TI ANNOI AL LAVORO? NON SEI IL SOLO!

Mi annoio facilmente. Da sempre. E questo mi porta a diversificare lavori, divertimenti e letture. E devo dire che funziona. Per la maggior parte delle volte.

Leggendo qua e là studi a riguardo ho scoperto che la noia è un problema che attanaglia molti più di quanto avrei mai pensato. Da un sondaggio condotto in America nel 2017 è emerso che è una condizione vissuta particolarmente sul luogo di lavoro. Alcuni leggendo questo avranno fatto un salto sulla sedia… Come è possibile annoiarsi al lavoro… di solito, per molte occupazioni almeno (e condivido totalmente), non c’è neppure tempo di respirare… altro che annoiarsi. Eppure anche i lavori più interessanti hanno sfaccettature di attività che inducono alla noia…  

Ebbene, dal sondaggio è emerso che le persone che sul luogo di lavoro si annoiano, tendono a scacciare questa condizione navigando in internet, mandano messaggi, mentre (fatto curioso) il 37% rimanente, guarda la TV sullo smartphone. Come una ex dipendente della società cinematografica di Robert De Niro Canal Productions che in quattro giorni ha guardato 55 episodi di “Friends”, tutti in orario di lavoro (se siete interessati a saperne di più: https://variety.com/2019/biz/news/robert-de-niros-company-files-6-million-suit-against-ex-employee-1203305958/?__twitter_impression=true).

E’ inoltre noto che la noia porta a bassa motivazione, errori inutili, mancanza di produttività e a sviluppare incidenti… in un negozio di biciclette del Regno Unito, alcuni lavoratori annoiati tentarono di scappare dalla monotonia cremando un topo.

Prima di dar fuoco a roditori morti per sentirsi vivi, vediamo cosa suggerisce la scienza. Un paper pubblicato su Current Directions in Psychological Science indica una soluzione virtuosa e controintuitiva al guardare film sul telefonino: cercare un modo per rendere il lavoro più interessante.

Sicuramente  molti di noi ci avevano già pensato, il problema è come questo sia possibile… aggiungo io!

PERCHE’ CI ANNOIAMO

Lo psicologo sociale dell’Università della Florida Erin Westgate, spiega che sono due le principali cause che portano ad annoiarci: “Ci annoiamo quando non siamo in grado di prestare attenzione o non riusciamo a trovare un significato in ciò che stiamo facendo”.

Potremmo avere problemi a prestare attenzione al nostro lavoro perché è troppo facile o troppo difficile, per dirla in altre parole. Potremmo annoiarci inserendo meccanicamente dati in un sistema, così come tentando di risolvere un problema matematico particolarmente difficile.

E potremmo annoiarci quando sentiamo che il nostro lavoro non è importante: o come lo chiama l’antropologo David Graeber bullship jobs, a indicare occupazioni soggettivamente insignificanti e insoddisfacenti. Quando abbiamo a che fare con questo tipo di noia, è facile sentirsi soli, tristi e disimpegnati come se fossimo in un film d’arte, ma senza l’estetica raffinata e la capacità di apparire cool.

TROVARE UNO SCOPO

Anche se il lavoro che si sta svolgendo è poco significativo, trovare uno scopo è una delle soluzioni più semplici e pratiche che la docente di management di Yale, Amy Wrzesniewski suggerisce. In un termine “job crafting.” Ad esempio, ha scoperto come gli inservienti ospedalieri che hanno compreso l’importanza del loro lavoro sono profondamente più soddisfatti di chi invece porta a termine i compiti meccanicamente. Potendo interagire con i pazienti hanno così anche la possibilità di farli stare meglio.

Un altro consiglio arriva dalla giornalista (ed ex avvocato) Ephrat Livni: considerare il lavoro come un gioco, trovando modi per apprezzare e valorizzare qualunque attività ci venga retribuita. Così come possiamo rendere più sfidante una attività particolarmente noiosa.

L’ANTIDODO ALLA NOIA

Il punto più importante del paper riguarda le diverse tipologie di attività che siamo portati a fare pur di allontanare la noia.

Ciò che la nostra mente ci induce a fare è quello di passare a qualcosa di più divertente, come scorrere Instagram, giocare sul telefono o guardare 55 episodi di Friends. Eppure, saltarellare da una attività piacevole all’altra non sembra essere un buon antidoto alla noia. Anzi un aggravante nel lungo termine.

I diversivi infatti sono un po’ come il cibo spazzatura, danno soddisfazione sull’immediato a scapito del benessere futuro.

In altre parole, quando scegliamo una nuova attività, dovremmo indirizzarci verso quella che richiede ai nostri cervelli di fare più lavoro, non meno. Ciò che consigliano i ricercatori è quello di guardare un documentario sull’Olocausto – certamente non divertente, ma probabilmente coinvolgente – piuttosto che immergersi in giochi quali Candy Crush.

Estendendo questa logica al contesto del lavoro, un professore che si annoia mentre scrive lettere di raccomandazione per gli studenti potrebbe fare una pausa leggendo dei documenti che parlano di nuove scoperte nel suo campo. Questo potrebbe rinvigorire il suo investimento nell’aiutare i nuovi talenti ad avere successo e cambiare il suo approccio nel redarre raccomandazioni.

Insomma sconfiggere la noia è quasi impossibile, però possiamo mitigarla e gestirla noi, anziché lasciare a lei l’ultima parola!

