CLIENTI FELICI di SPENDERE (nel tuo NEGOZIO) USANDO il CASHLESS EFFECT (proprio come fanno Amazon e Apple)

Lo sapevi che le persone tendono ad acquistare prodotti di maggior valore, e in quantità maggiori, quando pagano con carta di credito o bancomat rispetto a quando ricorrono ai contanti?

Questo accade perché i soldi di carta sono una forma di pagamento tangibile, li maneggiamo, li vediamo e ne conosciamo perfettamente il valore. Carte di credito e bancomat rendono invece la transazione astratta, riducendo in misura consistente l’attivazione della parte del cervello sensibile al dolore di perdere… soldi.

Ecco perché pagare con un pezzo di plastica ci influenza a spendere di più, proprio perché non vediamo fisicamente il denaro fuoriuscire dalle nostre tasche. E questo bias, noto come cashless effect, può esserci utile (ma anche farci cadere in errore) sia quando vestiamo il ruolo del cliente sia del venditore.

I DATI A SUPPORTO

A dimostrare la potenza del cashless effect è un esperimento condotto dai ricercatori del MIT che hanno chiesto a delle persone, divise in due gruppi, di fare un’offerta per dei biglietti per partecipare a un evento sportivo. A un gruppo è stato detto che avrebbero pagato con carta di credito, all’altro gruppo che avrebbero pagato in contanti. I soggetti del primo gruppo hanno fatto offerte fino al 72% più alte, rispetto a quelli a cui era stato detto che avrebbero pagato in contanti.

Se pagare con la carta di credito determina meno dolore psicologico e ci rende più disposti a spendere di più di chi paga in contanti, gli assegni, si posizionano nel mezzo.

COSA FARNE DI QUESTE INFORMAZIONI?

  1. Meno dolore =  più vendite. Per far sì che un cliente spenda senza sforzo,  rendi semplice, veloce e meno consapevole il meccanismo di pagamento dei tuoi prodotti/servizi. Due esempi perfetti da modellare? Apple Pay e “Acquista con 1-Click” di Amazon. In questo caso, non solo sono riusciti a eliminare il dolore del pagamento ma hanno saputo creare un’esperienza piacevole per il cliente e molto redditizia per loro.
  2. La semplicità paga. Più è semplice il metodo di pagamento, più i clienti faranno la fila nel tuo negozio. Ecco cosa si è ideata, qualche anno fa, un’agenzia di Brighton (per cui ha vinto un Payments Award) per la catena di caffè britannica Harris + Hoole. Ecco l’esperienza di pagamento.
  3. Sii creativo. Analizza il comportamento dei tuoi clienti e poi chiediti quali difficoltà riscontrano nel processo di pagamento all’interno del tuo negozio o della tua attività? In che modo l’esperienza di pagamento che offri, incoraggia l’uso di carte di credito o bancomat? C’è un modo per incentivare il loro uso che sia buono per il cliente e anche per te? Esistono dei modi per rendere piacevole il processo di pagamento e alleviare il dolore di perdita per il cliente?
  4. Nel caso fossi tu l’acquirente… Se sai di essere particolarmente sensibile al cashless effect, un’ottima strategia è recarsi ogni lunedì al bancomat e ritirare il denaro che serve per la settimana e poi usarlo per gli acquisti rilevanti anziché ricorrere alla carta. Questo ti aiuterà a contenere le spese e a rendere tangibile il valore del denaro. E si è dimostrato infallibile nella prevenzione di acquisti non necessari.

Il CLIENTE è SODDISFATTO, MA la RECENSIONE è NEGATIVA: il ruolo del Bottom Dollar Effect

Il denaro non regala la felicità, ma il modo in cui scegliamo di spenderlo sì. Mi spiego meglio: quando acquistiamo qualcosa, la soddisfazione che ne trarremo, sarà minore se avremo dovuto dare fondo ai nostri risparmi. Cioè sarà più facile rimanere insoddisfatti o lasciare una recensione negativa se, per accaparrarsi quel bene, avremo dovuto sforare il budget a nostra disposizione.

Se mi già mi segui, sai che mi occupo di processi decisionali, cioè del modo in cui il cervello si comporta e degli errori di cui cade vittima durante l’analisi delle diverse alternative a disposizione. E considerato che ogni giorno prendiamo fra le 20 mila e le 30 mila decisioni… è facile quantificare i possibili sbagli a cui possiamo andare incontro.

E in questo caso l’errore, noto come Bottom Dollar Effect, torna particolarmente utile per coloro i quali si occupano di vendita al dettaglio.

Indipendentemente dal prezzo, ognuno di noi prova emozioni negative quando deve separarsi dai propri soldi, soprattutto se si va in rosso o si svuota il conto corrente. Questo fa sì che poi sia più facile trasferire questi sentimenti negativi anche sul bene acquistato, ed essere più negativi di quanto saremmo normalmente nel giudizio, se invece avessimo risparmiato qualcosa.

