NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

8 Febbraio ’23 – Nudge Revolution in Coldiretti Donna Impresa Piemonte

L’ 8 febbraio 2023 – Nudge Revolution sono in Coldiretti Donna Impresa Piemonte

Workshop presso la sede Coldiretti Torino – Donne Impresa

In ARABIA SAUDITA, ogni GIORNO accade qualcosa di NUOVO. La resistenza al cambiamento si può raccontare in molti modi

Ad accogliermi a Jeddah, la più evoluta e libertaria fra le città dell’Arabia Saudita è Al-Anoud, 35 anni, profondi occhi scuri, folti capelli neri e pelle color caramello. Ingegnere, con la passione per la storia. Sarà la mia guida.

Al-Anoud indossa l’abaya e il niqab, che le avvolgono corpo e viso, ma ci tiene a specificare che è “una scelta conservativa” resa possibile da quando, nel 2018, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, potentissimo deus ex machina dell’apparato politico ed economico saudita, stabilì che gli abiti neri femminili della tradizione islamica potevano non essere indossati, purché le donne scegliessero altri “abiti pudichi e rispettosi”.

Quando non fa la guida (un mese all’anno) è una dirigente di una fabbrica di componenti elettrici, dove supervisiona un centinaio di lavoratrici in un’ala sperimentale che fa parte di una campagna nazionale per attirare le donne saudite in lavori retribuiti.

Le donne che supervisiona lavorano in un’area interdetta agli uomini, ma gli uffici dirigenziali sono misti: uomini e donne, non legati da legami di sangue o matrimonio, vicini tutti i giorni.

DONNE E LAVORO

L’Arabia Saudita è una nazione profondamente segregata per genere, e tra i cambiamenti difficili, fragili e straordinari in corso nella vita quotidiana delle donne del regno, generazioni multiple, spinte dalle nuove politiche del lavoro e dagli incoraggiamenti del defunto re Abdullah bin Abdulaziz, stanno ora discutendo cosa significhi essere sia moderni sia sauditi.

Ci sono donne che non prenderebbero nemmeno in considerazione un lavoro che lo richieda.

Ci sono donne che potrebbero prendere in considerazione un lavoro in simili condizioni ma sono annullate da genitori, mariti, parenti.

Ci sono anche donne abbastanza a loro agio con i colleghi maschi: nell’ultimo decennio, i programmi di borse di studio del governo hanno inviato decine di migliaia di donne saudite a studiare all’estero, e stanno tornando a casa, impazienti di avviare il cambiamento.

In questo contesto complicato, improvvisando per soddisfare le proprie idee sulla dignità, Al-Anoud ha stabilito i suoi requisiti personali all’interno dell’azienda: nessun contatto fisico con gli uomini. “Non è una questione di igiene, ma di religione. Non posso toccare un uomo che non sia mio padre, mio zio, mio fratello.'”

Al-Anoud sorride serena mentre racconta il suo quotidiano, ed è forse questo uno dei motivi per cui è stato possibile farle tante domande. È ironica, determinata. Prende in giro le persone invadenti o maleducate. Uno dei suoi cellulari squilla al ritmo della musica di Grey’s Anatomy. A vent’anni ha rifiutato corteggiatori alternativi preferiti dalla sua famiglia perché era determinata a sposare l’uomo che amava. Dice di aver visto tantissimi film americani quando era adolescente; le sale cinematografiche sono vietate in Arabia Saudita, ma i DVD popolari sono facili da trovare.

DIETRO LE QUINTE

Fra le foto custodite nel cellulare (l’ultimo modello di iPhone), mi mostra quella dell’armadio della camera da letto pieno di abiti neri uno in fila all’altro. Le abaya a colori stanno iniziando a proliferare a Jeddah, la città portuale meno conservatrice dell’ovest, ma a #Riyadh un’abaya non nero indossato in pubblico attira ancora lo sguardo accigliato degli estranei e possibili rimproveri da parte della polizia religiosa che pattuglia le strade.

L’abaya che indossa Al-Alnoud ha finiture eleganti e variegate, tasche capienti di cui una, portacellulare, cucita sulla manica sinistra. Lo indossa sopra pantaloni e camicetta, come si indossa un trench. E poi c’è il niqab, il velo che copre il capo e il volto, lasciando una striscia libera per gli occhi. Perfettamente truccati, rigorosamente di nero.