POST VACATION BLUES. Quando rientrare al LAVORO genera STRESS

Post vacation blues, così lo chiamano gli inglesi. Lo stress da rientro, da fine vacanza. Chi non lo ha vissuto almeno una volta, alzi la mano…

Calo dell’attenzione, mal di testa, apatia, svogliatezza, problemi digestivi, tachicardia, irritabilità sono alcuni dei sintomi che ci invadono quando al suonare della sveglia ricordiamo che il lavoro è lì che ci aspetta, con tutti i suoi pro e contro. E in un attimo abbiamo l’impressione che le tranquille giornate al mare o le piacevoli camminate in montagna non siano mai esistite o peggio… balena in testa che forse era meglio non andare proprio in vacanza se le conseguenze sono queste.

Anche se non è di grande aiuto il post vacation blues colpisce in media un italiano su 10. Mentre una ricerca della Radboud University nei Paesi Bassi, sostiene che è sufficiente un lunedì lavorativo dopo le ferie per far svanire i benefici del riposo appena goduto. Gli studiosi hanno chiesto al campione di ricerca di evidenziare il personale stato di benessere generale due settimane prima delle vacanze, in vacanza e due settimane dopo il rientro: i risultati hanno rivelato che i livelli di soddisfazione psicofisica sono andati in picchiata una volta rientrati sul luogo di lavoro.

PERCHE’ DIVENTIAMO VITTIME DI QUESTO BLUE MOOD?

Per molti la vacanza è sinonimo libertà. Solo in questo periodo riescono ad annullare il pilota automatico dell’abitudine. Al rientro delle vacanze ecco che possono sorgere domande quali “perché svolgo proprio quel lavoro”, “perché faccio tutte queste cose?”, insomma si mettono in discussione quelle abitudini che non solo altro che adattamenti comportamentali, attività che vanno in automatico.

Tornare al lavoro è più facile per le persone molto abitudinarie perchè per loro riappropriarsi dei soliti cari ritmi è fonte di tranquillità e pace. Infatti il cervello ama crogiolarsi nella sua confort zone e i cambiamenti hanno solo la capacità di destabilizzarlo.

Il post vacation blues in ogni caso è un passaggio fisiologico che svanisce in pochi giorni. Il nostro organismo è infatti progettato per adattarsi rapidamente al cambiamento.

TRE CONSIGLI SU COME PREVENIRE e/o RIDURRE LO STRESS DA RIENTRO

COGLI L’OPPORTUNITA’ PER CAMBIARE ABITUDINI

Per superare lo stress da rientro è fondamentale pensare che il ritorno al lavoro sia un’occasione per rinnovare alcune abitudini, ripensare ad alcune modalità, scegliere strategie e direzioni diverse, per sentirsi più padroni del proprio tempo e della propria rotta.

ANALIZZA LE EMOZIONI

Dedica un tempo maggiore del solito a pensare prima di agire. Non buttarti subito nell’operatività impulsiva del lavoro o delle diverse attività che costellano la tua quotidianità, riprendi a piccoli passi, con gradualità. Non stare a sentire il grillo parlante nella tua testa che ti rimprovera di essere in ritardo, di essere lento, di essere stato in vacanza.

FAI MOVIMENTO

Se si è trascorsa una vacanza con camminate o sport rigeneranti, è importante continuare a fare sport e a dedicarsi a quelle attività così salutari, soprattutto per la mente, anziché relegarle a divertimenti esclusivamente estivi.

A questo punto, non  ci resta che aspettare la prossima vacanza…

COME andare d’ACCORDO con chi ha VALORI tanto DIVERSI dai NOSTRI

Persone con valori differenti possono andare d’accordo?

In un momento storico così ricco di odio e recriminazioni, è difficile crederlo. Tutti interessati a proteggere i propri stereotipi, le proprie posizioni ideologiche, le proprie univoche visioni e cercare di vincere anzi annientare l’altro in virtù di chissà quale premio o soddisfazione…

Eppure le dispute che hanno a che fare con i valori sono spesso molto complesse da risolvere. Perché? Perché i valori rappresentano quel sistema di convinzioni riguardo a ciò che crediamo giusto e sbagliato, bene e male e impatta costantemente sulle nostre decisioni e scelte personali.

Chi si occupa di negoziazione sa che le controversie e le liti sui valori, non possono essere risolte in modo tradizionale. Occorre lavorare molto per ampliare la possibilità di considerare le visioni contrarie meno distanti e insegnare modi per convivere nelle differenze.

In molti negoziati, entrambe le parti sono consapevoli dei reciproci interessi e sono disposte a impegnarsi per raggiungere un accordo che le soddisfi entrambe. Nei conflitti relativi all’identità personale, credenze o valori profondamente radicati, le dinamiche di negoziazione possono diventare più complesse e richiedere tattiche alternative di risoluzione. Le parti potrebbero non essere disposte a concedere alcuna concessione che aiuti l’altra, anche se ciò comporta una perdita da ambo i lati.

Insomma si è molto meno disposti a negoziare. Perché negoziare significherebbe tradire quelle convinzioni per le quali si crede così profondamente da essere persino spinti a uccidere.

Dalla Harvard Law School, ci vengono in aiuto 4 strategie per gestire proprio questo tipo di conflitti.

