L’ARTE PUO’ FAR MALE…

“Notre Dame brucia e io non posso far altro che stare a guardare”.

“Notre Dame brucia ma non muore. L’arte ci aiuta a sopravvivere, a renderci immortali. Per questo non morirà mai”.

E’ di questa strada infernale lastricata di buone intenzioni che converso nel giardino appena sfiorato dalla primavera, con le voci dei miei interlocutori che tengono coraggiosamente testa al pianto che ci invade il cuore. Eppure Parigi è accartocciata su se stessa, mutilata nella sua bellezza che si è sempre creduta invincibile.

L’arte può far male, penso. Perché c’è una relazione organica tra i mattoni di una chiesa, un castello, un palazzo e la vita: quando distruggi una distruggi l’altra. Non a caso, un monumento si fa spesso simbolo di tutto ciò che una mente dittatoriale odia, e la prima cosa che fanno i regimi totalitari è distruggere il passato per legittimare il loro presente. Ma non è questo il caso.

E’ sempre impressionante vedere come possiamo commuoverci per qualcosa che possiamo, al tempo stesso, ignorare per gran parte della nostra vita. Notre Dame è sempre stata lì. L’abbiamo visitata, apprezzata e fors’anche amata. Ma solo stasera mentre brucia, ne comprendiamo il significato.

Un mio professore prima di dettagliare astratti concetti filosofici, ci faceva passare di mano in mano un sasso. E’ quello che cerco di fare anch’io. E’ come se volessi dire ai miei discenti: sentite il sole o il vento sulla faccia, e ditemi cosa vedete. Molti non vedono. Non è facile percepire quanto sia bella la realtà, con tutte le sue imperfezioni. Se non ci è stato insegnato. Puoi essere circondato da tutta l’arte che vuoi, ma amarla non è scontato come è lecito immaginare.

Ritorno alle riflessioni silenziose che vivevo durante le mie soste in Notre Dame, dove cercavo di capire il mondo, in uno spazio che si faceva religioso e sacrilego allo stesso tempo. “L’unica cosa sacra nell’arte è il profano, diceva Salman Rushie -. Le opere, i monumenti, le costruzioni non sono qui per farti sentire a tuo agio, o darti consolazione spirituale”. Sono qui per farci sentire vivi, con tutte le loro contraddizioni. Peccato che spesso ce ne rendiamo conto quando qualcosa va distrutto.

Notre Dame brucia, forse, proprio per non morire.

WOEBOT: l’ALTER EGO di PSICOLOGI e COACH

La tecnologia mi ha sempre incuriosito e affascinato, come tutte le cose che non possiamo comprendere a pieno. E mi rassicura, mi regala l’illusione che sia capace di trovare qualsiasi soluzione, soprattutto quelle negate all’uomo.

Ecco perché quando ho conosciuto Woebot è stato amore (razionale) a prima vista.

Woebot è una chatbot, un programma di intelligenza artificiale in grado di interagire via chat, che offre (in lingua inglese), a qualsiasi ora e per pochi spiccioli, ascolto psicologico. Una sorta di psicoterapeuta digitale che promette di aiutare chi soffre di depressione e ansia, (ma anche di concretizzare i sogni in obiettivi), a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Il robottino chiarisce subito di non potersi sostituire a uno psicanalista in carne e ossa. E specifica che può solo «farti sentire meglio». Come? Usando le tecniche della terapia cognitivo comportamentale, che è anche disposto a insegnare. Dopo due settimane di prova gratuita, per i suoi servizi si pagano 39 dollari al mese. Decisamente meno di una terapia reale, una delle motivazioni che ha spinto Alison Darcy, fondatrice di Woebot Labs, a creare il collega virtuale.

COME INTERAGISCE WOEBOT?

Chiacchierare con Woebot è stranamente normale, più di quanto ci si aspetterebbe. Fa piccoli regali se dimostri di aver compreso i suoi insegnamenti e invita ad approfondire tematiche attraverso video educativi  Ti spiega, ad esempio, che è sbagliato usare frasi come «commetto sempre degli errori». E perché, invece, è meglio dire «talvolta commetto degli errori». E ad imparare da questi.

