GUIDARE (SENZA GPS) FA BENE AL CERVELLO

Guidare fa bene al cervello, soprattutto se lo si fa in una grande città e senza aiuto di mappe e gps. A dirlo uno studio dell’University College di Londra che ha monitorato il cervello e nello specifico l’ippocampo, l’area della memoria, dei tassisti di Londra.

A bordo dei black cab infatti non troverete né Gps, né piantine della città. I tassisti a Londra conoscono a memoria la mappa della capitale. Preferiscono contare su quanto ricordano a mente piuttosto che sulla tecnologia.

Il risultato dello studio rivela che in questi professionisti l’ippocampo, l’area del cervello fondamentale nella gestione di apprendimento, memoria e stress, è più sviluppato rispetto a quello dei loro colleghi che invece usano il gps di default.

La ricerca dell’University College di Londra, ha seguito due gruppi di autisti. “Fotografando” attraverso tecniche di neuroimaging nel tempo le immagini della struttura dei loro cervelli si è visto che all’inizio della fase di apprendimento delle nozioni, i due gruppi non presentavano differenze sostanziali. Dopo 3-4 anni di formazione sono emerse invece delle differenze: gli autisti di taxi che non fanno uso di gps e mappe, avevano un ippocampo più sviluppato.

LA MEMORIA A LUNGO TERMINE

L’ippocampo svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale, presenta un volume maggiore in animali che sono abituati a nascondere il cibo per recuperarlo in un secondo momento. Partendo da queste osservazioni, la neuroscienziata Maguire, a capo del progetto, ha ipotizzato che studiare i tassisti potesse dare buoni risultati.

Non abbiamo bisogno di utilizzare il Gps. Quando sappiamo che dobbiamo andare in una determinata direzione ci andiamo. Come autista di taxi per noi diventa automatico. Lo facciamo senza pensarci, il nostro cervello è condizionato, spiega Peter Allen, uno dei 20.000 tassisti che lavorano nel Regno Unito.

ASPIRANTI TASSISTI IN TRAINING

All’origine di questa particolarità, secondo gli esperti, la lunga formazione che gli autisti di black cab devono seguire per ottenere la licenza. Un patrimonio chiamato “The knowledge” (la conoscenza) e che deve permettere loro di spostarsi quasi ‘a occhi chiusi’ attraverso le 25.000 strade e stradine di Londra. E al Knowledge point, una delle scuole dove studiano i futuri chaffeur, si respira un’atmosfera severa. Non si scherza. C’è silenzio e concentrazione per permettere agli allievi di prepararsi al meglio. Nulla è lasciato al caso e gli studenti sono sottoposti a innumerevoli simulazioni di percorsi in città, prima di superare l’esame finale. Chi viene promosso può vantarsi di avere una memoria al di sopra della media.

Secondo la professoressa Maguire, i risultati della ricerca sono una ulteriore conferma di come determinati esercizi cognitivi e l’apprendimento intensivo possono modificare la morfologia del cervello anche in età adulta, portando a sviluppare determinate capacità.

OTTENERE IL MASSIMO, CONCEDENDO IL MINIMO… CON LE MANI LEGATE

Non è semplice ottenere il massimo, concedendo il minimo. Così come non è facile accettare di fingere di non avere sufficienti responsabilità di fronte a clienti, amici e fornitori. Eppure, talvolta, fingere di avere le mani legate, di non avere abbastanza potere, può portare grandissimi benefici.

In parole semplici, se abbiamo l’intelligenza di non gonfiarci come tacchini, pur di dimostrare quanto siamo bravi, più bravi della controparte, potremmo portare a casa risultati inaspettati. Soprattutto laddove la controparte soffre i problemi economici legati alla mancata disponibilità di tempo.

LA TECNICA DELLE MANI LEGATE

La tecnica delle mani legate consiste nel dichiarare, semplicemente, di non avere sufficiente potere per chiudere un accordo o firmare un contratto. Questo il succo del discorso. Semplice, ma attenti, non banale!

