“Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.
E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.
Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.
Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.
Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.
ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…
Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.
Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.
Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.
COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)
DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.
Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.
“Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.
Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.
Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo“[1].
Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.
Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.
Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.
L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.
Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:
– Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?
– Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?
– C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’
Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.
PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.
In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.
L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).
Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.
Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.
All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.
DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.
Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.
Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.
Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.
ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.
Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.
Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.
Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.
Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.
Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.
Fonti
[1] CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books
Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.
Prendere DECISIONI COMPLESSE è come giocare a SCACCHI… anzi, più difficile!
Prendere decisioni semplici è un po’ come ordinare al ristorante: si valutano le opzioni disponibili e poi si sceglie quella che promette di offrire la massima gratificazione.
Quando si tratta di scelte complesse, come acquistare una casa, ideare un business plan o valutare le polizze assicurative, identificare oggettivamente l’opzione migliore è poco pratico e spesso impossibile.
La scelta di un piano di assicurazione sanitaria, ad esempio, richiede la stima della probabilità di aver bisogno o meno di una biopsia o di un’appendicectomia, un gioco di indovinelli a più livelli che sarà inevitabilmente pieno di errori.
La stessa cosa vale quando si deve scegliere una strategia di marketing: ogni potenziale mossa apre la porta a una miriade di reazioni da parte di clienti e competitors, portando a milioni di possibili scenari, ognuno dei quali il decisore può prevedere solo in modo imperfetto.
Quindi cosa occorre fare quando, in un processo decisionale, le alternative disponibili sono così complesse da non capire quanto valga ogni opzione?
A cercare di rispondere, i ricercatori della Kellogg School, avvalendosi di un laboratorio insolito: la scacchiera.
Utilizzando dati di 200 milioni di mosse da una piattaforma di scacchi online, i ricercatori sono arrivati a nuove conclusioni su come i giocatori trovano la loro strada attraverso la complessità.
Hanno scoperto che rallentare aiuta ma che i più bravi necessitano di molto più tempo decisionale extra rispetto i meno esperti. E contro intuitivamente che, aggiungere un’opzione mediocre, può essere peggio che aggiungerne una pessima.
Come i giocatori di scacchi prendono decisioni
Gli scacchi hanno diverse caratteristiche che li rendono perfetti per studiare le decisioni complesse.
La qualità di ogni mossa può essere classificata oggettivamente. A differenza di un piano assicurativo o di una strategia di marketing, dove misurare e classificare accuratamente ogni singola alternativa è raramente possibile, alcune mosse degli scacchi possono essere chiaramente identificate come parte di una strategia vincente: mosse che garantiranno una vittoria, indipendentemente da ciò che fa l’avversario. Allo stesso modo in caso si voglia un pareggio o una sconfitta.
Per quanto bizzarro, il gioco degli scacchi è riconducibile a mosse vincenti e non, predefinite, come dimostrato più di un secolo fa dal matematico tedesco Ernst Zermelo.
Eppure, nonostante ci sia la possibilità di valutare oggettivamente ogni mossa, la natura del gioco spesso rende difficile anche per i giocatori esperti distinguere una buona mossa da una cattiva. Di conseguenza, il modello standard del processo decisionale, in cui una persona valuta le opzioni una per una e poi seleziona l’alternativa migliore, in genere non si applica. L’enorme numero di mosse disponibili rende impossibile valutare ogni opzione (specialmente negli scacchi di velocità).
Pertanto, i giocatori in genere considerano solo un piccolo sottoinsieme di tutte le opzioni possibili e scelgono la prima che considerano abbastanza buona, cioè la prima mossa che credono produrrà una vittoria, una strategia che gli economisti chiamano “soddisfacente”.
Dato che molte decisioni del mondo reale richiedono anche un approccio soddisfacente, i ricercatori della Kellogg School hanno pensato che studiare come i giocatori si muovono sulla scacchiera, aiuti a capire meglio le dinamiche del processo decisionale complesso.
Un database monumentale di mosse scacchistiche
I dati presi in esame provengono da Lichess.org, uno dei più grandi server di scacchi online del mondo. Il database comprende otto anni di giochi, centinaia di milioni di mosse di centinaia di migliaia di giocatori (hobbisti e grandi maestri).
È importante sottolineare che i dati dicono non solo quale pezzo si è mosso e dove, ma la configurazione completa in ogni momento di gioco.
I ricercatori si sono concentrati su ciò che i giocatori chiamano “endgame”: scenari con un numero limitato di pezzi rimasti sulla scacchiera, e dove entrambi i giocatori stanno tentando lo scacco matto. In particolare, scenari con meno di sei pezzi sono stati utili perché sono stati “risolti” usando i computer, cioè per qualsiasi configurazione di sei pezzi sulla scacchiera, gli informatici hanno catalogato tutte le possibili mosse e come si inseriscono in una strategia che può garantire una vittoria, una sconfitta o un pareggio.
Ma ottenere i dati sulle mosse effettive è stato solo l’inizio. Per ogni finale, Salant e Spenkuch, questi i nomi dei due ricercatori, dovevano determinare tutte le possibili mosse che il giocatore avrebbe potuto fare, e se ognuna di queste era vincente, perdente o un pareggio.
Un lavoro di ricerca enorme, che ha richiesto 600.000 ore e dati contenenti 4,6 miliardi di ipotetiche mosse.
Chi prende la decisione giusta in situazioni complesse?
Gli studiosi hanno iniziato osservando come il grado di complessità influisse su quali opzioni venivano scelte.
Il modello economico standard di scelta prevede che le mosse vincenti più complesse (quelle che richiedono più passaggi intermedi per ottenere uno scacco matto) dovrebbero essere scelte più frequentemente rispetto alle mosse vincenti meno complesse. Salant e Spenkuch scoprirono che questo non era il caso negli scacchi: maggiore era la complessità di una mossa vincente, meno frequentemente veniva scelta, presumibilmente perché il percorso verso la vittoria era più confuso.
I ricercatori hanno scoperto poi che il livello di abilità di un giocatore influenza il processo decisionale: i migliori giocatori al mondo avevano meno probabilità dei meno esperti di commettere un errore. Divario che si è fatto via via più pronunciato con l’aumentare della complessità delle mosse vincenti, suggerendo che l’esperienza dei migliori giocatori li avvantaggiava maggiormente in scenari particolarmente difficili.
