RAZZISMO: FENOMENO DILAGANTE o INUTILE ALLARMISMO?

Il pregiudizio razziale è quella cosa per cui oggi se vedi due arabi che consultano freneticamente una mappa di Roma in treno ti domandi se non stiano preparando un attentato a Piazza di Spagna, mentre se incroci due norvegesi, su un treno, che consultano la stessa mappa e sono ugualmente agitati, dai per scontato che cerchino la strada per l’hotel nel quale soggiorneranno.

Se ne fa un gran parlare, in queste ultime settimane, di razzismo e reati contro gli immigrati. E non c’è giorno che qualche giornale e qualche politico snocciolino pro o contro, dati schizofrenici. Capirci qualcosa è complesso, così nel disordine di un indiscriminato overloading di dati, l’unica cosa a cui possiamo appellarci sono le scienze.

SCHELLING e i MODELLI sulla SEGREGAZIONE RAZIALE

“Perché una società sia segregazionista è necessario che le persone siano razziste non al 100% ma al 33%”, dimostrò l’economista americano Thomas Schelling, premio Nobel nel 2005 “per aver fatto avanzare la comprensione del conflitto e della cooperazione tramite la Teoria dei Giochi”.

Per usare le parole di Lucio Biggiero, docente di Organizzazione aziendale all’Aquila “se vogliamo evitare di finire in una società segregazionista, dobbiamo essere fortemente anti razzisti. La domanda da porsi quindi non è se non siamo razzisti, ma se siamo abbastanza anti-razzisti”.

Studi successivi a quelli di Schelling dimostrano che la segregazione raziale si genera già con livelli di intolleranza piuttosto bassi a cui si sommano sentimenti ed emozioni individuali.

L’ODIO: MIELE delle MASSE

I fanatici assolutisti non sono mai stati tanti, è piuttosto l’appartenere a un gruppo di tanti individui mediamente intolleranti che genera mostri, come ci ricorda la storia. Neanche troppo lontana.

L’odio, non dimentichiamolo, lega all’avversario, persino più di un sentimento amoroso. L’odio regala una specie di identità, una ragione sociale, un terreno di lotta. Sindrome, che il più grande scrittore di horror, Stephen King ha così magistralmente sintetizzato: “Forse è solo lo spirito della massa. Dare addosso all’individuo”.

 

 

 

 

COME la SCRITTURA può farsi PREZIOSA BUSSOLA INTELLETTUALE

 

“Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere”.

Torna nelle mie letture Eric Arthur Blair, più noto al grande pubblico come George Orwell scrittore capace, anche in un momento di grande instabilità politica qual è quello attuale (tra l’ingannevole esaltazione di improbabili revanscismi e il lamento di chi profila scenari apocalittici), di imporsi con la sua lucidità rigorosa e lungimirante, e farsi preziosa bussola intellettuale

Il FUTURO CHE ORWELL IMMAGINA

In 1984 Orwell descrive il futuro che immagina: la Terra è suddivisa in tre grandi potenze totalitarie, costantemente in guerra, allo scopo di controllare le masse. In Oceania, nella cui capitale Londra è ambientata l’azione, comanda il Socing, una dittatura onnisciente governata dal Grande Fratello: una figura quasi divina, mai incontrata da nessuno, che tiene costantemente sotto controllo la vita di tutti i cittadini attraverso telecamere e controllo psichico operato dalla psicopolizia. La dittatura controlla anche il pensiero, dunque, e il linguaggio, attraverso il bispensiero, che impone come verità l’assurdo.

L’INFLUENZA di 1984 in LETTERATURA E NELLA MUSICA

L’impatto di 1984 non si esaurisce nelle pagine del libro, ma influenza opere e figure diverse in modo trasversale. E’ noto infatti che Orwell scelse la data del titolo invertendo le ultime cifre dell’anno di composizione composizione (’48), ottenendo così un’ambientazione in un futuro sufficientemente lontano per proiettarvi una visione irreale, ma comunque vicino nel tempo per una denuncia dei possibili sviluppi dei regimi contemporanei.