Nel mio peregrinare in Arabia Saudita, difficile non notare come tutti i ristoranti che servono sia uomini che donne hanno aree di ristorazione divise, una per “uomini”, e una per “famiglie”.

All’interno dei food court dei centri commerciali, dove i marchi del Medio Oriente competono con McDonald’s e KFC, Starbuck e Dunkin ‘Donuts, le divisioni di genere raddoppiano mentre i cartelli dei menu dividono il bancone degli ordini di ogni bancarella.

Difficile comprendere come stia bene alle donne saudite l’abaya e a tutte coloro che l’ho chiesto, si sono trincerate dietro la medesima risposta: “se sei con altre donne lo puoi togliere”.

Non sono i maschi gli unici esecutori di tali standard. Ci sono le madri, le sorelle, le vicine di casa, le colleghe, le amiche che si sentono libere di rimproverare donne che non conoscono e non si allineano.

Tutto il mondo è paese.

È Al-Alnoud ad articolare la spiegazione velata più concisa e credibile: “Non è qualcosa di strano per noi“. La società saudita è ancora tribale; le donne e gli uomini allo stesso modo sentono che chi li circonda osserva, fa supposizioni sui loro standard familiari, esprime giudizi.

Dayooth significa un uomo che non è sufficientemente vigile nei confronti della moglie e di altre parenti di cui dovrebbe proteggere l’onore. È un’etichetta che ha il suo peso e non si può ignorare.

Poi mi fa indossare l’abaya e mi accorgo che in realtà si può vedere tutto. La stoffa è trasparente, tessuta con questo scopo, fuori dai finestrini dell’auto le cose appaiono più scure e grigie, ma visibili.

Come fanno i mariti a capire qual è la loro moglie in un gruppo di donne vestite tutte uguali, mi chiedo, senza aver coraggio di domandare…

CONTRASTI E TRADIZIONE

A volte ti pare essere nel 21° secolo e in alte nel 19°, una sorta di Medioevo europeo, con la Chiesa cattolica.

A condividere il potere, in una misura difficilmente comprensibile per chi proviene da paesi più laici, sono i leader religiosi dogmatici e la dinastia reale. Gli insulti all’Islam o le minacce alla sicurezza nazionale – categorie che comprendono blog, social media e difesa aperta del già accusato – sono tra i crimini punibili con la reclusione, la fustigazione o la morte. Le esecuzioni sono eseguite mediante decapitazione pubblica.

La convinzione qui è che la virtù e il vizio possano essere gestiti tenendo separati uomini e donne – per natura gli uomini sono lussuriosi e le donne seducenti, così che essere un buon musulmano richiede un’attenzione costante ai pericoli di uno stretto contatto – è così radicata nella vita quotidiana che il visitatore non può che rimanerne disorientato.

Non è un caso se le piscine degli hotel non ammettono donne o riservano un’ora solo per loro. O se la maggior parte dei negozi di abbigliamento sauditi non ha camerini: le donne non si spogliano con gli impiegati maschi dall’altra parte della porta.

O che l’Arabia Saudita ha un solo cinema, un nuovo museo della scienza IMAZ: il governo ha chiuso tutti i cinema durante l’ondata conservatrice negli anni ’80.

E ancora, che i padri, in un divorzio, ottengono la custodia dei figli, tranne se molto piccoli; ottenere la cittadinanza è semplice per le donne straniere che sposano uomini sauditi, ma quasi impossibile per gli uomini stranieri che sposano donne saudite. E che per la donna sia consigliato vivere sotto la tutela di un maschio designato.

Al-Alnoud questo non lo dice.

Come non dice che in Arabia Saudita la legge ufficiale spesso cede alla tradizione, alle interpretazioni individuali degli obblighi religiosi o al timore di ripercussioni da parte della famiglia. Alcuni datori di lavoro non assumono una donna, senza l’approvazione del suo tutore.

E ci sono uomini che usano il potere della tutela per punire, controllare, manipolare.