Questo significa che chi vende deve essere consapevole del budget a disposizione del cliente o almeno di quanto pesa emozionalmente su di lui quell’acquisto.

LA DIMOSTRAZIONE SCIENTIFICA

A dimostrare la pericolosità di questo effetto, sei esperimenti pubblicati sul Journal of Consumer research, dove i ricercatori hanno misurato il legame tra spesa e felicità.

Ai partecipanti è stato chiesto di acquistare 3 film online usando dei crediti a loro assegnati: ogni film costava 10 crediti. Al primo gruppo sono stati assegnati 30 crediti, al secondo 50. In sostanza, coloro i quali avevano a disposizione un budget di 30 crediti, lo avrebbero esaurito con i tre acquisti; coloro i quali disponevano di 50 crediti, avrebbero potuto ancora contare sui 20 rimanenti.

Cosa è accaduto?

Dopo  aver acquistato e visto ogni film, a entrambi i gruppi è stata chiesta una recensione. E’ emerso che le persone che avevano esaurito il budget (primo gruppo) erano meno soddisfatte rispetto a quelle del secondo gruppo. In un follow-up successivo si è poi scoperto che questo effetto era ancora più pronunciato tra le persone che avevano difficoltà finanziarie: in loro l’effetto aumentava ulteriormente.

Acquistare qualcosa quando i fondi a nostra disposizione sono relativamente scarsi è più doloroso di quando si dispone di un gruzzolo più sostanzioso, ovviamente. Come dimostra l’effetto Bottom Dollar, questo elemento può influenzare notevolmente la soddisfazione e la valutazione degli acquisti da parte dei consumatori e quindi avere ricadute di reputazione ed economiche su commercianti e venditori.

BOTTOM DOLLAR EFFECT IN PRATICA

Come si traduce tutto questo in un comportamento? Quando decidiamo di destinare, ad esempio, 100 euro/mese al divertimento, se ne spendiamo 90 per assistere a una partita di calcio all’inizio del mese e 10 euro per un biglietto per il cinema due settimane dopo, sentiremo maggiori emozioni negative quando ci separiamo dagli ultimi  10  euro rispetto ai primi 90 e quindi avremo meno probabilità di goderci il film di quanto sarebbe stato se lo avessimo acquistato per primo.

5 PRATICI SUGGERIMENTI

Quindi come possono aiutarti queste informazioni e la consulenza di chi si occupa di questi temi? Ecco 5 pratici suggerimenti:

  1. La tempistica è fondamentale. La commercializzazione di un prodotto può essere più efficace se temporizzata in un periodo in cui i budget dei consumatori hanno meno probabilità di essere esauriti.
  2. Le offerte promozionali e gli sconti sono invece più efficaci quando è probabile che i clienti stiano esaurendo il budget a disposizione (Soster, Gershoff & Bearden, 2014).
  3. Cerca di capire i comportamenti dei tuoi clienti abituali. La chiave è identificare il tuo cliente target e fare una stima dell’andamento del suo budget.
  4. Fai attenzione a chiedere un feedback. Se un cliente ha speso fino all’ultimo euro nel tuo negozio, attendi a chiedere una recensione fino a quando sai o supponi sia rientrato economicamente della spesa, in questo modo eviti che rigetti attraverso il feedback/recensione il possibile rammarico per la spesa folle sostenuta e di cui ancora non è rientrato.
  5. Siamo tutti consumatori. Sapere come prendi una decisione, ti può essere di aiuto anche quando sei tu ad acquistare (e non solo vendere) qualcosa. E di conseguenza come una spesa eccessiva può influenzare la valutazione e renderti meno soddisfatto dei tuoi acquisti. Quindi come meglio distribuire i tuoi acquisti nel tempo e goderne nel modo migliore, senza rimpianti.

 

 

La rivista IDEA intervista Laura Mondino su: “COME ELABORARE STRATEGIE e SCELTE EFFICACI”

L’articolo completo è a pagina 62 e seguenti del settimanale IDEA

https://ita.calameo.com/read/001740396848086d50ec9

 

AVETE MAI LETTO NEMESI?

Avete mai letto Nemesi? Avete mai letto Philip Roth? Una storia, vera, da cui si può imparare molto, senza il rischio di dimenticare. L’epidemia di poliomielite in un tempo in cui il vaccino ancora non c’era.

Nel quartiere ebraico di Newark (New York) scoppia un’epidemia di polio che miete vittime e lascia terribili strascichi, soprattutto sui bambini… Una finestra temporale, quella di cui parla Roth, simile per tutti, inconfondibile e, fino a qualche mese fa, avrei anche detto irripetibile. Non è così.

E con la maestria crudele che tanto gli apparteneva, la capacità di raccontare il reale senza fronzoli, Roth sbatte in faccia tragedia e speranza, attesa e dolore. Orrore e mostruosità. Niente di meno di ciò che accade, in casi come questi, parole non edulcorate, non tramutate, non castigate per qualche pseudo sorta di moralismo o ignoranza.

