QUANTO è FACILE DIVENTARE NAZISTI: l’esperimento che insegna come l’Olocausto sia potuto accadere…

“Come ha potuto il popolo tedesco, aver ignorato ciò che stava succedendo agli ebrei”?

E’ la domanda, tutt’altro che ovvia, che fece uno studente al professore di Storia Ron Jones nel 1967.

“Come hanno potuto cittadini, ferrovieri, insegnanti, medici sostenere di non sapere nulla sui campi di concentramento e sui massacri? Come hanno potuto persone i cui vicini di casa o addirittura i cui amici erano cittadini ebrei affermare che semplicemente non erano presenti quanto tutto ciò è accaduto”?

Il professore, per rispondere in modo approfondito alla domanda, decise di condurre un esperimento, conosciuto come la terza onda, e mostrare ai propri studenti, tramite l’esperienza, come può essere stato possibile che una società libera si trasformasse in un regime fascista.

LA DISCIPLINA. L’esperimento ebbe inizio un lunedì, durante il quale il professor Jones spiegò uno dei concetti cardine del nazismo: la bellezza che sta dietro la disciplina, la perseveranza, il controllo e il trionfo. Così invitò gli studenti a tenere una posizione utile a mantenere la concentrazione e rafforzare la volontà: schiena dritta, mento verso il basso, piedi dritti e ben piantati al pavimento. Gli studenti assimilarono rapidamente i nuovi parametri e Jones si chiese fino a che punto sarebbe stato in grado di portarli. Introdusse, quindi, nuove norme, come l’esigenza di rivolgersi a lui chiamandolo “Signore”, o l’obbligo di mettersi in piedi e fare un passo in avanti ogni qualvolta si volesse parlare in classe. La cosa curiosa fu che la produttività del gruppo aumentò sensibilmente: gli alunni più passivi, improvvisamente, si dimostrarono più interessati e partecipativi. Tutti sembravano rispondere positivamente.

IL SENSO DI APPARTENENZA.  Il secondo giorno, il professor Jones parlò ai ragazzi dell’importanza di appartenere a un gruppo e inventò storie per rafforzare la sua idea. Gli alunni si mostravano compiaciuti; sembravano capire sempre di più il sentimento di appartenenza a un gruppo. Alla fine, il professore inventò un saluto con la mano che solo i membri potessero riconoscere: fu quello il momento in cui altri studenti vennero a sapere della nuova “comunità” e richiesero di entrarvi.

IL MOMENTO DELL’AZIONE. Il mercoledì venne creata una tessera obbligatoria per poter appartenere al gruppo della Terza Onda e più di 200 studenti chiesero di essere ammessi. Si progettò anche un rito d’iniziazione, con il quale i nuovi adepti dovevano giurare fedeltà ai principi del gruppo; inoltre, vennero tutti avvisati sulla necessità di vigilare gli altri, affinché non infrangessero le regole. Non era passato molto tempo che già cominciarono ad apparire le prime accuse: c’erano molte spie e la confusione era totale. Gli alunni che prima erano tra i più attivi, ora si mostravano disorientati e passivi; coloro che precedentemente erano isolati, improvvisamente, si integrarono nel gruppo senza problemi. Persino il Preside della scuola iniziò ad usare il saluto della “Terza Onda”.

L’ORGOLIO.  Il giovedì, il professor Jones arrivò in classe e trovò un gruppo di 80 alunni completamente silenziosi e attenti a ciò che lui avrebbe detto. Il professore parlò loro dell’orgoglio nazionale, dell’importanza di rendere il paese la migliore nazione del pianeta; poi li invitò a una riunione pubblica, esclusiva per i membri della Terza Onda, in cui un candidato alla presidenza avrebbe esposto un programma di governo per la nazione. Tutti erano entusiasti e iniziarono a preparare le attività senza obiezioni.