I livelli di abilità dei giocatori hanno anche influenzato il modo in cui si sono comportati sotto la pressione del tempo. Prevedibilmente, i giocatori titolati hanno commesso meno errori rispetto ai non professionisti, indipendentemente da quanto tempo è stato dato loro per scegliere le mosse.
Ma la differenza era minore nelle varietà più frenetiche di scacchi di velocità che si concludevano in pochi minuti. Nelle partite più lente, quando il tempo di decisione era meno limitato, i giocatori non professionisti erano considerevolmente più propensi a fare una mossa sbagliata. A beneficiare maggiormente del tempo, per pensare, sono i giocatori esperti.
Interessante è notare come i giocatori non sembravano in difficoltà di fronte al “sovraccarico di scelte” quando affrontavano un gran numero di mosse possibili: in realtà commettevano meno errori quando erano disponibili più mosse, probabilmente perché gran parte delle alternative in questi scenari erano mosse vincenti.
In pratica, per usare le parole dei ricercatori “Puoi aggiungere tutte le mosse vincenti che vuoi. Ciò non comporterà ulteriori errori. Se vuoi rendere il problema il più difficile possibile, devi aggiungere opzioni che non sono ottimali ma abbastanza vicine ad essere ottimali“.
Navigare nella complessità nel mondo reale
Per i ricercatori, “in ambito aziendale, è importante capire come le persone prendono decisioni a livello elementare“. Questo dice molto di come si approcceranno a quelle complesse. Ovviamente, il contesto lavorativo è più articolato di quello di un tavolo da gioco, a meno che ci si stia giocando i guadagni di una vita, o la vita stessa.
Tuttavia, ci sono lezioni che possono essere utili:
Forse queste ricerche ci aiuteranno meno di quello di cui avremmo bisogno di fronte a situazioni complesse, ma forse il bello della sfida è proprio questo: non c’è una soluzione preconfezionata. La possibilità di pensare. E al giorno d’oggi, non è poco.
AMBASCIATOR porta PENA (soprattutto in caso di cattive notizie)
Una condizione che caratterizza molte delle mie esperienze lavorative è dare cattive notizie. Prima in campo sanitario, poi all’università e infine nelle organizzazioni.
Non ci avevo fatto caso fino a qualche giorno fa, quando mi sono trovata a comunicare cattive nuove per conto terzi. E come spesso accade, ho toccato con mano quanto ambasciator non porta pena, sia un detto che nel tempo ha perso molta della sua validità.
Più portiamo cattive notizie, meno ci apprezzeranno. E a dirlo è la scienza!
“Nella maggior parte dei casi, si tende a considerare come soggetti negativi coloro che sono portatori di cattive notizie”, sostiene lo staff del Journal of Experimental Psychology, dopo 11 esperimenti condotti sul tema.
Uno di questi ha coinvolto pazienti sottoposti a biopsia per sospetto tumore. Per comunicare loro l’esito positivo o negativo dell’esame è stato organizzato un incontro a cui erano presenti due infermiere, una con il compito di comunicare la diagnosi e l’altra per prendere un successivo appuntamento. Nel momento in cui è stato chiesto alle persone che hanno ricevuto cattive notizie di fornire un giudizio sulle due infermiere, soltanto l’infermiera “messaggera” è stata giudicata meno simpatica e meno competente.
Il giudizio negativo verso una persona che ha il compito di comunicare una notizia risulta anche in situazioni in cui è palesemente chiaro che il messaggero non ha alcuna responsabilità sull’evento negativo.
Lo scenario tipico? Quello dell’assistente di volo che viene chiamato a informare i passeggeri in attesa che, a causa di un problema tecnico, la partenza sarà ritardata.
EFFETTO MUM
Portare cattive notizie è dunque un lavoro ingrato, non a caso forte è il rischio di cadere vittime dell’effetto MUM, minimizing unpleasant messagge.
Avversione a dare cattive notizie che è determinata non solo dal fatto che si vuole proteggere il destinatario del messaggio, ma anche dalla paura che l’interlocutore si arrabbi o pensi male di noi, dalla necessità di non venire associati all’evento negativo e essere considerati meno attraenti.
Tale effetto porta quindi a minimizzare i messaggi spiacevoli, a trattenere informazioni negative e a modificare le comunicazioni per farle sembrare positive. Il problema è che alla fine il messaggero rischia di distorcere la realtà. Pensiamo all’effetto in un’organizzazione in cui ogni dipendente decide di alleggerire le notizie negative. Man mano che le informazioni si diffondono, il messaggio si allontanerà sempre più dalla verità.
SPACE SHUTTLE CHALLENGER
Il pericolo dell’effetto MUM nelle organizzazioni è stato studiato dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman, esaminando i passi che hanno portato all’esplosione dello space shuttle Challenger del 1986. Quando Feynman ha chiesto agli ingegneri quale pensavano fosse la probabilità di guasto al motore, hanno riferito tra 1 su 200 e 1 su 300. Tuttavia, quando Feynman ha posto la stessa domanda al capo della NASA, la risposta è stata 1 su 100.000. Queste cifre mostrano una grande discrepanza; è probabile che gli ingegneri abbiano reso le loro stime più favorevoli quando hanno riferito ai loro responsabili, che poi hanno anche abbellito le stime, e così via fino a quando i dati hanno raggiunto il capo della NASA. Quando le informazioni negative vengono continuamente distorte mentre salgono di livello, i decisori finiscono per ricevere informazioni inesatte. L’effetto MUM potrebbe aver giocato un ruolo significativo nella tragedia. Evidentemente, può avere conseguenze devastanti.
CROSS CULTURE E MUM EFFECT
Al disastro dello shuttle Challenger, che fu il risultato di una comunicazione imperfetta e di dinamiche di potere sbilanciate tra parti che condividevano tratti culturali simili, si aggiunge lo schianto del Volo Avianca 52 (un volo di linea da Bogotà a New York) nel 1990. Le cause sono da ricercarsi nella mancata condivisione di dati sul basso livello di carburante tra piloti e controllori e da incomprensioni sulla procedura di emergenza da seguire, a cui si aggiunse il problema di norme sociali intrinseche, come la difficoltà di mettere in aperta discussione l’autorità del personale più anziano (elevata distanza dal potere, tipica delle culture latino-americane).
