McDONALD’S si fa BUONO al PALATO, QUANDO non si sa che è McDONALD’S

Pur essendo di qualche anno fa, lo scherzetto organizzato da due olandesi ha ancora molto da insegnarci sulla percezione che abbiamo del cibo.

I due, dopo aver acquistato da McDonald’s dolci e pollo fritto, sono andati a offrirli in degustazione, privi del caratteristico logo, a una fiera gastronomica. Il cibo, presentato come bio, è stato apprezzato da molti visitatori e presunti esperti che, curiosi, si sono fermati ad assaggiare. Alcuni si sono addirittura sbilanciati in analisi gustative.

SE AVESSERO SAPUTO CHE IL CIBO ERA DI McDONALD’S AVREBBERO ESPRESSO LO STESSO CONSENSO?

Non è una novità che in molti paesi il cibo biologico venga considerato più saporito e gustoso del fratello convenzionale, figuriamoci del cibo spazzatura. Le prove scientifiche di questa superiorità gustativa generalizzata però latitano, ma non pochi esperimenti, gettano qualche spiraglio di luce sulla questione.

Sulla falsa riga dello scherzo olandese, ne è stato fatto uno anche a Milano, dove in pieno centro è stato aperto un locale di tendenza e servito ai clienti un nuovo Mc panino. Ma anziché su un anonimo vassoio di plastica il cibo è stato posizionato su un ripiano di ardesia. E anche in questo caso il panino è stato particolarmente apprezzato, benchè di gourmet o di bio avesse ben poco.

Scherzi a parte, quando acquistiamo o mangiamo del cibo riceviamo tantissime informazioni: provenienza, etichetta, contenuto nutrizionale, prezzo, metodo di produzione, come viene presentato e così via. E tutto questo può avere una profonda influenza sulla nostra percezione sensoriale. Il punto cruciale è che quando acquistiamo un prodotto alimentare lo scegliamo solo in parte tenendo conto delle caratteristiche che possiamo sperimentare con i nostri sensi, come il colore o il sapore. Altre non sono verificabili con un semplice assaggio: il metodo di produzione, le proprietà salutistiche o la provenienza geografica. Vari esperimenti hanno mostrato come queste caratteristiche intangibili possano influenzare la percezione del gusto.

IL PECORINO BIO

Un gruppo di ricercatori italiani ha fatto assaggiare a 150 persone un formaggio pecorino biologico e uno convenzionale chiedendo di dare un voto da 1 a 9. Il primo assaggio si è svolto senza che nessuno sapesse quale dei due prodotti stesse gustando. E i due prodotti sono risultati essere equivalenti ed entrambi apprezzati, con 7 come punteggio medio.

Il giorno successivo a tutti i soggetti è stato fatto assaggiare solo il pecorino bio, con allegato un foglio che descriveva le caratteristiche del metodo di produzione biologica. La media dei punteggi è stata di 7.4. Il pecorino bio quindi è stato apprezzato di più laddove se assaggiato era identificato. In altre parole, il gusto è fortemente influenzato dall’aspettativa, e poiché molte persone si aspettano che il bio sia più gustoso, quando lo assaggiano lo trovano più gustoso di quello che è in realtà.

L’ANANAS

A cittadini britannici e olandesi è stato fatto assaggiare dell’ananas di tre varietà diverse coltivati in modo convenzionale, presentato però a volte come biologico, a volte come convenzionale o come prodotto del commercio equo e solidale. Le persone che avevano una aspettativa positiva rispetto al biologico hanno dato un voto più alto quando veniva proposto come bio, nonostante fosse sempre lo stesso ananas, e addirittura lo percepivano più dolce e succoso. L’influenza può anche essere negativa: chi aveva una aspettativa negativa nei confronti dai prodotti del commercio equo o dei prodotti bio li percepiva all’assaggio peggiori di quanto facessero senza l’informazione, falsa, della provenienza. Più precisamente la presenza dell’informazione “bio” migliorava la percezione del 55% dei soggetti, e la peggiorava nel 38% dei casi, mentre l’informazione “equo e solidale” migliorava i punteggi nel 43% dei casi e li peggiorava nel 45% dei casi.

La cosa interessante è che non cambiava solo il gradimento generale ma anche i punteggi di descrittori specifici, come “dolcezza” o “intensità del sapore”.

Studi che dicono moltissimo su come i nostri giudizi siano facilmente influenzabili. E non solo quando si tratta di cibo. Ciò che va tenuto presente in qualità di consumatori è che le informazioni che riceviamo sul cibo possono avere una profonda influenza su di noi, creando aspettative positive o negative, arrivando addirittura a modificare la percezione del gusto e le nostre reazioni. Facendoci percepire addirittura eccellente un cibo spazzatura.