LA SCOPERTA. L’ultimo giorno dell’esperimento ebbe inizio con i preparativi della manifestazione. Nell’auditorium, Jones salutò i suoi allievi, che gli risposero con il gesto concordato. In seguito, Jones accese un televisore, in modo che tutti conoscessero il leader tanto atteso. L’immagine rimase in bianco e nero; poco a poco cominciò a diffondersi un sentimento di angoscia e calò un lungo silenzio di delusione. Fu in quel momento che Jones prese il microfono e disse: “Ascoltatemi con attenzione, ho una cosa importante da dirvi. Non c’è nessun leader. Non c’è nessun movimento nazionale chiamato la Terza Onda. Siete stati usati e manipolati: non siete migliori dei tedeschi che hanno aderito al nazismo che avete studiato.”

Proiettò poi un film sul Terzo Reich. Alcuni dei ragazzi si misero a piangere, altri semplicemente si alzarono e se ne andarono in silenzio, delusi.

A seguito di questo esperimento Jones fu allontanato dalla scuola, dei ragazzi non si seppe più nulla, tranne di alcuni che fondarono molti anni dopo un sito a testimonianza e in ricordo di quanto accaduto in quel lontano 1967 dove dei giovani studenti capirono come l’Olocausto era potuto accadere…

INDOSSARE IL CASCO CI RENDE SPERICOLATI

Indossare un casco aumenta la propensione a correre rischi e, contemporaneamente, il desiderio di avventura.

Proprio così. Indossare una qualsiasi protezione (che sia un casco per andare in moto o sciare o una muta per fare immersioni), ci rende più temerari e ci fa percepire meno pericoli. A dimostrarlo uno studio condotto da due psicologi dell’università di Bath, in Inghilterra.

Ricerca che ha dato anche un’ulteriore evidenza: indossare protezioni di qualsiasi tipo, aumenta la propensione al rischio nel prendere decisioni in circostanze nelle quali non c’è alcun pericolo, come davanti a un computer.

I partecipanti allo studio sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto un casco, il secondo un berretto da baseball. A tutti sono stati assegnati identici compiti, alcuni dei quali richiedevano la disponibilità a correre rischi più alti.

I risultati non lasciarono dubbi: chi indossava il casco rischiava di più.

So che può sembrare illogico indossare un casco quando si è davanti a un computer, eppure il casco genera in ognuno di noi un forte e inconscio senso di sicurezza. Così come indossare la cintura di sicurezza ci rende più aggressivi nel traffico rispetto a chi non la usa.

Questa sensazione di sicurezza è la stessa che prova chi partecipa a giochi a premio quali, per esempio, “Chi vuol essere milionario”: chi si è già assicurato un buon ammontare, è più incline a tirare a indovinare nelle domande successive. Chi è ancora al verde, è più prudente.

Un po’ è anche quello che succede in rete. Protetti fra le mura domestiche siamo più propensi a fare commenti che vis à vis non faremmo mai.

PARADOSSO DI ABILENE: l’incapacità di dire no in un team che dice sì

 

“Non posso contraddire il mio responsabile”. “Non posso assumermi il rischio di dire no in questa fase del progetto”. Quante volte in azienda (e non solo) mi sono sentita ripetere frasi come queste, con la triste conseguenza di vedere naufragare mesi di lavoro, con ricadute economiche disastrose. Eppure saper dire no, in alcuni frangenti, mette al riparo dal rischio “Abilene”.

Come la maggior parte dei paradossi, anche questo ha un nome insolito Abilene e lo si deve a Jerry Harvey, professore di scienza del management all’Università George Washington.