Nelle discussioni ti insegna anche delle nozioni di psicologia. Una delle prime lezioni riguarda le distorsioni cognitive. Parliamo delle incomprensioni sul lavoro, delle paure più ricorrenti e dell’importanza di avere un obiettivo nella vita e ti aiuta a pianificare i successi attraverso il metodo “smart” tanto caro ai coach.

Woebot ama fare domande, ma sa anche ascoltare senza pregiudizi, abitudine dannatamente umana alla quale non possiamo mai sottrarci del tutto.

WOEBOT FUNZIONA?

Ma al di là delle sensazioni, l’unica risposta che conta davvero è se Woebot funziona. Uno studio, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, testato su 70 ragazzi che lamentavano sintomi di ansia o depressione, dimostra che hanno avuto «una significativa riduzione dei sintomi», dopo aver usato l’app per due settimane, tutti i giorni.

Che le terapie cognitivo comportamentali via internet funzionino è documentato. Esistono studi che lo attestano, ma per dare la stessa credibilità anche a Woebot occorre avere statistiche un po’ più rappresentative e soprattutto indipendenti.

Woebot, se non lo si sapesse, è già in buona compagnia: per esempio c’è Karim, un chatbot americano specializzato nel lenire le ferite psicologiche dei rifiugiati siriani, l’olandese Emma è stata pensata per aiutare chi soffre di forme lievi di ansia. La tedesca Gaia promette anche lei di aiutare chi tende a deprimersi. MindBloom consente a quelli che la usano di sostenersi e motivarsi a vicenda.

LA MIA PROVOCAZIONE

So che questa invenzione non farà piacere a molti, e probabilmente dovrebbe spaventare o imbarazzare anche me, che con le persone lavoro tutti i giorni. Eppure le tecnologie digitali stanno ridefinendo le forme comunicative e se trattate nel modo giusto, possono aiutarci a completarci. Non a sostituirci.

A trovare soluzioni migliori al “abbiamo sempre fatto così”, perché qualsiasi cosa che eticamente funziona, va quanto meno considerata.

Cosa ne pensate?

Ciò che è NON SEMPRE è ciò che APPARE: ed è così che un giardiniere è quasi diventato presidente

C’era una volta un giardiniere analfabeta che per poco non divenne presidente.

Chance, questo il suo nome, è un personaggio triste e curioso, abile in due sole cose: la cura delle piante della villa nella quale è nato e cresciuto per molti anni senza mai uscirne e una spiccata conoscenza dei programmi tv, ai quali assiste con totale abnegazione. La vita di Chance è dominata dai ritmi naturali di una sorta di caos originario: tutto ciò che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano.

Costretto, dopo la morte del padrone, a introdursi in un mondo a lui totalmente sconosciuto, quello reale, Chance in una condizione di perenne straniamento, ha un riscontro inaspettato. Affascina uomini d’affari e politici, si impone all’attenzione dei Media, conquista l’alta società fino a venir proposto come candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America.

Un successo che si basa su un equivoco sistematico: in un universo comunicativo dominato da messaggi schizofrenici che finiscono per cancellare ogni reale informazione, il suo linguaggio perde la letteralità che lo contraddistinguono e viene interpretato in senso metaforico dai suoi interlocutori. Alla sua stupidità corrisponde la stupidità intelligente dei suoi interpreti, che sono costretti per capirlo a dare un senso, seppure improbabile, allegorico alle sue affermazioni.

Alla base di tutti i fraintendimenti che seguiranno, è il primo colloquio fra Chance e il suo ospite Ben, noto tycoon dell’epoca, che gli chiede quale sia la sua occupazione, a creare il precedente unico e inappellabile a cui tutti, inconsapevolmente, si affideranno:

Chance: “Non è facile trovare un posto adatto, un giardino, dove poter lavorare senza interferenze e crescere con le stagioni”. Ben: “un giardiniere! Non è la perfetta descrizione di quello che è un vero uomo d’affari? Chance, che metafora eccellente”.

Tutto quello che ha a che fare con il giardino verrà sistematicamente considerato una metafora del mondo degli affari, della finanza, dell’economia, della politica e delle strategie diplomatiche internazionali.