A questo punto, seppur le cattive notizie non piacciano, quanto possiamo o un’organizzazione può permettersi il lusso di ignorare?
Il costo della comunicazione “apprensiva” può essere alto. Come affermò Sir Alec Guinness “Non ho mai saputo che le cattive notizie migliorassero evitandone la condivisione”.
18 Settembre ’23 – Seminario “Come prendere decisioni in un mondo complesso e non ordinato” – Board Ahead
Lunedì 18 Settembre alle ore 8, Seminario Come prendere decisioni in un mondo complesso e non ordinato, Board Ahead, Comunità di pratica per la buona Corporate Governance
MENO E’ MEGLIO… anche quando si scrive
Quando scrivete una mail, un sms o registrate un vocale su whats’app quanto rispettate la regola del “meno è meglio”?
Una delle convinzioni che spesso fanno deragliare i nostri migliori buoni propositi è che “di più è meglio”, perché pensiamo che scrivere tanto ci faccia sembrare più intelligenti o perché abbiamo tante cose da dire. Oppure temiamo che l’essere troppo concisi, ci costringa a tralasciare informazioni importanti.
Qualunque sia la causa, il risultato che otteniamo non è solo quello di tediare l’interlocutore, ma addirittura spingerlo a non leggere ciò che gli inviamo.
Facciamo una prova: se aprendo la casella di posta dovessi scegliere fra queste due e-mail, solo basandoti su oggetto e mittente, quale leggeresti per prima?
Probabilmente quella più corta.
Ciò che facciamo, è interpretare la lunghezza di un messaggio come un’indicazione di quanto sarà difficile e dispendioso in termini di tempo rispondere, il che è un altro motivo per cui scegliamo di non impegnarci in una comunicazione prolissa.
In uno studio, sono state inviate due versioni di un’e-mail a 7.002 membri dei consigli scolastici negli Stati Uniti chiedendo loro, nell’ultima riga, di completare un breve sondaggio online. Un’e-mail conteneva 127 parole; l’altra 49 parole.
L’ e-mail con 49 parole ha prodotto quasi il doppio delle risposte al sondaggio: un tasso di risposta del 4,8% vs 2,7%.
Molti hanno guardato la lunghezza dell’email di 127 parole scegliendo di non interagire. Altri non l’hanno letta fino in fondo e non hanno colto la richiesta finale (rispondere al sondaggio). Inoltre, alcuni potrebbero aver utilizzato la lunghezza dell’e-mail come indicatore del tempo che ci sarebbe voluto per completare il sondaggio e risultando dispendioso hanno deliberatamente ignorato la richiesta.
Entrambe le e-mail indirizzavano i destinatari allo stesso identico sondaggio, il cui completamento richiedeva circa cinque minuti.
La maggior parte di chi riceve un’email, ma soprattutto quelli che hanno poco tempo, rischiano di essere scoraggiati da messaggi e richieste che si aspettano difficili e onerose da gestire.
Coloro che abbandonano anzitempo un lungo messaggio potrebbero, dando una scorsa al testo, decidere che è troppo faticoso da affrontare in quel momento – troppi argomenti, azioni o parole richieste –, sperando o ripromettendosi di ritornarci sopra più tardi.
Alcuni in realtà non riprenderanno più la lettura del testo. Altri sì, ma a quel punto potrebbero aver perso una scadenza o qualche informazione ormai inutilizzabile.
In media, un messaggio prolisso verrà trattato meno rapidamente di un messaggio breve. Nel peggiore dei casi, un messaggio prolisso sarà relegato allo stesso destino delle centinaia di altri messaggi che languono nelle caselle di posta, per non essere mai lette.
PAGARE DAZIO
Anche quando vengono lette, le comunicazioni impongono un sacrificio: più lungo è il messaggio, maggiore è l’impegno, lo sforzo, il tempo, ecc.
Immagina di ricevere 120 e-mail ogni giorno, ciascuna lunga tre paragrafi. Leggerle integralmente richiederebbe quattro ore.
Oppure capovolgi la situazione e immagina di inviare un messaggio di tre paragrafi a 120 dipendenti della tua organizzazione.
Ogni destinatario impiega in media due minuti per leggere quello che hai scritto. Tra i 120 dipendenti, il tuo messaggio realizzato con cura e attenzione, imporrà un impegno di quattro ore totali. Se riducessi la lunghezza di un solo paragrafo, risparmieresti 80 minuti totali di tempo dei dipendenti.
Scrivere in modo conciso richiede una spietata volontà di tagliare parole, frasi, paragrafi e idee non necessarie. Può essere difficile cancellare le parole che si è impiegato del tempo a buttare su carta. Ma farlo aumenta le possibilità che il tuo pubblico legga ciò che scrivi.
Nancy Gibbs, ex caporedattrice della rivista Time, direbbe al suo staff che “ogni parola deve guadagnarsi il suo posto in una frase, ogni frase deve guadagnarsi il suo posto in un paragrafo e ogni idea deve guadagnarsi il suo posto in un testo”.
SCRIVERE NON E’ PER TUTTI
La maggior parte di noi non è mai stata addestrata a scrivere in maniera concisa E la maggior parte di noi non è stata nemmeno addestrata all’abilità di editing.
Infatti se pur nella stesura del testo non ci siamo dilungati troppo, tendiamo a recuperare nel momento dell’editing: aggiungendo contenuti anziché rimuoverli. In uno studio condotto dai ricercatori dell’Università della Virginia, ai soggetti del test è stato chiesto di leggere e riassumere un breve articolo sulla scoperta delle ossa di re Riccardo III sotto un parcheggio a Leicester, in Inghilterra.
