MOTIVAZIONE, LEADERSHIP e TANTE PICCOLE SPINTE GENTILI

La parola leadership è, in questi ultimi anni, fra le più usate/abusate nel business (e non solo). Non a caso, le aziende spendono un bel po’ di soldi, per aiutare i propri uomini di punta, a svilupparla al meglio: circa 3,4 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime, ma nulla o poco cambia.
 
Perché?

Non è mancanza di talento o pigrizia. O di cattiva programmazione o inefficienza. E’ ciò che viene chiamato in gergo “gap conoscitivo”, il grande abisso fra ciò che sappiamo e ciò che effettivamente applichiamo sul lavoro.
 
Esistono molte cause: sistemi di ricompensa fallaci, competizione all’ultimo sangue, stremanti obiettivi a breve termine, motivazione vacillante, carichi di lavoro disumani, riunioni fiume, spesso anche inconcludenti, e via dicendo. In pratica il manager sa cosa deve fare ma non ha modo di farlo. 
 
Prendiamo ad esempio Mario, un manager che si sta impegnando per essere un grande leader: si preoccupa dell’engagement del proprio team, perché sa bene che è il riconoscere il valore dell’altro che dà benzina all’impegno. Poi però Mario comincia pian piano a correre da una riunione all’altra, focalizzandosi sulle singole attività, sui fogli di Excel, su cose non strettamente importanti o spettanti al suo ruolo, dimenticandosi di coinvolgere la squadra, motivarla, congratularsi anche quando fa un ottimo lavoro… vorrebbe farlo, ma qualcosa di sempre più impellente, reclama il suo tempo e la sua attenzione.
 
In fondo Mario ha seguito corsi su corsi su come impiegare al meglio le sue skills ma nessuno gli ha insegnato cosa realmente motiva le persone. Lui medesimo.
 
In questi casi basterebbe ci fosse appollaiato sulla spalla di Mario, una sorta di consigliere pronto a sussurrargli: “Mario, alla prossima riunione, prova a elogiare chi della tua squadra si è distinto per aver portato un risultato eccellente. Per qualcosa di positivo che ha fatto e per cui si è distinto. Qualcuno che ha dato il buon esempio”. Già, perché alle volte bastano due righe di e-mail per fare miracoli, per incoraggiare, ad esempio, anche le persone più introverse, prima di una riunione, a parlare e migliorarne il senso di inclusione.
 
Questo suggerimento è di fatto un promemoria, o meglio una spinta, un nudge. E i nudge possono fare una enorme differenza sui comportamenti che mettiamo in atto e possono sostanzialmente colmare la differenza fra ciò che sappiamo e ciò che applichiamo effettivamente sul lavoro. Molto più di standardizzati corsi di formazione.

COSA SONO I NUDGE?

Ufficialmente, il termine nudge è stato definito e reso popolare da due grandi professori di economia, Richard Thaler e Cass Sunstein: «Un nudge è qualsiasi aspetto della presentazione delle scelte che condizioni il comportamento degli individui, senza vietare però alcuna possibilità». In altre parole i nudge sono interventi che guidano le persone nella scelta verso decisioni più efficienti, preservando la libertà di scelta individuale. Alle spinte ognuno di noi può sempre e deliberatamente opporsi in quanto non sono vincolate da alcuna legge, se non da comune buonsenso. Un avvertimento è un esempio di nudge, l’allarme che si attiva quando dimentichiamo di allacciarci le cinture di sicurezza in auto, così come le indicazioni del GPS oppure un’impostazione predefinita.

Per qualificarsi come nudge, un intervento non deve prevedere incentivi materiali, tanto quanto i disincentivi. Multe e condanne in prigione non sono spinte gentili.

PIU’ FORMAZIONE NON E’ SEMPRE LA MIGLIORE SOLUZIONE 

Il potere dei nudge di influenzare positivamente il comportamento umano si è rivelato così impattante che le grandi aziende, i militari e persino i paesi hanno formato delle “nudge unit” ufficiali, una sorta di task force per elaborare strategie per raggiungere con meno sforzo e più successo gli obiettivi organizzativi, rendere i luoghi di lavoro più funzionali al benessere individuale e collettivo, motivare i propri dipendenti e via dicendo.
 
Tutti, anche i manager più navigati e motivati, cadono facilmente nelle vecchie abitudini, concentrandosi su compiti che invece dovrebbero delegare, o si dimenticano di fornire feedback efficaci, dare apprezzamenti, sbagliano stile comunicativo e rimangono incastrati nella routine.
 
Anche se non esiste un proiettile d’argento, un antidoto universale, sappiamo che più formazione è raramente la risposta. Dovremmo forse dedicare meno tempo e denaro a nuovi programmi di formazione manageriale e un po’ di più all’applicazione delle conoscenze che già si possiedono. Con le odierne tecnologie digitali, dall’e-mail alla messaggistica ai messaggi audio, è più facile che mai ricorrere od organizzare  campagne di nudging per promuovere i comportamenti virtuosi desiderati.

NUDGE E MOTIVAZIONE 
 
Fra i compiti che spettano al leader, c’è indubbiamente quello di saper motivare collaboratori e dipendenti. Detto così sembra semplice, ma non lo è. Probabilmente molti di noi, senza usare i nudge, se dovessero, di punto in bianco, pensare a strategie per motivare i colleghi, a costo zero, brancolerebbero un bel po’ nel buio.
 
Come possono aiutare i nudge?
 
La motivazione non viene attivata dal denaro, ecco sfatato un primo mito. I soldi contano, ma nella scala gerarchica occupano un ruolo marginale.  Il primo posto è occupato dall’individuazione di uno scopo, un purpose nell’attività che si sta svolgendo, come ben si evince già nella prefazione del libro Nudge Revolution. La strategia che rende semplici scelte complesse.

A dimostrare la portata dello scopo sono anche gli studi e le ricerche di Dan Ariely, professore di psicologia ed economia comportamentale alla Duke University. In un esperimento ha chiesto alle “cavie di turno” di montare dei Lego Bionicle per soldi. I partecipanti sapevano già che una volta realizzati, questi sarebbero stati “distrutti”, per poi essere ricostruiti da altri. Se in un primo momento, i volontari hanno accettano di buon grado di stare al gioco dietro compenso, man mano che l’esperimento procedeva le cose si sono fatte via via più incerte. Dopo non più di una decina di prove i volontari hanno dato forfait
 
Il motivo: hanno perso motivazioneNon vedevano le loro azioni ricompensate da uno scopo reale: «Distruggendo i Lego davanti ai loro occhi – ha spiegato Ariely – hanno anche sostanzialmente distrutto la felicità che traevano da quest’attività».
 
Ciò che ci motiva è essenzialmente avere ben chiaro lo scopo, la ragione delle nostre azioni. Il  perché facciamo una determinata cosa.

Se si è annoiati o si pensa che la propria motivazione stia venendo meno, Ariely consiglia di dare risposta a due domande. “Quale significato possiamo trovare in quello che facciamo? E  in che modo il lavoro che svolgiamo contribuisce ad aiutare gli altri?».
 
E’ la definizione di uno scopo a motivarci e di conseguenza a renderci più felici e soddisfattiA farci fare meglio le cose, a non farci mollare o a farci mollare in un tempo più dilatato, a rendere le decisioni meno faticose e insidiose. A far sembrare anche il compito più ingrato, utile, necessario e importante
 
Un bonus in busta paga non sempre migliora la produttività di un lavoratore, anzi spesso ha l’effetto opposto. Come dimostra un esperimento sociale condotto in uno stabilimento Intel: i responsabili della fabbrica avevano stanziato dei bonus di produttività per motivare i dipendenti nella produzione di chip, in particolare nella loro prima giornata del ciclo lavorativo.

Cosa sarebbe successo se, invece di una ricompensa economica, fosse stata consegnata direttamente a casa una deliziosa pizza formato famiglia? Cosa sarebbe successo se al posto di una ricompensa tangibile, i dipendenti avessero ricevuto un messaggio dal proprio capo con su scritto “ottimo lavoro”?
 
Nel primo giorno di produzione, coerentemente con le intuizioni dei responsabili, fu riscontrato che il denaro, la pizza e l’elogio avevano tutti dato risultati migliori della condizione di controllo (né messaggi né promesse di bonus). Tutti e tre gli approcci accrescevano la motivazione in modo simile. Ma ecco la sorpresa: il coupon per la pizza incrementava la produttività del 6,7%, quasi a pari merito con il 6,6% di incremento ottenuto dal riconoscimento scritto. Dei tre incentivi, il denaro aveva la resa peggiore, attestandosi leggermente più in basso al 4,9%.
 