Da Farhenheit 451, a Stephen King fino a Murakami in letteratura; a George Lucas (ne: L’uomo che fuggì dal futuro) e Terry Gilliam (Brazil) nel cinema; alcune delle menti più brillanti del secondo dopoguerra si sono ispirate alla tremenda, ma plausibile, visione orwelliana.

Nella musica, 1984 ha ispirato l’inquieta immaginazione di David Bowie nel suo impegnativo concept album Diamond Dogs.

E ancora V for Vendetta (frutto del genio di Alan Moore); il reportage fumettistico PyongyangGolem di LRNZ, visione distopica dell’Italia del futuro che certo molto deve anche alle riflessioni di Aldous Huxley, Mondo Nuovo, ancora più profetico poiché pubblicato nel 1932, un anno prima dell’avvento al potere di Hitler.

Accostare 1984 a Mondo Nuovo nelle loro differenze, è esercizio critico obbligatorio. Lasciamo la sintesi, impeccabile alle parole di Huxley: “La società descritta in 1984 è una società controllata quasi esclusivamente dal castigo e dal timore di esso. Nel mondo immaginario della mia favola il castigo è raro e di solito mite”.

Pensare che ora, l’espressione Grande Fratello sia il simbolo dell’inutilità indotto dalla tv spazzatura, nella sua tragica ironia, è forse la sintesi e il compimento delle profezie dei due geniali scrittori.

QUANTO MI COSTA UN ARTICOLO SCRITTO DA LEI?

 

“Quanto costa un articolo scritto da lei”?

E’ una delle prime domande che mi viene posta, quasi ogni giorno. Prima ancora che mi vengano spiegati i contenuti e gli argomenti che si vorrebbero affrontare nel testo.

 Difficile è trovare un tariffario che indichi con precisione costi e prezzi per la scrittura di articoli o contenuti (per il web e non), di conseguenza i non addetti ai lavori si trovano in difficoltà ad interfacciarsi con i copywriter e i SEO copywriter, spesso non conoscendo il valore del lavoro.

La risposta è dipende.

Dipende da: tipo di articolo, tempistiche, competenze, professionalità ed esperienza del professionista. Gli articoli non sono tutti uguali e gli argomenti non sono tutti uguali. Così come non sono tutti uguali i blog, i giornali, le riviste dove vengono pubblicati.

COSA VUOL DIRE DIPENDE DAL TIPO DI ARTICOLO?

Esistono tipologie diverse di articolo: dalla riscrittura di news comparse su altri quotidiani (il prezzo in questo caso è piuttosto basso), all’articolo di 1500 parole per siti autorevoli che trattano specifici argomenti in maniera precisa e accurata. Scrivere genericamente di abbronzatura estiva è ben diverso dallo scrivere articoli scientifici sui danni che l’eccessiva esposizione al sole causa alla pelle. Diverso è scrivere su una generica pagina di FB, o su una rivista medica.

COSA VUOL DIRE DIPENDE DALLE COMPETENZE?

Non tutti coloro che scrivono, sanno scrivere e hanno le competenze (studi) e l’esperienza (maturata negli anni e comprovata) per farlo. Il costo di un articolo dipende anche dalle competenze dello scrittore, del professionista, del giornalista (e non persona improvvisata) che lo scrive.

Ricordo che giornalista non lo diventa scrivendo, ma dopo un iter non semplicissimo che si completa con l’iscrizione all’albo.

Quindi, se chi scrive è un professionista con reali competenze, ossia un giornalista un articolo può valere non poche decine di euro, diverso se chi scrive lo fa per diletto, in questo caso il valore corretto è quello che si può dare alla parole del provetto scrittore.

COME SI VALUTA IL COSTO DI UN ARTICOLO?

Il prezzo della stesura di un articolo è dato dalla somma di due diversi fattori: il valore dell’articolo in sé e la professionalità del Writer.

Esistono due diverse equazioni grazie alle quali è possibile quantificare il costo: la prima si basa sulla quantità di parole, la seconda sulla quantità di tempo.