Sei TU a SCEGLIERE CHI VOTARE? O la tua IRRAZIONALITA’…

A poche ore dall’apertura dei seggi, è importante che vi metta in guardia dalla vostra irrazionalità e da come questa potrà influenzare il vostro voto.

Il voto, non è così pensato, ragionato e non condizionato come ci piace credere. Già solo il luogo in cui è posizionato il seggio può influenzare la casella che andremo a sbarrare.

Quando siamo chiamati a votare su iniziative di finanziamento scolastico, per esempio, siamo più propensi a votare a favore se il seggio è ubicato in una scuola o in un ospedale.

Come già si sa (anche se ce lo dimentichiamo), non ci comportiamo in modo razionale. Pur essendo dotati di ottime capacità cognitive, non siamo in grado di ponderare correttamente le informazioni e incappiamo in bias ed emozioni finendo di non compiere sempre la scelta migliore.

SCELGO O RIFIUTO?

A influenzare le nostre preferenze incide anche il modo in cui viene presentato il candidato. Sembra ovvio, fidatevi non lo è. In uno studio condotto alla Princeton University è stata confrontata la scelta al rifiuto. Ciò che è emerso è che nelle scelte hanno un peso maggiore gli elementi positivi delle persone, mentre nei rifiuti incide soprattutto la dimensione negativa.

Se si è di fronte alla scelta, ad esempio, tra due candidati alle elezioni politiche, di cui il candidato A è un uomo con caratteristiche normali mentre il candidato B ha qualità sorprendenti ma altrettanti difetti, se la domanda è posta in termini negativi (ossia per chi non voteresti) l’8% dei soggetti decide di non votare per il candidato A, mentre il 92% decide di non votare per B. Se invece viene posta la domanda in termini positivi (per quale candidato voteresti), il 79% dei soggetti sceglie il candidato A e il 21% quello B.

Le possibilità che B ha di essere eletto sono due volte superiori rispetto a quando la domanda è posta in termini negativi. Questo succede perché nel primo caso le persone si focalizzano sugli aspetti marcatamente negativi che pesano sulla scelta in modo maggiore rispetto a quelli positivi; nel secondo caso l’attenzione si centra più facilmente sugli aspetti positivi che, questa volta, pesano più di quelli negativi. In questo caso, quindi, il candidato A dovrebbe impostare la campagna elettorale sugli aspetti negativi dell’avversario, così da spingere la scelta degli elettori in termini di rifiuto, mentre il candidato B dovrebbe fare campagna sui propri aspetti positivi per aumentare le possibilità di vittoria.

VOTO L’IMMAGINE O IL CONTENUTO?

Siamo influenzati dall’immagine del politico, fatta di ciò che dice, di come lo dice, della personalità che mostra in pubblico, catturata da telecamere e selfie scattati anche nel privato, fino a costruire una rappresentazione di un Sé che deve trasmettere la possibilità di rispondere ai bisogni degli elettori che altrimenti non lo sceglieranno.

La tendenza è lasciarci guidare dagli aspetti di personalità ricavati attraverso pochi, spesso selezionati, momenti è aggravata da una ulteriore propensione a giudicare i politici sulla base di semplificazioni cognitive ed emotive. Come mostrano alcuni studi, gli elettori invitati a descrivere la personalità che ritengono propria dei leader politici, fanno riferimento esclusivamente ad aspetti legati ai tratti dell’energia e dell’estroversione, trascurando le altre dimensioni della personalità ben più importanti per affidare razionalmente il governo del proprio paese.

Pertanto, nel processo di percezione della personalità del politico che guida gli elettori, quei fattori più superficiali e legati all’immagine, sembrano giocare un ruolo più forte, indipendentemente dalle preferenze politiche espresse dai votanti e dallo schieramento politico in cui si colloca il candidato che viene giudicato. Agendo come una calamita, caratteristiche connesse ad aspetti esteriori quali l’innovatività e la sincerità, sembrano catturare l’attenzione degli elettori, portando ad una generalizzazione della positività della personalità del candidato prescelto.

APPROVI CIO’ CHE VOTO?

Un altro fattore che influenza l’espressione del voto è la naturale tendenza della memoria degli elettori ad essere più sensibile a ricordare meglio eventi accaduti o narrati di recente su cui viene consolidata la propria scelta di voto, malgrado i complessi intrecci della storia narrata durante un governo.