  • Prendi in considerazione interessi e valori separatamente: separa la persona dal problema e al tavolo delle trattative affronta le questioni individualmente. Determina il valore che la controparte dà alla sua posizione e contratta di conseguenza. Cerca di capire perché quel valore è per lei così importante.
  • Impegnati a costruire relazioni vincenti: cerca di costruire un rapporto  basato sui valori e sugli interessi comuni. Ricerca cosa unisce e non cosa divide
  • Appellati a valori: fare appello a valori comuni o condivisi può aiutare a colmare il divario al tavolo della contrattazione avvicinando le rispettive posizioni. Stabilendo un terreno di negoziazione comune, è possibile iniziare a creare valore (e rivendicare più valore).
  • Affronta direttamente le differenze: comprendere le differenze è di aiuto per raggiungere il successo nella negoziazione.

Anche nei casi in cui la risoluzione non sia possibile, questi quattro approcci consentiranno una maggiore comprensione tra le parti  e chiariranno dove si trovano le reciproche differenze di identità e di valori.

Se volessi saperne di più, ti consiglio di leggere: Risoluzione delle controversie, Lavorare insieme per la risoluzione dei conflitti (Harvard Law School).

THERE IS NO ALTERNATIVE…

There are phrases that have the power not only to leave their mark, but even to stop events. To cut off legs, to take your breath away. One of these is “there is no alternative”

How many times have we heard it and how many times have we even said it ourselves. Frustrated and incapable of looking at the matter or the opportunity from a different perspective.

There is no alternative to policies of austerity, to market opinion, to closing doors, to dictatorship, to unemployment, to suffering, to ignorance. It is also the most common expression used to persuade us to vote for parties that are difficult to vote for, as well as the phrase most loved by tyrants. Of those who need people to not believe that a different society is possible. And that if there were ever an alternative, it would be dangerous.   

In the ’80’s it became the favourite slogan of Conservative Prime Minister Margaret Thatcher, who led the United Kingdom from 1979 to 1990. The expression is so common that it has an acronym: T.I.N.A.: there is no alternative.

It is easy to understand why. If there are no alternatives, only one choice is possible. Maybe the one imposed, proposed, submitted. Therefore, we do not even have to bother disproving it. Nailed to the dictatorship of the present, we risk dissolving the space of the possible.

Freeing me from confused thoughts, the Danish philosopher Kierkegaard comes to my aid, by upholding that man becomes what he is as a consequence of his choices. Furthermore, doing without the choice, in the concrete situation of existence, is, in reality, a choice.

“Imagine the captain of a ship the moment a shift of direction must be made. If he is not a mediocre captain, he will also be aware that during all this the ship is ploughing ahead with its ordinary velocity and thus there is but a single moment when it is inconsequential whether he does this or that. So also with a person, if he forgets to take into account the velocity, there eventually comes a moment when it is no longer a matter of an either/or, no because he has chosen, but because he has refrained from it. Which can also be expressed by saying: because others  others have chosen for him, or because he has lost himself….” 

I think I have no alternative, it does not represent the magnitude of a man, but his permanent tragedy. And it isn’t even a question of trust. Actually, the complete opposite!

 

La versione italiana:

Ci sono frasi che hanno il potere non solo di segnare, ma addirittura di fermare gli eventi. Di tagliare le gambe, togliere il fiato. Una di queste è “non esiste alternativa”.

Quante volte l’abbiamo sentita e quante volte l’abbiamo pronunciata anche noi. Frustrati e incapaci di guardare al problema o all’opportunità da una angolazione differente.

Non c’è alternativa alle politiche di austerità, al giudizio dei mercati, alla chiusura dei porti, alla dittatura, alla disoccupazione, alla sofferenza, all’ignoranza. E’ anche l’espressione più usata per convincere a votare partiti difficili da votare, nonché la frase più amata dai tiranni. Di coloro che hanno bisogno che le persone non credano possibile una società diversa. E se mai ci fosse alternativa, sarebbe pericoloso.   

Negli anni ’80 diventò lo slogan preferito da Margaret Thatcher, la premier conservatrice che guidò il Regno Unito dal 1979 al 1990. Espressione così diffusa che ne venne coniato un acronimo: T.I.N.A.: there is no alternative (non ci sono alternative).

E’ facile da comprendere il perché. Se non ci sono alternative, solo una scelta è possibile. Magari quella che ci è stata imposta, proposta, sottoposta. Così non dobbiamo neanche fare fatica a confutarla. Inchiodati alla dittatura del presente, rischiamo di far dissolvere lo spazio del possibile.

A venire in soccorso, liberandomi dagli ingarbugliati pensieri è stato il filosofo danese Kierkegaard, sostenendo che l’uomo diventa ciò che è come conseguenza delle sue scelte. Del resto, fare a meno della scelta, nella concreta situazione dell’esistenza, è in realtà una scelta.

“Immagina un capitano sulla sua nave nel momento della battaglia. Se non è un capitano mediocre, si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia una scelta o un’altra. Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà di scelta, non perchè ha scelto, ma perchè non l’ha fatto. Il che si può anche esprimere così: perchè gli altri hanno scelto per lui, perchè ha perso se stesso…”.

Credere di non avere alternative, non rappresenta la grandezza in un uomo, ma il suo permanente dramma. E non è neppure una questione di fiducia. Anzi, tutto il contraio!