Non sopra o sotto, ma dentro la storia è dove Roth, parola dopo parola, ci conduce. Un orizzonte ristretto e dove paura e dramma dei protagonisti si fa cronaca semplice e diretta.

IL RACCONTO

Nel quartiere ebraico di Newark, vive gente normale e modesta, ed è dove nel luglio 1944 scoppia un’epidemia di poliomielite. Nemesi è parola greca di significato piuttosto ampio: vendetta, giustizia divina, sdegno, ripugnanza, biasimo, collera…

Protagonista è un giovane ventitreenne, Eugene Cantor, detto Bucky, forte, responsabile, coraggioso, attaccato alla sua professione di istruttore atletico di giovani ebrei del suo quartiere. Non è andato soldato a combattere la guerra americana, perché soffre di un grave difetto alla vista. Ma si trova a combattere, inaspettatamente, una guerra nella guerra, l’epidemia di polio, che è doppiamente ingiusta e terribile, perché assale soprattutto gli innocenti, è imprevedibile e inafferrabile e lo spinge a un certo punto a dubitare di Dio.

Perché quelli non erano i numeri impersonali che si era abituati ad ascoltare alla radio o a leggere sul giornale, i numeri che servivano a localizzare una casa, registrare l’età di una persona o stabilire il prezzo di un paio di scarpe. Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia e che, nelle sedici circoscrizioni di Newark, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra, una guerra di annientamento, distruzione, massacro e dannazione, una guerra con tutti i mali della guerra: una guerra contro i bambini di Newark“.

Bucky scopre a un certo punto d’ essere l’inconsapevole tramite del contagio fra i suoi ragazzi, prima di esserne lui stesso vittima. E a questo punto, prova assoluta e disumana della sua serietà, decide di punirsi della colpa non commessa, rinunciando per il resto della sua vita a qualsiasi consolazione sentimentale o affettiva. Così “Nemesi” alla fine diventa per lui anche senso della colpa ed espiazione.

Singolare è il modo con cui Roth risolve anche questa volta il nodo della narrazione. Il “narratore” emerge lentissimamente dal tessuto del racconto. Prima c’ è un “noi”, che in quel momento s’ inserisce in maniera vistosamente ambigua e immotivata nel racconto. Poi, più avanti, compare un “io”, che prende anche un nome: quello di Arnie Mesnikoff, uno dei bambini del campo giochi di Newark, che hanno contratto la poliomielite. Infine, solo ventisette anni più tardi (1971), Arnie, adulto, segnato dalla poliomielite, ma non distrutto e annegato come lui dal morbo, viene finalmente in primo piano come testimone e narratore della vicenda di Bucky, il quale, reincontrato per caso, decide per la prima volta in vita sua di affidargliela per intero.

OVUNQUE E’ MORTE

La capacità di Roth di giocare sui diversi punti di vista, s’ impone ancora una volta con evidenza esemplare, struggente pietà e impietosa ferocia. In particolare la pretesa di documentare la storia moderna degli Stati Uniti è ormai solo un alibi: l’arruolamento forzato e la guerra in Corea che fanno da sfondo a Indignazione, il dopo 11 settembre in Il fantasma esce di scena, e l’epidemia di poliomelite del 1944 in Nemesi interessano Roth solo in quanto inducono un’atmosfera di paura collettiva.

La morte è dappertutto in questi romanzi. Parole quali “spavento” “terrorizzato”, “orrore” “pericolo” “vulnerabile” “panico” non si contano. Già nelle prime pagine di L’umiliazione, il celebre attore Simon Axler è «sommerso dal terrore e dalla paura». In ogni intreccio, un conoscente del protagonista muore inaspettatamente in un modo che nulla ha a che fare con gli eventi principali. Inutile chiedersi per chi suona la campana; la domanda posta da Roth è: come si fa a vivere pienamente in un mondo dove «l’errore più piccolo può avere conseguenze tragiche»?

E qui mi fermo, lasciando ognuno alla riflessione. Non è importante il risultato di tanto pensare, ma il modo in cui a questo ci si arriva. Buona nemesi, nel modo in cui ognuno la intenda.

16 Aprile ’20 – Presentazione del libro Nudge Revolution – Lion Club Bra

  • dalle ore 20,00
Prenotazione obbligatoria entro lunedì 14 Aprile
Serata aperta a soci, amici e simpatizzanti Lions

4 Aprile ’20: Neuroscienze ed Enneagramma: le trappole della mente

  • Dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 18:00
Presso la Saletta degli Affreschi, Fondazione Mons. Mazzali, Mantova

LOCANDINA →

NON può SUCCEDERE a ME! NON PERCEPIRE il RISCHIO, NON SIGNIFICA essere al SICURO

C’è chi, rinchiuso in casa, è investito dall’angoscia ogni volta che è costretto a mettere il piede fuori, e chi, invece, dichiara convinto “io non mi ammalerò mai”. E chi ancora più impavido (per non dire stupido), aderisce alla sfida di leccare oggetti pubblici in barba al Covid-19 (uno di questi ragazzi ha poi contratto il virus dopo aver leccato il water di un bagno pubblico e ora è ricoverato in ospedale).