Dopo aver completato il riassunto, è stato chiesto loro di modificarlo e di migliorarlo: l’83% dei partecipanti allo studio ha aggiunto parole. Lo stesso modello si è manifestato in argomenti che vanno dagli itinerari di viaggio ai brevetti: tendiamo ad aggiungere idee anziché sottrarle o rimuoverle nel processo di modifica.
Lo sforzo aggiuntivo richiesto per scrivere in modo efficace è un investimento. È più probabile che si trovi il tempo per interagire a messaggi brevi, ben strutturati e facili da leggere.
Dedicare un po’ più di tempo in anticipo per essere concisi fa risparmiare tempo agli interlocutori e ai mittenti riducendo i follow-up, le incomprensioni e le richieste lasciate insoddisfatte.
La prossima volta che dovete scrivere, pensateci!
FONTI
QUANDO la PROMOZIONE SFUMA di un SOFFIO (per colpa di un mancato sponsor … forse)
Ma poi le cose sono andate diversamente…
Pur riflettendoci, non riesci a capacitarti di cosa sia andato storto, non ci sono stati da parte tua errori evidenti, mancanze… anzi. Tutto il contrario.
E se l’errore fosse stato quello di non saper distinguere fra i tuoi sostenitori, fan per usare un gergo moderno, e coloro che hanno un reale impatto sulla tua crescita professionale?
I fan sono persone che hanno una visione positiva di un dipendente, di un collega, ma non sono personalmente coinvolte nel successo di quell’individuo. Puoi avere dei fan, come l’ad, e un mentore, il capo ufficio, ma non avere degli sponsor.
CHI E’ UNO SPONSOR
Uno #sponsor è qualcuno che ha investito personalmente nella carriera di un dipendente e che dispone anche di sufficiente potere per influenzare decisioni aziendali come promozioni e aumenti.
In questo caso, l’errore è aver pensato che il capo ufficio fosse lo sponsor, ignorando più o meno consapevolmente che avesse anche titolo nell’organizzazione per sostenerne la promozione.
Non tutti hanno uno sponsor ma, per il successo professionale a lungo termine, averne è fondamentale. Ecco perché è importante saperli individuare e coltivare.
Occupandosi di comportamento organizzativo non è raro trovarsi a gestire situazioni di questo tipo.
Per non rimanere delusi, limitare i danni e utilizzare al meglio sforzi, risorse e capacità occorre essere in grado di distinguere e individuare chi può essere per noi solo un sostenitore e chi invece ha sufficiente potere e ruolo per prendere decisioni che ci riguardano.
Per semplificare, possiamo classificare il mondo del lavoro in quattro tipologie: fan occasionali, superfan, mentori e sponsor.
FAN OCCASIONALI E SUPER FAN
Hanno una visione positiva di un dipendente ma non si sentono personalmente responsabili del suo successo. Se qualcuno chiede loro informazioni su una determinata persona, diranno cose carine ma non si impegneranno a sostenerla. Né i fan occasionali né i super fan faranno qualcosa per supportare il dipendente. Nel nostro esempio, l’amministratore delegato era un superfan: sebbene fosse disposto a lodare il dipendente pubblicamente, non era personalmente coinvolto nel suo successo al punto da sostenerne la promozione.
Spesso confondiamo fan e superfan con gli sponsor.
MENTORI
Investono nello sviluppo del dipendente molto più di un fan. Si preoccupano di aiutare un individuo ad avere successo, ma non hanno il potere necessario nell’organizzazione per assumere un ruolo di sponsorizzazione. La differenza fondamentale tra sponsor e mentori è che, con uno sponsor, il focus della relazione è nel sostenere la progressione di carriera di un individuo e, con un mentore, l’enfasi è sullo sviluppo del dipendente come persona e professionista.
Mi è capitato di lavorare con un giovane professionista che credeva, impropriamente, che il senior manager a cui riferiva, fosse uno sponsor forte, perché spesso lo portava a pranzo, lo presentava a persone di alto livello e lo indirizzava su come affrontare situazioni interpersonali difficili sul lavoro. Tuttavia, quando si trattava di inserirlo in progetti prestigiosi, non aveva sufficiente potere e ruolo per farlo.
SPONSOR
Gli sponsor sono come i super fan in quanto parlano apertamente delle prestazioni di una persona, ma possono usare il loro ruolo e potere nell’azienda per avanzarne la carriera. Il ruolo di uno sponsor è investire nello sviluppo del dipendente. La sponsorizzazione può assumere la forma dell’inclusione intenzionale della persona in team desiderabili, garantendo l’accesso su progetti in linea con i suoi interessi e consentendogli di acquisire le competenze necessarie per l’avanzamento di carriera.
Una trappola comune per molti è presumere che solo i dirigenti senior possano essere, di default, sponsor efficaci. Sebbene le aziende abbiano spesso programmi formali di mentoring, la sponsorizzazione tende ad essere informale e organica, quindi le conversazioni sincere sono importanti per confermare il livello di investimento e supporto personale di un potenziale sponsor.
Il modo in cui gli individui vengono supportati o meno da manager e leader nelle loro organizzazioni ha un impatto diretto sul successo lavorativo e sulla carriera.
Le risorse umane hanno un ruolo importante in tal senso. Possono e devono aiutare i dipendenti a identificare le persone nell’organizzazione che possono migliorare le loro prospettive di carriera. Questo vale per tutti ma soprattutto per quei professionisti che sono i primi, nelle loro famiglie, a lavorare in un contesto aziendale o di servizi professionali. Spesso non hanno nessuno che possa consigliarli e rischiano più di altri di confondere sponsor con mentori.
Anche se un leader si considera un paladino della diversity and inclusion, questo non lo trasforma automaticamente in sponsor, ma in mentore. Con tutto quello che questo può comportare.
LA FIDUCIA
La fiducia è una parte importante della creazione di una relazione di supporto e uno dei modi in cui le persone costruiscono fiducia con gli altri è essendo affidabili. Trovare il tempo per fornire supporto quando è necessario crea fiducia. I migliori mentori e sponsor forniscono soluzioni concrete, feedback che contribuiscono alla crescita e allo sviluppo di un dipendente.
Potrebbe non essere sempre ciò che l’individuo vuole sentire, ma spesso può essere ciò di cui ha bisogno.