 

 

 

Se dici “SMETTO QUANDO VOGLIO”, non sai come FUNZIONA il CERVELLO…

Perché le etichette dissuasive, le immagini cruente di polmoni neri, le bocche sfregiate da tumori invasivi e i messaggi direttivi sui pacchetti di sigarette non hanno effetto sulla voglia di fumare dei fumatori?

Ve lo siete mai chiesto? 

Quelle stesse immagini e quei messaggi hanno il potere di stimolare una precisa area del cervello dei fumatori, il Nucleus Accumbens, o centro del desiderio, che si attiva quando l’organismo desidera qualcosa. Alcol, droghe, tabacco, sesso o gioco d’azzardo. Anzichè frenarlo!

Quando è stimolato il Nucleus Accumbens richiede dosi sempre più alte per esser soddisfatto.

I risultati di numerosi studi scientifici hanno dimostrato che le immagini dissuasive non solo non riuscivano a distogliere dal fumo ma di fatto incoraggiavano i fumatori ad accendersi un’altra sigaretta.

La maggior parte dei fumatori intervistati durante questi studi rispondevano sì alla domanda se le etichette e le immagini dissuasive funzionassero, contemporaneamente però si sentivano in colpa per il fatto che le etichette stimolassero le aree del desiderio nei loro cervelli. Solo che la loro mente cosciente non riusciva a stabilire la differenza. Sapevano che immagini e messaggi erano dissuasori, eppure guardandoli provavano voglia di fumare.

In parole povere….ciò che deve dissuadere, in taluni casi, è un formidabile strumento di marketing… Se non vuoi che un fumatore smetta di fumare, metti in bella vista il pacchetto di sigarette. Qualunque immagine o parola ci sarà stampata sopra, non avrà presa sul desiderio crescente di mettersi in bocca una sigaretta.

Saperlo forse non aiuterà a smettere di fumare ma a intercettare per boicottare, almeno parzialmente, quella spasmodica voglia di prendere fra le mani una sigaretta….

Le PENE d’AMORE NASCONO dal CERVELLO (e non dal CUORE)

Mi manca. Lei mi manca. Non l’idea di lei, ma lei. E questa assenza mi accompagna come un fedele servitore, con una dovizia di particolari che non sono frantumabili. Non mi lascia spazio. Impedendomi di vedere le cose di sempre, per quello che sono: semplici oggetti dai banali significati.

La sua assenza mi perseguita. Attendo di sentire il ticchettio dei tacchi, la sera. Ne bramo il ritorno. La cena che si consuma nella solitudine è una tremenda tortura che non avevo considerato. La notte mi possiede, impedendomi di vedere arrivare il giorno. Un letto troppo grande per essere vissuto. Da me solo.

Rifletto e sragiono. Lei mi manca. Mi manca troppo per pensare a qualcosa diverso da lei.

Il dolore che provoca un amore perduto è lo stesso di quello provocato da una ferita: in entrambi i casi si attivano le medesime aree neuronali; esperienze fisiche dolorose lasciano lo stesso tragico segno di un tradimento, un rifiuto, un amore giunto al capolinea.

La sofferenza parte non dal cuore, ma dal cervello. Ce lo dimostra la scienza attraverso uno studio condotto da Ethan Kross dell’Università del Michigan che ha sottoposto a risonanza magnetica, un gruppo di volontari, invitati a visionare una foto dell’amante perduto prima e sottoposti poi ad un test in cui veniva inflitto loro dolore fisico tramite stimoli termici. Il risultato non ha lasciato dubbi: la rottura di una relazione genera lo stesso dolore di una scottatura.

Ora sappiamo che oltre a generare un dolore psicologico, l’amore perduto fa anche male fisicamente. Tutto nasce dal fatto che, in entrambi i tipi di dolore, si attivano nel cervello la corteccia secondaria somatosensoriale e l’insula dorsale posteriore, aree legate finora solo a stimoli fisici dolorosi. 

Il cuore ha ahimè un ruolo piuttosto marginale: tutto parte dal cervello, che crea uno stato di sofferenza, con il risultato che le pene d’amore bruciano parimenti a quelle del corpo.

Noi siamo le nostre passioni, è una frase che non è mai stata così vera e predittiva. L’idea che chi soffre per amore patisca un dolore, anche fisico, già veniva sostenuta da Freud: “l’Io, prima di ogni altra cosa, è corporeo e non esiste quindi una scissione tra mente e corpo ma un’integrazione di vissuti che si manifestano attraverso diversi linguaggi che hanno una stessa grammatica”.

Nella società odierna, dove ogni desiderio è presentato come realizzabile, è andata perduta la capacità di tollerare il conflitto, la tristezza, il limite e quindi si vive nella consumazione dell’istante e nell’impossibilità di accettare che un progetto possa riuscire ma anche fallire. Pochi sanno tollerare una frustrazione: si vive in un mondo che pubblicizza e vende come merce felicità, bellezza, immortalità.

L’amore non dovrebbe dunque essere sinonimo di possesso ma consistere nell’essere flessibili, nel trovare uno spazio intermedio in cui coltivare similarità e differenze. Il dolore della perdita, non sarebbe così eliminato ma potrebbe diventare la spinta verso un nuovo modo di essere (di nuovo) felici. Reinventandosi.

NO, i PIU’ INTELLIGENTI NON SIAMO NOI.