Equazione n.1 – Numero delle parole x costo per parola = costo totale

Equazione n.2 –  Tempo per la scrittura x tariffa oraria del Writer = costo totale

A queste equazioni possono poi essere applicate delle costanti di difficoltà.  Se, ad esempio, viene richiesto un articolo per una rivista scientifica, il costo dell’articolo lieviterà, dovendo il writer andarsi a studiare l’argomento prima di poterne scrivere. Anche se a questo proposito sarebbe meglio avere argomenti ben definiti di cui scrivere, frutto di studi di base o approfondimenti. Insomma non ci si improvvisa tuttologi, ancor meno in questo campo.

Anche la tempistica ha un costo, così l’ottimizzazione SEO e la ricerca di immagini correlate se si tratta di testi online.

Il costo per parola dipende anch’esso dall’esperienza e competenza del copywriter. Per un freelancer alle prime armi un costo equo per parola è fra lo 0,015 – 0,02 cent; per un copy esperto 0,04-0,08 cent a parola.

Una tariffa oraria per un Freelancer potrebbe essere di 8-15 €/ora, quella di un professionista dipende da diversi fattori. Ha partita IVA? La sua attività ha spese? È formato e competente? In questo caso la tariffa potrà variare dai 25 ai 50 €/l’ora.

SCRIVERE UN ARTICOLO, COSA VUOL DIRE?

La scrittura del testo è solo una delle tante fasi necessarie alla realizzazione di un articolo e non è nemmeno la prima.

Prima fase: individuazione della Buyer Personas

Seconda fase: Key word Research

Terza fase: Studio dell’argomento
Quarta fase: Stesura dell’articolo

Quinta fase: formattazione su WordPress per aumentarne la leggibilità (se andrà online)
Sesta fase: ottimizzazione delle immagini
Settima fase: ottimizzazione SEO (tag title, meta description e link interni)

Scrivere un articolo, soprattutto quando ottimizzato SEO significa solo in una minima parte scrivere il contenuto testuale. Tutte queste fasi “accessorie” sono quelle che definiscono il valore, e quindi il prezzo, dell’ articolo, nonché la professionalità del Writer.

QUINDI, QUAL E’ IL PREZZO DI UN ARTICOLO?

Ogni articolo ha un prezzo diverso.

Dai 10 € per un esordiente senza esperienza, dai 50 € in su per i professionisti per un articolo standard sotto le 1000 parole.

Un costo non eccessivo se conti il tempo e l’esperienza.

E TU COME CALCOLI IL VALORE DEGLI ARTICOLI?

Questa è una domanda che non dimentico mai di fare ai miei clienti. Spesso, soprattutto chi non ha dimestichezza con la scrittura, tende a sottovalutare la professione dello scrittore… per questo è importante mai sostituirsi al cliente, ed è anche per questo che spesso più che sostituirmi a lui, lo affianco. Lui scrive e io aggiusto, limo, perfeziono. E questi sono sempre i clienti più soddisfatti.

 

Un’AFFOLLATA SOLITUDINE

Preferiva mescolarsi agli odori della città, respirando il chiasso delle taverne, la carnalità delle prostitute e l’aroma dell’assenzio. Ed è proprio lì che lo incontrai la prima volta, fra i dissoluti vicoli di Montmartre.

Aristocratico per nascita, bohémien per professione, Henri de Toulouse-Lautrec, portava nel corpo deforme e nella fragilità dei nervi le stigmate di un’unione incestuosa.

Lo conobbi in un giorno di estate come fosse questo, di 35 anni fa, leggendo “Moulin Rouge”, di Pierre La Mure, uno dei tanti oscar Mondadori che occupavano scaffali interi, della biblioteca di famiglia.

 

Affamato di vita, sapeva cogliere la natura dell’uomo, scoprendola fra bettole malfamate, can-can smodati, postriboli di periferia.

Morì a 37 anni, non prima di aver consegnato alla fama, fra i tanti, il manifesto dedicato al Moulin Rouge, l’opera più celebre di Parigi.