Non esiste un mix perfetto di tipi di supporto in un’organizzazione. Soprattutto a inizio carriera. Ciò che si dovrebbe fare è mirare a costruire, nel tempo, team che includano individui di ciascuna tipologia e rappresentino vari livelli all’interno della gerarchia organizzativa e, di conseguenza, diversi tipi di potere.
I leader dovrebbero assicurarsi che la loro azienda disponga di un sistema per il progresso di carriera e di una politica di diversità e inclusione che tutti, compresi mentori e sponsor, comprendano. Per i dipendenti è importante sapere come distinguere tra fan occasionali, super fan, mentori e sponsor.
Riconoscendo i diversi tipi di sostenitori nel proprio ecosistema organizzativo, adottando misure per sviluppare un’ampia coalizione di supporto e rivisitando regolarmente la propria matrice di supporto, i professionisti possono posizionarsi per il successo ora e in futuro.
E, credetemi, non è poco.
I MIGLIORI (AD) NON smettono MAI di IMPARARE
“Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.
E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.
Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.
Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.
Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.
ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…
Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.
Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.
Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.
COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)
DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.
Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.
“Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.
Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.
Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo“[1].
Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.
Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.
Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.
L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.
Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:
– Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?
– Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?
– C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’
Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.
PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.
In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.
L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).
Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.
Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.
All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.
DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.
Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.
Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.
Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.
ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.
Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.
Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.
Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.
Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.
Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.
Fonti
[1] CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books
Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.
Un VOLTO, TRE EMOZIONI. Come ci INGANNA l’EFFETTO KULESHOV
Lo dirò senza mezzi termini: non importa quando si è empatici e/o allenati a leggere le #espressioni facciali per attribuire la corretta #emozione al volto di chi ci sta di fronte. Il medesimo volto comunicherà un’emozione diversa a seconda del #contesto. Quindi, al modificarsi del #contesto, cambierà anche la nostra #percezione sull’emozione che quello stesso viso trasmette.
Ecco l’effetto Kuleshov.
EFFETTO KULESHOV
È un #bias che si verifica nella mente dello spettatore. Utilizzato per la prima volta, negli anni ‘20, dal regista sovietico Lev Kuleshov, venne associata l’inquadratura di un volto senza espressione a una scena comunicante una particolare emozione.
Questo fa in modo che lo spettatore abbia l’impressione che l’attore comunichi attraverso il viso un’emozione coerente alla scena proposta. E spiega come la stessa espressione facciale possa cambiare significato a seconda dell’immagine a cui viene associata.
L’esperimento dimostrò come un filmato potesse far nascere emozioni differenti negli spettatori a seconda delle inquadrature e, come due inquadrature in una sequenza avessero (e hanno) più impatto di una singola inquadratura.
Kuleshov credeva che l’interazione delle inquadrature nel cinema fosse ciò che differenziava il cinema dalla fotografia poiché le fotografie sono singole inquadrature isolate che non consentono di ricavare lo stesso significato.
Affascinato dal potere che i montatori avevano nel manipolare le #emozioni del pubblico, volle creare una distinzione fra i vari mezzi artistici, fra cui cinema, letteratura, teatro e fotografia. Nacque così l’effetto Kuleshov, che continua ancor oggi a influenzare il cinema moderno.
IN CHE MODO KULESHOV HA DIMOSTRATO IL SUO EFFETTO?
Kuleshov ha dimostrato l’effetto proponendo la stessa inquadratura di un uomo associata a scene diverse:
– la prima inquadratura ritraeva l’uomo e un bambino in una bara,
– la seconda, l’uomo e una scodella di zuppa,
– la terza, l’uomo e una donna su un divano.
Rispettivamente, questi scatti trasmettevano tristezza, fame e lussuria.
Nel creare questa dimostrazione, Kuleshov ha fatto credere che l’uomo nell’inquadratura stesse guardando ciò che seguiva (bambino, scodella, donna), anche se in realtà non era così. Ciò che è cambiato è la percezione della sua espressione quando è stata abbinata a un’altra inquadratura che ha generato emozione nel pubblico.
Questo effetto ha trasformato il processo di creazione dei film, poiché ha dimostrato di poter suscitare qualsiasi reazione montando e mettendo insieme le riprese: ossia di manipolare il tempo, lo spazio e la reazione dello spettatore.
L’effetto ha continuato a influenzare l’industria cinematografica ben oltre Kuleshov e non sono pochi i registi contemporanei che lo utilizzano.
ESEMPI DELL’EFFETTO KULESHOV
Alfred Hitchcock ha usato l’effetto Kuleshov, evolvendolo. La finestra sul cortile si basa ampiamente su questo effetto per creare la tensione che si accumula nel film. Intere scene si alternano tra il personaggio principale e ciò che vede attraverso la sua finestra, generando varie emozioni mentre il pubblico assiste al suo punto di vista.
Un altro thriller di Hitchcock, Psycho, utilizza l’effetto Kuleshov nella famosa scena della doccia. La comprensione di ciò che accade, l’accoltellamento del personaggio di Janet Leigh, è solo immaginato, poiché il pubblico vede solo tre fotogrammi di un coltello che perfora la carne. La vista passa da Leigh all’assassino armato di coltello, che crea questo effetto per evocare paura e tensione nello spettatore.
Una scena in Se7en, trasla fra ciò che è all’interno di una scatola e le reazioni di ogni personaggio nella scena, ognuno dei quali è drasticamente diverso dagli altri. Per capire la scena e cosa accadrà dopo, il pubblico deve vedere la reazione a ciò che c’è nella scatola.
La teoria di Kuleshov è pienamente efficace ne Il silenzio degli innocenti, generando tensione tra i personaggi mentre la scena è pronta per un’emozionante rivelazione. Questa particolare sequenza genera anche una reazione unica tra la maggior parte degli spettatori, poiché fa scoprire di una cosa che si pensava vera, il contrario.
L’effetto Kuleshov viene utilizzato anche nei film per bambini. Ne Inside Out il pubblico vive le emozioni attraverso la reazione di Riley, Fear, e gli altri personaggi.
In The Dark Knight Rises, l’ultimo capitolo della serie “Batman”, il pubblico osserva Catwoman mentre Batman viene picchiato dal cattivo del film. Vedere la scena dal punto di vista della donna evoca rimpianto.