Mettete una farfalla femmina nel periodo fertile, in un contenitore trasparente e accorreranno molti maschi della stessa specie. Sparate un colpo di fucile in prossimità di uno stormo di uccelli e voleranno via. Fischiate e un cane addestrato verrà da voi.

Per comprendere il perché di molti nostri comportamenti, non c’è studioso che non faccia un confronto con gli animali. Così come gli etologi si rifanno all’uomo, anche laddove ci sono più differenze che affinità.

Sono passati, per esempio, un bel po’ di anni da quando Jane Goodall notò per la prima volta che gli scimpanzé usavano strumenti utili alla loro vita quotidiana: steli, piccoli rami ripuliti dalle foglie, per immergerli in un termitaio e mangiare così più facilmente le termiti. Prima di allora – era il 1961 – si pensava che quella fosse la principale caratteristica dell’uomo, ciò che ci distingueva dagli animali. Oggi, si sa che gli orsi greezly, fanno altrettanto. Ma la ricerca sul comportamento degli animali ha avuto nuove e ben più illuminanti prove delle capacità animali.

Le orche hanno imparato a comunicare con i delfini. Tradotto per noi umani, sarebbe come se riuscissimo a parlare con il gatto o il cane. “I suoni che gli animali usano per comunicare sono innati, e non si imparano. Alcune specie tuttavia, tra cui gli uomini, possono imitare nuovi suoni e usarli in contesti sociali appropriati. Questa capacità, nota come “vocal learning” è un precursore del linguaggio. Adesso, con questa ricerca abbiamo stabilito che le orche hanno questa capacità e la usano con i delfini, e che sono così in grado di modificare i suoni che emettono per essere comprese da un’altra specie”, ha spiegato l’Acoustical Society of America nel presentare questa scoperta.

Gli oranghi del Borneo hanno invece imparato come rubare le imbarcazioni degli umani, le guidano con le lunghe braccia e sfruttano il sistema di pesca degli uomini per mangiarsi i pesci.  Come raccontano i ricercatori, gli oranghi hanno imparato a rubare le canoe sciogliendo anche i più complicati nodi, e arrivando a scoprire il trucco di uno di loro che, per evitare il furto, aveva fatto affondare l’imbarcazione riempiendola d’acqua. L’orango l’ha sollevata, l’ha svuotata e se n’è andato.

Secondo uno studio pubblicato su Current Biology, uno stormo di uccelli è stato in grado di evitare una tempesta lontana 900 km, prevedendone lo spostamento, e scappando in tempo per evitarla. La tempesta colpì gli Usa nel 2013 uccidendo 35 persone, e gli uccelli studiati hanno tutti agito in maniera indipendente per sfuggirle. Secondo i ricercatori, che sperano di poter un giorno prevedere catastrofi come questa studiando gli spostamenti degli uccelli, a metterli in guardia è stata la loro capacità di avvertire gli ultrasuoni.

In Cina  da anni si sta cercando di capire cosa renda possibile la previsione di un terremoto da parte dei serpenti. Non esiste ancora uno studio scientifico a riguardo, ma i ricercatori monitorano il comportamento i questi animali che – dicono – sono stati in grado di prevedere un terremoto a 120 km di distanza, tentando in tutti i modi di abbandonare i loro rifugi, anche in pieno inverno.

Insomma saranno pure soltanto animali, ma a me paiono molto più intelligenti di tanti umani che conosco!

PUNIRE gli ALTRI è un PIACERE al quale è DIFFICILE SOTTRARSI

Punire gli altri ci genera piacere. Lo stesso piacere viscerale che si innesca dall’anticipazione di un guadagno monetario, dal sesso, nelle tossicodipendenze o nei peccati di gola. Punire gli altri ci genera piacere anche se non ci reca alcun vantaggio immediato o può rivelarsi addirittura più costoso della violazione stessa. 

A dirlo è il nostro cervello che deve fare i conti con l’attivazione di una specifica area del piacere, della gratificazione e della ricompensa: il corpo striato, ricco di neuroni dopaminergici e connesso al sistema limbico (la parte del cervello più antica e deputata anche al delicato compito di processare le emozioni).

Quasi nessuno riesce quindi a rinunciare al piacere di dare una lezione a chi non si comporta bene, costi quel che costi, venendo meno alla razionalità e alla massimizzazione della propria utilità. 

In alcuni casi siamo addirittura disposti a pagare di tasca nostra, pur di punire, per il bene comune, chi trasgredisce e far nostro il sollievo che questo atto regala.

A dimostrarlo esperimenti sotto tomografia ad emissione di positroni (Pet) che hanno mostrato un aumento del flusso del sangue e quindi una attività molto intensa a livello cerebrale, nell’area deputata ad anticipare la gratificazione implicata da una azione diretta a uno specifico obiettivo. 

Più è intensa l’attivazione, maggiore è la disponibilità ad accollarsi alti costi pur di punire chi ha tradito la nostra fiducia. L’esperimento ha mostrato una correlazione positiva fra il grado di attivazione del corpo striato e la quantità di euro che si è disposti a pagare per punire, e di riflesso il grado di soddisfazione derivato dalla punizione.

Pur attivandosi in modo altruistico, reagendo per punire chi tradisce la cooperazione e quindi per indurre il soggetto punito a cooperare di più con gli altri in futuro, il cervello non agisce però per nobili motivi e alti ideali, ma più per una propria egoistica gratificazione viscerale. 