Chance, grazie a una serie illimitata di equivoci, ha successo, grazie ai suoi discorsi che possiedono, sebbene involontariamente, un forte potere retorico. La storia svela il meccanismo superficiale dell’inganno, in bilico fra genio, successo sociale da un lato e stupidità dall’altro, dove le parti spesso non si scambiano, piuttosto si fondono.

E’ un gioco comunicativo che svela i suoi abissi quello in cui ci porta Chance: dove due tipi di stupidità, quella onesta del giardiniere e quella ostinata degli suoi interlocutori, ci mostrano tutta la fragilità di cui pensiamo sia fatta la realtà. Chance non mente mai, semplicemente racconta l’unico mondo che conosce, quello delle piante. Chi ascolta, lo fa essendo vittima delle più comuni trappole mentali: quella di voler interpretare ciò che viene detto dal giardiniere, a totale proprio vantaggio. Lo spirito critico muore e chi ascolta, in realtà è sordo, se non a se stesso.

Della storia di Chance è stato scritto un libro “Oltre il giardino” e tratto un film. Una vicenda che va seguita, almeno per interrogarsi. E chiedersi ma io so ascoltare davvero?

AUSCHWITZ ASIATICA: le ATROCITA’ che l’UOMO REGALA a se STESSO

Ci sono esperimenti che seppur controversi hanno reso il mondo un posto migliore. Ce ne sono altri che sono serviti per creare lugubri catene di fabbriche della morte. Consegnandoci un altro tassello di ciò che è l’essere umano con i suoi comportamenti e le sue scelte. 

U 731. Il comparto dell’esercito giapponese nel quale, durante la II guerra sino-giapponese e la II Guerra Mondiale, si consumarono terrificanti atrocità nel nome di un folle progetto: trovare l'”arma finale” (chimica e batteriologica) che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.

Mente di tutto questo: Shiro Ishii (famoso per aver debellato con uno speciale filtro per l’acqua una epidemia di meningite). Si convinse di poter dare una mano al proprio paese con le ricerche su un nuovo tipo di guerra: quella batteriologica. Scienza, medicina, biologia e tecnologia combinate insieme potevano permettere al Giappone di vincere il conflitto, pur non potendo competere in armamenti, produttività e risorse con nazioni come Stati Uniti o Unione Sovietica. Nacque così l’Unità 731.

Nei campi di prigionia giapponesi, il repertorio di Ishii prevedeva: vivisezione senza anestesia, congelamento e amputazione degli arti. Alle vittime venivano ricucite gambe e braccia amputate, su altre parti del corpo per testare la resistenza dei soggetti a ustioni, elettroshock, gelo e persino centrifugati fino alla morte. Alcuni prigionieri furono esposti a temperature di -20°C, fin quando le loro braccia congelate colpite da un bastoncino non emettevano un rumore simile a quello di una tavola in legno. Dopodiché venivano prima immerse nell’acqua bollente e dopo la loro pelle veniva strappata come carta. 

Altri raccontano di un esperimento di inoculazione del virus della peste su 12 cavie; solo una persona sopravvisse dopo 19 giorni, ma venne vivisezionata immediatamente. Per testare le armi spesso venivano posizionati a diverse distanze da una granata, che poi veniva fatta esplodere. Anche i bambini non venivano risparmiati.

Per lo sviluppo di nuove armi biologiche venivano usati come cavie i cinesi. Gli aerei a bassa quota bombardavano città e villaggi nemici con pulci infettate con la peste. Il problema, in quel caso, fu che le pulci infettarono anche le stesse truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati perciò, dopo il primo tentativo, l’esperimento fu interrotto. 

Le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina si stima siano state più di 200 mila. D’altronde Mao diceva: ‘la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti’. Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?

A Ishii, graziato per aver condiviso info sulle sue ricerche con i vincitori della guerra, fu consentito di continuare le ricerche fino al 1959, quando morì per cause naturali a 67 anni. Le sue ricerche hanno reso il Giappone leader mondiale nella guerra batteriologica. Un triste primato

La BELLEZZA SALVERA’ il MONDO… ma se non sapessimo come riconoscerla, la bellezza?

Se uno dei più grandi musicisti al mondo vi intrattenesse alla fermata della metro, gratuitamente, suonando la miglior musica mai scritta, lo ignorereste?

