare, può essere una buona cosa. Se non per noi, almeno per chi ci sta di fronte. Chiunque esso sia!