Il Moulin Rouge, campo di esplorazione privilegiato, da cui osservava la brulicante e multiforme umanità del quartiere e dove invitava l’occhio dello spettatore a partecipare al roteare delle sue ballerine, alle conversazioni annegate nell’alcol, agli attimi proibiti rubati nei postriboli della città,.

Lautrec sapeva cogliere l’effimero piacere di un’esistenza fragile e sensuale insieme, partecipando con sofferenza ed esasperata sensibilità alle sorti del genere umano.

In una vita segnata, a quattordici anni, da due cadute da cavallo che gli procurarono delle fratture ad entrambe le ginocchia e che lo obbligarono a restare deforme come un nano. nel povero universo di ballerine e prostitute egli svolse la sua arte, prendendo di lì la propria ispirazione.

Ed è proprio attraverso quella scomoda esistenza, le sue opere e quel libro che conservo ancora oggi, iniziarono i miei primi furtivi viaggi nei vicoli di Montmartre, fra le malinconiche scene di circo, i provocanti incontri erotici, incontrando un’umanità desolata, inquieta, ansiosa di vita.

Sai ROMPERE LE RIGHE e USCIRE dai RANGHI?

“13 luglio 1942. Nelle prime ore del mattino i riservisti di polizia del Battaglione 101 (ndr: il battaglione dei riservisti della polizia tedesca che parteciparono allo sterminio degli ebrei in Polonia nel 1941) furono svegliati dalle loro cuccette nella città polacca di Bilgoraj. Erano padri di famiglia di mezza età del ceto medio e medio-basso, provenienti da Amburgo. Considerati troppo vecchi per essere utilizzati nell’esercito tedesco, erano stati arruolati nella polizia.

Cominciava a fare chiaro quando il convoglio si fermò alle porte di Józefów, un tipico villaggio polacco. Tra i suoi abitanti si contavano 1800 ebrei. Gli uomini del Battaglione 101 saltarono giù dai camion e si radunarono intorno al loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp, un poliziotto di carriera di 53 anni. Era giunto il momento di spiegare l’incarico affidato al battaglione. Trapp appariva pallido e nervoso, parlava con voce soffocata e le lacrime agli occhi, e lottava palesemente con se stesso per dominarsi.

Il battaglione aveva ricevuto l’ordine di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli ebrei restanti – donne, bambini e vecchi – dovevano essere fucilati sul posto. Dopo aver spiegato che cosa li aspettava, Trapp fece agli uomini un’insolita proposta: se qualcuno fra i poliziotti più anziani non si sentiva all’altezza del compito affidatogli, poteva fare un passo avanti”.

Su 500 persone che componevano il battaglione solo una dozzina fece un passo avanti, deponendo i fucili e mettendosi a disposizione per un altro incarico. Come mai solo 12 persone su 500 fecero un passo avanti?

La particolarità del caso del Battaglione 101 (vale a dire la possibilità di scegliere) ha stimolato molte riflessioni da parte di studiosi e ricercatori.

L’ipotesi più accreditata è quella dello storico americano Browning (autore di: Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia; suo lo stralcio in incipit): “Uscire dai ranghi e fare un passo avanti, cioè adottare apertamente un comportamento non conformista, era al di là della portata di molti uomini. Per loro era più facile uccidere. Perchè? Fare un passo avanti significava lasciare il «lavoro sporco» ai compagni”.

La maggior parte degli esseri umani non riesce a sottrarsi al conformismo del gruppo cui appartiene, anche se questo lo porta a commettere degli atti mostruosi. Quando il singolo individuo percepisce una certa opinione nella maggioranza del gruppo al quale in quel momento appartiene, si conforma ad essa rinunciando alla propria responsabilità. Questa conclusione naturalmente è valida anche per circostanze meno drammatiche: molti tendono ad accettare, senza effettuare verifiche, informazioni di nessun valore o addirittura palesemente contraddittorie, se percepiscono che la maggioranza le condivide.