Spielberg è un maestro dell’effetto Kuleshov. Ne Incontri ravvicinati del terzo tipo, una delle inquadrature principali è il “volto di Spielberg”, che è una reazione ravvicinata a qualcosa che il personaggio vede, generando una reazione da parte del pubblico.
E così in molti altri film famosi.
CONTEXT IS KING
Benchè noi esseri umani siamo, in parte, capaci di leggere le emozioni nelle altre persone, non dobbiamo dimenticare la nostra incapacità di dare #giudizi imparziali e accurati. Questo per due ipotesi.
La prima sostiene che sarebbe il #contesto a suggerirci quali #emozioni dobbiamo aspettarci di provare quando osserviamo un volto. Questa teoria mette in discussione l’universalità della percezione delle emozioni umane e prevede che attribuiamo un valore emotivo viziato dal contesto a espressioni che in realtà sarebbero neutre.
La seconda ipotesi sostiene invece che è legata alla necessità di proiettare le nostre stesse emozioni sugli altri. Il contesto attiva in noi una risposta emotiva e fisiologica che verrebbe poi proiettata o attribuita a espressioni neutre altrui.
D’ora in poi, non dimenticate di considerare il contesto non solo per prendere decisioni ma anche nella lettura delle emozioni di chi vi sta di fronte, chiedendovi quanto sta influenzando la vostra percezione. Che piaccia o meno context is king.
LAVORO DUNQUE SONO… e davvero così?
È una domanda che tutti, prima o poi, abbiamo rivolto a noi stessi. La maggior parte delle volte, però, la risposta è stata sepolta sotto il tappeto, in attesa di tempi migliori. Che non sono mai arrivati.
Non a caso è un tema dibattuto.
A risollevare il mio interesse è un’intervista che Good Morning America fece alla leggenda del basket Kobe Bryant, in cui il cestista raccontò di cosa avrebbe fatto una volta ritiratosi dalla pallacanestro, sottolineando l’importanza di riconoscere la “differenza tra chi sei e ciò che fai e capire che non siamo quello che facciamo“.
Sebbene sia un pensiero condivisibile relegare il #lavoro a un incomodo fra noi e le cose belle della vita, il rischio a cui andiamo incontro è banalizzare l’essere umano.
Per la maggior parte delle persone, me compresa, il lavoro viene percepito “non solo come fonte di reddito, ma anche come legittimazione sociale“, per citare Tom Fryers, docente di salute mentale pubblica all’Università di Leicester.
In una parola: #workism. Termine che si deve al giornalista americano di The Atlantic Derek Thompson, che ne ha parlato in Workism Is Making Americans Miserable.
LAVORO DUNQUE SONO
Personalmente il #workism non mi infastidisce, anche se Thompson lo usa in senso negativo.
Fin dall’infanzia siamo cresciuti con l’idea che è il lavoro a nobilitarci. Il lavoro è la priorità, l’imperativo, la strategia, la soluzione, il piacere, la filosofia alla base della nostra intera esistenza.
Senza contare che più ore di lavoro sono, in diversi contesti, un segno dello status di élite. Il tempo libero non è un privilegio, e nemmeno lo si desidera. Non c’è svago: solo tempo perso.
Per queste ragioni Thompson scrive che il #workism è un “tipo di religione, identità promettente, trascendenza e comunità“, che occupa il posto che un tempo il cristianesimo occupava nella società.
Se dedichiamo tanto tempo ed energie forse la questione è difficilmente relegabile in un articolo di giornale.
GLI ASPETTI NEGATIVI
Il #workism non è di per sé dannoso se lavorare tanto, tantissimo fa parte di un progetto personale; lo diventa quando le cose vanno male poichè i risultati possono essere emotivamente devastanti. Un progetto che fallisce, mancare una promozione o venire licenziati può rapidamente innescare un effetto domino negativo in coloro che si vedono definiti (solo) dai loro risultati professionali.
Su Harvard Business Review , la psicologa Janna Koretz ha condiviso la storia di un partner di un prestigioso studio legale che piangeva, seduto sul pavimento del bagno, quando si è reso conto di sentirsi insoddisfatto al lavoro. All’improvviso, di tutto quello che aveva conquistato, rimaneva poco o niente. “Chi sono io, se non posso più essere un avvocato di successo?”.
Anche per le organizzazioni c’è un prezzo salato da pagare se il #workism è parte integrante della cultura aziendale. Più persone vedono il loro lavoro come centrale per la loro identità, più è probabile che lavorino troppo. La ricerca mostra il danno che può derivare dal passare troppe ore in ufficio. “La produzione diminuisce drasticamente dopo una settimana lavorativa di 50 ore e precipita oltre le 55 “, ha osservato un articolo della CNBC nel 2015, citando uno studio di John Pencavel di Stanford e l’Institute of Labor Economics.
Uno degli insegnamenti che maggiormente porta a riflettere sui pericoli di fondere il lavoro con sé stessi arriva dal cofondatore di Facebook, Dustin Moskovitz. A lungo mitizzato per il suo impegno h24 – 7/7, Moskovitz oggi afferma che la sua eccessiva concentrazione sul lavoro lo ha danneggiato: “Vorrei aver dedicato più tempo ad altre esperienze che mi avrebbero aiutato a crescere rapidamente se solo avessi dato loro una possibilità. Potresti pensare: ma così facendo, Facebook non avrebbe avuto meno successo? In realtà, credo che sarei stato più efficace: un leader migliore e un dipendente più concentrato e riflessivo, oltre che meno frustrato e risentito. Insomma, avrei avuto più energia e l’avrei spesa in modi più intelligenti”.
Ora cofondatore di un’azienda di software, Moskovitz ha costruito una cultura in cui “le persone non lavorano troppo… Possiamo incoraggiare un sano equilibrio tra lavoro e vita privata nella fredda e spietata ricerca del profitto. Stiamo massimizzando la nostra velocità e la nostra felicità allo stesso tempo”.