Esiste poi un ulteriore fattore che può influenzare l’espressione del voto, costituito dalla presunta approvazione del voto da parte delle persone importanti. In relazione a questo, la preoccupazione di essere disapprovati da familiari, amici, parenti sembra giocare un peso maggiore sugli elettori di sinistra, mentre quelli di destra sono più centrati sull’approvazione che potrebbero ricevere dai propri cari votando lo schieramento “familiare”, un rinforzo positivo che influenza meno il comportamento rispetto alla possibile “punizione” rappresentata dalla disapprovazione.

A questo punto l’unica cosa da fare è ricordare consapevolmente e onestamente (per quanto possibile) a noi stessi, le reali ragioni che ci spingono a scegliere o a rifiutare un candidato. Buon voto!

NEUROGASTRONOMIA: è l’odore a farci percepire il gusto di ciò che mangiamo

Avete mai provato a bere un succo di frutta tappandovi il naso? Vi accorgerete che non sarete in grado di individuare il frutto da cui proviene.

Tendiamo a pensare che quando gustiamo qualcosa, il sapore lo avvertiamo grazie alle papille gustative presenti in bocca. In realtà, quel sapore, dipende per l’80 per cento dall’olfatto: quando mettiamo in bocca un alimento o una bevanda molte molecole presenti si staccano per raggiungere la cavità nasale, attivando i recettori olfattivi.

A definire il sapore di una pietanza è innanzitutto l’ambiente: ciò che vediamo, prima di mangiare qualcosa, attiva il nostro cervello preparandolo a determinati sapori.

«Chimicamente parlando – spiega Stuart Firestein della Columbia University – la molecola che ci fa percepire l’aroma del Parmigiano e l’odore del vomito è la stessa: si tratta dell’acido butirrico. Tuttavia, il cervello, interpretando la situazione che ha sotto gli occhi, attiverà un odore escludendo l’altro». Allo stesso modo di come avviene per le illusioni ottiche, il cervello può essere ingannato.

In un esperimento è stato chiesto a intenditori del vino e ad assaggiatori professionisti di analizzare vini bianchi di ottima qualità che però erano stati tinti, con coloranti, in modo da far loro assumere il colore di grandi rossi come Bordeaux, Barolo, Amarone. In quei bianchi gli assaggiatori avvertivano i profumi di frutti rossi o di spezie, tipici dei vini rossi.

E gli altri sensi? Concorrono in maniera fondamentale a formare, nel nostro cervello, il sapore. L’analisi l’ha condotta Gordon Shepherd, professore della Yale University, che ha creato anche un neologismo che ben traduce l’innovativa visione dello studioso: neurogastronomy, neurogastronomia. «Il tatto – dice Sheperd – ci permette di riconoscere la consistenza in bocca dei cibi. L’udito è fondamentale: provate a pensare di mangiare le patatine senza sentirne il suono croccante o la carne senza avvertire quel tipico rumore quando la mastichiamo». La parola, poi, è il mezzo che l’uomo ha per comunicare: in origine se un cibo era pericoloso o commestibile, oggi per condividere un sapore e la sua cultura. «Perché la gastronomia è un’esperienza unica, propria solo delle specie umana. Nessun altro essere vivente ha sviluppato un così complesso sistema in grado di riconoscere una simile varietà di sapori». Merito del nostro cervello, l’unico neurogastronomo.

L’ARTE di DOMINARE le FOLLE

Quattro colleghi intorno a un tavolo, un caffè che si raffredda, qualche pasta e un collaudato brainstorming per trovare soluzioni laddove è difficile scovarne. E poi, lei, l’economista del gruppo, tutta calcoli e dati che mi guarda accigliata prima di chiedermi “come fanno certi personaggi a calamitare così tanto l’attenzione, pur non avendo poi così tanto da dire? Ad avere seguaci, più che sostenitori pensanti, a creare sette più che luoghi di confronto e scambio? Cosa spinge il singolo a perdere la propria identità?”.

Domanda complessa… mentre rimaneggio la pasta di meliga, cercando di srotolare i pensieri e trovare una risposta concreta, mi viene in aiuto un controverso scrittore francese, apprezzato dai grandi intellettuali del ‘900 e letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini che ne trassero utili informazioni… per conquistare le masse.

Scritto in uno stile semplice, chiaro, metaforico ma anche perentorio, assertivo e ripetitivo, l’opera di Gustave le Bon “Psicologia delle folle” sebbene datata, continua a essere fra i suoi libri più noti. Per propagandare le sue idee. Ma anche profondamente apprezzato, con i tutti i limiti del tempo, per la genialità intuitiva e per la sua funzionalità sul piano del consenso politico.