Sono sfide brutali ma discrete da affrontare una per una e che richiedono manovre delicate in un luogo in cui fede religiosa, onore familiare e potere statale rimangono così strettamente intrecciati.

Qualsiasi persona che vuole esortare a togliersi il niqab, a guidare, ad abbattere i muri di separazione, deve prima capire la cultura di questo popolo. “Molte famiglie saudite non permettono alle loro figlie di lavorare come commesse perché i muri non sono abbastanza alti“.

Guardando Al-Alnoud, mentre ci salutiamo, capisco che aveva ancora bisogno di convincere la straniera sul sedile posteriore della Toyota che mettere il proprio piede sull’acceleratore non era la cosa che desiderava di più da questa vita.

Ci congediamo condividendo l’un l’altra il profilo Instagram e qui mi accorgo che in tutte le foto il suo volto è sfocato, in altre è stato cancellato con il pennarello digitale dell’iPhone, in altre ancora la testa è tagliata all’altezza del collo.

I cambiamenti richiedono tempo. E solo il tempo dirà quanto Bin Salman ha intenzione di modernizzare il regno e dove all’interesse economico verrà consentito di prevalere sulle credenze religiose islamiche.

Come SCRIVERE un ARTICOLO TECNICO di SUCCESSO

“Quando qualcuno parla di cose che non conosce a fondo, sarà capito soltanto da chi conosce l’argomento, meglio di lui” (I legge di Whittington sulla comunicazione), o detto in altri termini: conoscere non significa automaticamente saper divulgare.

Non sempre l’essere esperti in un determinato ambito, ci rende esperti divulgatori.

Ecco perchè la stesura di un articolo, soprattuto se tecnico, può risultare ostico. Ci sono però alcune domande che se poste prima della stesura, possono semplificare molto il lavoro:

CHI SONO I MIEI LETTORI: prima di scrivere, analizzate chi sono i vostri lettori. Cercate di definirne età, sesso, livello di istruzione, interessi e tutto quanto può aiutarvi a immaginarli come delle persone a cui state parlando da vicino

COSA LI SPINGE A LEGGERE: sono alla ricerca di informazioni? Stanno leggendo per divertimento, curiosità o per interesse? Cercate di comprendere al meglio le ragioni principali per cui i lettori leggono un testo che riguarda il vostro lavoro

QUALI INFORMAZIONI POSSIEDONO SULL’OGGETTO DEL TESTO: sono nuovi lettori, hanno conoscenze generali o sono esperti in materia? Più sono esperti e più potrete usare termini tecnici ed entrare nello specifico dell’argomento

QUAL E’ L’OGGETTO DELLA COMUNICAZIONE: individuate un solo oggetto della comunicazione. Evitate di voler dire tante cose in un solo passaggio. E’ già molto difficile ottenere attenzione su un solo argomento, mettendo insieme più messaggi non ne avreste nessuna e creereste solo confusione

QUAL E’ L’OBIETTIVO DELLA COMUNICAZIONE: stabilite l’obiettivo per cui state scrivendo. In una buona comunicazione si devono incrociare diversi obiettivi: dare informazioni e stimolare a un comportamento.

Tenete sempre presente il vostro obiettivo durante la stesura del testo e se non è chiaro dal titolo, specificatelo nell’introduzione. Se il percorso da intraprendere è complicato e richiede molti passaggi, anticipatelo al lettore e a ogni passo ricapitolate. Il lettore deve capire in ogni momento da dove è partito, dove arriverà e dove si trova.

COSA VOGLIO CHE FACCIANO DOPO AVER LETTO IL TESTO: rispondete a questa domanda in modo pratico. Rendete esplicito questo obiettivo invitando il lettore a rispondere alla vostra comunicazione

COSA SCRIVERE NEL TESTO: se avete risposto alle domande precedenti, avete già una parte della risposta. L’importante è che siate: chiari, concisi, corretti, cortesi, colloquiali, convincenti, completi. E non dimenticate la bibliografia!

Ultima annotazione: la cura formale dei testi è fondamentale. Rivedete e correggete fino alla noia prima di far uscire la pubblicazione: bad form, bad business. Cattiva notizia, cattivi affari!