IL PROBLEMA è/e LA RISPOSTA
A questo punto una domanda sorge spontanea: come possiamo continuare a creare nuova ricchezza, inventare nuove tecnologie e progredire, trovando anche qualcosa che dia scopo, direzione e significato alle nostre vite?
Il #Workism potrebbe essere il problema e al tempo stesso la risposta.
Creare nuova ricchezza, inventare nuove tecnologie e progredire è qualcosa che dà scopo, direzione e significato. Workism è un termine peggiorativo – un aggiornamento di workaholic – usato per respingere quella che in realtà è un’idea molto convincente: che risolvere i problemi umani, costruire il futuro e semplicemente fare le cose è un’importante e significativa attività.
HOWARD ROARK E IL SENSO DEL LAVORO
Il lavoro è una necessità ineludibile. Non solo per il funzionamento della nostra economia, ma anche per il benessere delle persone.
La necessità di lavorare va molto più in profondità. Il lavoro e la produttività sono le attività essenziali della vita umana, da cui scaturisce tutto il resto. Ogni cibo che mangiamo, ogni capo di abbigliamento che indossiamo, tutti gli strumenti che usiamo per viaggiare, informarci, divertirci: niente di tutto ciò è fornito automaticamente dalla natura. Tutto deve essere prodotto. Ciò significa non solo millenni di fatica fisica, ma anche millenni di scoperte, invenzioni e creatività.
Come potrebbe questo non essere significativo? Come può l’ascesa dell’umanità dalla caverna al grattacielo – non essere vista come qualcosa che contribuisce alla identità personale e allo scopo della vita?
Forse nessuno rappresenta questo aspetto del workism meglio dell’eroe di Ayn Rand di “La fonte miracolosa”, Howard Roark. All’inizio del romanzo, spiega il motivo della sua ostinata insistenza: “Ho sessant’anni da vivere. La maggior parte di quel tempo sarà dedicata al lavoro. Ho scelto il lavoro che voglio fare. Se non ci trovo gioia, allora mi condanno solo a sessant’anni di torture“.
Successivamente, va più in profondità, ponendo l’argomento del lavoro al centro del significato della vita, in particolare in risposta a “coloro che cercano una sorta di scopo superiore, che non sanno per cosa vivere, che si lamentano di dover ‘ritrovare se stessi’”.
Il romanzo è del 1943; la crisi del significato non è una novità.
Ecco la risposta.
Roark strappò un grosso ramo da un albero, lo tenne con entrambe le mani, un pugno chiuso a ciascuna estremità; poi, con i polsi e le nocche tesi contro la resistenza, piegò lentamente il ramo in un arco. “Ora posso farne quello che voglio: un arco, una lancia, un bastone, una ringhiera. Questo è il senso della vita.”
“La tua forza?”
“Il tuo lavoro“. Gettò da parte il ramo. “Il materiale che ti offre la terra e quello che ne fai”.
Il rovescio della medaglia di trovare un significato nel lavoro è trovare un lavoro che meriti quel significato. Significa trovare un lavoro che ti interessa e che vuoi fare, piuttosto che finire dove la vita ti porta.
CONCLUDENDO
Il lavoro è un’attività centrale che occupa le nostre vite per necessità, e la maggior parte di noi riesce a trovare significato, valore e orgoglio nel farlo. Il workism non è né un’invenzione recente né una strana teoria. È la realtà effettiva di gran parte della vita umana. Faremmo molto meglio a riconoscerlo e ad abbracciarlo.
Siete d’accordo?
27 Giugno ’23 – Speech “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” – Fondazione Links e AIDP Piemonte
Speech con la collega Pamela Melato: “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” alla Fondazione Links di Torino, all’interno dell’evento organizzato dal gruppo AIDP4Future, Hr Tech: La tecnologia al servizio delle Persone.
Una REGINA ROSSA (Attraverso lo specchio) per rimanere COMPETITIVI
dice la Regina Rossa ad Alice, in Attraverso lo specchio, il romanzo di Lewis Carroll.
Scrittore, Carroll, capace di far diventare i suoi racconti dei classici senza tempo ma anche di influenzare Leigh Van Valen, biologo statunitense, che da quella frase estrasse una vera e propria ipotesi #evolutiva: l’ipotesi della regina rossa.
Nelle sue ricerche, Van Valen aveva notato che in nessuna situazione una specie poteva considerarsi protetta dall’estinzione. L’evoluzione è un processo continuo e tutti gli esseri viventi devono continuamente rispondere alle pressioni del proprio ambiente se non vogliono scomparire.
In sostanza, nessuna specie può permettersi il lusso di smettere di adattarsi senza correre il rischio di compromettere il proprio posizionamento competitivo e la propria sopravvivenza. Ogni essere vivente infatti, è costantemente alla ricerca di opportunità per acquisire un vantaggio e quindi l’adattamento è guidato anche dalla necessità di reagire ai cambiamenti di coloro con cui si condivide l’ambiente.
CORRERE PER RIMANERE NELLO STESSO POSTO
Nel campo della #biologia, gli organismi non decidono consapevolmente di adattarsi: un leone, osservando le antilopi, non pensa: “mannaggia, stanno correndo più veloci del solito. Devo allenarmi per migliorare il mio stato di forma.” Quello che accade in natura è che solo le antilopi più veloci riescono a sopravvivere e riprodursi. Questo metterà pressione ai leoni in quanto solo quelli più veloci riusciranno a catturare le prede e a continuare la specie.
Nel lungo periodo, la velocità media di antilopi e leoni aumenterà, poiché la pressione su prede e predatori è costante. Questa è l’essenza dell’Effetto Regina Rossa: costringere gli organismi a un adattamento continuo semplicemente per sopravvivere.
L‘equilibrio non esiste o, meglio, ci troviamo di fronte a un equilibrio dinamico. L’equilibrio c’è, ma cambia sempre. L’evoluzione è come una reazione a catena nel teatro dell’ecologia.
LA REGINA ROSSA E LA STRATEGIA AZIENDALE
L’Effetto Regina Rossa può essere utilizzato come modello per interpretare le pressioni competitive a cui sono soggette le aziende. Van Valen aveva osservato che la pressione sulle specie è costante e non connessa alla longevità: “indipendentemente da quanto una specie è sopravvissuta, l’incapacità di continuare ad adattarsi può comunque portarla all’estinzione”.