“Mi dispiace ma il mio responsabile non mi permetterà mai di firmare l’accordo se lei non arriva a proporre una cifra di almeno …. euro”.

La ragione di questa tecnica negoziale è indurre la controparte ad avanzare una proposta che possa metterci nelle condizioni di superare questo impasse, vero o immaginario, che sia, a cui noi “semplici collaboratori” dobbiamo rendere conto.

Dichiarare di avere le mani legate può rivelarsi utile anche per uscire da una situazione negoziale in cui ci siamo resi conto che non è più conveniente andare avanti o semplicemente perché abbiamo bisogno di più tempo per riflettere sul da farsi.

A sostenere la bontà di questa tecnica è stato un economista americano Thomas Schelling, premio Nobel 2005 per l’economia, e autore di un importante testo sui comportamenti strategici: Strategy of Conflict, considerato fra i 100 libri che hanno avuto maggiore influenza dopo la II guerra mondiale e fra i più importanti testi sulla negoziazione internazionale.

NEGOZIAZIONE E TEORIA DEI GIOCHI

Schelling utilizza, nel suo libro, diversi esempi per spiegare questa semplice tecnica:

  • Il sistema che fornisce alla polizia fogli di multa numerati e incancellabili fa sì che il funzionario, scrivendo il numero di targa della macchina prima di parlare con il conducente, non possa essere minacciato da quest’ultimo.
  • La chiusura sincronizzata della cassaforte nelle banche che fa sì che il dipendente anche volendo non possa aprirla.
  • La regola presente in molte università che nega ai professori il potere di cambiare il voto di uno studente una volta registrato.

Per Schelling l’essenza di questi esempi, tutti aventi lo stesso scopo, risiede nel paradosso che il potere di limitare le mosse di un avversario può dipendere dal potere di vincolare se stessi e paradossalmente l’avere le mani legate, durante una negoziazione, può trasformarsi da motivo di debolezza a punto di forza.

Perché questa strategia funzioni, è però necessario che la nostra limitazione sia completamente evidente e comprensibile alla controparte. Se così non è, l’efficacia della tattica è inutile.

IL POTERE NEGOZIALE

A Schelling si deve l’aver introdotto in modo esplicito il concetto di potere negoziale (bargaining power) definendolo come la capacità di vincolare se stessi a un determinato corso di azione. Definizione questa che deriva dalla teoria dei giochi e dal concetto di mossa strategica, prevedendo che attraverso una mossa strategica si possa influenzare in modo significativo l’azione della controparte e volgerla a esiti per noi più favorevoli. Insomma la differenza la fanno le persone, non solo le mosse, con la loro capacità di portare a soluzioni non prevedibili a priori.

Anche se le teorie di Schelling sono un po’ datate ormai, se si vuole conoscere meglio l’arte negoziale, non si può fare a meno di leggerlo. Credetemi, non rimarrete delusi. E la vostra capacità negoziale non potrà che beneficiarne.

Se lo DICO IO… Il PREGIUDIZIO della RAGIONE

Una coppia si era appena trasferita nel nuovo appartamento. Una mattina a colazione, la moglie vide dalla finestra la vicina di casa intenta a stendere le lenzuola: “Guarda, la vicina sta stendendo delle lenzuola sporchissime! Forse dovrebbe cambiare detersivo”.

Il maritò osservò la scena e rimase in silenzio. Ogni settimana si ripeteva la stessa storia. Passato un mese, un mattino la moglie si sorprese nel vedere che le lenzuola stese erano pulite: “Guarda, finalmente la vicina ha imparato come si lavano i panni!”. E il marito rispose: “Non è proprio così… Oggi mi sono alzato prima e ho pulito i vetri della nostra finestra”.

Li consideriamo stupidi e li troviamo detestabili e talvolta guardiamo loro con sufficienza. Dentro di noi infatti siamo convinti sostenitori della nostra razionalità e obiettività. A differenza di chi ci sta intorno, amici, colleghi, famigliari… Eppure cadiamo vittime di pregiudizi e condizionamenti. Tutti.