PERCHE’ CREDIAMO di MERITARE ciò che OTTENIAMO? Ignare vittime della fallacia del MONDO GIUSTO

Non so se anche voi siete fra coloro che credono che il mondo sia giusto e di conseguenza, è la moralità delle proprie azioni a determinare i risultati. O più semplicemente: chi fa del bene sarà premiato e chi ha comportamenti discutibili e cattivi sarà punito.

Io sono fra questi, non so se è per una visione romantica della vita o se (questa seconda opzione è più probabile) sono vittima della fallacia del mondo giusto, una trappola mentale capace di regalarti un profondo senso di pace e di giustizia se solo ti abbandoni all’idea che se fai del bene e sei buono verrai ampiamente ricompensato.

NEL QUOTIDIANO

È sabato sera e con amici siamo al ristorante. Rilassati e soddisfatti, a fine cena, ci dirigiamo al parcheggio. L’atteggiamento ironico e burlone di uno dei nostri amici muta bruscamente quando si accorge che la portiera dell’auto è spalancata e il laptop è sparito.

Consoliamo l’amico, cercando insieme di capire come sia potuto accadere, mentre lui continua a tormentarsi e ripetere “devo aver lasciato le porte aperte e il computer in bella vista”. Inevitabilmente, l’idea che il nostro amico sia distratto e confusionario avrà il sopravvento su di noi.

Ecco che siamo caduti vittime della fallacia del mondo giusto. Una #convinzione capace di modellare la nostra #percezione: presumiamo che ciò che accade si ripeta e quindi, razionalizziamo la sfortuna del nostro amico come conseguenza delle sue azioni o caratteristiche o abitudini negative. Arrivando persino a distorcere la nostra percezione sulla persona per trovare una ragione per cui a venir derubato è stato lui e non noi.

EFFETTI INDIVIDUALI

Questa credenza, da un lato, può motivarci ad agire con moralità e integrità, tuttavia, il mondo non è sempre così giusto come vorremmo che fosse. Attenendoci strettamente a tale ipotesi di fronte all’ingiustizia, è più facile trarre conclusioni e giudizi imprecisi sul contesto che ci circonda.

Le persone compiono sforzi enormi per correggere i torti e quindi contribuire a ripristinare la giustizia nel mondo. Spesso però, il desiderio di vivere in un mondo giusto non porta alla giustizia, ma alla giustificazione[1]. Invitano a riflettere gli psicologi dell’UCLA.

La ferma #convinzione in un mondo giusto produce un pregiudizio cognitivo che può portare a giustificare la sofferenza di una persona dipingendola negativamente o minimizzando del tutto la sua sofferenza.

Nel quotidiano questa fallacia potrebbe applicarsi nel presumere che chi ha un lavoro scarsamente retribuito lavori meno duramente e seriamente di chi è ritenuto di successo. Creiamo cioè false narrazioni per proteggere la nostra teoria del mondo: vogliamo a tutti i costi credere che il mondo sia giusto e che se lavori duro avrai successo. Così è più facile etichettare qualcuno come pigro o demotivato piuttosto che ammettere che il mondo può essere ingiusto.

EFFETTI SISTEMICI

Il modo in cui decidiamo cosa merita una punizione e cosa una ricompensa determina il modo in cui vediamo il mondo. Questa prospettiva ha effetti significativi sugli esiti politici e legali, sul giudizio delle vittime e nei confronti dell’attivismo sociale. Gli studi scientifici hanno mostrato una correlazione inversa tra l’ipotesi del mondo giusto e l’attivismo sociale: se ritieni che il mondo sia giusto così com’è, avrai meno probabilità di agire e lottare per il cambiamento.

PERCHÉ SUCCEDE

Siamo portati a credere che il bene sia sempre premiato e il male punito. Fin dalla prima infanzia leggiamo storie di eroi coraggiosi che salvano la situazione e vengono ricompensati, i cattivi uccisi o banditi. In queste storie, i personaggi raccolgono sempre ciò che seminano. Di fatto sviluppiamo questo senso di giustizia fin da piccoli.