Speriamo che i “capi” dittatoriali non diano ora la colpa dei loro poco etici modi di trattare i collaboratori al corpo striato; ma usino la scienza per chiedersi quale carenza affettiva, il piacere della punizione, va a colmare.

Lo STRANO CASO dei NEURONI SOPRAVVISSUTI alla MORTE

Mentre il corpo veniva macellato e trasformato in bistecche, la testa viaggiava verso il laboratorio di neuroscienze di Yale a New Haven nel Connecticut per essere collegato a una macchina che pompava sangue artificiale. Allo scopo di mantenere in vita i neuroni.

Questo è l’esperimento, condotto su maiali, con l’obiettivo di “studiare la linea di confine fra la vita e la morte, la mente e il corpo”. A elettroencefalogramma piatto, i neuroni dei maiali anziché distruggersi in pochi minuti come solitamente avviene alla morte, sono rimasti attivi fino a 10 ore dopo il decesso.

L’esperimento, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, ha visto conservare il cervello in una  vasca larga all’incirca un metro, collegato da una estremità alle due carotidi e dall’altra al computer che gestiva l’irrorazione di sangue artificiale, contenente emoglobina e sostanze nutritive per le cellule.

Lo studio è durato dieci ore ma in teoria se si fosse continuato a irrorare i cervelli dei maiali, i neuroni avrebbero potuto rimanere in vita per un tempo più lungo.

Affinchè ci sia coscienza c’è bisogno di un’attività dei neuroni sincronizzata che comunicano e creano delle onde, invece durante l’esperimento ad attivarsi sono stati solo singoli isolati neuroni, tra l’altro dopo stimolazione elettrica.

Le cellule durante le dieci ore di attività hanno consumato zucchero, ossigeno e rilasciavano neurotrasmettitori, indice che le loro sinapsi erano funzionali. Ma qui finisce ogni paragone con ciò che chiamiamo vita.

I ricercatori, guidati da Nenad Sestan, su questo non hanno lasciato spazio a fraintendimenti: “Il ripristino di alcuni processi cellulari – sono le loro parole pubblicate su Nature – non significa recupero delle normali funzioni cerebrali. Al contrario, mai abbiamo osservato quel tipo di attività elettrica globale che associamo al concetto di coscienza, percezione o alle altre funzioni cerebrali superiori“.

Uno degli obiettivi di questi studi è usare dei neuroni attivi per testare farmaci contro Alzheimer, Parkinson e molte altre malattie del cervello. La presenza di percezione o coscienza spalancherebbe questioni etiche enormi non facilmente risolvibili“.

Capire quali sono le capacità di sopravvivenza dei neuroni in assenza di nutrimento – come avviene durante infarti e ictus – aiuterebbe i medici ad affrontare meglio i postumi di queste malattie.

Per studiare il cervello, in molti casi, sono necessarie tecniche anatomiche, ecco perché mantenendo attive alcune funzioni e aree cerebrali dopo la morte, aiuterebbe a studiare le connessione fra i neuroni e disegnare mappe funzionali. E chissà, magari anche a guardare con i nostri occhi, la coscienza.

PENSAVO FOSSE un Amico invece è un BUGIARDO PATOLOGICO…

Stalin, Cagliostro, Iago e infine l’inconscio. Solo alcuni dei grandi bugiardi della storia. Di Stalin c’è poco da dire, se non che cancellò la definizione stessa di verità e condusse un intero popolo a mentire: per terrore, necessità, abitudine.

Più simpatico ci è Cagliostro, capace di usurpare titoli nobiliari, frodare monaci e poveri, nonché anticipare la figura del medico impostore.

Iago di bugia ne disse una soltanto, a proposito di un sogno di Desdemona che spinse Otello a interpretare in modo sbagliato fatti veri. Fu il prototipo del manipolatore, dimostrando che l’arte più raffinata della menzogna è lavorare sul contesto e spostare i pezzi dell’insieme, oppure ometterne qualcuno. Costruire insomma la bugia con il vero che si ha a disposizione.

Infine l’inconscio, il più diffuso fra i bugiardi. Coltiva stupidi rancori infantili. Secondo alcuni è un poveraccio, per altri una leggenda. Ciò che pensa lo fa dire al conscio senza trovare mai il coraggio di mostrarsi.

E poi ci sono tutti gli altri che come comparse appaiano e scompaiono sulla scena, talvolta incapaci di dire la verità. Spesso negandola con la spudoratezza della cecità: mentono sulla realtà che non vedono e/o da cui hanno bisogno di sottrarsi. Ne conosciamo tutti qualcuno, audaci, famelici, coerenti nella bugia. Purtroppo però li riconosciamo solo una volta che siamo caduti in trappola. Nella rete del ragno, subdola, tenace, affascinante nella sua trama sfaccettata come un diamante…

Ci sono caduta anch’io che di comportamenti dovrei intendermi… non a caso sono qui a scriverne.

BUGIE: COSA DICONO LE NEUROSCIENZE

Nature Neuroscience ha pubblicato uno studio che dimostra che dire continuamente bugie diminuisce i sensi di colpa e rende più facile dirne altre. Come riporta Smithsonian, Tali Sharot, psicologo sperimentale e tra gli autori dello studio: «Ci immaginavamo già che mentire potesse portare a un aumento sempre crescente di disonestà, ma non c’era stata ancora alcuna ricerca empirica che ne spiegasse il motivo e il processo».