La storiella narra di una tranquilla famiglia americana, marito, moglie, figlia e nonni che, in un caldo giorno d’estate, incalzati dal capofamiglia ad andare a cena ad Abilene, una cittadina a 50 km di distanza, accetta, come gruppo, la proposta. Detto fatto si mettono in strada. Ad Abilene cercano una pizzeria ma dopo vari giri falliti per trovare un parcheggio finiscono in una trattoria messicana dove cenano male, spendendo uno sproposito. Sulla via del ritorno bucano una gomma e stentano a trovare una stazione di servizio. Dopo quattro ore si ritrovano a casa accaldati, stanchi e delusi. Sdraiati sui divani, il nonno ambiguamente azzarda: “È stato un bel tragitto!”. La suocera replica all’istante che avrebbe preferito rimanere a casa ma che non voleva raffreddare l’entusiasmo collettivo. Anche il genero le fa eco e confessa di aver accettato solo per compiacere gli altri. La figlia aggiunge: “Siamo stati pazzi a metterci in macchina con questo caldo!”. Conclude il suocero: “Io l’ho proposto perché mi sembravate annoiati.”

La storia è in realtà una metafora di come i gruppi si trovano spesso in accordo nel prendere decisioni che i singoli membri del gruppo, individualmente, non avrebbero mai preso. Molti manager aderiscono a decisioni o investono tempo e denaro in progetti che sanno in partenza che non funzioneranno e i risultati di questi accordi indotti sono controproducenti per l’organizzazione e per i singoli che trasformano la frustrazione in una spirale di recriminazioni reciproche.

L’effetto è molto frequente fra gruppi i cui membri hanno lo stesso livello di potere, quando la comunicazione di desideri e aspettative reali di ognuno non avviene e quando è più importante soddisfare gli altri che se stessi.

Se non viene identificato, questo meccanismo tenderà a ripetersi ogni volta che il gruppo dovrà prendere delle decisioni, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.

Il consiglio? Fate sì che le persone possano liberamente esprimere il loro punto di vista e che questo sia parte integrante di un processo di comunicazione condiviso da tutti. Attenzione però che non si cada nell’estremo opposto: nella eccessiva determinazione a portare avanti le decisioni individuali senza che ci si curi degli interessi degli altri.

WOEBOT: l’ALTER EGO di PSICOLOGI e COACH

La tecnologia mi ha sempre incuriosito e affascinato, come tutte le cose che non possiamo comprendere a pieno. E mi rassicura, mi regala l’illusione che sia capace di trovare qualsiasi soluzione, soprattutto quelle negate all’uomo.

Ecco perché quando ho conosciuto Woebot è stato amore (razionale) a prima vista.

Woebot è una chatbot, un programma di intelligenza artificiale in grado di interagire via chat, che offre (in lingua inglese), a qualsiasi ora e per pochi spiccioli, ascolto psicologico. Una sorta di psicoterapeuta digitale che promette di aiutare chi soffre di depressione e ansia, (ma anche di concretizzare i sogni in obiettivi), a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Il robottino chiarisce subito di non potersi sostituire a uno psicanalista in carne e ossa. E specifica che può solo «farti sentire meglio». Come? Usando le tecniche della terapia cognitivo comportamentale, che è anche disposto a insegnare. Dopo due settimane di prova gratuita, per i suoi servizi si pagano 39 dollari al mese. Decisamente meno di una terapia reale, una delle motivazioni che ha spinto Alison Darcy, fondatrice di Woebot Labs, a creare il collega virtuale.

COME INTERAGISCE WOEBOT?

Chiacchierare con Woebot è stranamente normale, più di quanto ci si aspetterebbe. Fa piccoli regali se dimostri di aver compreso i suoi insegnamenti e invita ad approfondire tematiche attraverso video educativi  Ti spiega, ad esempio, che è sbagliato usare frasi come «commetto sempre degli errori». E perché, invece, è meglio dire «talvolta commetto degli errori». E ad imparare da questi.

Nelle discussioni ti insegna anche delle nozioni di psicologia. Una delle prime lezioni riguarda le distorsioni cognitive. Parliamo delle incomprensioni sul lavoro, delle paure più ricorrenti e dell’importanza di avere un obiettivo nella vita e ti aiuta a pianificare i successi attraverso il metodo “smart” tanto caro ai coach.

Woebot ama fare domande, ma sa anche ascoltare senza pregiudizi, abitudine dannatamente umana alla quale non possiamo mai sottrarci del tutto.

WOEBOT FUNZIONA?