Come esseri umani, ci troviamo spesso di fronte a una quantità enorme di informazioni. Per dare un senso a ciò che ci circonda, costruiamo schemi per guidare il nostro processo decisionale e prevedere i risultati. L’ipotesi del mondo giusto funge da uno di questi schemi, creando una comprensione degli eventi positivi e negativi attribuendoli a una sorta di ciclo karmico più ampio.

Credere in un mondo giusto crea un ambiente apparentemente prevedibile.

Lo psicologo sociale e pioniere della ricerca sul mondo giusto, Melvin J Lerner, ha ben descritto come tale fallacia installi un’immagine di un “mondo gestibile e prevedibile, centrale per la capacità di impegnarsi in attività a lungo termine orientate agli obiettivi ”[2].

È più probabile che lavoriamo per raggiungere gli obiettivi prefissati se sentiamo di poter prevedere il risultato. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che vedere il mondo come prevedibile ed equo ci protegge dall’impotenza, che è dannosa per il benessere psicologico e fisico umano.

Spesso evitiamo o distorciamo le informazioni che mettono in discussione la nostra visione del mondo.

Quando ci sentiamo fisicamente a disagio, è automatico fare tutto il necessario per metterci a nostro agio. Questo accade anche mentalmente. Probabilmente tutti possiamo relazionarci con la sensazione di disagio quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione o siamo smentiti. A volte questo può portarci sulla difensiva o a trovare modi per invalidare le informazioni opposte.

Leon Festinger ha coniato questo fenomeno come dissonanza cognitiva: “se una persona conosce varie cose che non sono psicologicamente coerenti tra loro, cercherà, in vari modi, di renderle coerenti”. L’ipotesi del mondo giusto provoca distorsioni mentali per far fronte alle apparenti incoerenze del mondo.

PERCHÉ È IMPORTANTE CONOSCERE QUELLA FALLACIA

La forza con cui tale fallacia si manifesta può modellare la nostra comprensione del mondo. Cambia la nostra percezione degli altri. Crea aspettative. Il desiderio di giustizia non è la stessa cosa della convinzione che il mondo sia giusto. Per creare un cambiamento, dobbiamo avere la lucidità per vedere dove una situazione potrebbe essere ingiusta o prenderci il tempo per capire le reali circostanze prima di esprimere un giudizio.

COME EVITARLA

Occorre disturbare gli scienziati comportamentali Daniel Kahneman e Amos Tversky e il loro sistema di pensiero. Il sistema 1 (S1) si riferisce alle nostre risposte istintive, ai nostri giudizi rapidi, alle nostre reazioni emotive. Il sistema 2 (S2) si riferisce a un processo di pensiero più lento, razionale e calcolato. Molti dei nostri pregiudizi sono frutti di S1, inclusa l’ipotesi del mondo giusto.

Ecco perché è importante rallentare il processo attraverso il quale formiamo i nostri giudizi e considerare tutte le informazioni disponibili.

Di fronte all’ipotesi del mondo giusto, ricorrere a S2 significa fare un passo indietro così da evitare valutazioni distorte. A volte, dopo aver esaminato il quadro completo, sosterremo ancora la nostra conclusione iniziale. Forse sentiamo ancora che la punizione o la ricompensa era giustificata, e anche questo va bene. Mitigare l’impatto dell’ipotesi del mondo giusto non significa dire a noi stessi che il mondo non è mai giusto. Ciò che dobbiamo imparare è un nuovo modo di affrontare la dissonanza cognitiva invece di prendere sempre la strada più semplice con tutti i limiti, ben noti, propri delle euristiche.

Usando S2, possiamo pensare in modo critico, piuttosto che istintivamente. Questo permetterà di vedere le ingiustizie e preparare meglio noi e il mondo che ci circonda a combatterle.

COME USARE IL SISTEMA 2 

Proprio come quando impariamo una nuova abilità, ci vuole tempo e ripetizione. All’inizio, potremmo renderci conto retroattivamente quando stiamo pensando in modo prevenuto, dando un rapido giudizio. Esaminando i nostri giudizi intuitivi e considerando il contesto, possiamo coltivare il pensiero S2.