Per capire come funziona, i ricercatori hanno ideato un gioco che incentivava le persone a mentire: in cambio di una bugia, infatti, avrebbero avuto un regalo in denaro. A più di 80 partecipanti è stato chiesto di indovinare quante monete fossero contenute in un barattolo, poi è stato detto di aiutare un altro partecipante – chiamato “stimatore” – a capire quante ne contenesse effettivamente. Chi doveva aiutare non sapeva che gli “stimatori” fossero in realtà attori. I ricercatori hanno creato sessanta diversi scenari per gruppo che avrebbero potuto incentivare i partecipanti a sovra o sottostimare il numero di monete: in alcuni casi mentire avrebbe fatto sì che chi suggeriva avrebbe vinto dei soldi.

Gli scienziati si sono poi focalizzati sull’amigdala, cioè la regione del cervello associata alla paura, l’ansia ed altre emozioni: utilizzando un elettroencefalogramma nei partecipanti hanno scoperto che, più i suggeritori dicevano bugie, sempre meno l’amigdala veniva stimolata, il che suggerisce che le emozioni negative connesse al mentire svanivano col tempo.

Altri studi avevano già dimostrato che la disonestà aumenta quando è previsto un premio di vario genere, ad esempio quando dire una bugia potrebbe aiutarci a cogliere una buona opportunità. Stavolta, però, «è la prima occasione in un cui le persone hanno dimostrato una escalation di bugie in un ambiente di laboratorio», ha detto il ricercatore di Princeton Neil Garrett.

Secondo gli autori della ricerca, questo potrebbe risultare utile anche per vari policy makers: per Sharot se lo stato emotivo di una persona viene sollecitato mentre sta mentendo, allora si potrebbe invertire l’effetto, inducendola a dire la verità o a comportarsi correttamente. Un po’ come funziona con i cartelli che chiedono di non rubare nei camerini, o quelli per non copiare nelle classi: «Un avvertimento del genere potrebbe portare all’inizio a voler essere disonesti, ma allo stesso tempo indurrebbe un ripensamento», ha detto Garrett.

BUGIE E PSICOLOGIA

I motivi che spingono le persone a mentire compulsivamente sono vari, e spesso collegati a due disturbi di personalità: bordeline (BDP) e narcisistico. Nel primo caso, a causa di emozioni così intense da annebbiare il pensiero e il giudizio, le persone possono arrivare a interpretare tutto attraverso una lente emozionale capace di distorcere la realtà. Inoltre dire bugie aiuta a tollerare meglio la situazione, senza che l’individuo riesca a pensare alle conseguenze negative della bugia a lungo termine.

In un narcisista invece la bugia nasce come reazione alla sensazione di inadeguatezza, per costruire una maschera di superiorità nei confronti degli altri, per creare agli occhi di se stesso e degli altri una realtà speciale, non per forza migliore. Per questo un narcisista potrebbe arrivare a inventarsi un lavoro prestigioso, di essere andato a cena in un ristorante di lusso, postandolo sui social per colmare il suo profondo senso di inadeguatezza.

Diversa, e più estrema è la situazione del bugiardo patologico: mente allo scopo di manipolare l’altro e raggiungere il proprio tornaconto, a scopo totalmente utilitaristico, senza provare alcun rimorso o senso di colpa. La menzogna in questo caso non è automatica, ma è una vera e propria strategia: spesso i bugiardi patologici non riescono a conformarsi né alla legge (commettendo atti illegali come truffa, furto, etc), né alle norme sociali e i loro comportamenti sono spesso disonesti e manipolativi, ad esempio mentono o assumono false identità per trarne vantaggio o piacere.

Comprensibilmente, comportamenti analoghi possono far sorgere difficoltà all’interno di una relazione: partner, famiglia, amici spesso sono disorientati e arrabbiati alla scoperta di tanta finzione, e non riuscendo a capirne il motivo passano dalla colpevolizzazione di se stessi alla colpevolizzazione del bugiardo.

Ma una compulsione, per definizione, serve a far star meglio la persona—e come tale, se resta non scusabile, una volta compresa può essere decolpevolizzata: è infatti necessario comprendere il ruolo che assolvono le bugie per l’individuo (quale parte di sé sta disperatamente cercando di nascondere ai propri occhi e a quelli altrui? quale motivo di sofferenza sta cercando di gestire?).

Il bugiardo patologico è una persona che non può fare a meno della menzogna per vivere. E’ così concentrato ad evitare che gli altri lo conoscano esattamente per quello che è, che passa il suo tempo a costruire una rete di bugie per dare un’immagine immacolata di sè.

Molte persone che appartengono a questa categoria, possono sembrare sicure e con una grande autostima. In realtà, il bugiardo non è contento di com’è, vorrebbe essere diverso e non è soddisfatto della vita che ha. Per questo indossa una maschera, ed è spesso sfuggente.

Non accetterà mai di essere scoperto e, se ciò dovesse accadere, cambierà mille volte versione dei fatti e agirà anche in modo imprevedibile pur di confermare a se stesso e agli altri che è esattamente il tipo di persona che ha sempre fatto credere di essere.