Soprattutto uno (il padre di tutti i bias cognitivi), il più insidioso e pericoloso che non solo fa da presupposto a tutti gli altri, capace di bypassare la nostra consapevolezza: blind spot bias. Tale “zona cieca” è così ben integrata nel nostro modo di pensare e così profondamente sepolta nella nostra mente da non essere accessibile alla coscienza consapevole. La storiella ne è la rappresentazione più fedele.

Osservazioni quotidiane confermano l’esistenza di pregiudizi [bias] nella percezione umana. Troviamo che i nostri avversari, e a volte anche i nostri colleghi, vedono eventi e problemi attraverso il prisma distorcente della loro ideologia politica, della storia e degli interessi individuali o del loro gruppo, e del loro desiderio di vedere se stessi in una luce positiva – spiega la psicologa Emily Pronin, fra i pionieri degli studi sul Blind Spot Bias. Quando tuttavia riflettiamo sulla nostra visione del mondo, generalmente rileviamo poche prove di questi pregiudizi. Abbiamo l’impressione di vedere problemi ed eventi “obiettivamente”, come sono in realtà. Vorremmo concedere, forse, che alcune delle nostre opinioni sono state modellate dalla nostra esperienza personale e dall’identità di gruppo, ma sentiamo che nel nostro particolare caso questi fattori hanno condotto ad aumentare la conoscenza piuttosto che il pregiudizio.

Per misurare la percezione di suddetto bias sono stati condotti 3 diversi esperimenti, durante i quali i partecipanti sono stati esposti a un certo numero di situazioni:

  • confronto tra sè e un americano medio (24 studenti)
  • confronto tra sè e compagno di classe medio (30 studenti)
  • confronto tra sè e viaggiatore medio (su 76 viaggiatori di varie età ed etnia. Le principali conclusioni dello studio hanno mostrato che tutti i partecipanti hanno percepito se stessi come più obiettivi degli altri in tutti e tre i confronti. Asimmetria nella percezione dei pregiudizi, denominata “illusione introspettiva” che, fa erroneamente presupporre che conoscendo la sua esistenza sia poi possibile evitarla.

Purtroppo però non è leggendo queste parole o interi libri sull’argomento che si riuscirà a slegarsi da essi. Forse, come suggerisce il filosofo Samuel McNerney, spendiamo troppa energia per proteggere il nostro Ego e non ce ne rimane per accorgerci dei nostri errori percettivi.

Un suggerimento potrebbe essere quello di rovesciare il problema: invece di impegnarci nello sforzo titanico di cambiare il nostro cervello dovremmo cercare di cambiare il mondo intorno a noi. Questa volta, però mi sa che a cadere in una trappola mentale sono proprio io…

Quei PULSANTI PROGETTATI per NON FUNZIONARE…

Entri in ascensore e qualcosa dentro di te ti spinge a premere compulsivamente il bottone chiusura porte. Sai perché accade questo?

La percezione è che schiacciando il pulsante, le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi, il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, che gli altri giocatori si erano innervositi molto. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo, che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003, come era abituato a fare in azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la sua malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo, può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo è descritta come una “illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso anche fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di impotenza, alla scarsa fiducia in noi stessi.  L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

E’ RESPONSABILE CHI COMANDA o CHI UBBIDISCE?

Se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica di 400 volt a uno sconosciuto, ubbidiresti? Non rispondere subito “no”, potrebbe non essere la risposta corretta.

Il 65% delle persone di fronte a un ordine eticamente contrario alla propria morale, vìola i propri principi per ubbidire ai voleri di un potere esterno riconosciuto, non sentendosi poi moralmente responsabile delle proprie azioni.

A studiare questa caratteristica dell’uomo fu Stanley Milgran, che iniziò i suoi esperimenti tre mesi dopo l’inizio del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann. Lo psicologo di Yale concepiva l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”. La difesa dell’ex nazista si basava esattamente su questo assunto.