Ma al di là delle sensazioni, l’unica risposta che conta davvero è se Woebot funziona. Uno studio, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, testato su 70 ragazzi che lamentavano sintomi di ansia o depressione, dimostra che hanno avuto «una significativa riduzione dei sintomi», dopo aver usato l’app per due settimane, tutti i giorni.

Che le terapie cognitivo comportamentali via internet funzionino è documentato. Esistono studi che lo attestano, ma per dare la stessa credibilità anche a Woebot occorre avere statistiche un po’ più rappresentative e soprattutto indipendenti.

Woebot, se non lo si sapesse, è già in buona compagnia: per esempio c’è Karim, un chatbot americano specializzato nel lenire le ferite psicologiche dei rifiugiati siriani, l’olandese Emma è stata pensata per aiutare chi soffre di forme lievi di ansia. La tedesca Gaia promette anche lei di aiutare chi tende a deprimersi. MindBloom consente a quelli che la usano di sostenersi e motivarsi a vicenda.

LA MIA PROVOCAZIONE

So che questa invenzione non farà piacere a molti, e probabilmente dovrebbe spaventare o imbarazzare anche me, che con le persone lavoro tutti i giorni. Eppure le tecnologie digitali stanno ridefinendo le forme comunicative e se trattate nel modo giusto, possono aiutarci a completarci. Non a sostituirci.

A trovare soluzioni migliori al “abbiamo sempre fatto così”, perché qualsiasi cosa che eticamente funziona, va quanto meno considerata.

Cosa ne pensate?

AUSCHWITZ ASIATICA: le ATROCITA’ che l’UOMO REGALA a se STESSO

Ci sono esperimenti che seppur controversi hanno reso il mondo un posto migliore. Ce ne sono altri che sono serviti per creare lugubri catene di fabbriche della morte. Consegnandoci un altro tassello di ciò che è l’essere umano con i suoi comportamenti e le sue scelte. 

U 731. Il comparto dell’esercito giapponese nel quale, durante la II guerra sino-giapponese e la II Guerra Mondiale, si consumarono terrificanti atrocità nel nome di un folle progetto: trovare l'”arma finale” (chimica e batteriologica) che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.

Mente di tutto questo: Shiro Ishii (famoso per aver debellato con uno speciale filtro per l’acqua una epidemia di meningite). Si convinse di poter dare una mano al proprio paese con le ricerche su un nuovo tipo di guerra: quella batteriologica. Scienza, medicina, biologia e tecnologia combinate insieme potevano permettere al Giappone di vincere il conflitto, pur non potendo competere in armamenti, produttività e risorse con nazioni come Stati Uniti o Unione Sovietica. Nacque così l’Unità 731.

Nei campi di prigionia giapponesi, il repertorio di Ishii prevedeva: vivisezione senza anestesia, congelamento e amputazione degli arti. Alle vittime venivano ricucite gambe e braccia amputate, su altre parti del corpo per testare la resistenza dei soggetti a ustioni, elettroshock, gelo e persino centrifugati fino alla morte. Alcuni prigionieri furono esposti a temperature di -20°C, fin quando le loro braccia congelate colpite da un bastoncino non emettevano un rumore simile a quello di una tavola in legno. Dopodiché venivano prima immerse nell’acqua bollente e dopo la loro pelle veniva strappata come carta. 

Altri raccontano di un esperimento di inoculazione del virus della peste su 12 cavie; solo una persona sopravvisse dopo 19 giorni, ma venne vivisezionata immediatamente. Per testare le armi spesso venivano posizionati a diverse distanze da una granata, che poi veniva fatta esplodere. Anche i bambini non venivano risparmiati.

Per lo sviluppo di nuove armi biologiche venivano usati come cavie i cinesi. Gli aerei a bassa quota bombardavano città e villaggi nemici con pulci infettate con la peste. Il problema, in quel caso, fu che le pulci infettarono anche le stesse truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati perciò, dopo il primo tentativo, l’esperimento fu interrotto. 