Nella comunicazione di massa, l’oscuramento delle opinioni minoritarie è stato evidenziato dalla psicologa Noelle-Neumann con la teoria della spirale del silenzio: le persone hanno sempre un’opinione su quale sia la tendenza della maggioranza in merito a uno specifico tema e, dato che subiscono la paura dell’isolamento, nel caso in cui si trovino ad avere un’opinione difforme da quella della maggioranza preferiscono tacere la propria opinione. Poche persone sono abbastanza forti e libere da sostenere il peso psicologico di percepirsi isolati nel loro contesto sociale.

Il sociologo Gigerenzer riassume l’euristica del conformismo sociale, nella formula “non rompere le righe”.

A prescindere alla definizione che viene data, la prossima volta che vi trovate a decidere, esprimetevi liberamente e ricordate il detto: “meglio soli che male accompagnati”!

LILITH o EVA? La DONNA che SCEGLI di ESSERE

“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. L’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dentro di noi…”

Clarissa Pinkola Estès, psicanalista statunitense, sprona così la donna selvatica che c’è dentro ogni essere femminile. La donna libera, naturale e non controllata. E lo fa attraverso racconti, fiabe, narrazioni dense. Rileggerla mi riporta all’antica religione ebraica e alla leggenda di Lilith, la prima moglie di Adamo, precedente ad Eva, ripudiata e cacciata perché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.

“Non starò sotto di te”, dice Lilith. “E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra”, replicherà Adamo.

Lilith compare nell’insieme di credenze dell’Ebraismo come un demone notturno, capace di portare danno ai bambini di sesso maschile e caratterizzata dagli aspetti negativi della femminilità: adulterio, stregoneria e lussuria.

Lilith abbandona, dopo aver pronunciato infuriata il nome di Dio, il Giardino dell’Eden, per rifugiarsi sulle sponde del Mar Rosso, ma non avendo mangiato come Adamo ed Eva il frutto proibito, non verrà condannata alla mortalità.

Si accoppierà con Lucifero e altri demoni, dando alla luce esseri superiori detti “Jinn”, entità intermedie fra gli angeli e gli umani. Adamo chiederà a Dio di riportare indietro Lilith con l’aiuto di tre angeli, ma invano. Lilith viene così maledetta: i figli che lei concepirà moriranno sempre, perché a lei non è dato partorire vita. Solo morte. Lilith si trasforma dunque in un demone, madre di tutti i demoni, e abita l’oscurità.

Inevitabilmente a questo punto appare Eva, la donna creata dalla costola di Adamo, la donna che non mette in discussione l’autorità costituita.

Con Lilith siamo in un archetipo profondo, inabissato nel sotterraneo, potente e non comune. In lei convivono la sconfitta, il dolore della condanna, la frustrazione, impotenza e depressione, la rabbia dell’ingiustizia e della solitudine, l’esilio e l’invidia per il femminile sottomesso e fecondo, per il volto luminoso della Dea e della Madre, a lei negato.

La sua natura selvatica rifiutata, diventata peccato, scatena una forza distruttiva: la predilezione, a livello sociale, dell’immagine buona, accogliente e sottomessa della donna compagna, ha amplificato e scatenato in noi donne l’ambivalenza interiore, il senso di colpa e di mancanza, la perdita della femminilità erotica (creativa), della potenza dell’energia vitale istintuale: l’incubo di cui parlano le fiabe, intrise di matrigne e streghe cattive, arrabbiate per tutto ciò a cui hanno rinunciato.

Lilith, l’alter-ego di Eva, rappresenta la dignità della donna, la sua autorevolezza, quella forza insopprimibile che la porta a scegliere di essere se stessa, qualunque sia il prezzo da pagare. Quella donna che non si conforma alle leggi precostituite, agli obblighi sociali, ma che li mette in discussione, affrontando con coraggio la paura di essere giudicata, di rimanere sola. Quella donna irrazionale, selvaggia, che si affida alla sua capacità intuitiva, alla conoscenza delle viscere, del corpo, ed attinge alle sue doti naturali.

Censurare l’immagine archetipica di Lilith significa erodere la parte selvatica e intima di ogni donna. L’equilibrio più profondo richiede però di far abbracciare Lilith a Eva, che si fa grembo di attrazione, integrazione, conscia del suo potere e della sua autorevolezza nell’esercitarlo, capace di essere vulnerabile, di affidarsi, forte del proprio valore e che nell’ascolto e nella comprensione, si fa dea.