L’esperimento consistette nel reclutare 40 uomini (pagati 4.50$). reperiti attraverso annunci sul giornale, il cui compito era rivestire il ruolo di insegnante e porre domande a uno sconosciuto (complice nell’esperimento) in presenza di uno scienziato che rappresentava l’autorità, e punire l’interrogato con scosse elettriche crescenti (dai 30 sino ai 450 Volt) ad ogni errore, in caso di risposta errata.

Il 65% dei partecipanti somministrò il livello finale di shock di 450 volt, sebbene si sentissero a disagio nel farlo. Qualcuno si fermò e mise in discussione l’esperimento, qualcun altro si informò sul denaro che avrebbe ricevuto in cambio. Nessuno rifiutò di dare uno shock prima che questo raggiungesse i 300 volt.

Lo stupefacente grado di obbedienza ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, ma NON a sentirsi moralmente responsabili delle loro azioni, IN QUANTO esecutori dei voleri di un potere esterno. Come a dire… è responsabile solo chi comanda e non chi ubbidisce!

Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere ad una autorità. La psicologia sociale ci ha dato una grande lezione: a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni” (Milgram, 1974).

A questo punto ti ripongo la domanda: se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica a uno sconosciuto… ubbidiresti fino a qualche voltaggio?

Per FORTUNA OGGI sembra andare TUTTO STORTO…

Ci sono giorni in cui tutto inizia in modo sbagliato. Non trovi nulla da indossare, nonostante la cabina armadio straripi di vestiti, l’unico che vorresti mettere è in tintoria. La corrente elettrica ti abbandona e ti tocca aprire a mano il garage per far uscire l’auto, e la conferma di avvio di un progetto latita. Oggi è una di quelle giornate.

Poi inizio a lavorare e il mio cliente prima ancora di sedersi mi chiede “Perché a volte sembra che tutto vada storto?”.

E già solo ascoltare la domanda, mi rasserena. Mentre penso alla relatività delle cose e al bisogno umano di avere il controllo sugli accadimenti. Quando il controllo lo abbiamo piuttosto raramente.

Abbiamo la presunzione di averlo, una beata illusione. Forse abbiamo il controllo del volume della suoneria dello smartphone e dell’aria condizionata, ma non a molte più cose. E’ evidente che ognuno di noi si illude di avere il controllo sulla propria vita, quando in realtà quasi nulla è in nostro potere.

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. Tanto che la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, ad essere sinceri. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un pugno in pieno viso è stare giù dal ring.

Tenere la guardia alta, è faticoso. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi siamo costretti a fare continuamente: monitorare (l’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (delle azioni e dei movimenti).

Scendiamo dal ring. Cosa ci insegnano fin da piccoli? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Cosa vogliamo a tutti i costi evitare attuando questa strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di pugno che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore, per altri con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, una luce attira la tua attenzione, giri gli occhi e ti ritrovi al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto crolla. Come un castello di carte al soffio del vento. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove. Spesso è solo allora che accadono cose buone.

Il mio cliente è qui a richiedermi una consulenza proprio per evitare che quel pugno arrivi, affinchè possa diventare ancor più bravo a prevenire, anticipare e controllare. Quasi una missione impossibile. Non è quella la soluzione vincente.

Mentre le parole vagano nella stanza, fra coaching e consulenza, gli interrogativi si dipanano. Le domande scrostano certezze ataviche, quelle di entrambi.
E mentre saluto il cliente, sorridendo ripenso alla mia giornata. Per fortuna è stato un giorno in cui tutto è andato storto…

ERRARE E’ UMANO, AMMETTERLO è DIABOLICO (ma NECESSARIO)

Gli errori sono dolorosi. Soprattutto in un periodo storico in cui l’evidenza dell’errore è disponibile su internet h24. Insomma, sottrarsi al giudizio e all’accusa è quasi impossibile.