Paradossalmente quando il nostro lavoro viene riconosciuto ed apprezzato siamo disposti a lavorare di più per una paga inferiore. Come dimostra la metafora dei tre operai, la motivazione è un elemento imprescindibile.Tre persone erano al lavoro in un cantiere edile. Avevano il medesimo compito, ma quando fu loro chiesto quale fosse il loro lavoro, le risposte furono diverse. “Spacco pietre” rispose il primo. “Mi guadagno da vivere” rispose il secondo. “Partecipo alla costruzione di una cattedrale” disse il terzo.” 
 
Più un’azienda sa offrire ai dipendenti opportunità che creano significato e legame, maggiori sono le probabilità che quei dipendenti si impegnino di più e che la loro fedeltà sia più duratura. 
 
Se avete ancora qualche dubbio circa il potere del denaro nella motivazione, pensate se nel ricevere un regalo alla vostra festa di compleanno, un amico palesasse quanto gli è costato in termini economici. Quante probabilità ci sono che lo invitereste anche l’anno successivo?
 
Qualsiasi cambiamento si voglia generare, prima occorre comprendere quale sia il comportamento che si desidera modificare, tenendo conto dei valori, bisogni, desideri e priorità che muovono l’individuo. Riconoscerli è cruciale, dato il complesso ambiente nel quale le persone prendono decisioni. Più conosciamo a fondo gli individui di cui vogliamo modificare i comportamenti e più riusciremo a creare architetture delle scelte efficaci. E i nudge permettono tutto questo!

Questo articolo è anche stato pubblicato sul Magazine DF: https://magazine.darioflaccovio.it/2019/12/17/motivazione-leadership-e-tante-piccole-spinte-gentili/

PERCHE’ RIMANDIAMO A DOMANI, CIO’ CHE DOVREMMO FARE OGGI? Pigrizia e scarsa volontà non sono le risposte giuste!

Come al solito non hai voglia di studiare… di allenarti… di lavorare… Frasi trite e ritrite che ci siamo sentiti dire e che abbiamo rivolto un numero indefinito di volte…

Gli altri si aspettano tante cose da noi e noi di riflesso facciamo lo stesso con chi ci circonda, con chi veniamo in contatto, con chi viviamo e lavoriamo giorno dopo giorno. Spinti da quella orrenda frase che ci rincorre fin da bambini puoi fare di più.

In azienda, persone di tutti i ruoli procrastinano la consegna di progetti, mancano appuntamenti importanti e arrivano tardi laddove è considerato sacrilego. E così in università: raramente gli studenti consegnano elaborati rispettando la scadenza. Una volta ho avuto una studentessa che ha perso due anni per consegnare la tesi.

Pigrizia, scarsa volontà? No. Assolutamente no. O meglio fino a non troppo tempo fa pensavo anch’io fosse così…

Sono una comportamentista, quindi sono interessata (ossessionata è più corretto) a ciò che guida i comportamenti e le scelte umane. Quando si cerca di anticipare le azioni di un soggetto guardare il contesto è più predittivo che rifarsi all’intelligenza o ad altri tratti della personalità (https://psycnet.apa.org/record/1979-28632-001)

Così quando qualcuno non riesce a stare nei tempi, ho imparato a chiedermi: Quale situazione lo ha rallentato o bloccato? Cosa gli è mancato? Quali ostacoli che non vedo gli impediscono di agire?

Con il tempo ho imparato che ci sono sempre degli ostacoli che ci limitano, ecco perchè è sbagliato gridare alla cattiva volontà o alla pigrizia, se prima non si è analizzato il contesto.

Di fronte a un comportamento di una persona che non rispetta le nostre aspettative, possiamo comportarci in due modi: giudicare o cercare di capire. Fra le due è molto più semplice giudicare e additare i procrastinatori per il loro cattivo comportamento. Rinviare un progetto riporta facilmente all’idea di pigrizia, almeno a una analisi superficiale. Spesso lo pensano così anche coloro che procrastinano… devi fare qualcosa, sei un fallimento, un pigro…

Da decenni gli studi psicologici spiegano la procrastinazione non come un effetto collaterale della pigrizia, come dimostrano tra l’altro anche molte persone di successo che hanno raggiunto risultati sopra la media procrastinando: (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0092656686901273).

La procrastinazione è un processo esistenziale più profondo e complesso di quanto appare. E di come ci piace bollare. Un articolo di Charlotte Lieberman bene inquadra l’attitudine seriale a rimandare, ovvero la relazione complicata tra noi e le nostre emozioni.

PERCHE’ PROCRASTINIAMO?

 

Ci spiace spiegare pigrizia, negligenza e scarso senso del dovere (“Ce la potrebbe fare… ma non si applica!”), quale risposta a una cattiva gestione del tempo, a una scarsa pianificazione delle attività, a una insufficiente efficacia nella risoluzione dei problemi (“Ce la potrebbe fare… prova ad applicarsi… ma lo fa male!”).

Eppure ciò che caratterizza la procrastinazione non è solo l’atto di rimandare un’attività… ma anche la disturbante percezione emotiva che ne consegue: la sensazione che stiamo andando contro ciò che ci suggerisce il buon senso. Di fatto è un “auto-sabotaggio”. Inizialmente ci solleva dall’ansia, poi non ci fa sentire a posto con noi stessi.

Procrastinare è un comportamento irrazionale. Secondo Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di Ricerca sulla Procrastinazione dell’Università di Carleton di Ottawa, la procrastinazione non è causa di pigrizia, ma una reazione a stati emotivi dolenti che si faticano a gestire: ansia, timore di critica, inadeguatezza, senso di colpa. E’ il prevalere dell’urgenza di gestire immediatamente un’emozione dolorosa, rispetto al vantaggio a lungo termine di portare avanti un’attività.

A cui vanno aggiunti i personali stati d’animo: Sarò in grado di portare a termine il progetto?; Cosa penseranno gli altri di me se dovessi fallire?

Davanti a questi pensieri possiamo allarmarci e cercare una via di fuga: questo non elimina gli stati dolorosi associati all’impegno rimandato, ma semplicemente li posticipa spesso in maniera non indulgente, ma sotto forma di dialogo interiore severo e inflessibile (“Buono a nulla! Incapace! Non sei in grado!”) che aumenta la sofferenza e che paradossalmente proviamo a gestire… procrastinando ancora!

TORNIAMO A NOI…

L’intolleranza alla procrastinazione non deve farci dimenticare che spesso è determinata da ragioni più profonde che la scarsa volontà, come invece accade.

Conosco colleghi dell’università che non si sono mai chiesti cosa bloccasse uno studente. Una collega si rifiutava di lasciar entrare in classe  qualunque studente in ritardo. Non si interessava del perché; partiva dall’idea che nulla è impossibile se lo vuoi ottenere, figuriamoci arrivare in orario alle lezioni. Ricordo di un ragazzo sordomuto che poi si è laureato con il massimo dei voti a ingegneria, venire sottoposto a esame orale anziché scritto e venir bacchettato dal docente perché non capiva la domanda. Quando sarebbe bastato guardarlo in volto affinchè lui leggesse il labiale. Lui non è diventato un procrastinatore ma avrebbe potuto diventarlo e non per scarsa volontà.

O la studentessa che arrivava sovente in ritardo la prima ora di lezione perché passava le notti al capezzale della madre morente. Provava vergogna per la ruvidezza del docente, e nemmeno trovava la forza per esplicitare la sua situazione.

Al di là delle catalogazioni scientifiche, talvolta sarebbe sufficiente chiedersi il perché di un comportamento, prima di giudicarlo senza ascoltarne la risposta.

So che non è facile,  non siamo stati educati a riflettere su ciò che blocca i nostri collaboratori, i nostri studenti, i nostri amici. Tanti sono coloro che orgogliosamente rifiutano di condividere spazio e tempo con chi è meno fortunato, più lento, apparentemente meno elitario. E più rivestiamo ruoli importanti più mettiamo distanza, benchè diventiamo vittime di altre problematiche rispetto alla pigrizia. Eppure proprio come sappiamo che la pigrizia non è sempre una scelta attiva, anche i comportamenti elitari e giudiziari sono determinati dall’ignoranza situazionale.

Il segreto è chiedersi contro cosa lottano gli altri, e ricordare che probabilmente non se lo sono scelto. Ci stanno provando a fare bene, ma non sempre è facile. Alcune barriere sono difficili da abbattere, anche per i più forti e i più tenaci. Spesso, è sufficiente adottare un approccio curioso ed empatico nei confronti di individui che inizialmente vogliamo giudicare “pigri” o irresponsabili. E qui, mi domanderei perchè abbiamo questa esigenza da soddisfare, prima ancora di capire le ragioni della pigrizia altrui.

Le persone non scelgono deliberatamente di fallire o di deludere. Nessuno vuole sentirsi incapace, inefficace o inutile. Se guardando l’azione (o la non azione) di una persona, vedi solo pigrizia, probabilmente ti sei perso i dettagli chiave. C’è sempre una spiegazione. Ci sono sempre barriere. Solo perché non puoi vederle o non le vedi come legittime, non significa che non ci siano.

Forse devi solo imparare a guardare meglio.