Storie di ordinaria follia, storie di ordinaria quotidianità che le Neuroscienze sanno spiegare, aiutando a dare un senso all’irrazionalità che, ancor più nei momenti di crisi, veste noi esseri umani.

In tutto il mondo, sebbene il numero di persone positive al coronavirus continui inesorabilmente a crescere, molti sembrano guardare con distacco alla pandemia, forti di poter essere immuni non solo dal virus, ma da qualsiasi avvento avverso capiti loro.

La spiegazione a questo apparente disinteresse, che non è coraggio, prende il nome di bias dell’ottimismo: la sensazione che le cose positive che ci possono accadere, siano più probabili di quelle negative. La convinzione cioè di essere meno a rischio degli altri, tutti gli altri.

E’ questa, una distorsione, una trappola in cui cade la nostra mente, per rendere più sopportabili notizie ed eventi, per mitigare paura e angoscia. E’ un modo per vivere la vita, senza temere eccessivamente la morte.

COSA SONO I BIAS

I bias sono pregiudizi, giudizi che diamo in automatico su qualsiasi questione affrontiamo e che, tendenzialmente, non corrispondono alla realtà; pertanto ci portano a interpretare in modo sbagliato gli eventi e a fare grossolani errori di valutazione. Detto in altri termini, i bias ci portano a distorcere la realtà e attuare, di conseguenza, comportamenti e scelte sbagliate.

Che il bias dell’ottimismo sia fenomeno diffuso è cosa nota ma a dimostrarlo ulteriormente sono due recenti studi: uno europeo e uno americano. Il primo ha coinvolto oltre 4 mila persone fra Francia, Italia, Regno Unito e Svizzera: la metà dei partecipanti riteneva di avere meno probabilità di contrarre il Covid-19 rispetto agli altri. Solo il 5% degli intervistati riteneva probabile un’infezione. Il secondo è stato condotto su 1.600 americani e ha mostrato che le persone pensavano che il loro rischio personale stesse aumentando ma in percentuale minore rispetto alle persone degli altri Stati.

OTTIMISMO ESASPERATO

Ma perché alcuni hanno forte questa tendenza all’ottimismo esasperato? A spiegarlo è il neuroscienziato cognitivo, professore di psicologia all’Università di Londra, Tali Sharot, che sul pregiudizio all’ottimismo ha addirittura scritto un libro. Sharot ha dimostrato che guardare al futuro ci mette di buon umore, Il puro atto di anticipare gli eventi, ci rende felici.

Senza il pregiudizio all’ottimismo, saremmo infatti tutti più tristi, senza contare che pensare positivo ci permette di credere di poter controllare il futuro e si sa che l’illusione del controllo è un’altra trappola di cui l’essere umano ha bisogno. Il cervello non ama l’incertezza, l’incognito. E colorare di rosa il domani, è un modo per allentare il peso dell’imprevedibilità.

Nella vita di tutti i giorni essere positivi rende scelte e decisioni meno pesanti, facilita la nostra quotidianità, non a caso è dimostrato che gli ottimisti hanno più successo, rispetto ai pessimisti di default. Se ogni volta che saliamo in macchina pensassimo di morire in un incidente stradale, sarebbe un incubo. Tuttavia, non si può sottovalutare l’importanza di indossare le cinture di sicurezza. I fumatori, pur conoscendo i rischi, li sottovalutano o non imputano loro la dovuta pericolosità e quindi reiterano in una abitudine tutt’altro che sana.

E’ PERICOLOSO CREDERSI IMMUNI

Avere la certezza di non contrarre il Covid-19, potrebbe impedirci però di prendere le dovute precauzioni. Non percepire il rischio, non significa non essere a rischio. Eppure molte persone non riescono a fare questo collegamento logico. Credersi immuni, potrebbe indurre a non cambiare i comportamenti. Percepire in modo corretto il rischio è il miglior mezzo di prevenzione.

La percezione del rischio però può essere difficile da modificare, ma una strategia efficace è considerare il rimanere a casa, una scelta morale, etica. Causare danni agli altri è considerato immorale e poco etico (oltre che illegale), specialmente se le vittime sono vulnerabili e bisognose di protezione, come gli anziani.

Ciò che è difficile con tutti i rischi – incluso il coronavirus – è che il potenziale danno recato dal nostro comportamento verso altre persone è poco visibile. Se pensiamo di non essere infetti, potremmo essere indotti ad avvicinarci a parenti, vicini di casa anche solo involontariamente o fare cose che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza altrui. Gli asintomatici, coloro che non sanno di aver contratto il virus, potrebbero minimizzare il rischio e mettere, loro malgrado, in pericolo gli altri.

Fare leva sull’etica personale, favorisce l’attuazione di comportamenti preventivi. E che si tratti di Covid-19, così come di altri patogeni, malattie e scelte, la prevenzione è la miglior cura. Sempre.