Gli errori sono dolorosi e inevitabili. Il trucco per soffrirne meno, non è non sbagliare ma sbagliare bene, riconoscendo la nostra fallacia e trarne insegnamento. Farne, direbbero in molti, lezioni imparate.

Prendersi la responsabilità dei propri errori è cosa ardua, più ancora che non sbagliare. A pochi piace essere colti in fallo. E pur di evitare la pubblica flagellazione, spesso ci rifiutiamo persino di prendere in considerazione le prove dell’errore.

Gli economisti per decenni hanno sbandierato a gran voce la razionalità umana, assumendo che di fronte a un nuovo dato di fatto, le persone rivedono la loro visione del mondo. Un numero infinito di studi ha dimostrato l’altrettanto numero infinito di modi in cui la mente umana si allontana, invece, dalla razionalità.

Una ricerca del 2016, condotta da Bénadou (università di Princeton) e Tirole (Toulouse school of economics) ha mostrato come invece le convinzioni assomiglino a beni economici: “le persone spendono tempo e risorse per costruirle e gli attribuiscono un valore. La convinzione che una persona sia un buon venditore può creare la fiducia necessaria a concludere delle vendite. Eppure, poiché le convinzioni non sono semplici strumenti utili per prendere decisioni buone, nuove informazioni che le mettono in dubbio, non è bene accetta”.

Quindi cosa facciamo? Ci impelaghiamo in “ragionamenti motivati” per gestire sfide di questo tipo. I due ricercatori hanno identificato 3 categorie:
– l’ignoranza strategica: quando si evitano informazioni che offrono prove in conflitto con la propria credenza
– la negazione della realtà: quando le prove che pongono nuovi problemi sono allontanate razionalmente
– l’auto segnalazione: quando si creano strumenti per interpretare i fatti come meglio si crede

I ragionamenti motivati sono distorsioni cognitive, bias, a cui siamo soggetti tutti, in particolare le persone dall’istruzione elevata.

Non sempre, queste distorsioni, portano a errori gravi: sostenere la superiorità di una squadra di calcio anche se le prove dicono il contrario, non ha grandi conseguenze. Se però le distorsioni sono condivise all’interno di una realtà organizzativa in difficoltà, nei mercati finanziari o nei partiti politici, il pericolo può non essere trascurabile.

Abbassare il prezzo da pagare per l’ammissione di un errore potrebbe essere un modo per disinnescare bias di questo tipo. La rivista Econ Journal Watch ha chiesto a influenti economisti di presentare le dichiarazioni di cui si rammaricano di più. Alcune analisi sono state illuminanti come quella di Tyler Cowen, noto economista statunitense (esponente della scuola austriaca, docente alla George Mason University, nonché editorialista economico per il New York Times), in cui ha spiegato come e perché avesse sottostimato i rischi della crisi nel 2007.

Esercizi di questo tipo, se condotti con regolarità, potrebbero eliminare la vergogna di dover cambiare opinione. Pur considerato che scusarsi pubblicamente è rischioso in quanto fornisce materiale di propaganda agli avversari ideologici e infastidisce i colleghi dalle simili visioni.

Nel tempo però l’autocensura erode la fiducia. Insomma pretendere di non sbagliare mai, non attira i consensi e non conviene neppure a chi ha ragione.

Ho guardato in VOLTO la POVERTA’ e ho avuto PAURA

Ci ho pensato ieri mentre, quasi involontariamente, cercavo l’auricolare del telefono, uno dei tanti oggetti che dimentico ovunque, ogni giorno. E’ facile, pensavo, perdere oggetti nella civiltà delle migliaia di cose.

Negli States uno studio di qualche anno fa ha stabilito che in una casa ci sono mediamente 300 mila oggetti, dal pettine alla saliera. Nel Regno Unito, un bambino entra in contatto in media con poco meno di 250 giocattoli, anche se gioca con non più di una dozzina. E una ricerca di una compagnia di assicurazioni britannica sostiene, dati alla mano, che passiamo in media dieci minuti al giorno a cercare cose che perdiamo: in una vita possono essere persi 200 giorni alla ricerca di qualcosa. Quasi nulla, se paragonati ai duemila che passiamo comprando cose.