Utile è anche esercitare l’empatia. In un esperimento condotto dai ricercatori della Duke University[3], ai partecipanti è stato chiesto di guardare un video di una donna che riceveva scosse elettriche in base alla sua performance in un compito di apprendimento. Divisi in due gruppi, al primo, è stato chiesto di immaginare sè stessi nel medesimo scenario, al secondo solo di guardare il video.

I partecipanti del primo gruppo, che induceva #empatia, risultarono meno propensi a criticare la vittima, dimostrando una minore influenza dell’ipotesi del mondo giusto. Quindi, se riusciamo a ricordarci di pensare in modo razionale piuttosto che istintivo e metterci nei panni degli altri, possiamo valutare più accuratamente le situazioni.

In un altro studio, condotto durante lo scandalo del Watergate, i ricercatori dimostrarono che i partecipanti all’esperimento che erano più facili vittime dell’ipotesi del mondo giusto erano meno propensi a negare la colpevolezza di Nixon. La fallacia li portò ad associare il grande successo e il carattere forte ad alti valori etici e morali, impedendo loro di credere che Nixon fosse capace di tali atti ingannevoli.

Coloro che credono fermamente in un mondo giusto possono avere una maggiore propensione ad approvare le scelte dei leader politici a causa del presupposto che si raggiunga il successo attraverso meriti elevati e grande forza morale.

Fonti

[1] Rubin Z., Peplau L.A. (1975). Who Believes in a Just World? Journal of Social Issues, 31(3), 65–89.

[2] Lerner, M. J. (1980). The Belief in a Just World. Springer US

[3] Aderman, D., Brehm, S. S., Katz, L. B. (1974). Empathic observation of an innocent victim: The just world revisited. Journal of Personality and Social Psychology, 29(3), 342–347

COME RIESCONO i GRANDI ad ESSERE così BRAVI in QUELLO che FANNO?

Questa è la domanda su cui lo psicologo Anders Ericsson concentra da sempre la sua attività di ricerca. E per rispondere ha esplorato i campi più diversi, uno studio fra tanti è quello che ha coinvolto i giovani violinisti del Conservatorio di Berlino.

Con l’aiuto degli insegnanti del conservatorio ha suddiviso i musicisti in 3 gruppi:

1. I migliori violinisti, quelli con le maggiori possibilità di avere una carriera nelle orchestre internazionali più prestigiose 2. I buoni violinisti, non eccellenti ma di ottimo livello 3. I mediocri violinisti, avviati alla carriera di insegnante (ma non concertisti di alto livello)

L’obiettivo era capire cosa distingueva questi gruppi. Quanto tempo dedicavano alla musica? Come e quanto si esercitavano? Quanto avevano studiato in passato? Il gruppo dei migliori cosa aveva di diverso rispetto gli altri due?

Per scoprirlo studiarono le routine quotidiane presenti e passate, notando che i violinisti dei 3 gruppi trascorrevano la maggioranza del loro tempo esercitandosi – da soli o in compagnia – suonando per divertimento, esibendosi, studiando o ascoltando musica. Nel complesso occupavano circa 50 ore a settimana. La musica era quindi la loro attività principale.

Dove stava allora la differenza?  Nel tipo di pratica.

Tra tutte le attività di studio svolte dai violinisti, una in particolare era considerata dagli stessi la più importante per migliorare: esercitarsi da soli. Suonare in compagnia, o esibirsi, prendere lezioni, erano tutti modi per fare esercizio. Ma nulla produceva miglioramenti come la pratica intenzionale, svolta in solitudine, con lo scopo preciso di lavorare sui propri limiti e di superarli.

Ed era proprio in questo tipo di pratica che i primi due gruppi, si distinguevano dal III. I violinisti del I e del II gruppo dedicavano allo studio del violino in solitudine circa 24 ore alla settimana; mentre i violinisti del III, solo 9 ore.

I più bravi erano coloro che occupavano più tempo nell’esercizio solitario.

Cosa distingueva poi il I dal II gruppo: entrambi dedicavano alla pratica deliberata in solitudine 24 ore alla settimana. Perché alcuni erano valutati come eccellenti e altri come molto bravi?

Ulteriori studi confermarono il risultato precedente in modo esponenziale: i violini eccellenti, a 18 anni avevano accumulato più di 7.400 ore di pratica in solitudine. I violisti molto bravi 5.300 e quelli mediocri, solo 3.400. Il numero di ore di pratica deliberata (in solitudine) spiegava perfettamente le differenze tra i 3 gruppi.