L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano La voce di Alba: http://www.lavocedialba.it/2020/03/30/amp/argomenti/attualita-14/articolo/coronavirus-non-puo-succedere-a-me-non-percepire-il-rischio-non-significa-essere-al-sicuro.html

CONOSCERE il CERVELLO fa bene al PORTAFOGLIO

L’intervista rilasciata al settimanale Idea con Sergio Contegiacomo, Financial Advisor Allianz Bank.

Ai tempi del coronavirus, farsi prendere dal panico, quando assistiamo impotenti alla discesa rapida dei mercati (come quella registrata nelle ultime settimane), è cosa prevedibile e scontata. Almeno per chi si occupa di finanza comportamentale, la branca di studi economici che studia le decisioni di investimento dei risparmiatori ma soprattutto ci viene incontro per comprendere meglio quali sono i comportamenti da evitare in questo difficile momento.

Agire di impulso e farsi prendere dal panico sono gli errori più comuni che si commettono, ma sono anche quelli che fanno i maggiori danni ai nostri risparmi. Daniel Kahneman, premio Nobel nel 2002 e pioniere dell’economia comportamentale, è stato il primo con Amos Tversky, a documentare uno degli errori cognitivi più frequenti (colpisce il 76% degli investitori) ovvero l’avversione alle perdite.

La maggior parte delle persone infatti tende a percepire le perdite con maggiore intensità rispetto ai guadagni. Questa tendenza a preferire di evitare una perdita piuttosto che un guadagno di equivalente valore, guida erroneamente i risparmiatori in situazioni di mercato instabili, come quelle che stiamo vivendo in questi giorni. I ribassi dei titoli spaventano la nostra razionalità e la lucidità lascia il posto all’ansia da coronavirus, portando molti risparmiatori a disinvestire, aspettando tempi migliori.

Perché abbiamo questa predisposizione?

Per il nostro cervello vivere nell’incertezza economica (e non) è come stare all’inferno. Per uscire da questa situazione, ci illudiamo così che le cose siano più certe di quanto in realtà non siano. E per rispondere a tale incertezza il cervello attiva l’insula, una specifica area, responsabile di valutare gli stati emotivi negativi, come rabbia e paura nonché il disgusto morale. Più la situazione è incerta, meno si conoscono le probabilità associate agli esiti futuri, più l’insula si eccita, si attiva. Ed è proprio l’attivazione di questa area che condiziona le scelte di investimento di decisa avversione al rischio.

Quanto costa lasciarsi prendere dalla paura? Tantissimo. Analizzando i due maggiori cali azionari dell’indice S&P si evince che dopo ogni shock c’è sempre stata una ripresa.  Dal 1941 al 2019 ce ne sono stati due : il 1987 ed il 2008. Nel 1987 in 14 giorni di flessioni consecutive l’indice scese del 31,5%, ma recuperò completamente le “perdite” in  674 giorni. A distanza di un anno dalla fine del ribasso, però, l’indice guadagnò il 27,9%, a distanza di 5 anni il 119%, e a distanza di 10 anni il 463,8%. Nel 2008, in 73 giorni l’indice perse il 40,3% impiegando 715 giorni per “tornare a galla”. A distanza di un anno dalla fine del ribasso, però, l’indice guadagnò il 48,8%, a distanza di 5 anni il 164,20% e a distanza di 10 anni il 334,20%. Morale della favola : non si afferra un coltello mentre cade.

I mercati sono imprevedibili e fluidi per natura e fare market timing, ossia tentare di intercettare il momento giusto per entrare e uscire dai mercati, è una scelta molto rischiosa per i propri risparmi. La storia insegna che rimanere investiti durante gli shock è premiante.

Movimentare, invece, il proprio portafoglio quando i mercati si contraggono è la scelta peggiore che si possa fare.

Il caso Coronavirus viene definito dagli esperti come un fenomeno transitorio: già nei decenni scorsi sono emerse epidemie (come la Sars) e statisticamente nei 6 mesi successivi il ritorno delle Borse è stato positivo. Non è mai piacevole vedere la volatilità del portafoglio ma proprio in questi momenti, bisogna evitare mosse azzardate e focalizzare l’attenzione sui propri obiettivi di lungo termine.

L’avversione alle perdite non è il solo bias (errore decisionale) in cui cadiamo quando si tratta di soldi. Un altro piuttosto subdolo è l’effetto gregge. Copiare le azioni di una massa di investitori ci tranquillizza, se pensiamo che gli altri possono avere accesso a informazioni che noi non possediamo. Inoltre, siamo disposti a seguire il gregge anche a costo di screditare le nostre stesse convinzioni poiché riteniamo improbabile che un numero così grande di individui possa avere torto. Di fatto tendiamo a conformarci alle decisioni di gruppo anche quando percepiamo che la decisione del gruppo è sbagliata.