E per questo uomo e donna, quando si fanno coppia, sono liberi da litigi, sottomissioni, manipolazioni e possono affrontare insieme le differenze, integrandole.

ADDIO Mr ROTH

E’ stato lo scrittore più venerato dalla critica mondiale, l’eterno candidato a un Nobel che però non ha mai vinto. Philip Roth è morto ieri a 85 anni. A poche settimane dall’annuncio dell’Accademia di Svezia travolta dagli scandali, che il premio Nobel 2018 non verrà assegnato, l’ultima beffa a uno scrittore che a quel riconoscimento è stato candidato quasi ogni anno senza mai ottenerlo.

Se n’è andato lo scrittore influente, dissacrante e dannatamente complesso: voce affilata che sopra ogni altra ha saputo scavare con una sincerità spietata, umana ma mai pietosa, nelle inquietudini del nostro tempo, smascherando ogni pretesto e nello stesso tempo scardinando le regole del romanzo.

L’esordio, nel 1959, con “Addio, Columbus”, storia d’amore tra due ventenni che serve da canovaccio per riflettere su quelli che saranno i suoi temi: sesso, amore, religione, ipocrisie che costituiscono lo zoccolo duro della società americana.

Nel 1969 il primo grande successo (e il primo vero scandalo) con “Il lamento di Portnoy” , in cui racconta in modo esplicito la storia di Alexander, figlio indisciplinato di una famiglia religiosa e borghese, che si accomoda sul divano dello psicanalista e racconta di un’esistenza trascorsa in gran parte a fare sesso (soprattutto da solo) e a fuggire dalla mamma impicciona. Insomma, Portnoy fa molto ridere, oltre che pensare.

Una delle numerose doti letterarie di Roth era la straordinaria capacità di giocare con l’illusione dell’autobiografia. Ossia il virtuosismo di raccontare tutto di sé senza lasciar capire al lettore quale fosse la linea di confine tra memoria e fantasia. Come se ogni volta l’autore reinventasse se stesso. Per buona parte della sua carriera, Roth coabiterà con il personaggio di Nathan Zuckerman, lo scrittore suo alter ego comparso in molte opere. Zuckerman scatenato è un abile gioco di specchi, fra citazioni coltissime e l’umorismo con cui Roth prende in giro il suo medesimo successo, i suoi libri e il mondo intero.

Gli anni passano ma il ribelle e irriverente autore di Portnoy è invecchiato bene, ora è un architetto della letteratura, capace di elevare costruzioni perfette per quattrocento pagine e passa. Attraverso una vicenda familiare descritta con forza espressiva ineguagliabile, “Pastorale americana” riproduce lo spietato affresco dell’America e delle società occidentali. Con questo libro Roth vince una caterva di premi, fra cui il Pulitzer 1998.

E infiniti altri romanzi, fra cui “la macchia umana”, dove Roth porta al culmine la guerra al moralismo puritano nella sua ultima deriva: il politicamente corretto

(«Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui…»).

Dopo aver smesso di scrivere Roth, convinto di aver scritto ormai le sue opere migliori e che qualunque altro libro non sarebbe stato abbastanza buono, ha dato disposizione che i suoi archivi venissero distrutti.

«Io non sono più molte cose che una volta ero, e non sono più capace di fare una quantità di cose che una volta facevo – ha detto in una delle ultime interviste. Alla mia età, smettere diventa un modo di vivere. Delle cose che non ho più, faccio a meno».

UFFICI OPEN SPACE ADDIO: TROPPE DISTRAZIONI, STRESS e MALATTIE

Nati nel 1964, gli uffici senza divisioni e a lungo elogiati come soluzione ai problemi del lavoro moderno, facilitatori della collaborazione e garanti della uguale informazione di tutti i colleghi, sembrano aver perso l’appeal di un tempo. E sempre più studi ne mostrano l’inefficacia.