ABILI a MENTIRE e poi a DIMENTICARE

La disonestà è un profumo nuovo appena acquistato. Le prime volte che lo applichi avverti per intero l’intensità della sua essenza. Man mano che i mesi passano lo percepisci sempre meno e per sentirlo sei costretto ad aumentare la dose che metti addosso, con il rischio di eccedere in modo sproporzionato.

Con la disonestà avviene lo stesso, come ci dicono le Neuroscienze.

In un esperimento condotto da Dan Ariely e pubblicato su Nature Neuroscience, a 80 persone è stata data l’opportunità di mentire ancora e ancora su un compito finanziario al fine di guadagnare denaro a spese di un’altra persona. Si è così scoperto che le persone iniziavano con piccole bugie, ma lentamente, nel corso dell’esperimento, mentivano sempre di più.

Al di fuori del laboratorio, ci sono molte ragioni per cui la disonestà può intensificarsi – gli incentivi potrebbero aumentare o potrebbe essere necessario nascondere bugie pregresse. Esaminare l’attività cerebrale delle persone mentre commettono atti disonesti ha rivelato un processo biologico chiamato adattamento emotivo.

COSA HANNO A CHE FARE LE EMOZIONI CON LA DISONESTA’?

La brutta sensazione che proviamo quando pensiamo di barare, spesso ci impedisce di mettere in atto l’intenzione. In sua assenza, si hanno maggiori probabilità di mentire. In uno studio, a un gruppo di studenti sono state somministrate delle sostanze beta-bloccanti in pillole che hanno ridotto l’eccitazione emotiva poco prima di sostenere un esame. Questi studenti avevano il doppio delle probabilità di copiare all’esame rispetto coloro i quali avevano ricevuto un placebo.

L’esperimento ha mostrato che la rete emotiva del cervello risponde sempre meno a ogni ulteriore menzogna. Maggiore è il calo della sensibilità del cervello alla disonestà, più persone mentiranno la prossima volta che ne avranno la possibilità. In altre parole, le persone che si sono adattate alla propria disonestà si tratterranno meno dal dire bugie più grandi appena ce ne sarà l’occasione.

L’attività cerebrale non è semplicemente diminuita nel tempo. La riduzione della sensibilità era proporzionale alla menzogna.

Un modo semplice di pensare a questo processo è di confrontarlo con un profumo. Immagina di aver acquistato un nuovo profumo. Appena lo indossi, puoi rilevarne l’essenza, l’intensità, ma passati alcuni mesi difficilmente riesci a percepirlo come invece avveniva i primi tempi. Quindi inizi ad applicarlo in modo più libero, sconcertato dal fatto che nessuno siederà accanto a te sul treno o in metro… Questo accade perché i neuroni nel bulbo olfattivo si desensibilizzano al profumo.

La disonestà ripetuta è un po’ come un profumo che applichi ripetutamente. Inizialmente la risposta ai tuoi atti di disonestà è forte, ma con il tempo diminuisce. Come gli studenti che assumono i beta-bloccanti, la tua capacità di essere disonesto aumenta.

Questo può sembrare desolante. Tuttavia, i dati hanno anche rivelato un lato positivo della natura umana. I partecipanti avrebbero potuto imbrogliare molto di più, ma non lo hanno fatto. Anche quando imbrogliando avrebbero avvantaggiato loro stessi.

La disonestà e il comportamento non etico sono molto diffusi, lo sappiamo bene. La stima della disonestà solo negli Usa vale 1 trilione di dollari in tangenti, 270 miliardi persi a causa di entrate non dichiarate e $ 42 miliardi in taccheggio e furti da parte di dipendenti. 

Un bel po’ di soldi se pensiamo che invece uno dei desideri che più esplicitano gli esseri umani è farsi percepire morali dagli altri.

 

In un sondaggio  sul World News and World Report, di qualche anno fa, è stata posta la seguente domanda: “Chi pensi sia più probabile che arrivi in paradiso?” Secondo gli intervistati, l’allora presidente Bill Clinton aveva una probabilità del 52%; la star del basket Michael Jordan il 65%; e Madre Teresa il 79%.

Chi ha ottenuto il punteggio più alto? Chi ha votato se stesso: la maggior parte degli intervistati pensava di essere migliore di Madre Teresa per quanto riguarda la probabilità di salire in paradiso.

La ricerca sulla moralità mostra che abbiamo una visione eccessivamente ottimistica della nostra capacità di aderire agli standard etici. Crediamo di essere intrinsecamente più morali degli altri, che in futuro ci comporteremo in modo più etico degli altri e che le trasgressioni commesse da altri sono moralmente peggiori delle nostre.

PERCHE’ CI COMPORTIAMO IN MODO DISONESTO?

Un risultato della  ricerca è che le persone si impegnano in comportamenti non etici ripetutamente nel tempo perché la memoria delle loro azioni disoneste viene offuscata nel tempo. Le persone hanno maggiori probabilità di dimenticare i dettagli dei propri atti non etici rispetto ad altri incidenti, inclusi eventi neutri, negativi o positivi, nonché le azioni non etiche degli altri.

Chiamiamo questa tendenza amnesia non etica: una menomazione che si verifica nel tempo nella nostra memoria per i dettagli del nostro comportamento non etico passato. Cioè, impegnarsi in comportamenti non etici produce veri e propri cambiamenti nel ricordo di un’esperienza nel tempo.

Il nostro desiderio di comportarci eticamente e di considerarci morali ci dà una forte motivazione a dimenticare i nostri misfatti. Sperimentando un’amnesia non etica, possiamo far fronte al disagio psicologico e al disagio che proviamo dopo esserci comportati in modo non etico.

UNA AMNESIA DA NON DIMENTICARE

Quando sperimentiamo un’amnesia non etica, le ricerche dimostrano che diventiamo più propensi a imbrogliare di nuovo.

In ulteriori studi è stato offerto a oltre 600 partecipanti l’opportunità di imbrogliare e dichiarare erroneamente le loro prestazioni per denaro extra. Pochi giorni dopo, è stata dato loro un’altra possibilità per farlo. Il tradimento iniziale ha provocato un’amnesia non etica, che ha guidato un comportamento disonesto aggiuntivo sul compito che i partecipanti hanno completato pochi giorni dopo.

Poiché spesso ci sentiamo in colpa e pieni di rimorso per il nostro comportamento non etico, potremmo aspettarci che queste emozioni negative ci impediscano di continuare ad agire in modo non etico. Non è così. La disonestà è un fenomeno diffuso e comune .

Che ci piaccia o no, siamo disonesti più di quanto ricordiamo e se non mettiamo consapevolezza e una giusta dose di autocritica l’unico risultato che otterremo è diventare via via più disonesti, dimenticandocene. Proprio come avviene con il nostro profumo preferito.

OBIETTIVI, CREDENZE e LIBERO ARBITRIO… Il nuovo anno è alle porte!

Life is what happens to you while you’re busy making other plans” cantava John Lennon, in Beautiful boy, il brano dedicato al figlio. La vita è proprio ciò che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti…

Progetti è, guarda caso, la parola chiave di ogni fine e inizio anno, periodo durante il quale si rimugina sui fallimenti e/o si pianifica il futuro. Se ci pensiamo bene però, la nostra vita non si svolge secondo i nostri desiderata. Difficilmente riusciamo a prevedere ciò che ci renderà felici, poiché perdiamo molto di quello che ci accade sequestrati dalle attese che facciamo su ciò che deve accadere e su noi stessi. Molto di ciò che viviamo e sentiamo si colloca al di fuori della portata della coscienza.

Molti dei proposti, così come i bilanci, sono pieni di giudizi. Si soffermano su ciò che non è andato o mancato. Ecco perché alcuni studi dicono che i buoni propositi per il nuovo anno hanno in genere vita breve. Sono perfettamente inutili.

Al di là della bontà della pianificazione degli obiettivi, che sinceramente mi hanno un po’ stancato, non posso non pensare al libero arbitrio e a quanto sosteneva il biologo molecolare britannico, Francis Crick secondo cui “le neuroscienze contraddicono la nozione di libero arbitrio”. Anche il semplice atto di prendere un foglio dalla scrivania, è sostenuto e preceduto da complessi processi biochimici che avvengono al di sotto del livello di coscienza.

LIBERO ARBITRIO

Per quanto dibattuta e ambigua, la nozione di libero arbitrio è incentrata sul valore della libertà di scelta e sull’idea che chiunque, attraverso l’impegno e il sacrificio, possa raggiungere i propri obiettivi a prescindere dalle condizioni iniziali. Ma fin dalle teorie sull’evoluzione elaborate da Charles Darwin, è noto almeno dalla seconda metà del diciannovesimo secolo che le stesse facoltà intellettive alla base delle nostre scelte razionali siano almeno in parte un’eredità biologica e che, allo stesso tempo, il loro sviluppo sia condizionato da molteplici fattori ambientali. A seconda di quale dei due aspetti si consideri prioritario rispetto all’altro, la discussione tra addetti – neuroscienziati, filosofi, neurofisiologi e psichiatri – tende a oscillare tra due poli opposti rappresentati dal concetto di “natura” (l’eredità biologica) e da quello di “cultura” (i condizionamenti ambientali).