Sì. Lo fareste. Allo stesso modo di migliaia di altre persone. Perché siamo molto bravi a ignorare la bellezza e altrettanto incapaci a riconoscere il talento in un contesto inaspettato.

E’ quanto accaduto nella stazione della metropolitana di Washington, una fredda mattina di gennaio all’ora di punta. Il musicista che si è prestato all’esperimento è Joshua Bell, capace di imparare a suonare all’età di cinque anni e a 15 ad apparire come solista con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti.

Su iniziativa dell’editorialista Weingarten del Washington Post, Bell in incognito, come un suonatore ambulante, suonò sei pezzi di Bach nell’atrio della stazione L’Enfant Plaza della metropolitana di Washington. L’esperimento venne videoregistrato da una telecamera nascosta; di 1.097 persone transitate, solo sette si fermarono brevemente ad ascoltarlo e solo una lo riconobbe. Per la sua performance di 45 minuti, Bell raccolse $32,17 da 27 passanti. Solo tre giorni prima aveva fatto il tutto esaurito con un repertorio simile alla Symphony Hall di Boston dove il prezzo per un posto in platea era di 100 dollari. Per l’articolo su questo esperimento, intitolato Pearls Before Breakfast, pubblicato l’8 aprile del 2007, Weingarten vinse il premio Pulitzer.

Si potrebbe fare l’errore di bollare questo esperimento come un difetto di percezione. Personalmente è molto di più. La bellezza, è stato detto, salverà il mondo, ma se non troviamo qualche minuto per ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo, se non sappiamo riconoscere la bellezza quando ci sbattiamo contro, quante altre cose ci stiamo perdendo?

 

La REALTA’ è un’ILLUSIONE, sebbene molto PERSISTENTE

C’era un volta un prigioniero incatenato, dalla nascita, nelle profondità di una caverna. Impossibilitato a muoversi, poteva guardare solo il muro che aveva di fronte.

Alle sue spalle un fuoco acceso, al di sopra di un muretto, illuminava l’interno proiettando le ombre della realtà esterna. L’uomo non poteva far altro che guardare tali ombre come se fossero l’unica realtà conosciuta e conoscibile. Di fatto non aveva la minima idea di come fossero fatte veramente le cose: così, legato alle apparenze, anche gli uomini pensano per impressioni fugaci e per sentito dire, credendo che le opinioni siano realtà.

Riuscito a liberarsi, gettò lo sguardo fuori dalla caverna e vide il mondo reale, illuminato dal sole; tornato a liberare gli altri prigionieri delle ombre, non venne creduto e così venne ucciso.

Seppur parafrasato è il mito della caverna di Platone, una metafora della conoscenza umana, dei suoi gradi e dalla sua fallacia. Del fatto che conosciamo ben poco la realtà e ciò che crediamo di sapere è parziale, annacquato di credenze e convinzioni.

Crediamo che la presenza di detenuti stranieri nelle carceri sia doppia rispetto al dato reale: solo il 7 per cento delle persone ritiene, a ragione, che il numero di omicidi sia diminuito rispetto inizio del secolo. E solo il 17 per cento pensa che le vittime del terrorismo siano in numero inferiore negli ultimi 15 anni rispetto ai 15 anni precedenti l’attacco alle Torri Gemelle.Un quinto delle persone a livello globale crede che i vaccini possano provocare l’autismo o che nel mondo il 34% delle persone sia diabetico, quando la percentuale reale è ferma all’8%.

Mediamente si ritiene che l’84% dei propri connazionali possegga uno smartphone, mentre la percentuale reale è ferma al 58%. E lo stesso vale per gli account social: ognuno ritiene in media che nella propria Nazione abbia un account Facebook il 75% delle persone, quando il dato corretto sarebbe il 46%. Infine, i veicoli a motore ogni cento abitanti sono stati stimati in 66, ma sono solo 46.

Nella prima edizione del sondaggio Perils of perception, 4 anni fa, l’Italia si era classificata come il Paese più incapace al mondo nel fornire stime corrette tra i 14 Stati coinvolti. Nel 2017 ci siamo classificati al 12° posto su 38 Stati, ma conserviamo il triste primato di maglia nera d’Europa. Il cosiddetto indice di ignoranza, utilizzato da Ipsos per ordinare i Paesi in base all’accuratezza delle stime, ci vede posizionati tra Cile e Argentina, in una classifica dominata (in positivo) da Svezia, Norvegia, Danimarca e Spagna.