Nella competizione tra aziende, a volte correre veloci non basta neanche per rimanere fermi. Per progredire e innovare bisogna correre in maniera diversa dalla concorrenza, inventandosi nuovi mercati, cambiando le regole del gioco.
L’intensità dell’Effetto è quindi un fattore fondamentale per valutare il posizionamento di un’attività imprenditoriale, nonchè uno dei parametri chiave utilizzati da Munger e Buffett per decidere in quali aziende investire.
Secondo Munger esistono delle forze competitive distruttive (il suo modo per definire l’Effetto Regina Rossa) che nel lungo periodo mettono in pericolo la sopravvivenza di gran parte delle aziende.
Per questo Munger e Buffett hanno quasi sempre evitato settori caratterizzati da un Effetto Regina Rossa troppo intenso. Quando non hanno seguito questa regola, hanno subito perdite importanti: è il caso dell’investimento nel settore tessile, che Buffett considera uno dei suoi errori più importanti.
Tutti gli investimenti per ridurre i costi furono inutili perché anche tutti i competitor fecero lo stesso con il risultato che a ridursi furono solo i prezzi. E quindi dopo ogni giro di investimenti tutti i giocatori si ritrovarono con più soldi sul piatto e con gli stessi rendimenti anemici. Il classico esempio dell’Effetto Regina Rossa a massima potenza!
In ogni caso, per contrastare l’Effetto Regina Rossa presente in varie intensità in tutti i settori, le aziende devono sviluppare dei vantaggi competitivi, che Munger e Buffett definiscono moats, fossati, per difendersi dalle incursioni esterne. Questi fossati devono essere continuamente allargati per assicurare una protezione sostenibile nel tempo, altrimenti gli invasori troveranno, prima o poi, il modo di superarli.
Le aziende migliori, quindi, sono quelle che non solo sono in grado di costruirsi un fossato, cioè un vantaggio competitivo, ma lavorano in maniera incessante per allargarlo, cioè continuano ad adattarsi e a evolvere per far fronte alla pressione continua dell’Effetto Regina Rossa a cui sono inevitabilmente sottoposte.
ALTRI MODI PER RACCONTARE LA REGINA ROSSA
In Deep Simplicity John Gribbon descrive il principio della regina rossa usando le #rane.
Ci sono molti modi in cui le rane, che vogliono mangiare le mosche, e le mosche, che vogliono evitare di essere mangiate, interagiscono. Le rane potrebbero sviluppare lingue più lunghe, per catturare le mosche; le mosche potrebbero evolversi in un volo più veloce, per scappare.
Le mosche potrebbero sviluppare un sapore sgradevole o espellere veleni che danneggiano le rane e così via. Sceglieremo una possibilità. Se una rana ha una lingua particolarmente appiccicosa, troverà più facile catturare le mosche. Ma se le mosche hanno corpi particolarmente scivolosi, troveranno più facile scappare. Immagina una situazione stabile in cui un certo numero di rane vive in uno stagno e mangia ogni anno una certa proporzione delle mosche.
A causa di una mutazione, una rana sviluppa una lingua extra appiccicosa. Andrà bene, rispetto ad altre rane, e i geni per lingue extra appiccicose si diffonderanno nella popolazione di rane. All’inizio viene mangiata una percentuale maggiore di mosche. Ma quelli che non vengono mangiati saranno quelli più scivolosi, quindi, i geni per una maggiore scivolosità si diffonderanno nella popolazione di mosche. Dopo un po’, nello stagno ci sarà lo stesso numero di rane di prima e ogni anno verrà mangiata la stessa proporzione di mosche. Sembra che non sia cambiato nulla, ma le rane hanno lingue più appiccicose e le mosche corpi più scivolosi.
Siddhartha Mukherjee, nel suo libro vincitore del premio Pulitzer The Emperor of All Maladies, descrive la Regina Rossa nel contesto della droga e del cancro.
Nell’agosto 2000, Jerry Mayfield, un poliziotto quarantunenne della Louisiana con diagnosi di leucemia mieloide cronica, iniziò il trattamento con il Gleevec, un farmaco antitumorale specifico per quella malattia. All’inizio la risposta fu rapida e positiva. Il poliziotto si sentiva bene, in forma. Ma durò poco. Tre anni dopo, la malattia si è ripresentata e pur aumentando e aumentando ancora la dose di Gleevec, non ci fu risposta. Il cancro di Mayfield era diventato resistente alla terapia…
Si era avviata una battaglia perpetua con un combattente instabile. Quando la malattia è riuscita a rendere innocuo il farmaco, solo un nuovo trattamento di nuova generazione avrebbe potuto contrastare la leucemia.
In Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, la Regina Rossa dice ad Alice che il mondo continua a muoversi così velocemente sotto i suoi piedi che deve continuare a correre solo per mantenere la sua posizione. Questa è la situazione con il cancro: “siamo costretti a continuare a correre solo per stare fermi”.
CONCLUSIONI
L’Effetto Regina Rossa ci ricorda che non possiamo mai rilassarci (troppo) neanche quando abbiamo acquisito una posizione di forza rispetto ai nostri concorrenti o il contesto in cui lo caliamo: la pressione è costante e se rimaniamo fermi, prima o poi qualcuno o qualcosa troverà il modo per raggiungerci e superarci. Non è la forza che ci consente di sopravvivere nel lungo periodo, ma la capacità di adattamento.
Ps. Attenti a non confondere la Regina Rossa con la Regina di Cuori del libro precedente Alice’s Adventures in Wonderland. Le due regine condividono le caratteristiche di essere rigorose e associate al colore rosso. Tuttavia, le loro personalità sono diverse “Ho immaginato la Regina di Cuori come una sorta di incarnazione di una passione ingovernabile: una Furia cieca e senza scopo. La Regina Rossa l’ho immaginata come una Furia, ma di un altro tipo; la sua passione deve essere fredda e calma – formale e severa, ma non scortese; pedante al decimo grado, l’essenza concentrata di tutte le governanti!“