Seguire il gregge sui mercati finanziari è però uno dei motivi che contribuiscono alla nascita delle bolle speculative. Le persone preferiscono emulare il comportamento degli altri anziché prendere decisioni basate su un ragionamento personale, perché nell’emulare la ‘massa’ ci si sente rassicurati, in quanto altri potrebbero avere informazioni private rispetto a quelle del mercato. Questo principio va contro l’efficienza dei mercati, perché se il mercato si muove nella stessa direzione e tutti hanno aperte le stesse posizioni… se fallisce uno, falliscono tutti (crolla il sistema finanziario).

Ciò che non dobbiamo dimenticare è che il denaro ha un effetto potente sull’uomo. L’economia tradizionale ha sempre difeso la convinzione che i soldi servono in quanto consentono di acquistare beni e soddisfare bisogni. Sono uno strumento, un mezzo. Diversi esperimenti hanno invece dimostrato che le cose non sono proprio così. Quando diamo alle persone l’opportunità di guadagnare facilmente del denaro si osserva, nel cervello, un aumento del rilascio di dopamina in una piccola regione del cervello (il nucleo accumbens), all’interno di quello che viene chiamato cervello rettiliano. Ossia la sede, tra le altre cose, degli istinti primari. Cioè: attività non così vicine al concetto evoluto di “razionalità”.

Non solo: il richiamo alla dopamina, sostanza chimica che trasmette segnali fra gruppi di neuroni, induce un’altra considerazione. Il malfunzionamento del circuito cerebrale della dopamina è associato alla dipendenza e alla impulsività. Tanto che nelle tossicodipendenze sono chiamati in causa proprio i meccanismi di rilascio e riassorbimento di questa sostanza. Il ragionamento non porta alla conclusione, semplicistica, che il denaro sia una droga. E vero però, per usare le parole dell’economista Sacha Gironde che “consumiamo il fatto stesso di possedere del denaro, ancora prima di consumare qualcosa tramite il denaro”.

Insomma: altro che massimizzare l’utilità. I passi in avanti compiuti dalla biologia, dalla finanza comportamentale, dalla neuroeconomia mostrano come le scelte finanziarie, gli investimenti sul denaro, sono tutt’altro che razionali. Capire o farci aiutare da chi ben comprende queste dinamiche, ci permette di conoscere meglio e adottare strategie di portafoglio più funzionali al nostro benessere (non solo finanziario).

“Quando tutti sono avidi bisogna avere paura e quando tutti hanno paura bisogna essere avidi” (W. Buffet)

 

E’ PIU’ PERICOLOSA LA PAURA O IL COVID-19?

Con il proliferare dei casi da Covid-19, si fa pandemica anche la paura. E sebbene ognuno di noi la viva e la manifesti in modo differente, sottovalutarne gli effetti è rischioso.

Come ricercatrice che studia il cervello e i comportamenti umani, spesso ho visto quanto può essere dannoso il contagio da paura. Se da un lato ci aiuta a sopravvivere, dall’altro ci può far fare cose insensate, che vanno in direzione contraria alla ragione per la quale questa emozione esiste.

Pensiamo a un branco di antilopi nella savana africana. Quando viene percepita la presenza di un leone, l’antilope si blocca per darsi subito dopo, alla fuga, seguita dall’intero branco. I loro cervelli sono programmati per rispondere alle minacce dell’ambiente e garantire la sopravvivenza della specie. Olfatto, vista, udito segnalano la presenza del predatore e innescano automaticamente la loro unica possibile soluzione: l’immobilità e subito dopo la fuga.

Responsabile di questo comportamento è l’amigdala una ghiandola sepolta nella profondità del lobo temporale del cervello, nonché la chiave per rispondere alle minacce: riceve le informazioni che le derivano dai 5 sensi, e inoltra il segnale a diverse aree del cervello, compresi ipotalamo e tronco encefalico, per coordinare le risposte di difesa specifiche: immobilizzazione, attacco o fuga.

Condividiamo, di fatto, gli stessi comportamenti automatici e inconsci di molte specie animali. Di fronte a una minaccia possiamo scappare, combattere o rimanere paralizzati.

Ma la paura del contagio è qualcosa di più.

La fuga da parte delle antilopi non inizia nel momento dell’attacco da parte di un leone, bensì quando ne viene percepita la vicinanza. Ed è il comportamento terrorizzato dell’antilope che per prima intercetta il predatore, a condizionare il comportamento dell’intero branco.

Noi, esseri umani, non ci comportiamo in modo tanto diverso. Infatti, sappiamo inconsciamente intercettare la paura sul volto delle altre persone, in 33 millesimi di secondo, prima ancora cioè di averne piena consapevolezza.

L’area del cervello responsabile di tutto questo è la corteccia cingolata anteriore (ACC): circonda il fascio di fibre che collegano l’emisfero destro e sinistro del cervello. Quando vediamo una persona esprimere paura, l’ACC si attiva e porta l’informazione all’amigdala che a sua volta fa partire la risposta: attacco, fuga o paralisi.