I violinisti più bravi di tutti erano quelli che nel corso degli anni avevano trascorso più tempo da soli, a tu per tu con il loro violino, con la precisa intenzione di esercitarsi per migliorare le loro capacità.

A ulteriore conferma, Ericsson studiò un IV gruppo di violinisti: professionisti di mezza età che già suonavano nelle più importanti orchestre a livello internazionale. Anche a loro fu chiesto di stimare il numero di ore di pratica in solitudine che erano arrivati a mettere assieme all’età di 18 anni, e il risultato fu pressoché simile a quello dei giovani violinisti eccellenti: 7.300 ore circa.

In sintesi – concluse Ericsson – l’elemento che spiegava il successo nel suonare il violino era questo: l’esercizio in solitudine.

Il segreto sta dunque nella deliberate practice, nella pratica deliberata, ossia nello studio in solitudine perché stare soli riduce le interferenze, richiede una motivazione molto forte e permette di lavorare sugli aspetti più complessi. Come dimostra la storia di Stephen Wozniak, le cui ricerche portarono alla creazione dell’Apple I, un personal computer assemblato e pronto all’uso, ma per questa narrazione dovete aspettare il mio prossimo articolo.

CARRIERA E FAMIGLIA: la DELICATA POTENZA dell’EQUILIBRIO

“Non sono una #workaholic come la maggior parte delle donne partner di questo studio, voglio avere presto un figlio, rincasare a orari normali, e non consumarmi in estenuanti gare a chi è l’ultimo a lasciare l’ufficio in virtù di un autoinganno, la rincorsa al potere che una volta che si raggiunge si frantuma in una lotta a sentirsi indispensabili abnegando se stessi”.

Se non fosse per gli anni di esperienza che mi porto addosso, avrei sicuramente portato sul personale questa conversazione. Ho respirato a fondo, invece, cercando di supportare la giovane manager nel modo più efficace che conoscevo. Pur sapendo che quel tema non si sarebbe esaurito nel corso di una sola chiacchierata.

“Ho visto il mio capo, donna, arrivare ad abdicare i propri valori. Accettare compromessi inimmaginabili, affinare l’arte della manipolazione, per il bene comune. Ma qual è il bene comune? Quello dello studio, della società o di se stessi?”.

Il potere cambia. E’ giusto sia cosi. Non è corruzione, piuttosto una nuova sicurezza e consapevolezza che si esplicita anche attraverso segni esteriori, grazie ai quali imporsi con maggior vigore.

Spesso – rifletto – le donne lo dimenticano: l’abbigliamento elegante non è vanità, sul luogo di lavoro è segno distintivo e di potere. Gli uomini lo sanno, con i loro completi perfetti. Le donne sentono di dover giustificare sempre qualcosa.

La consapevolezza di sé, è lo specchio di una abilità acquisita: il controllo di ciò che si è conquistato. Conquista che spesso presuppone un costo: centellinare la vita privata, come si fa con i dolci sotto dieta. Una dieta che però può trasformarsi in una dipendenza.

“Ha messo la carriera in cima alle sue priorità a discapito di tutti gli altri aspetti della sua vita. È triste, quasi inquietante, vederla ogni volta compromettere la sua vita privata. Il lavoro le è costato tantissimo: il matrimonio, il rapporto con il figlio. E’ una delle più brave professioniste nel suo campo, ma per diventarlo ha perso tutto ciò di cui aveva di più caro. Non voglio vivere la medesima solitudine, con le amiche più care a rincorrere l’agone della famiglia”.

Ascoltando la giovane manager, comprendo altrettanto bene il suo capo: due donne agli estremi, in comune la medesima battaglia. La difesa di valori personali e antitetici. Due facce della stessa medaglia. Ognuna con il proprio significato svelato, di cosa è veramente importante per il raggiungimento della (rispettiva) felicità.