Tornando a Crick “Sei consapevole di una decisione, ma non sei consapevole di ciò che ti fa prendere la decisione. Ti sembra ovvio, ma è il risultato di cose di cui non sei a conoscenza”. Sapendo che sono in molti a negare il libero arbitrio, Crick studiò con attenzione gli esperimenti condotti dallo psicologo Benjamin Libet. Libet aveva chiesto alle sue cavie di premere un pulsante in un momento a loro scelta, segnando il momento della decisione su un orologio. Le loro onde cerebrali, monitorate da elettroencefalogramma (EEG), mostravano un picco di attività quasi un secondo prima che i soggetti decidessero di premere il pulsante. Questo e altri risultati mostrano, secondo Crick, che le nostre decisioni coscienti sono letteralmente ri-pensamenti.

Grazie a ulteriori esperimenti che non vi tedierò illustrandoli, due scienziati cognitivi Daniela Schiller e David Carmel scoprirono che “nel cervello ci sono neuroni che sanno che stai per fare un movimento un secondo prima che lo sappia tu stesso (Scientific American). Si potrebbe essere tentati di concludere che il libero arbitrio è un’illusione”.

Ovviamente questi esperimenti sono insufficienti per sondare il libero arbitrio, poiché le cavie avevano già preso la decisione di premere il pulsante; hanno solo scelto quando farlo. Ci sarebbe da sorprendersi se i sensori EEG non avessero trovato un’anticipazione neurale di quella scelta.

Diversi sono gli studi con elettrodi impiantati nel cervello che rivelano come inganniamo noi stessi nel pensare di avere il controllo quando non lo abbiamo. Gli scienziati, per esempio, possono far alzare il braccio di un paziente stimolando elettricamente un punto nella corteccia motoria. Spesso il paziente sostiene che intendeva sollevare il braccio e addirittura inventa un motivo. Nel libro The Illusion of Conscious Will, lo psicologo Daniel Wegner chiama confabulazioni queste spiegazioni deliranti successive all’evento.

Noi tutti confabuliamo. Facciamo passivamente ciò che ci è stato detto di fare e crediamo a quello che ci è stato detto di credere da genitori, formatori, sacerdoti e leader politici, e ci convinciamo che è una nostra scelta. Sovvertiamo la nostra volontà per arrivare in modo insincero a una conclusione scontata, fallendo nell’agire sulla base delle nostre risoluzioni. A volte agiamo seguendo un impulso – paura o rabbia – senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni. Ma non significa che la volontà non esista.

Il filosofo Daniel Dennett nel libro L’evoluzione della libertà osserva che il libero arbitrio non è “quello che la tradizione afferma che sia: un potere quasi divino di astrarsi dal tessuto causale del mondo fisico”. Il libero arbitrio è la capacità di percepire, riflettere e mettere in atto delle scelte; infatti, scelta, o addirittura libertà, sono sinonimi ragionevoli di libero arbitrio.

Dennett chiama il libero arbitrio “una creazione evoluta delle attività e delle credenze umane”, che l’umanità ha acquisito recentemente come conseguenza del linguaggio e della cultura. Il libero arbitrio è una proprietà variabile che può crescere e diminuire sia negli individui sia nelle società: più scelte possiamo percepire e fare, più libertà avremo.

Noi, a nostra volta, siamo dipendenti dal libero arbitrio. Il concetto di libero arbitrio è alla base di tutta la nostra etica e morale: ci costringe ad assumerci le nostre responsabilità invece di consegnare il nostro destino ai nostri geni o a un piano divino. Le scelte, fatte liberamente, sono ciò che dà significato alla vita. Provate a dire ai prigionieri di Guantanamo o ai civili afgani, siriani e via dicendo in fuga da bombe e proiettili che le scelte sono illusorie. “Scambiamoci i ruoli”, potrebbero rispondere, “visto che non avete nulla da perdere.”

Alcuni studi inoltre dimostrano che “Le persone portate a credere meno al libero arbitrio hanno maggiore probabilità di comportarsi immoralmente”. E’ come se le persone private della convinzione della propria autodeterminazione smettessero allo stesso tempo di sentirsi responsabili delle proprie azioni.

ILLUSIONE O REALTA’?

Pur essendo ragionevolmente convinto che il libero arbitrio sia un concetto infondato, Saul Smilansky, docente di filosofia all’Università di Haifa, in Israele, sostiene che sia meglio vivere con l’“illusione” che esista qualcosa di simile, piuttosto che favorire la diffusione del determinismo. Secondo Smilansky, l’idea che ciascun individuo non abbia possibilità di autodeterminarsi non soltanto potrebbe creare i presupposti di una tendenza alla deresponsabilizzazione, ma annullerebbe automaticamente anche qualsiasi idea di merito individuale.

Se un uomo rischiasse la vita paracadutandosi in territorio nemico per portare a termine una coraggiosa missione. In seguito la gente dirà che non ha avuto scelta, che l’impresa, per dirla come Smilansky, è stata soltanto “il dispiegamento di un dato di fatto”, e perciò difficilmente encomiabile. E così come l’eliminazione delle responsabilità eliminerebbe un ostacolo ad agire in modo malvagio, l’eliminazione degli elogi eliminerebbe un incentivo a fare le cose bene.

Secondo i sostenitori di questa forma di “illusionismo” filosofico, la fiducia nel libero arbitrio potrebbe spronarci a tirare fuori il meglio da noi stessi. E Smilansky, che ritiene questa fiducia del tutto connaturata nell’essere umano, crede che le istituzioni fondate sul presupposto stesso del libero arbitrio – tutte quelle che amministrano la giustizia, per esempio – siano assolutamente necessarie per evitare di finire nell’estrema barbarie.

MEGLIO SENZA?

Altri studiosi, non credono che abbandonare il concetto di libero arbitrio possa avere effetti nocivi sul grado di civiltà di una società. Il neuroscienziato Sam Harris, crede che sarebbe molto meglio farne a meno, e che le nostre credenze debbano sempre seguire ciò che si dimostra essere vero. “Come società, dovremmo conoscere quali sono le leve da azionare per incoraggiare le persone a essere le migliori versioni di sé che possono essere”. Secondo lui, se accettassimo che “il comportamento umano emerge dalla neurofisiologia” potremmo più facilmente comprendere cosa davvero spinge le persone a compiere azioni dannose e provare a impedire che questo accada, piuttosto che usare punizioni come il carcere come deterrente.

Per comprenderne i benefici, prosegue Harris, basta confrontare due catastrofi di scala simile: le reazioni alle morti causate dall’uragano Katrina furono molto diverse dalle reazioni alle morti causate l’11 settembre. Nel primo caso, nessuno se la prese con le tempeste tropicali o dichiarò una Guerra al Clima, e la risposta collettiva all’uragano poté concentrarsi sulla ricostruzione e sulla prevenzione. Nel secondo caso, l’ottenebramento generato dal desiderio di vendetta portò a un’ulteriore, non necessaria, perdita di innumerevoli vite.

A voi, in un tempo di bilanci e costruzione di nuove aspettative, lascio l’ultima parola, la possibilità di credere o meno alle mie tante confabulazioni e delineare ciò che è scienza e ciò che è mal riposta credenza.

Buon anno!

COSA fai QUANDO TROVI un PORTAFOGLIO?

Ho una buona notizia: siamo altruisti più di quanto pensiamo.

Mi spiego meglio: se perdete il portafoglio avete, in Italia, il 50 per cento di possibilità che vi venga restituito. Soprattutto se è pieno di soldi.

In pratica, più il portafoglio è ricco, più i cittadini di molti Paesi del mondo si sentono in dovere di restituirlo al legittimo proprietario. La percentuale è variabile e cresce in funzione della quantità di denaro presente all’interno. A dirlo una ricerca pubblicata su Science: condotta dalle Università di Zurigo, Michigan e Utah, che ha preso in esame 355 città di 40 nazioni in tutto il mondo, Italia compresa.

Camuffati da anonimi passanti, i ricercatori sono entrati in banche, teatri, musei, uffici postali, hotel e stazioni di polizia, per consegnare un portafoglio, dicendo di averlo trovato casualmente per strada e chiedendo di restituirlo al proprietario di cui erano presenti alcuni documenti personali, una lista della spesa e a volte dei contanti di valore variabile.

Contro ogni previsione, è emerso che le persone interpellate provavano a rintracciare il proprietario del borsellino soprattutto se conteneva denaro: la probabilità era tanto più alta quanto maggiore era il valore economico in esso contenuto. In media, su scala globale, è stato restituito il 40% dei portafogli vuoti, il 51% di quelli che contenevano pochi spiccioli e il 72% di quelli più gonfi di denaro.