Abbiamo migliaia di cose, mentre miliardi di persone non hanno quasi nulla. E non è stato necessario andare troppo lontano da casa per scoprire che i tanti che non hanno migliaia di cose, sono anche qui.

Non mi sono mai resa bene conto di quanto sono fortunata. Una bella casa, un buona istruzione, un lavoro interessante, viaggi, hobby, amici. E tante cose non necessarie. Mi arrabbio quando il mio ristorante preferito non ha un posto libero nel momento in cui decido che cenerò lì, o nell’hotel pentastellato sbagliano a portarmi il latte. Rigorosamente di riso.

E poi c’è chi è disposto a qualunque cosa per poche centinaia di euro ogni mese. Barattare la salute, se non la vita stessa.

Storie tutte uguali che non si somigliano, direbbe qualcuno. O come scriveva Lev Tolstoj in Anna Karenina Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo. Eppure in quel disastroso compromesso di infelicità e fame, non ci avevo mai guardato. Lo avevo ignorato o forse avevo creduto non esistesse. La povertà mi ha sempre fatto paura. Ne sono diventata consapevole all’improvviso. La respiriamo mentre incuranti camminiamo per strada, sui mezzi pubblici, ne leggiamo sui giornali e ce lo sbattono in faccia i talk show. Eppure non la vediamo.

In una parola siamo diventati aporofobici, abbiamo cioè sviluppato una nuova avversione: la paura verso i poveri (dal greco aporos, colui che non ha risorse). A coniare questo termine la filosofa spagnola Adele Cortina, non a caso la parola dell’anno 2017. Curioso il contrasto con quella del 2014 che era selfie.

Aporofobia non indica nulla di nuovo, ma ridà fuoco a una paura atavica che si attiva ogni volta che entriamo in un periodo di crisi economica, quei periodi che possono tirare fuori il meglio e il il peggio dell’essere umano.

Ogni tanto chiamare le cose con il loro vero nome è liberatorio, necessario, vitale, anche se non è sufficiente a far scomparire ciò che non ci piace, qualcuno lo chiamerebbe sortilegio. Sapere che esiste l’aporofobia non eliminerà il rifiuto dei poveri, ma almeno è il primo passo per diventare consapevoli del problema. E il modo migliore per togliersi le maschere sociali. E dare il giusto valore alle cose che si hanno e ancor più a quelle che non si hanno ma non sono necessarie.

Abbiamo vissuto per millenni con poche cose davvero necessarie, ottenute a fatica, che conoscevamo e apprezzavamo. Adesso le cose non significano nulla: si possono buttare, sostituire, non vale la pena aggiustarle o ripararle perché è più facile e più economico comprarne altre. E niente ci piace più di comprare altre cose.

Il paradosso è che il sistema economico mondiale ha bisogno che noi abbiamo bisogno di sempre più cose, perché vive della loro produzione. E’ come un aereo: se non vola a ottocento chilometri all’ora si schianta. Se ci organizzassimo per fare un uso razionale delle risorse, milioni di persone avrebbero gravi problemi. O magari inventeremmo qualcosa che fa bene a tutti: a volte succede.

PERCHE’ DIMENTICHIAMO la RAGIONE per la quale SIAMO ENTRATI in una STANZA?

Vi è mai capitato di entrare in una stanza e dimenticare la ragione che vi ha portato fin lì? A me tantissime volte. Ed è per questo che ho chiesto alle neuroscienze di spiegarmi questo scherzetto che ci gioca la mente. Ho scoperto così che la capacità di ricordare diminuisce dopo che abbiamo oltrepassato la soglia di una porta rispetto a quando abbiamo coperto la stessa distanza rimanendo nello stesso ambiente. 

Questo è quanto hanno dimostrato i ricercatori dell’Università dell’Indiana, in due termini: “doorway effect”, effetto della porta.