Valori difficili da condividere, soprattutto con gli uomini che si sa, non sono soliti far sconti quando si tratta di sesso debole, più propensi a sfoderare un sordo antagonismo. Ma se poi la donna arriva a gestire il potere, sono proprio le altre donne ad aiutarla a ritrovare dentro di sé le doti tipiche di genere e a reimparare ad usarle, facendo spesso da leva per imporre sul lavoro un codice più visionario per lo sviluppo di un’organizazione più moderna e flessibile.

Il segreto, difficile ma necessario, confido alla giovane donna poco prima di salutarci, è trovare l’equilibrio fra doti maschili e femminili, fra valori e desideri, ricalibrandoli giorno dopo giorno nel rispetto di ciò che è più importante per se stessi.

L’autoinganno della disponibilità, dove vogliamo tutto in ogni momento e pensiamo di raggiungere tutto in qualsiasi istante, la famiglia perfetta, la relazione perfetta, i figli perfetti e il lavoro perfetto, è una delle trappole più audaci e perseveranti, alla quale cediamo. Miraggio o peccato universale? Guardare ma non toccare. Il biglietto omaggio per la vanità.

UMILTA’, AMBIZIONE e VOGLIA di MIGLIORARSI: le CARATTERISTICHE del LEADER EFFICACE (e con i MIGLIORI RISULTATI ECONOMICI)

Umile e ambizioso. A proprio agio dentro abiti da grandi magazzini, amante della solitudine e del perfezionismo “non smetto mai di migliorarmi in modo da essere quanto più possibile all’altezza del ruolo”.

Libero di definire il suo stile di leadership “eccentrico” al Wall Street Journal. E capace di generare un valore cumulativo delle azioni 4,1 volte più alto del mercato generale nei vent’anni (fra il 1971 e il 1991) in cui rivestì il ruolo di amministratore delegato alla Kimberly-Clark.

Così coraggioso da vendere gli stabilimenti per investire nel mercato del largo consumo e in marchi come Kleenex e Huggies, seppur molti definissero stupida quella mossa, e contro tutte le previsioni l’azienda divenne la cartiera più grande al mondo, sbaragliando ogni concorrente.

Umiltà e ambizione, insieme a tenacia e voglia di migliorarsi: furono i fattori critici di successo di questo uomo schivo, sconosciuto ai più, capace di imporre uno stile di leadership controcorrente. Lo stesso che si scopre tra i manager di successo come Bill Gates, Michele Ferrero, Enzo Ferrari, Brenda Barnes (prima donna a diventare AD alla Pepsi), Charles Schwab e James Copeland (Deloitte Touche Tohmatsu), Lou Gerstner (IBM), Elon Musk (Tesla Motors) Warren Buffet… per citarne alcuni.

“Tra i leader più efficaci con cui ho lavorato – ha scritto Peter Drucker – alcuni si barricavano in ufficio e altri erano super socievoli. Alcuni erano istintivi, altri studiavano la situazione e impiegavano tempo per arrivare a una decisione. L’unico tratto che avevano in comune era la mancanza: tutti dimostravano nessuno o poco carisma”. A sostegno gli studi del prof. Agle, che analizzando i CEO di 128 grandi società, scoprì che coloro che erano reputati più carismatici potevano vantare retribuzioni più alte ma non risultati economici migliori.

“Ad alcune persone si dà autorità solo perché parlano bene e hanno buona presenza scenica. E’ fin troppo facile confondere la buona parlantina con il talento – ha spiegato il colonnello S. Gerras, docente di scienza del comportamento allo US Army War College -. Chi si presenta come un buon comunicatore, vede premiate certe caratteristiche perché si tende a dare eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Un altro studio noto è quello condotto da Jim Collins che evidenziò come molte delle migliori aziende di fine ‘900 erano capitanate da manager straordinari noti non per il loro carisma o per la loro esuberanza ma per l’umiltà estrema associata a una indiscutibile professionalità, come ben descritto nel suo testo ”Good to Great”. Leader pacati, umili, riservati, timidi, schivi.

Sintetizzando: abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’esuberanza dei leader. Quando in realtà abbiamo più bisogno di leader capaci di far crescere non il proprio ego ma le organizzazioni che dirigono. O per dirla in un altro modo: umile non è chi PENSA POCO DI se stesso ma chi PENSA POCO A se stesso.