Un risultato assolutamente controintuitivo, perché l’etica in questo caso va a confliggere con l’interesse economico personale. Secondo ulteriori indagini, la maggior parte delle persone si comporta onestamente, soprattutto davanti a grandi cifre, non per altruismo, ma perché teme di essere considerata al pari di un ladro, distruggendo l’immagine auto percepita di sé come di una persona onesta.

Lo studio è illuminante insomma, perché mostra che sebbene la violazione di una regola comporti un vantaggio economico, come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina anche un costo personale che non tutti e non sempre siamo disposti a pagare: la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste.

Il nostro comportamento è tanto più etico quanto più è integerrima l’immagine che ci siamo costruiti e questo dipende dal posto e dal modo in cui siamo cresciuti e dagli insegnamenti che abbiamo ricevuto. E’ un fatto culturale.

Dallo studio emerge poi una vera e propria classifica dei Paesi più onesti: in Svizzera è stato restituito l’80% dei portafogli con soldi; in Cina poco più del 20%, l’Italia è a metà strada, intorno al 50%, insieme a Grecia e Cile.

Chi DECIDE il COLORE della TOVAGLIA? QUANDO il “PENSIERO di GRUPPO” (non) SERVE

Di recente mi sono trovata coinvolta in una riunione di lavoro in cui, all’improvviso, qualcuno si è messo a discutere del menu, per un evento. E mentre ognuno dei presenti diceva la sua, mi sono domandata quanto la mia opinione fosse necessaria.

In quel meeting erano presenti una decina di professionisti di alto livello e, dover dedicare del tempo al colore delle tovaglie o al tipo di dolce da presentare a fine serata, era così improbabile che per un attimo ho pensato a uno scherzo.

Perché allora siamo finiti a discutere di “aria fritta”?

Così mi è venuto in mente il groupthink, il pensiero di gruppo che tanto è utile quando drammaticamente pericoloso, quando a lui ci si affida, per uscire dall’irreale labirinto in cui siamo finiti, senza accorgersene.

FALLIMENTI CLAMOROSI

Qualche esempio negativo memorabile? L’incapacità di prevedere l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, il maldestro tentativo di rovesciare a Cuba, il regime di Fidel Castro con lo sbarco nella Baia dei Porci nel 1961, la prosecuzione della guerra del Vietnam da parte di Johnson (1964-1967) e qui mi fermo.

In pratica: chiedi a un gruppo di persone profondamente affiatate e coinvolte di trovare una soluzione a un problema comune e la tendenza che si creerà sarà quella di raggiungere l’unanimità anziché valutare in modo realistico le alternative più funzionali a disposizione.  

Sebbene con meno effetti collaterali, tanti esperti di decisioni e comportamenti riuniti in una unica stanza, non hanno meno possibilità di cadere nel bias dei bias e supportare la regola principe che dice che tutti cadiamo negli stessi errori di ragionamento allo stesso modo, ancor più gli esperti nel loro settore di competenza. Bingo.

Il classico errore da manuale!

KENNEDY E IL BLOCCO NAVALE SU CUBA

Per fortuna ci sono casi in cui il groupthink si è dimostrato un ottimo strumento. Come quando Kennedy riunì politici, consiglieri, ed esperti, ma in modo tale da evitare l’unanimità di pensiero nelle decisioni sulle scelte strategiche da adottare per fronteggiare la crisi. Durante i meeting, il presidente invitò esperti esterni a esprimere i loro punti di vista, e permise ai membri interni di porre domande, incoraggiò a discutere di possibili soluzioni e giunse perfino a dividere il gruppo in vari sotto-gruppi, al fine di dissolverne parzialmente la coesione. Kennedy, inoltre, si assentava deliberatamente allo scopo di evitare, nella discussione e nella formazione dei giudizi individuali, ogni pressione o condizionamento proveniente dalla sua opinione o dalla sua stessa presenza.

La crisi dei missili cubani, infine come sappiamo, fu risolta in modo pacifico, un risultato che si deve, in parte, anche a queste misure preventive.

PERCHE’ NON SEMPRE E’ UTILE

L’incapacità di pensare in modo critico in gruppo è alimentata dal nostro desiderio di conformarci a ciò che fa la maggioranza e dalla nostra esitazione nel rivalutare le soluzioni inizialmente respinte.

I gruppi possono quindi ostacolare la capacità di prendere decisioni in modo efficiente ed efficace, se non ben condotti e senza regole chiare atte a stimolare la individuale partecipazione e libertà di espressione.

Quindi, come possiamo bilanciare il desiderio di evitare il pensiero di gruppo, con il desiderio di rendere efficace il processo decisionale di gruppo?

Ecco 4 semplici consigli

  1. Qual è l’obiettivo di questo incontro?

Non tutte le decisioni richiedono una riunione o un meeting collegiale. Scopri prima perché hai bisogno di un incontro. Questo incontro è per avviare un brainstorming, per restringere le opzioni, condividere dati o trovare soluzioni? Stai cercando un consiglio? Risposte? Rendi chiare queste aspettative a coloro che parteciperanno.

  • Qual è il problema?

I problemi devono prima essere chiariti. In un incontro incentrato sulla risoluzione dei problemi, assicurati di concordare una definizione del problema prima di parlare di potenziali soluzioni.

  • Evita il pensiero di gruppo quando serve il dissenso

Il pensiero di gruppo sopprime il dissenso. Questo deve essere ben chiaro.

Come possiamo fare in modo che tutti si sentano liberi di esprimere il proprio pensiero? Assicurati che tutti possano parlare e tutti vengano ascoltati. Concedi tempo. Poni domande aperte che incoraggiano il pensiero critico come “Quali sarebbero gli svantaggi dell’opzione X che Y ha appena suggerito?“, “Ci sono implicazioni a cui non abbiamo pensato?“, “Eventuali altre possibilità che potremmo prendere in considerazione?”, “Qualcuno può interpretare per un momento il ruolo del critico su questo tema?” e infine “Tutti sono d’accordo se ci muoviamo in questa direzione?

Incoraggiare la partecipazione a una riunione è significativamente e positivamente correlato con la soddisfazione dei partecipanti e la percezione dei partecipanti della produttività delle riunioni (Malouff, Calic, McGrory, Murrell & Schutte, 2012).

  • Avere un leader che guida

Mentre tutti dovrebbero sentirsi a proprio agio a parlare, qualcuno deve condurre. Lascia il tempo per esaminare i risultati e prendere una decisione. Riassumi i risultati e le opinioni, prendi decisioni e delega le attività in modo chiaro. In uno studio, i leader che si sono presi il tempo di sintetizzare le decisioni hanno portato a una maggiore soddisfazione dei partecipanti e alla percezione dell’efficacia dell’incontro.

Il processo decisionale di gruppo, se guidato in modo inadeguato, può amplificare i singoli errori decisionali. In altre parole, possiamo diventare stupidi in gruppo. D’altra parte, se un leader conduce saggiamente creando un ambiente in cui vengono ascoltate e apprezzate diverse prospettive, un gruppo può diventare più saggio di qualsiasi altro individuo (Sunstein & Hastie, 2015). 

Il nostro ruolo è quello di aggiungere nuove informazioni anche se non attirano consensi, all’interno di un ambiente di lavoro dove la libertà di espressione viene considerata un valore aggiunto e non un intralcio.

Quindi “quale colore di tovaglia e gusto del dolce abbiamo scelto?” … mi ero distratta …

Le ABITUDINI si POSSONO MODIFICARE ma… NON nel MODO in cui PENSI. Dai retta, per una volta, alle Neuroscienze

Da tempo pseudo guru, formatori improvvisati e coach della domenica ci tormentano, cercando di farci credere sostanzialmente due cose: 1) la formazione è la panacea di tutti i mali 2) se si vuol avere successo bisogna uscire dalla propria zona di confort.

Mi dispiace, soluzione sbagliata.

A dirlo ovviamente non sono io, ma la scienza, le Neuroscienze. Vi spiego in cosa, guru, formatori e coach improvvisati sbagliano. Possiamo seguire i migliori corsi di formazione sul mercato, modellare i leader che riteniamo di riferimento alla nostra crescita, ma rimanere con le stesse abitudini di sempre.

PERCHE’ ACCADE QUESTO?

Il cervello è neofobico, non ama le novità. Non a caso le attività cerebrali rispondono a due necessità basilari: assicurare la sopravvivenza e contenere il dolore. E per farlo si avvalgono di due strategie: ripetizione e velocità. La velocità si ottiene con la spontaneità e l’automatizzazione nel percepire ciò che ci accade secondo dopo secondo, senza metterlo in discussione. La ripetizione si ottiene con l’avversione (emotiva e cognitiva) verso ciò che è sconosciuto e nuovo.