Le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina si stima siano state più di 200 mila. D’altronde Mao diceva: ‘la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti’. Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?

A Ishii, graziato per aver condiviso info sulle sue ricerche con i vincitori della guerra, fu consentito di continuare le ricerche fino al 1959, quando morì per cause naturali a 67 anni. Le sue ricerche hanno reso il Giappone leader mondiale nella guerra batteriologica. Un triste primato

La REALTA’ è un’ILLUSIONE, sebbene molto PERSISTENTE

C’era un volta un prigioniero incatenato, dalla nascita, nelle profondità di una caverna. Impossibilitato a muoversi, poteva guardare solo il muro che aveva di fronte.

Alle sue spalle un fuoco acceso, al di sopra di un muretto, illuminava l’interno proiettando le ombre della realtà esterna. L’uomo non poteva far altro che guardare tali ombre come se fossero l’unica realtà conosciuta e conoscibile. Di fatto non aveva la minima idea di come fossero fatte veramente le cose: così, legato alle apparenze, anche gli uomini pensano per impressioni fugaci e per sentito dire, credendo che le opinioni siano realtà.

Riuscito a liberarsi, gettò lo sguardo fuori dalla caverna e vide il mondo reale, illuminato dal sole; tornato a liberare gli altri prigionieri delle ombre, non venne creduto e così venne ucciso.

Seppur parafrasato è il mito della caverna di Platone, una metafora della conoscenza umana, dei suoi gradi e dalla sua fallacia. Del fatto che conosciamo ben poco la realtà e ciò che crediamo di sapere è parziale, annacquato di credenze e convinzioni.

Crediamo che la presenza di detenuti stranieri nelle carceri sia doppia rispetto al dato reale: solo il 7 per cento delle persone ritiene, a ragione, che il numero di omicidi sia diminuito rispetto inizio del secolo. E solo il 17 per cento pensa che le vittime del terrorismo siano in numero inferiore negli ultimi 15 anni rispetto ai 15 anni precedenti l’attacco alle Torri Gemelle.Un quinto delle persone a livello globale crede che i vaccini possano provocare l’autismo o che nel mondo il 34% delle persone sia diabetico, quando la percentuale reale è ferma all’8%.

Mediamente si ritiene che l’84% dei propri connazionali possegga uno smartphone, mentre la percentuale reale è ferma al 58%. E lo stesso vale per gli account social: ognuno ritiene in media che nella propria Nazione abbia un account Facebook il 75% delle persone, quando il dato corretto sarebbe il 46%. Infine, i veicoli a motore ogni cento abitanti sono stati stimati in 66, ma sono solo 46.

Nella prima edizione del sondaggio Perils of perception, 4 anni fa, l’Italia si era classificata come il Paese più incapace al mondo nel fornire stime corrette tra i 14 Stati coinvolti. Nel 2017 ci siamo classificati al 12° posto su 38 Stati, ma conserviamo il triste primato di maglia nera d’Europa. Il cosiddetto indice di ignoranza, utilizzato da Ipsos per ordinare i Paesi in base all’accuratezza delle stime, ci vede posizionati tra Cile e Argentina, in una classifica dominata (in positivo) da Svezia, Norvegia, Danimarca e Spagna.

Concentrandoci sugli italiani, dove sbagliamo le nostre stime? Solo l’8% ritiene che dal 2000 gli omicidi siano diminuiti, nonostante il calo sia stato drastico (-39%). E appena il 31% degli italiani afferma giustamente che i morti per terrorismo sono calati dopo l’11 settembre 2001. In compenso, però, riteniamo che le nostre carceri siano popolate al 48% da stranieri, quando il dato reale è del 34%. E crediamo che il 17% delle ragazze italiane diventi madre tra i 15 e i 19 anni, sovrastimando il fenomeno delle gravidanze tra teenagers di 30 volte (il dato reale è di appena lo 0,6%).