Fra le ricerche più note, quella condotta in diretta tv in “The Secret Life of Buildings” (UK): secondo i test del neuroscienziato Jack Lewis, il lavoro negli open space riduce le prestazioni aziendali del 32% e fa diminuire la produttività del 15%. Prima responsabile è la distrazione, che si insinua negli impiegati portandoli a pensare a tutto meno che agli obiettivi di lavoro.

Lewis ha condotto gli esperimenti davanti alle telecamere, chiedendo ai volontari – tra cui volti noti della tv – di trascorrere una mattinata in ufficio indossando una cuffia per il rilevamento delle onde cerebrali. Dai risultati è emerso che i cervelli delle persone impegnate in un open space vagavano più distrattamente degli altri.

“Gli uffici aperti – spiega Lewis – sono stati progettati per permettere ai lavoratori di collaborare meglio, muoversi più facilmente e scambiarsi opinioni e soluzioni. In realtà non funziona così. Se ti stai concentrando su qualcosa ma all’improvviso un telefono suona intorno a te e qualcuno comincia a parlare, la tua attenzione si perde e devi ricominciare da capo. Il cervello risponde alle distrazioni continuamente, anche se lì per lì non ce ne rendiamo conto”.

Secondo un altro studio condotto al Politecnico di Bari, a far perdere la concentrazione sono prima di tutto le voci dei colleghi (31%), poi i telefoni (27%), gli impianti di condizionamento (15%), le macchine da ufficio (13%) e rumori esterni (13%).

Ulteriori studi (di DeMarco e Lister) hanno dimostrato che gli open space non solo riducono la produttività ma danneggiano la memoria, rendono le persone più esposte alle malattie (maggiore rischio di contrarre l’influenza, avere la pressione alta e alti livelli di stress), più ostili, scarsamente motivate e insicure.

Eppure le intenzioni di Propst (l’inventore dell’open space) andavano in tutta altra direzione: gli open space avrebbero garantito la privacy senza ricorrere ai muri, fornendo a ciascun impiegato un proprio spazio da personalizzare sia in orizzontale, con la scrivania, sia in verticale, attaccando fogli e poster sulle pareti posticce. La parola d’ordine del suo “spazio lavorativo aperto” era “a portata di mano”, concetto che col passare del tempo è stato snaturato riducendo questi ambienti futuristici ad alveari composti da tante piccole celle l’una attaccata all’altra.

QUALI ABILI NEGOZIATORI sono i BAMBINI (soprattutto a NATALE)

Negoziare è un’arte che i bambini esercitano con implacabile e naturale maestria, come dimostrano gli innumerevoli regali che riescono, con facilità disarmante, ad accumulare sotto l’albero. Ogni Natale.

I bimbi sono negoziatori nati, abili a mettere inconsapevolmente in atto alcune tecniche negoziali estremamente efficaci e, allo stesso tempo, sorprendentemente semplici ma che tendiamo, da adulti, a complicare e rendere innocue.

a. I bimbi non smettono mai di fare domande
Una delle tattiche più utili in una negoziazione di successo è fare domande ogni volta che non si sa o non si capisce. Da “grandi” tendiamo a perdere questa abilità nel timore di sembrare impreparati o incompetenti. Spesso, di fronte a un termine che non conosciamo invece di chiedere delucidazioni, annuiamo, celando il nostro non sapere dietro un apparente sorriso di saggezza.

b. I bimbi non smettono mai di chiedere
Non si fanno molti problemi a palesare ciò che vogliono. Che si tratti di un gioco, attenzioni o la favola della buonanotte. Insomma, di fronte a necessità e desideri i bimbi semplicemente chiedono. Da adulti, perdiamo tale la capacità. In una trattativa negoziale (e così a casa, sul lavoro e con gli amici) anziché chiedere, ricorriamo a inutili sotterfugi, nascondendo le nostre necessità, non facilitando la comprensione alla controparte di ciò di cui realmente abbiamo bisogno. Crediamo, erroneamente, che l’altro possa leggerci nel pensiero.