Questo è possibile perché il 95% delle strutture neurali operano in modo automatico, in assenza di valutazione e calibrazione di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo e pensiamo. Altrimenti sarebbe impossibile decodificare ogni informazione con cui entriamo in relazione e processare le circa 15 mila decisioni a cui quotidianamente siamo chiamati.

Inoltre il cervello non è disponibile a cambiare in modo incondizionato. Accetta sì abbastanza di buon grado quei cambiamenti che sono allineati alle esperienze e alle credenze a cui già è abituato, e impara nuovi modi di pensare e di agire solo quando questi non richiedono di andare contro le abitudini cognitive ed emotive già strutturate.

Quando gli si chiede o impone di cambiare comportamenti per andare verso altre abitudini di cui non ha esperienza, il cervello erge muri difensivi belli spessi, chiudendosi, per usare una metafora, in una sorta di castello super fortificato e quasi inespugnabile.

In parole semplici: tutta la motivazione del mondo nel modificare un comportamento avrà presa come neve al sole se va in conflitto con le abitudini consolidate e cristallizzate nei circuiti sinaptici.

DUBBIO E AUTOCONTROLLO

Una soluzione per fortuna c’è. Grazie alla presenza nella corteccia pre-frontale di un circuito che mette a disposizione due risorse: il dubbio e l’autocontrollo.

Il dubbio ci permette di dare vita a nuove idee e a percepire la realtà in modo diverso da come l’abbiamo sempre vista. Da solo però, non è sufficiente per contrastare i circuiti sinaptici cristallizzati. Occorre anche l’autocontrollo, la forza di volontà, importante nel rallentare le abitudini.

L’autocontrollo è indispensabile per frenare il pilota automatico della spontaneità. Per cambiare abitudini deve però essere pervasivo, costante nel tempo e ben radicato. Così da modificare i circuiti sinaptici esistenti, sostituendoli con quelli nuovi.

Tutto questo cosa ci dice? Che per avviare il cambiamento nelle persone, che sia a livello personale sia aziendale, occorre guardare in direzioni diverse da quelle dei normali corsi di formazione. Diventati abitudine non solo nel modo in cui vengono espletati, ma per i nostri stessi circuiti cerebrali. Automatici, e incapaci di stuzzicare il dubbio e far attivare la consapevolezza.

Dobbiamo ricordare una lezione importante che viene dalle Neuroscienze. Dire o pretendere che una persona, un collega, un dipendente, un cliente, un paziente cambi, equivale a far entrare la mente di quella stessa persona in conflitto con se stessa.

Ecco la contraddizione in termini.

Cambiare non è un conflitto che si fa nascere verso colleghi, dipendenti, clienti, pazienti, non è uno sforzo che va in direzione contraria alla realtà esterna. Cambiare è uno scontro fra due strategie neurali presenti all’interno del nostro cervello.

Ben diverso cioè da come ci è sempre stato insegnato, detto, proclamato a gran voce da chi di Neuroscienze e cervello sa quello che può aver imparato spulciando quale nozione qua e là, o seguendo qualche corso tenuto da formatori improvvisati (almeno su questi temi).

Se veramente si vuole spingere verso il cambiamento qualcuno, e solo se ce lo chiede, ecco 5 domande che potrebbero essere utili e non invasive (per il cervello).

– I comportamenti che voglio attivare, vanno contro le abitudini di quella persona?

– Se sì, quanto?

-La resistenza che quella persona deve fare valgono lo sforzo? O fa solo bene a me, promotore del cambiamento a tutti i costi?

– In che modo posso innescare il dubbio, affinchè la persona veda quell’abitudine come obsoleta o poco funzionale? E sia quindi spinta a modificarla?

– Come posso nel tempo sostenere la nuova abitudine? Come posso far sì che la perseveranza non venga meno di fronte all’estenuante resistenza che i vecchi circuiti opporranno verso il nuovo?

Come vedete, il cambiamento è qualcosa di molto più personale di quello che si crede. Le abitudini ci regalano sicurezza e lasciarle è un po’ come abbandonare qualcosa di caro.. provate, a togliere la coperta a Linus e vedrete come reagisce. Cambiare per cambiare non serve. Ogni cambiamento, soprattutto a livello aziendale, deve essere frutto di una analisi profonda e ben motivata. Solo allora si potrà chiedere a chi, per quella azienda lavora, uno sforzo. E lo faranno se lo credono efficace e funzionale. Ma se il cambiamento che richiedete è schizofrenico, dettato dalle mode del momento e poco sostenuto da ragioni anche e soprattutto razionali, lasciate stare. Questa volta, accettate il consiglio.

COLLABORATORI e DIPENDENTI più COINVOLTI, con il METODO SCARF. ISTRUZIONI per l’USO

Chi, sul luogo di lavoro non si è sentito minacciato? O eccessivamente controllato? O sminuito, o addirittura messo da parte? Alzi la mano…

Spesso, quando veniamo esclusi da un progetto, un’attività, una promozione, ciò che avvertiamo è un senso di minaccia. Sentiamo minacciato il nostro status, il nostro ruolo all’interno del contesto lavorativo. Reazione questa che può avere sfumature variegate, anche violente e non sempre facili da controllare, perché tocca le parti più antiche e profonde del nostro cervello.

Senza contare che ci fa male, molto male; non a caso le neuroscienze hanno dimostrato che questo sentimento può stimolare la stessa regione del cervello del dolore fisico.

Per fortuna quando ci sentiamo ricompensati, quando riceviamo elogi per il nostro lavoro, i nostri cervelli rilasciano dopamina, l’ormone della gratificazione. E naturalmente vogliamo di più e quindi ci attiviamo per essere ricompensati ancora e ancora nel futuro a breve termine.

Per minimizzare il senso di minaccia e massimizzare quello di gratificazione è stato pensato, dall’esperto di Leadership David Rock, un modello noto con il nome di SCARF, che evidenzia i cinque fattori organizzativi che hanno un effetto negativo impattante ma spesso poco considerato sulle reazioni umane sul luogo di lavoro. Se li si impara a conoscere, sarà di fatto più facile e funzionale aumentare l’engagement di dipendenti e collaboratori a un costo molto basso.

Ecco i cinque fattori:

  • Status (percezione di essere considerati migliori o peggiori di altri);
  • Certainty/Certezza (possibilità di prevedere eventi futuri e, quindi, poter programmare senza ansia la propria vita);
  • Autonomy/Autonomia (il livello di controllo sulle attività e la possibilità di decidere sul proprio lavoro con una sufficiente indipendenza);
  • Relatedness/Relazione (l’esperienza di far parte di un gruppo e condividerne gli obiettivi);
  • Fairness/Equità (sentirsi rispettati e trattati in modo equo)

COME APPLICARE SCARF AL LAVORO

Sentirsi minacciati blocca la creatività, riduce la capacità di risolvere i problemi e ci rende più difficile comunicare e collaborare con gli altri. Quando invece ci sentiamo ricompensati, l’autostima sale e ci sentiamo motivati a fare un buon lavoro.

Non a caso, quando il livello percepito da un collaboratore in merito a uno qualsiasi dei 5 fattori SCARF è basso, aumenta il senso di minaccia e turbamento. Anche se non lo esprime palesemente, la sensazione c’è o è latente, e spesso compromette la sua produttività e la volontà di mostrare impegno.

In altri termini, la persona, di fronte a determinate situazioni organizzative non favorevoli, riceve gli stessi messaggi di allerta e di pericolo di quando vengono messe in gioco le elementari strutture (minaccia e ricompensa) sulle quali fa affidamento per la sua sopravvivenza. A quel punto, nel suo cervello si attivano le stesse risposte “primitive”, le stesse reazioni fisiche (dolore) ed emotive a livello istintuale, che non sono facili da controllare e da reprimere.

STATO

Il prestigio sembra essere uno dei principali elementi della longevità e del benessere. Il nostro cervello pensa al prestigio utilizzando gli stessi circuiti con cui processa i numeri e un aumento nel prestigio viene equiparato a un colpo di fortuna finanziario. Vincere una gara, una partita, un confronto, fa sentire meglio perché aumenta la percezione del proprio prestigio e i circuiti di ricompensa vengono attivati, in particolare i livelli di dopamina. Di norma nelle organizzazioni si tende a ricompensare le persone attraverso le promozioni. Come detta la legge di Peters, questo può avere come effetto collaterale il promuovere persone all’apice della loro incompetenza. Le ricerche dimostrano però che il prestigio può essere ricompensato e aumentato fornendo feedback positivi e riconoscimenti pubblici.

Essendo il prestigio fondato sulla percezione della posizione che si ha all’interno della propria comunità di riferimento, ogni ricompensa fornita in questa direzione accresce il senso di benessere e innesca un circolo virtuoso che stimola il cervello, aumenta la creatività, soddisfa i bisogni primari e riduce le richieste di promozione o di avanzamento di carriera.