Concentrandoci sugli italiani, dove sbagliamo le nostre stime? Solo l’8% ritiene che dal 2000 gli omicidi siano diminuiti, nonostante il calo sia stato drastico (-39%). E appena il 31% degli italiani afferma giustamente che i morti per terrorismo sono calati dopo l’11 settembre 2001. In compenso, però, riteniamo che le nostre carceri siano popolate al 48% da stranieri, quando il dato reale è del 34%. E crediamo che il 17% delle ragazze italiane diventi madre tra i 15 e i 19 anni, sovrastimando il fenomeno delle gravidanze tra teenagers di 30 volte (il dato reale è di appena lo 0,6%).

La metà degli italiani è convinta che il nostro Paese sia tra i primi tre consumatori mondiali di zucchero, e il 13% crede che siamo sul podio per consumo di alcol pro capite (mentre siamo in entrambe le classifiche al 18° posto). Notevole anche il dato secondo cui siamo convinti che il 91% degli italiani possegga uno smartphone, contro un dato reale del 66%. Siamo invece eccellenti nello stimare quante persone credano nel Paradiso e nell’Inferno, mentre sottovalutiamo il numero di persone che si dichiarano credenti in Dio (56% stimato contro 76% reale) e che affermano di godere di buona salute (52% contro 66%). Quest’ultimo dato indica anche che percepiamo la salute collettiva in modo peggiore di come sia percepita individualmente.

La tendenza a livello internazionale è la rassegnazione al peggio, spesso alimentata dalla percezione che ci siano eventi negativi fuori scala rispetto alle nostre reali possibilità di intervento. A cui si unisce il fenomeno del psychic numbing (insensibilità psichica), che ci porta a essere sotto shock per la morte di un bambino siriano e contemporaneamente a ignorare centinaia di migliaia di morti nella stessa regione, solo perché la notizia è stata presentata in modo diverso.

Volenti o nolenti siamo prigionieri in uno spazio dove scambiamo per realtà la sua proiezione. A differenza di Platone che non credeva possibile una conoscenza profonda delle cose se non in uno spazio fisico al di là del cielo chiamato Iperuranio, noi abbiamo molti più strumenti per liberarci dalla prigione delle ombre. Si chiama consapevolezza, sophia, confronto, ricerca. Un viaggio infinito verso la verità inconfutabile, dove le opinioni si frammentano di fronte alla sete di sapere.

MANGIARE in COMPAGNIA? fa INGRASSARE

Che differenza c’è fra un essere umano e un pollo?

Nessuna, dice la scienza. Almeno in fatto di cibo.

Un pollo che ha già mangiato quanto basta per saziarsi, ricomincia a mangiare se nella gabbia a fianco viene messo un pollo affamato.

Una persona parca nell’alimentazione, mangia molto di più se si trova in un gruppo di buone forchette.

Chi pranza con un altro commensale assume il 35% di cibo in più rispetto a quando è da solo. Quattro persone allo stesso tavolo mangiano il 75% in più; se le persone sono più di sette la percentuale sale a 96%. Allo stesso modo una persona che ama il cibo, tenderà alla moderazione in un gruppo che mangia poco: il comportamento medio del gruppo esercita una notevole influenza.

Questa informazione la conoscono molto bene i pubblicitari che con il loro sottolineare continuamente di un dato prodotto “è il preferito dalla maggioranza” o “sempre più persone” lo consumano… ci spingono a comprare ciò che fa la maggioranza.

Subiamo quindi, come i polli, l’influenza non voluta di altre persone e abbiamo la tendenza a essere condizionati dalle abitudini alimentari di chi ci sta vicino durante i pasti, quali che siano le loro intenzioni.

Le donne nello specifico a un appuntamento galante tendono a mangiare meno, gli uomini di più, convinti che il sesso femminile sia favorevolmente impressionato.