La metà degli italiani è convinta che il nostro Paese sia tra i primi tre consumatori mondiali di zucchero, e il 13% crede che siamo sul podio per consumo di alcol pro capite (mentre siamo in entrambe le classifiche al 18° posto). Notevole anche il dato secondo cui siamo convinti che il 91% degli italiani possegga uno smartphone, contro un dato reale del 66%. Siamo invece eccellenti nello stimare quante persone credano nel Paradiso e nell’Inferno, mentre sottovalutiamo il numero di persone che si dichiarano credenti in Dio (56% stimato contro 76% reale) e che affermano di godere di buona salute (52% contro 66%). Quest’ultimo dato indica anche che percepiamo la salute collettiva in modo peggiore di come sia percepita individualmente.

La tendenza a livello internazionale è la rassegnazione al peggio, spesso alimentata dalla percezione che ci siano eventi negativi fuori scala rispetto alle nostre reali possibilità di intervento. A cui si unisce il fenomeno del psychic numbing (insensibilità psichica), che ci porta a essere sotto shock per la morte di un bambino siriano e contemporaneamente a ignorare centinaia di migliaia di morti nella stessa regione, solo perché la notizia è stata presentata in modo diverso.

Volenti o nolenti siamo prigionieri in uno spazio dove scambiamo per realtà la sua proiezione. A differenza di Platone che non credeva possibile una conoscenza profonda delle cose se non in uno spazio fisico al di là del cielo chiamato Iperuranio, noi abbiamo molti più strumenti per liberarci dalla prigione delle ombre. Si chiama consapevolezza, sophia, confronto, ricerca. Un viaggio infinito verso la verità inconfutabile, dove le opinioni si frammentano di fronte alla sete di sapere.

MANGIARE in COMPAGNIA? fa INGRASSARE

Che differenza c’è fra un essere umano e un pollo?

Nessuna, dice la scienza. Almeno in fatto di cibo.

Un pollo che ha già mangiato quanto basta per saziarsi, ricomincia a mangiare se nella gabbia a fianco viene messo un pollo affamato.

Una persona parca nell’alimentazione, mangia molto di più se si trova in un gruppo di buone forchette.

Chi pranza con un altro commensale assume il 35% di cibo in più rispetto a quando è da solo. Quattro persone allo stesso tavolo mangiano il 75% in più; se le persone sono più di sette la percentuale sale a 96%. Allo stesso modo una persona che ama il cibo, tenderà alla moderazione in un gruppo che mangia poco: il comportamento medio del gruppo esercita una notevole influenza.

Questa informazione la conoscono molto bene i pubblicitari che con il loro sottolineare continuamente di un dato prodotto “è il preferito dalla maggioranza” o “sempre più persone” lo consumano… ci spingono a comprare ciò che fa la maggioranza.

Subiamo quindi, come i polli, l’influenza non voluta di altre persone e abbiamo la tendenza a essere condizionati dalle abitudini alimentari di chi ci sta vicino durante i pasti, quali che siano le loro intenzioni.

Le donne nello specifico a un appuntamento galante tendono a mangiare meno, gli uomini di più, convinti che il sesso femminile sia favorevolmente impressionato.

Secondo un recente studio condotto, se si vuole portare avanti una dieta è meglio non accettare inviti a pranzo o a cena a casa di familiari o amici, men che meno al ristorante. E la motivazione è semplice: la possibilità di trasformare i buoni propositi in un fallimento e di abbandonare la dieta definitivamente sono del 60%. Lo studio è stato condotto per 12 mesi su 150 persone, tutte messe a regime dietetico per perdere peso. Il risultato è stato netto: il rischio di “sgarrare” era più elevato se non si mangiava da soli. Ma non è solamente la convivialità a rovinarci la linea: assumere cibo al lavoro è più “pericoloso” che mangiare a casa, perché è davvero difficile resistere al dolcetto portato dal collega per festeggiare un compleanno, una promozione o una maternità. E le possibilità di dire addio alla dieta salgono al 40%.