CERTAINTY/CERTEZZA

Il cervello è una macchina per il riconoscimento degli schemi: cerca costantemente di predire il futuro. Quando non siamo certi di qualcosa, la corteccia frontale del nostro cervello inizia a fare gli straordinari mentre cerca di dare un senso all’ignoto. Livelli più ampi di incertezza, come non conoscere le aspettative del proprio capo, le valutazioni del proprio insegnante o il grado di affetto del proprio genitore o partner, generano un forte stato di debilitazione. Ogni cambiamento significativo genera incertezza. Ecco perché nelle organizzazioni, si sviluppano strategie, piani, mappe, diagrammi di flusso, tabelle excel che permettono ai dipendenti di sentirsi meglio perché il loro livello di certezza è mantenuto. È noto come la chiarezza sulle aspettative e sugli obiettivi, generi nei collaboratori un maggior senso di sicurezza e conseguentemente di benessere. Tra le diverse azioni che possono aumentare i livelli di Sicurezza vi sono:

  • Rendere esplicito quello che tendiamo a tenere implicito e non dare nulla per scontato
  • Definire obiettivi chiari all’inizio di ogni “ciclo” di azioni
  • Fornire tutte le informazioni a disposizione in un tempo dato

AUTONOMY/AUTONOMIA

Autonomia significa esercitare il controllo su un determinato contesto, avere la sensazione di avere delle scelte. Uno stress senza vie di fuga e senza possibilità di controllo è altamente distruttivo, mentre lo stesso stress, interpretato come evitabile, è significativamente meno distruttivo. Il lavoro in team richiede una riduzione dell’autonomia, ma in culture organizzative evolute, questa potenziale minaccia viene neutralizzata da un aumento del Prestigio, della Certezza e della Relazionalità. Sul lato della ricompensa, in un’organizzazione non è sempre semplice fornire livelli elevati di autonomia. Ciò nonostante può dimostrarsi utile offrire alle persone la libertà di organizzare il proprio lavoro, la propria scrivania e magari il proprio tempo lavorativo, all’interno naturalmente di parametri concordati.

RELATEDNESS/RELAZIONE

Implica la decisione se gli altri sono “dentro” o “fuori” un gruppo sociale, se qualcuno è amico o nemico. L’affinità è un driver comportamentale all’interno di diverse tipologie di squadra. L’informazione relativa a persone percepite “come noi” viene processata dal cervello utilizzando circuiti simili a quelli usati per pensare a se stessi e mettendo in gioco l’ossitocina. Maggiori quantità di questo ormone si trovano in persone con elevate capacità di sviluppare affinità. Concetto strettamente connesso con la fiducia. Più questa è elevata tra le persone, più forte e ampia è la collaborazione e la condivisione. In ambiti sociali limitati (scuola, lavoro, palestra), incoraggiare le connessioni sociali aumenta la qualità e la valenza delle prestazioni, riduce l’ansia sociale e favorisce la collaborazione. L’unico modo per aumentare la risposta di ricompensa dalla Relazione è aumentare le connessioni sicure tra le persone. In ambito organizzativo possiamo parlare di:

  • sistemi di “buddy” (piccoli agglomerati di 2/3 persone che si accordano per sostenersi a vicenda)
  • programmi di mentoring e/o coaching
  • piccoli gruppi di “action learning”

FAIRNESS/EQUITA’

Gli scambi basati sulla correttezza e la giustizia sono premianti. Questo può spiegare perché molte persone sperimentano un senso di ricompensa svolgendo una attività di volontariato: contribuiscono a ridurre l’ingiustizia nel mondo. Allo stesso tempo, scambi ingiusti generano una forte risposta di minaccia: situazioni percepite come fortemente ingiuste possono portare alcuni a morire per difendere i propri diritti. Persone considerate disoneste non stimolano la pietà nel prossimo; anzi generano un senso di soddisfazione quando vengono punite. La minaccia nella percezione di un’ingiustizia può essere ridotta:

  • aumentando la trasparenza
  • migliorando la chiarezza della comunicazione
  • stabilendo chiare aspettative in ogni situazione

Scarf è un modello scientificamente basato sulle reazioni del nostro cervello a stimoli di minaccia o ad azioni di ricompensa e ci insegna che agire in direzione di una ricompensarelativamente alle 5 aree appena descritte, aumenta le probabilità che le persone siano maggiormente motivate, sviluppino un maggior senso di appartenenza all’azienda/team, riducano l’assenteismo, ottimizzino le prestazioni.

Diffondere in azienda un approccio che premi queste 5 attitudini, che soddisfi nel cervello di ognuno, il bisogno continuo di socialità, che potenzi nei collaboratori le condizioni di ricompensa in grado di superare le relative sensazioni di minaccia che impediscono di fatto i processi evolutivi, può generare una condizione di profonda trasformazione del tessuto relazionale interno, aumentare il livello di benessere personale e relazionale ma anche di efficacia ed efficienza, riducendo allo stesso tempo assenteismo e conflittualità, perdite di tempo e distrazioni. In altri termini favorendo lo sviluppo di aziende più sane, etiche e sostenibili.

Per saperne di più: SCARF: un modello basato sul cervello per collaborare e influenzare gli altri 

NUDGE QUESTI SCONOSCIUTI: strategie per rendere semplici scelte complesse

“Carne: abbiamo una bella bistecca pesante, oppure agnello, rognone, fegato fritto intriso, impanato. Altrimenti pesce: abbiamo rombo grasso grasso, oppure baccalà porchettato intriso, unto al Grand Marnier, altrimenti un salmone magro”.

E’ così che Roberto Benigni, nelle vesti di un cameriere, presenta a un importante cliente entrato al ristorante in orario di chiusura, il menù. Una tortuosa lista di cibi, sapendo però che in cucina c’è solo salmone e insalata. Ma il modo in cui snocciola una dopo l’altra le diverse alternative, orienterà il cliente verso l’unica soluzione disponibile: il salmone.

Era il 1999, nelle sale usciva La vita è bella e di Nudge ancora non si parlava. Eppure questo simpatico esempio ben rappresenta la strategia che diciotto anni più tardi regalerà il Nobel per l’economia a Richard Thaler, il papà dei nudge.

LE SPINTE GENTILI

Se nel film, Benigni, si trova costretto a orientare il cliente, per forza di cose, verso l’unica soluzione possibile, i Nudge hanno un obiettivo meno commerciale e più funzionale al benessere individuale e collettivo sia in termini di salute, soldi e sia di felicità: aiutarci a preferire l’opzione migliore fra le diverse alternative possibili ma senza sforzo e fatica.

I nudge sono infatti un modo di pensare, una strategia pensata per rendere semplici scelte complesse.

In italiano la parola nudge può essere tradotta come spinta gentile ed è un approccio tutt’altro che casuale, accettato anche dai più scettici, perché validato da poderose ricerche scientifiche.

Quando ci troviamo a prendere una decisione, la maggior parte delle volte lo facciamo affidandoci più al nostro istinto che alla nostra razionalità. Se fossimo totalmente razionali, probabilmente sceglieremmo sempre la dieta giusta, il programma di allenamento più funzionale ai nostri obiettivi, non fumeremmo, non consumeremmo alcolici, non consulteremmo lo smartphone mentre siamo alla guida, valuteremmo nel dettaglio pro e contro di un’eventuale offerta di lavoro, scegliendo infine quella, sulla carta, meno rischiosa per noi e con i benefici più grandi. E ci innamoreremmo solo dopo aver attentamente vagliato ogni alternativa.

Ma non è così che ci comportiamo nel quotidiano. Siamo facilmente influenzabili, cediamo alle tentazioni e, sappiamo che al cuor non si comanda: non è possibile scegliere sempre e solo l’opzione migliore. Anzi, soprattutto in amore spesso andiamo in tutt’altra direzione… per non parlare della nostra capacità analitica quando parliamo della nostra squadra sportiva… del cuore.

È così che, per far sì che le persone prendano decisioni migliori – per il proprio benessere in primis, ma anche per la società in generale – alle volte serve loro un piccolo aiuto, una “spintarella”, un nudge appunto.

METTI UNA MOSCA IN AEROPORTO

Hai mai sentito la storia della mosca nei bagni dell’aeroporto di Amsterdam?

E’ stato sufficiente applicare l’adesivo di una mosca in ogni orinatoio maschile dell’aeroporto di Schiphol per far sì che la quantità di urina finita sul pavimento diminuisse dell’80%. Un dato che si è tradotto in una minore necessità di interventi di pulizia dei bagni e, di conseguenza, un significativo risparmio sui prodotti di disinfezione e detersione. Un effetto domino che ha portato enormi benefici all’aeroporto e ai suoi dipendenti in primis e ai passeggeri che dovevano utilizzare i bagni, poi. Non è un caso che le mosche si trovino oggi in molti altri bagni pubblici in giro per il mondo.

Le nostre scelte non avvengono nel vuoto: scegliamo sempre all’interno di contesti e architetture ben definite, anche se non ne siamo troppo consapevoli. E il modo in cui questi ambienti sono progettati influenza in modo evidentissimo le nostre decisioni, spingendoci in una direzione piuttosto che un’altra.