Secondo un recente studio condotto, se si vuole portare avanti una dieta è meglio non accettare inviti a pranzo o a cena a casa di familiari o amici, men che meno al ristorante. E la motivazione è semplice: la possibilità di trasformare i buoni propositi in un fallimento e di abbandonare la dieta definitivamente sono del 60%. Lo studio è stato condotto per 12 mesi su 150 persone, tutte messe a regime dietetico per perdere peso. Il risultato è stato netto: il rischio di “sgarrare” era più elevato se non si mangiava da soli. Ma non è solamente la convivialità a rovinarci la linea: assumere cibo al lavoro è più “pericoloso” che mangiare a casa, perché è davvero difficile resistere al dolcetto portato dal collega per festeggiare un compleanno, una promozione o una maternità. E le possibilità di dire addio alla dieta salgono al 40%.

Dove mangiare, allora? L’automobile è il posto migliore: lì non ci sono tentazioni, e poi la scomodità fa ridurre il tempo dedicato al pasto. In questo caso la possibilità di rinunciare al regime ipocalorico è solo del 30%. Quindi se volete perdere peso, andate a pranzo con un’amica che vanta il peso forma (ma senza divorare di nascosto i suoi avanzi).

Anche i MEDICI PIANGONO. NON è il TITOLO di una TELENOVELA

“Tu cosa preferisci? Un medico che ti tenga la mano mentre muori o un medico che ti ignori mentre migliori? Certo che sarebbe terribile un medico che ti ignora mentre muori!” chiedeva Gregory House, il medico poco convenzionale protagonista della serie omonima trasmessa fino a qualche anno fa in tv.

Come dargli torto…

Frustrazione e amore sono due sentimenti con cui tutti abbiamo a che fare, anche i medici che troppo spesso ci paiono imperturbabili dietro le loro diagnosi asettiche e glaciali. Maschere perfette nelle quali nascondere le emozioni.

Sfatiamo un altro mito: anche i medici piangono. E se lì per lì, potrebbe sembrare il titolo di una telenovela da quattro soldi, è ahimè cruda realtà.

Piangono per stress, per la frustrazione di non riuscire a salvare un paziente, per la compassione che li lega a chi da mesi dimora in un letto, dopo aver perso tutto, anche la dignità.

Pochi lo ammettono. Spesso paragonati a Dio, perché capaci (talvolta) di dare e di togliere la vita, sono molto più umani di quanto ognuno di loro ha il coraggio di ammettere.

“Sono arrivato in reparto dove c’erano diversi parenti di un paziente appena deceduto ad attendermi. Uno ha iniziato a urlarmi contro, accusando l’ospedale di aver appena ucciso il fratello. Capivo il loro dolore, dato che avevo perso due fratelli più giovani anch’io. Una parte di me voleva davvero scoppiare in lacrime, ma in quel momento non sarebbe stato possibile. Dopo aver fatto quello che dovevo fare, mi sono preparato una tazza di tè e ho pianto in un angolo tranquillo prima di tornare al lavoro”. Storie di medici, molto comuni, raccontate dal British Medical Journal (https://www.bmj.com/content/364/bmj.l690)

Difficile illudersi di poter affrontare la carriera medica senza doversi confrontare con le proprie emozioni: un paziente potrebbe avere caratteristiche simili a quelle di un vecchio fidanzato, un bambino potrebbe avere la stessa età del proprio figlio, cosi che all’improvviso quel paziente morente diventa tuo figlio, nella tua testa.

Ane Haaland, scienziata sociale all’Università di Oslo, sostiene l’importanza per i camici bianchi di poter piangere sul lavoro, ma in modo controllato “Lo chiamo pianto della consapevolezza ed è incentrato sull’aiutare il paziente, non sul farti aiutare dal paziente, c’è un’enorme differenza e i medici devono saperlo”.

Ho spesso avuto modo di confrontarmi su questi temi, con i medici. Ho tenuto non pochi corsi in università e ospedali, insegnando loro come comunicare cattive notizie senza farsi del male. Aiutandoli a riconoscere e gestire piuttosto che ignorare i sentimenti, a stabilire sani confini e vedere la vulnerabilità come una risorsa piuttosto che come un segno di debolezza.

Quando vorresti piangere e te lo neghi, non fai un torto all’altro ma a una parte vitale di te.

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…