Intercettare la paura in modo tanto rapido è utile dunque per aiutare un intero gruppo a preservarsi, a sopravvivere. Ed è tanto più solida, questa abilità, fra persone dello stesso gruppo rispetto a quella fra estranei.

CONTROLLARE LA PAURA, SI PUO’?

Il contagio della paura si verifica automaticamente e inconsciamente, rendendone così difficile il controllo. Questo fenomeno spiega gli attacchi di panico di massa che possono verificarsi durante i concerti, i grandi eventi sportivi o le pandemie. Una volta che la paura si innesca tra la folla – per esempio quando qualcuno pensa di aver sentito uno sparo – non c’è tempo o modo per verificare le fonti. Le persone devono fare affidamento l’una sull’altra, proprio come fanno le antilopi. La paura viaggia da una all’altra, infettando ogni individuo mentre procede, come un effetto domino. Tutti iniziano a correre per difendere la propria vita. Troppo spesso, il panico di massa finisce in tragedia.

Il contagio da paura inoltre non richiede un contatto fisico per attivarsi. Bastano immagini terrificanti trasmesse da Media e Social per far crollare la fiducia nelle persone. Inoltre, mentre le antilopi della savana smettono di correre quando sono a distanza di sicurezza dal predatore, la sensazione di pericolo immediato, negli esseri umani non diminuisce altrettanto facilmente.

Non c’è modo di impedire il contagio da paura – dopo tutto è automatico – ma si può fare qualcosa per mitigarlo. Gli scienziati hanno scoperto che la presenza di una persona calma e sicura può fare la differenza. Ad esempio, un bambino terrorizzato da uno strano animale si calmerà se è presente un adulto calmo.

FATTI E PAROLE: UGUALMENTE IMPORTANTI

Inoltre, le azioni contano più delle parole ma le parole e le azioni devono essere coerenti fra loro: spiegare alle persone che non è necessario se si è sani, indossare una maschera protettiva, mostrando immagini di individui che indossano tute ignifughe è contro produttivo. L’unico risultato che otterremo è quello di spingere le persone a fare scorta di maschere perché vedono figure autoritarie che le indossano quando affrontano un pericolo invisibile.

Anche se i fatti contano più delle parole, le parole mantengono ancora una certa importanza. Le informazioni devono essere chiare, coerenti e univoche. Quando si è sotto stress, è più difficile elaborare dettagli e sfumature. Mentire e omettere dati aumenta l’incertezza e l’incertezza aumenta paura e ansia.

L’evoluzione ha indotto gli esseri umani a condividere minacce e paure. Ma ci ha anche fornito la capacità di affrontare insieme queste minacce e a contenerle se ci ricordiamo di usare la nostra razionalità.

I NUDGE al TEMPO del CORONAVIRUS. E se Boris Johnson non avesse torto?

A qualcuno, la scelta del governo inglese di applicare misure gentili per contenere la diffusione del coronavirus, ha fatto storcere il naso. Eppure una spiegazione c’è. Anzi, c’è molto di più di una spiegazione, c’è una teoria: quella dei Nudge.

Boris Johnson non ha chiuso le scuole o impedito ai grandi eventi sportivi di svolgersi. Ha invece preferito applicare i Nudge, le spinte gentili, far diventare abitudini pratiche essenziali lavarsi le mani, non toccarsi il viso, non stringere mani, rimanere a casa se ci si sente male e isolarsi se affetti da tosse continua.

Questo approccio differisce non poco dalle misure di quarantena imposte nei diversi Paesi, fra cui l’Italia e in qualche modo segna lo spartiacque fra il Regno Unito e il resto del mondo.

IMMUNITA’ di GREGGE

Patrick Vallance, consigliere scientifico del governo inglese, ha spiegato che la ragione per non abbracciare i divieti è incoraggiare l’immunità di gregge,  e affinché il Paese possa beneficiarne dev’essere contagiato il 60 per cento della popolazione.

La dichiarazione ha ovviamente suscitato polemiche. “Per le malattie che si trasmettono da persona a persona, le vaccinazioni non solo proteggono i vaccinati, ma anche le persone che non possono essere vaccinate (perché non ancora in età raccomandata, perché non rispondono alla vaccinazione o perché presentano controindicazioni)”, spiega l’Istituto superiore di sanità italiano.

Questo avviene grazie all’immunità di gregge per cui, se la percentuale di individui vaccinati all’interno di una popolazione è elevata si riduce la possibilità che le persone non vaccinate (o su cui la vaccinazione non è efficace) entrino in contatto con il virus e, di conseguenza, si riduce la trasmissione dell’agente infettivo. Questo significa che se vengono mantenute coperture sufficientemente alte si impedisce al virus di circolare fino alla sua scomparsa permanente“.

Tuttavia, Sir Patrick Vallance ha affermato che un vaccino contro il coronavirus efficace non sarà prodotto in tempo. Pertanto, in assenza di un programma di vaccinazioni di massa, affinché la popolazione del Regno Unito ottenga l’immunità di gregge, un numero sufficiente di persone dovrà contrarre il virus e guarire.