BANCHE E SCONTRINI

Qualche anno fa alcune banche spostarono il pulsante per richiedere lo scontrino, dopo un prelievo al bancomat, dall’angolo in basso a destra a quello in basso a sinistra dello schermo. Migliaia di euro buttati al vento? Assolutamente no.

Questa semplice modifica ha consentito alle banche di risparmiare milioni e milioni di scontrini, di carta e toner. Come?

La morfologia del nostro corpo, il nostro essere destrimani nella maggioranza dei casi, ci porta a scegliere più frequentemente un’opzione se questa si trova a destra dello schermo, così come a prestare più attenzione alle pagine dispari di un giornale, quelle che si trovano sulla destra. Le opzioni sono sempre lì a disposizione (selezionare “sì”, oppure “no” per richiedere o meno lo scontrino), non scappano, ma il modo in cui sono presentate, ci spinge a preferirne una piuttosto che un’altra.

Per risparmiare l’Istituto bancario poteva fare altre scelte, come quello di non erogare più scontrini, o farli pagare, ma in questo modo non sarebbe stato un nudge. I nudge infatti non vietano o riducono le scelte, ma presentano le alternative più funzionali al nostro benessere, al nostro portafoglio e per l’ambiente in modo che sia più facile sceglierle. La banca ha scelto di modificare l’architettura di quella scelta specifica, lasciando ai pasionari dello scontrino, la possibilità di continuare a richiederlo, ma spingendo in modo gentile gli altri, a richiederlo meno di frequente o solo quando è strettamente necessario. Se ci pensate bene, la maggior parte delle volte che lo richiediamo, finiamo poi con il gettarlo prima ancora di esserci allontanati dallo sportello.

I nudge ci lasciano liberi di scegliere l’opzione che preferiamo, ma rendono più attrattiva l’alternativa maggiormente conveniente e funzionale al nostro benessere, al nostro portafoglio, alla nostra salute, alla nostra produttività, alla nostra felicità e al pianeta.

SCELTE CHE VALGONO UNA VITA

Una delle spinte maggiormente efficaci per promuovere comportamenti virtuosi è l’utilizzo strategico dell’opzione di default. Un caso esemplare è quello della donazione di organi.

Se confrontiamo la percentuale di donatori di organi nei diversi Paesi europei, si vede che questa non è influenzata dalle opinioni individuali o dalla cultura di appartenenza, ma dalla modalità con cui è strutturato il modello di adesione al programma di donazione. Nei Paesi in cui il cittadino deve fornire un consenso esplicito per donare gli organi, la percentuale di donatori risulta molto bassa. Di contro, nei Paesi in cui il cittadino è automaticamente incluso nel programma di donazione e, al contrario, il dissenso alla donazione deve essere fornito attivamente, la percentuale di donatori è al di sopra del 90%.

Applicare l’opzione di default significa impostare un’opzione che verrà scelta automaticamente, a meno che le persone scelgano attivamente di comportarsi in modo diverso. Nella vita quotidiana la troviamo ad esempio, negli smartphone e nei dispositivi digitali, venduti con impostazioni predefinite che possiamo scegliere o meno di cambiare. I sensori di movimento sono semplici strategie per evitare sprechi di energia: fanno in modo che la luce si spenga automaticamente ogni qualvolta il sensore non rivela la presenza di persone nell’ambiente. In questo modo, i rilevatori di movimento creano l’equivalente di un valore predefinito.

Così come le impostazioni del computer spengono l’apparecchiatura quando non è in uso dopo un lasso di tempo stabilito. Carte di imbarco e badge per congressi, come altri strumenti di identificazione, possono essere sostituiti nelle finalità da smartphone e tablet e stampati solamente su richiesta. La copia elettronica della fattura è ormai divenuta la regola e quella cartacea un optional su richiesta. Sempre più spesso sono offerti incentivi con punti premio sulle carte fedeltà per acquisti effettuati senza fornitura di imballaggio nei supermercati e nel circuito del piccolo commercio.

ABBONARSI DI DEFAULT

Molti abbonamenti vengono rinnovati automaticamente a meno che non si decida attivamente di annullare l’iscrizione. Questa stessa scelta può essere posta in due modi differenti: allo scadere dell’abbonamento è possibile rinunciare all’offerta, per non ritrovarsi abbonati automaticamente; oppure, è possibile esplicitamente richiedere di continuare ad aderire. Queste due opzioni, sono logicamente equivalenti, ma a causa della nostra passione per la scelta di non scegliere, tenderemo a non modificare la nostra adesione iniziale: ci troveremo quindi, nel primo caso, iscritti, mentre nel secondo caso non iscritti. Per questo le imprese, in questi casi e in molti altri simili, preferiscono porre le questioni nella seconda forma. Perché così non scegliamo e finiamo per pagare beni e servizi dei quali avremmo fatto tranquillamente a meno. Ma in questo caso non stiamo parlando di nudge ma di sludge!


NUDGE VS SLUDGE

Gli sludge (una parola inglese che significa, non a caso, fango), a differenza dei nudge presentano opzioni di scelta che avvantaggiano chi li propone e scoraggiano ad attuare comportamenti che invece sono nell’interesse della persona, come reclamare un rimborso, cancellarsi da una newsletter e fare reclamo, come ben dettaglio nel libro “Nudge Revolution, la spinta gentile per rendere semplici scelte complesse”. 

Sebbene possano sembrare simili, i nudge rispetto gli sludge cercano di incoraggiare il cambiamento per favorire scelte virtuose, per il nostro benessere, il nostro portafoglio, per la nostra felicità, produttività e per il pianeta. Se sei in dubbio, chiediti quanto sia semplice e libera la tua scelta e saprai subito se ti trovi di fronte a un nudge o a uno sludge.

Architettare dei nudge, non è complesso. Spesso infatti sono sufficienti piccole modifiche al contesto per ottenere grandi risultati. Un esempio? Sostituire in azienda i dispenser contenenti merendine e cibo ipercalorico con contenitori trasparenti con frutta fresca e noci ben visibili. Banale? Decisamente… Eppure questo piccolo accorgimento adottato negli uffici di Google a New York, ha permesso di ottenere risultati impressionanti, come ridurre del 30% le calorie totali consumate dai dipendenti, eliminare una percentuale di grasso del 40% negli snack; indurre i dipendenti a consumare 3,1 milioni di calorie in meno in sole 7 settimane di esperimento.

Rendere semplici scelte complesse dunque si può, con i Nudge!

https://magazine.darioflaccovio.it/2019/11/14/nudge-questi-sconosciuti-strategie-per-rendere-semplici-scelte-complesse/

 

PERCHE’ LEGGIAMO gli OROSCOPI

Oroscopi. Li consultiamo, affidiamo loro parte delle nostre decisioni e imperterriti ci piace crederci, pur consapevoli della loro fallacia e inaffidabilità.

Perché è cosi difficile ignorarli?

La trappola di cui siamo vittime è detta effetto Forer (dal nome dello psicologo che già nel 1948, aveva descritto il fenomeno), anche conosciuto come “effetto di convalida soggettiva”, che ci porta a credere, accettare e dare l’approvazione a descrizioni psicologiche sommarie, spesso contrapposte, con dettagli vaghi e che si potrebbero applicare a un gran numero di persone. In parole semplici: ogni individuo posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso, nonostante quel profilo sia generico, tale da adattarsi a più persone.

Per dimostrare le sue ipotesi Forer chiese ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, questionario dove venivano raccolte diverse informazioni fra cui hobby, aspirazioni, caratteristiche a cui sarebbe seguita una interpretazione qualitativa.

Dopo una settimana, restituì un quadro della loro personalità, chiedendo di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione: perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano in alcune delle seguenti frasi.

– Hai grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri. – Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio – Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato – A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta – Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto  – A volte sei estroverso, affabile, socievole, altre sei introverso, diffidente e riservato

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti fu 4.26.

Questo fenomeno è stato replicato con altri esperimenti e si è potuto verificare che tra l’80 e il 90% delle persone considerano che le affermazioni generali siano molto precise in riferimento a loro stessi.

Certo è che tendiamo ad accettare quelle affermazioni nella stessa misura in cui desideriamo che queste siano reali e ci risultano sufficientemente positive e lusinghiere.

Va tenuto in conto che quando incontriamo una credenza (o info) che risolve una incertezza, questo ci predispone a confermare e dare per certa la stessa, scartando a priori ogni evidenza contraria. Così, si sviluppa una sorta di meccanismo automatico che consolida l’errore originale e conferisce una eccessiva attendibilità alla credenza.

Il consiglio non è quello di smettere di leggere l’oroscopo, ma di consultarlo. Il fato non ha memoria, come i dadi e la roulette. Dunque perché privarci di una scelta consapevole, che seppur si dimostrerà errata, ci avrà permesso di essere noi i veri artefici del nostro destino.