c. I bimbi non amano il “no” come risposta
Trattano il “no” come l’inizio e non la fine di una trattativa. La loro tendenza è infatti insistere affinchè la risposta cambi a loro vantaggio e nel caso non ci riescano, lotteranno a suon di “perché no?” fino a che la spiegazione non sarà soddisfacente a sostenere il mancato soddisfacimento del bisogno. Attenti dunque a fornire una risposta più che esaustiva e solo così le vostre proposte massimizzeranno i vostri risultati (non solo con i figli).

d. I bimbi sono sensibili alle punizioni
E sono abilissimi a influenzare i comportamenti degli adulti in modo da ottenere una dilazione o uno sconto. Immagino abbiate ben presente l’ultima volta che le urla apocalittiche di vostro figlio vi hanno spinto a sospendere una punizione pur di trovare un po’ di pace…
Ovviamente da adulti non possiamo buttarci a terra disperati di fronte al “no” del capo, ma spesso nelle negoziazioni di tipo commerciale, si ha più la tendenza a proporre la carota anzichè il bastone: ma il bastone rappresenta il costo, per entrambe le parti, del mancato accordo.

e. I bimbi sono esperti nello smascherare i bluff
Sono bravissimi a capire quando le minacce di un adulto non sono veritiere. “Se lo fai un’altra volta, non ti porto più al parco”. Se una minaccia è utilizzata regolarmente ed altrettanto regolarmente non viene eseguita, perde il suo potere, e voi perderete di credibilità e autorevolezza. Per lungo tempo.

Ecco perchè, mediando dal primo assioma della comunicazione, possiamo tranquillamente dire che non si può non negoziare.

SOLITUDINE: ANTICAMERA della CREATIVITA’ e della INNOVAZIONE

Se ne parla molto, di questi tempi. Di solitudine.
Affibbiandole i mali più diversi, dalle cardiopatie, all’insonnia, dalla depressione, all’obesità, fino alla morte prematura.

Eppure la sana solitudine è l’anticamera della creatività e dell’innovazione. Non a caso Schopenhauer scriveva: “i veri grandi spiriti costruiscono, come le aquile, i loro nidi a grandi altezze, nelle solitudine”.

Un tempo l’isolamento poteva risultare pericoloso, ma oggi senza amici, in città, non c’è il rischio di morire di fame o venir sbranati da animali feroci, come poteva invece accadere a un cacciatore, senza amici, nella preistoria.

“Hanno sempre detto che dovrei mostrami più aperta, ma ho capito che essere introversi non è cosa negativa – spiega Susan Cain, nel libro Quiet, the power of introverts in a world that can’t stop talking – Così per anni sono andata in bar affollati, come molti introversi fanno, con una perdita di creatività e di leadership che la nostra società non può permettersi. La solitudine è l’ingrediente fondamentale della creatività. Darwin faceva lunghe passeggiate nei boschi e decisamente respingeva gli inviti ai party. Steve Wozniak ha inventato il computer Apple bloccato nel suo Hewlett Packard. Le società occidentali hanno dimenticato la potenza della vita contemplativa. Fermiamo la follia della ricerca costante del lavoro di squadra. Andate nel deserto per avere intuizioni vincenti”.

La solitudine fa bene anche all’empatia. Studi condotti da Erin Cornwell, della Cornell University (New York) hanno dimostrato che le persone anziane che vivono da sole hanno una rete sociale molto ampia.

Le capacità che però hanno più giovamento dalla solitudine sono la creatività e l’innovazione. Gli esseri umani sono esseri sociali, ma dopo aver trascorso la giornata circondati da persone, passando da una riunione all’altra, attenti ai social, agli smartphone, iperattivi, la solitudine fornisce uno spazio per il riposo ristoratore.

Uno dei risultati più sorprendenti infatti è che la solitudine è alla base della creatività, dell’innovazione e della buona leadership. Uno studio condotto da Mihaly Csikszentmihalyi (lo psicologo della felicità) ha rilevato che gli adolescenti che non sopportano la solitudine non sono in grado di sviluppare talento creativo.

Ammettere di essere soli è una delle cose più difficili, ma oggi sapendo cosa ci guadagniamo accogliendola in modo sano, forse non le saremo più tanto ostili.