Dove mangiare, allora? L’automobile è il posto migliore: lì non ci sono tentazioni, e poi la scomodità fa ridurre il tempo dedicato al pasto. In questo caso la possibilità di rinunciare al regime ipocalorico è solo del 30%. Quindi se volete perdere peso, andate a pranzo con un’amica che vanta il peso forma (ma senza divorare di nascosto i suoi avanzi).

Anche i MEDICI PIANGONO. NON è il TITOLO di una TELENOVELA

“Tu cosa preferisci? Un medico che ti tenga la mano mentre muori o un medico che ti ignori mentre migliori? Certo che sarebbe terribile un medico che ti ignora mentre muori!” chiedeva Gregory House, il medico poco convenzionale protagonista della serie omonima trasmessa fino a qualche anno fa in tv.

Come dargli torto…

Frustrazione e amore sono due sentimenti con cui tutti abbiamo a che fare, anche i medici che troppo spesso ci paiono imperturbabili dietro le loro diagnosi asettiche e glaciali. Maschere perfette nelle quali nascondere le emozioni.

Sfatiamo un altro mito: anche i medici piangono. E se lì per lì, potrebbe sembrare il titolo di una telenovela da quattro soldi, è ahimè cruda realtà.

Piangono per stress, per la frustrazione di non riuscire a salvare un paziente, per la compassione che li lega a chi da mesi dimora in un letto, dopo aver perso tutto, anche la dignità.

Pochi lo ammettono. Spesso paragonati a Dio, perché capaci (talvolta) di dare e di togliere la vita, sono molto più umani di quanto ognuno di loro ha il coraggio di ammettere.

“Sono arrivato in reparto dove c’erano diversi parenti di un paziente appena deceduto ad attendermi. Uno ha iniziato a urlarmi contro, accusando l’ospedale di aver appena ucciso il fratello. Capivo il loro dolore, dato che avevo perso due fratelli più giovani anch’io. Una parte di me voleva davvero scoppiare in lacrime, ma in quel momento non sarebbe stato possibile. Dopo aver fatto quello che dovevo fare, mi sono preparato una tazza di tè e ho pianto in un angolo tranquillo prima di tornare al lavoro”. Storie di medici, molto comuni, raccontate dal British Medical Journal (https://www.bmj.com/content/364/bmj.l690)

Difficile illudersi di poter affrontare la carriera medica senza doversi confrontare con le proprie emozioni: un paziente potrebbe avere caratteristiche simili a quelle di un vecchio fidanzato, un bambino potrebbe avere la stessa età del proprio figlio, cosi che all’improvviso quel paziente morente diventa tuo figlio, nella tua testa.

Ane Haaland, scienziata sociale all’Università di Oslo, sostiene l’importanza per i camici bianchi di poter piangere sul lavoro, ma in modo controllato “Lo chiamo pianto della consapevolezza ed è incentrato sull’aiutare il paziente, non sul farti aiutare dal paziente, c’è un’enorme differenza e i medici devono saperlo”.

Ho spesso avuto modo di confrontarmi su questi temi, con i medici. Ho tenuto non pochi corsi in università e ospedali, insegnando loro come comunicare cattive notizie senza farsi del male. Aiutandoli a riconoscere e gestire piuttosto che ignorare i sentimenti, a stabilire sani confini e vedere la vulnerabilità come una risorsa piuttosto che come un segno di debolezza.

Quando vorresti piangere e te lo neghi, non fai un torto all’altro ma a una parte vitale di te.

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…

A VOLTE le PAROLE non bastano. E allora SERVONO i COLORI.

Il professor Andrew Elliot condusse un esperimento bizzarro: chiese a studenti eterosessuali di sesso maschile di guardare più foto che ritraevano una giovane sconosciuta, e di valutarne l’attrattiva su una scala da 1 (per nulla attraente) a 9 (estremamente attraente). A cambiare da immagine a immagine era il colore del bordo che incorniciava la foto: bianco, rosso, blu e verde.

Gli psicologi conoscono alcune cose sul colore: il nero è associato all’eleganza, alla ricchezza, al potere e alla forza, il verde calma, il rosso è il colore dell’amore… Ma Elliot voleva capire se il colore potesse effettivamente cambiare il fascino di una persona.