Indispettiti da questa frustrante esperienza gli studiosi hanno organizzato un esperimento in cui chiedevano a dei volontari di muoversi in un ambiente virtuale. Di tanto in tanto i partecipanti dovevano raccogliere un oggetto e poi farlo sparire alla loro vista. Dopo un po’ veniva chiesto loro cosa avessero preso. Risultato: i volontari impiegavano più tempo a ricordare l’oggetto ed erano meno precisi nel descriverlo se dopo averlo raccolto avevano cambiato stanza.

L’esperimento, ripetuto anche in stanze reali, ha confermato la tesi: ricordiamo di meno, dopo che abbiamo varcato la soglia di una porta rispetto a quando abbiamo coperto la medesima distanza restando nello stesso ambiente.

Quando ci muoviamo il nostro cervello costruisce un modello provvisorio dell’ambiente in cui siamo e di quello che pensiamo e facciamo in quel luogo. Immagazzinare diversi modelli contemporaneamente è uno spreco di energie.

“Un nuovo ambiente può richiedere abilità diverse, per questo è meglio concentrare la memoria su quello in cui ci troviamo al momento – ha spiegato G. Radvansky, il professore a capo della ricerca -. Varcare una soglia ci spinge a sostituire un modello con un altro. Questo cambiamento fa aumentare la probabilità di dimenticare ciò che è successo nella stanza in cui si era precedentemente”.

A innescare questo effetto, non sono ovviamente solo le porte: può succedere anche quando passiamo dalla montagna alla città, dalla strada principale a una secondaria, da un piano a quello sottostante.

Per essere pratici… la vita sarebbe impossibile se ricordassimo ogni cosa. Tutto sta a scegliere quello che si deve dimenticare. Se ce lo ricordassimo…

QUANDO uno SBAGLIO TIRA l’ALTRO…

Sbagliando si impara, dice un vecchio proverbio. E se da uno sbaglio ne scaturisse un altro?

George Buzzell, psicologo alla Mason University di Fairfax, Virginia, ha monitorato l’attività cerebrale di 23 persone impegnate a svolgere un compito impegnativo: cerchi concentrici lampeggiavano per breve tempo su uno schermo e i partecipanti dovevano rispondere con una mano se si trattava di cerchi dello stesso colore, con l’altra se le tonalità erano diverse.

Dopo un errore, i partecipanti risposero in modo corretto alla domanda successiva se era stato dato loro almeno un secondo di tempo per recuperare. Quando però la domanda successiva veniva somministrata dopo 0,2 secondi dall’errore, la precisione scendeva del 10%. L’attività elettrica registrata dalla corteccia visiva aveva mostrato che i partecipanti facevano meno attenzione alla prova successiva appena fatto l’errore, al contrario di cosa accadeva se avevano risposto correttamente.

Secondo i ricercatori la richiesta cognitiva di notare e processare l’errore sembrava distogliere l’attenzione che, diversamente le persone avrebbero dedicato al compito, come se il cervello fosse andato temporaneamente offline, condizionando la precisione della scelta successiva.

“Solitamente alle persone è dato tempo per riflettere, anche pochi secondi, su un errore – rafforza Jan Wessel, psicologo all’Università dell’Iowa – prima di dover prendere un’altra decisione. Ma in alcune attività, come la guida o il suonare uno strumento musicale, costringono le persone ad avere a che fare con errori in successione molto velocemente, pur continuando ad eseguire correttamente il resto del compito. Queste azioni potrebbero spostare i limiti di elaborazione degli errori”.

Dagli errori, dunque, si può e si deve imparare. Ma non va dimenticato che il cervello necessita di tempo per apprendere l’insegnamento. E quando è di fronte a un flusso rapido e costante di decisioni da prendere, anche una distrazione di un secondo, come quella di notare un errore può diminuire la precisione con cui si fa una scelta successiva. Lo studio, pubblicato sul “Journal of Neuroscience” cambia un altro paradigma.

Sbagliando si impara, se ci si dà il giusto tempo di elaborazione!