COME RICONOSCERE UN BUGIARDO CRONICO

Vuole indorare la realtà. Presenta sempre se stesso come un vincente ed è attento a non essere smascherato. Non accetta di vivere una vita normale, teme la mediocrità e vuole sempre far apparire tutto più bello di quello che realmente è. Potresti scoprire che fa il lavoro più comune del mondo mentre, in realtà, ti ha raccontato di attività molto più belle e avventurose.

Non prova rimorso né senso di colpa. Non ha una morale tradizionale. Riesce a vivere senza problemi nel castello di carte che si è creato. Non si pone dubbi e interrogativi come invece farebbe ogni altra persona al suo posto. Il bugiardo cronico spesso è un individuo che pensa che tutto gli sia dovuto, che gli altri non facciano mai abbastanza per lui ed è sempre pronto a chiedere di più senza minimamente pensare che anche gli altri possano avere bisogno delle stesse attenzioni. Di solito è egocentrico e, prima di pensare a chiunque altro, deve essere innanzitutto soddisfatto lui. Naturalmente, pur di essere accontentato, racconta molte frottole.

Si crede più intelligente e furbo degli altri.Il fatto di riuscire ad abbellire la realtà lo fa sentire addirittura molto ricco di immaginazione e di intelligenza. Si vede superiore a tutti quei ‘sempliciotti’ che, invece, prendono la vita così com’è ed accettano anche le esperienze negative. Nella sua presunta intelligenza, spesso tratta gli altri dall’alto in basso e, tendenzialmente, predilige la compagnia di persone dolci e ben educate che possano assecondarlo nel suo gioco senza opporglisi.

Racconta i fatti in modo avvincente. Ingigantisce gli eventi e aggiunge particolari anche bizzarri alle sue storie pur di attirare l’attenzione altrui. Una bugia in più o una in meno per lui non fa differenza pur di risultare interessante. Spesso, il bugiardo cronico ama stare al centro dell’attenzione, è contento di avere un pubblico pronto ad ascoltare le sue storie e, magari, anche a restarne affascinato.

Cambia versione dei fatti in base alla convenienza. Pur di fare colpo sul proprio interlocutore, il bugiardo patologico è disposto a cambiare repentinamente idea (o a far credere di averla cambiata). Non appena si accorge che la persona con cui sta parlando non è più così attenta e rapita dai suoi discorsi, oppure non condivide la sua idea, è in grado di virare magistralmente anche sull’idea opposta, facendo passare per stupida la persona che sta parlando con lui. Spesso, infatti, succede che chi assiste a questo cambiamento repentino, si ritrovi completamente spiazzato e, per non mettere l’altra persona in imbarazzo, stia zitto e non sottolinei la stranezza dell’accaduto. Il bugiardo, però, in questo modo rinforzerà la propria idea di essere una persona di successo e superiore agli altri.

Crede alle sue stesse bugie. Il cervello ha la capacità di riorganizzare le informazioni e le impressioni che riceve. Infatti, cerca sempre di trovare una logica in quello che accade, a costo di forzare i collegamenti tra i fatti. Il cervello di un bugiardo cronico non sfugge a questa regola. Nella sua mente, il mondo immaginario che si è creato si struttura come se fosse vero. Sovente, per il bugiardo, sogno e realtà si confondono e lui stesso arriva al punto di non saperli più distinguere e si convince che le sue stesse menzogne siano invece la realtà.

Sfugge alle responsabilità. Un altro motivo per cui il bugiardo decide di mentire è sfuggire alle responsabilità. Per lui è difficile ammettere di avere sbagliato oppure doversi giustificare. Ma così finisce per mentire anche in situazioni quotidiane e di importanza irrilevante. Ad esempio, se il bugiardo cronico arriva in ritardo ad un appuntamento, potrebbe inventarsi scuse di ogni tipo. L’importante, per lui, è non ammettere di avere sbagliato per una propria mancanza o per disorganizzazione. Non è raro che si inventi incidenti, ingorghi, disavventure o qualsiasi altra cosa ben più strana per sfuggire al giudizio negativo che gli altri avrebbero su di lui se dicesse la verità.

Non tollera le bugie altrui. Nonostante i bugiardi patologici abbiano fatto della menzogna il loro stile di vita, non riescono a sopportare che qualcuno usi la loro stessa arma. In quel caso, appena il bugiardo scopre l’inganno altrui, si sente ferito nell’orgoglio. Sembrerà paradossale ma, a volte, proprio il bugiardo cronico si può trasformare, in alcune situazioni, in paladino della verità. In quei momenti, si sente investito di una grandiosa missione e, pur di portare avanti la sua improvvisa voglia di onestà, se la prende con il proprio interlocutore, lo attacca e non gli lascia via di scampo.

Non ammette di avere torto. Durante le discussioni, pur di avere ragione, il bugiardo cronico inizia ad inventare competenze che non ha. Oppure, fa riferimenti a dimostrazioni e studi scientifici (nemmeno di sicura esistenza) che avvalorano la sua tesi. E guai a metterlo in difficoltà. Se si sente minacciato nella sua sicurezza, potrebbe iniziare ad arrampicarsi sugli specchi e, alla fine comunque, non ti lascerà mai vincere.

Non so se queste indicazioni saranno utili per smascherare i bugiardi patologici prima che possano arrecarvi danno, nel caso ci ho provato!