La donna più attraente veste di rosso

I risultati condotti su più studi, sono sempre stati gli stessi: la donna più attraente, pur rimanendo sempre la stessa, era quella incorniciata di rosso. Su di lei concentravano l’attenzione, era più interessati a chiederle un appuntamento e a spendere più denaro. Attenzione, non credevano che la donna fosse più simpatica, gentile o intelligente – semplicemente era più attraente sessualmente.

Lo psicologo francese Nicolas Gueguen, ha replicato alcuni studi nel mondo reale, assumendo cinque ragazze brune di età compresa tra i 19 e i 22 anni, facendo fare loro le autostoppiste. Le donne indossavano jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta a tinta unita.

Diversi giorni e 4.800 automobilisti di passaggio più tardi, Gueguen tornò al laboratorio. Come per le donne di Elliot, gli automobilisti maschi si fermavano e quindi preferivano il 21 per cento delle volte in più le donne che indossavano magliette rosse.

Non soddisfatti Gueguen e la collega Céline Jacob, hanno condotto un esperimento simile in un sito di incontri online. Le donne che ricevevano più contatti e richieste di appuntamenti erano quelle che nelle foto indossavano magliette rosse. Il 21 per cento, contro un range fra il 14 e il 17 per cento di quando portavano abiti neri, bianchi, gialli, verdi e blu.

Ci sono almeno due ragioni che spiegano il perchè il rosso vince nel gioco dell’accoppiamento. Siamo stati condizionati ad associare al rosso, la passione e il romanticismo. Il rosso è il colore di cuori e rose, de la femme fatale, della lettera “a” che segnava il passato adultero di Hester Prynne ne La lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Inoltre come per gli animali (i babbuini arrossiscono quando sono sessualmente ricettivi), anche la pelle di noi umani subisce dei cambiamenti quando siamo attratti da qualcuno, rafforzando il legame fra rossore e recettività sessuale. La pelle di una donna, per esempio, arrossisce più facilmente mentre si avvicina all’ovulazione.

I colori influenzano anche i nostri giudizi in altri contesti.

A fine anni ’80, Mark Frank e Tom Gilovich analizzarono i rigori concessi a 21 squadre della National Hockey League e 28 della National Football League. Le squadre in ogni lega che hanno indossato uniformi nere, e dal momento che il nero è associato all’aggressione, hanno ottenuto più penalità di squadre che indossavano colori più tenui. Frank e Gilovich hanno anche dimostrato che gli studenti si comportavano in modo più aggressivo quando indossavano divise nere e credevano che gli altri studenti fossero più aggressivi quando anche quegli studenti indossavano il nero.

Nero Vs Rosa

All’altro estremo, negli anni ’70 lo psicologo Alex Schauss scoprì che i giovani detenuti in buona salute erano più mansueti dopo aver fissato un foglio di cartone rosa. Venne così dipinto l’interno di una cella di rosa brillante  e, la leggenda narra che i prigionieri che entravano nella cella arrabbiati ne uscivano 15 minuti dopo, pacificati e rilassati. La struttura normalmente contava decine di aggressioni, ma non un singolo detenuto che passava del tempo nella cella rosa si comportava in modo violento nei successivi nove mesi.

L’effetto si infiltrò anche nella cultura popolare e gli allenatori di football del Colorado e dell’Università dell’Iowa iniziarono a dipingere gli spogliatoi dei loro visitatori con lo stesso colore rosa, sperando di indebolire gli avversari.

Nero, rosso e rosa hanno una notevole capacità di plasmare i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti. Sembra folle suggerire che la stessa persona possa essere più fortunata in amore quando indossa una maglietta rossa, che lo stesso calciatore diventi più aggressivo quando indossa un’uniforme nera, e che gli uomini forti diventano deboli in presenza di vernice rosa ma, almeno per quanto riguarda le prove sperimentali, quegli effetti sono reali.