NUDGE E STRATEGIE

L’approccio di Johnson, sebbene più gentile rispetto a quello attuato nel resto del mondo, si basa in realtà su modelli sofisticati che potrebbero ridurre il tasso di mortalità di un terzo tra i gruppi ad alto rischio nel Regno Unito.

Stiamo cercando, in un modo mai fatto prima, di utilizzare tutti gli strumenti disponibili: medici e matematici ma anche esperti del comportamento“, ha affermato David Halpern, capo del Behavioral Insights Team del Governo.

Al centro della strategia del Regno Unito c’è la consapevolezza che, se il coronavirus continua a diffondersi, sarà impossibile impedire a molte persone di ammalarsi.

È qui che entrano in gioco gli esperti di Halpern. Il gruppo è stato creato una decina di anni fa dall’ex primo ministro David Cameron per attuare le intuizioni dell’economista americano Premio Nobel Richard Thaler. “I modelli si basano su ciò che la gente farà“, ha detto Halpern. “Le persone rispetteranno le istruzioni e fino a che punto? Per quanto tempo la gente sopporterà ristrettezze, divieti e costrizioni?“. Difficile dargli torto, vedendo quanto poco disciplinati sono gli italiani nel seguire le regole.

Troppe restrizioni, divieti e chiusure forzate hanno infatti spesso l’effetto opposto.

EFFETTO BOOMERANG

Se vogliamo spingere le persone verso comportamenti virtuosi, dobbiamo lasciare loro delle opzioni fra le quali scegliere. Perché quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.

La reattanza ha una base prettamente emotiva e si manifesta soprattutto quando la persona si sente eccessivamente costretta in una direzione che non condivide. Risultato? Adotta esattamente il comportamento opposto. I principi centrali della teoria della reattanza sono due: se uno dei comportamenti che una persona può scegliere è minacciato di eliminazione (per effetto di una legge, per esempio), l’individuo sperimenterà la reattanza emotiva.

Inoltre il comportamento vietato aumenterà automaticamente in attrattiva e porterà il soggetto a battersi per riconquistare il livello di libertà individuale perduto.

Questa teoria è stata più volte dimostrata in esperimenti di psicologia sociale, per esempio in uno studio di Paul Silvia dell’Università del North Carolina, pubblicato nel 2005 «il miglior modo per ottenere un effetto boomerang è vietare qualcosa. Ciò significa che dobbiamo insistere soprattutto nel rafforzare i messaggi positivi a favore dei comportamenti corretti piuttosto che vietare quelli scorretti”.

Studi successivi hanno dimostrato anche che la reattanza è misurabile ed è proporzionale alla riduzione delle scelte disponibili: in sostanza, in un paese in cui molte cose sono vietate, la reattanza nei confronti di ogni singolo divieto è più forte di quanto accade dove lo stesso divieto è posto in un contesto generale più tollerante. In pratica, non ci si abitua mai a veder ridurre la propria gamma di scelte possibili, e non si diventa più obbedienti perché si vive in un luogo dove la società esercita un forte controllo sull’individuo, bensì esattamente il contrario»

Difficile non essere d’accordo, dopo appena qualche giorno, proprio stamane c’è stata la seconda grande corsa ai treni per raggiungere i luoghi di residenza al Sud, senza contare chi invece sale approfitta del fermo forzato per farsi una vacanza, in beffa a decreti e divieti in vigore nel Bel Paese.

Ciò su cui sta lavorando la Nudge Unit inglese è creare architetture di scelte capaci di generare una nuova abitudine, facendo diventare il lavaggio delle mani parte di una routine, come quando le persone tornano a casa o al lavoro e si tolgono il cappotto.

Se i metodi di Halpern sembrano nuovi, va invece ricordato che derivano da una lunga tradizione scientifica, come quel medico che lavorava a un’epidemia di colera nella Londra vittoriana e si rese conto che molte vittime stavano attingendo acqua da una singola pompa. Togliere la maniglia alla pompa ha contribuito a porre fine allo scoppio. Nient’altro che un Nudge, una spinta gentile.

Io che scrivo, ovviamente non sono ferrata sul problema coronavirus in modo tanto specifico per dire la mia, ma credo che riflettere su due strategie tanto diverse, è sempre utile e costruttivo.

Gli approcci nel Regno Unito e nel resto d’Europa sono nettamente diversi. Gli errori di un paese si trasformeranno in risultati per un altro. L’ approccio Keep Calm And Wash Your Hands è ancora una scommessa per Johnson. Se bloccare milioni di persone si rivelerà efficace altrove e il virus si diffonderà in modo incontrollato in Gran Bretagna, la politica sembrerà un terribile errore.

Se vuoi saperne di più: https://www.amazon.it/revolution-strategia-rendere-semplici-complesse/dp/8857910059

https://www.linkedin.com/in/laura-mondino-1ba1ab4a/