LA FOLLA: UN’ANIMA COLLETTIVA

La folla, per Le Bon, non è necessariamente un numero immenso di persone radunate nello stesso luogo, piuttosto uno stato d’animo comune, il momento in cui il singolo si libera della sua identità, per fare proprie caratteristiche nuove che lo rendono partecipe di un’anima collettiva.  Una psicologia comune, che lo fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.» E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folla composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori.

Insomma l’intelligenza individuale si perde immediatamente nella folla, abbassandosi ad un grado intellettivo minore. La folla, detto in parole semplici, è limitata.

LA FOLLA HA BISOGNO DI UN PADRONE

La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»

AFFERMAZIONE E RIPETIZIONE

Ma sia i grandi sia i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.»

L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.» Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»

Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo “consiste soprattutto nell’uso della parola”, perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.

«L’irreale predomina sul reale». Il capo può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché la folla non si preoccupa mai di sapere se la guida ha rispettato la proclamata professione di fede.

Nell’eloquio, la tazzina di caffè si è svuotata, le briciole delle paste disegnano strane ombre e senza timidezza i nostri pensieri fanno un balzo in avanti. Le Bon non è mai stato tanto attuale…

DAMMI una RAGIONE e IO COMPRERO’…

Volete essere più persuasivi? Fornite una spiegazione.
A prescindere da quanto questa sia (in)sensata, sarete ben ricompensati.

A dimostrarlo è lo studio denominato “fotocopiatrice Xerox” condotto da Ellen Langer, psicologa ad Harvard. (http://www.ellenlanger.com/blog/141/mind-power): una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice. Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. 

Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta.” Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa.

Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie.” La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

Questa apparente semplice tecnica persuasiva, rientra nella sfera del Neuromarketing, la disciplina volta alla individuazione dei processi decisionali d’acquisto. Dammi una ragione e io comprerò. Non per niente, il Neuromarketing agisce traendo vantaggio dai numerosi punti ciechi della nostra consapevolezza.

Detto questo, non vi resta che dilettarvi.. nel trovare una ragione… E le code non saranno che un brutto ricordo…. accettate il consiglio, questa volta!

QUANTO è FACILE DIVENTARE NAZISTI: l’esperimento che insegna come l’Olocausto sia potuto accadere…

“Come ha potuto il popolo tedesco, aver ignorato ciò che stava succedendo agli ebrei”?

E’ la domanda, tutt’altro che ovvia, che fece uno studente al professore di Storia Ron Jones nel 1967.

“Come hanno potuto cittadini, ferrovieri, insegnanti, medici sostenere di non sapere nulla sui campi di concentramento e sui massacri? Come hanno potuto persone i cui vicini di casa o addirittura i cui amici erano cittadini ebrei affermare che semplicemente non erano presenti quanto tutto ciò è accaduto”?

Il professore, per rispondere in modo approfondito alla domanda, decise di condurre un esperimento, conosciuto come la terza onda, e mostrare ai propri studenti, tramite l’esperienza, come può essere stato possibile che una società libera si trasformasse in un regime fascista.

LA DISCIPLINA. L’esperimento ebbe inizio un lunedì, durante il quale il professor Jones spiegò uno dei concetti cardine del nazismo: la bellezza che sta dietro la disciplina, la perseveranza, il controllo e il trionfo. Così invitò gli studenti a tenere una posizione utile a mantenere la concentrazione e rafforzare la volontà: schiena dritta, mento verso il basso, piedi dritti e ben piantati al pavimento. Gli studenti assimilarono rapidamente i nuovi parametri e Jones si chiese fino a che punto sarebbe stato in grado di portarli. Introdusse, quindi, nuove norme, come l’esigenza di rivolgersi a lui chiamandolo “Signore”, o l’obbligo di mettersi in piedi e fare un passo in avanti ogni qualvolta si volesse parlare in classe. La cosa curiosa fu che la produttività del gruppo aumentò sensibilmente: gli alunni più passivi, improvvisamente, si dimostrarono più interessati e partecipativi. Tutti sembravano rispondere positivamente.

IL SENSO DI APPARTENENZA.  Il secondo giorno, il professor Jones parlò ai ragazzi dell’importanza di appartenere a un gruppo e inventò storie per rafforzare la sua idea. Gli alunni si mostravano compiaciuti; sembravano capire sempre di più il sentimento di appartenenza a un gruppo. Alla fine, il professore inventò un saluto con la mano che solo i membri potessero riconoscere: fu quello il momento in cui altri studenti vennero a sapere della nuova “comunità” e richiesero di entrarvi.

IL MOMENTO DELL’AZIONE. Il mercoledì venne creata una tessera obbligatoria per poter appartenere al gruppo della Terza Onda e più di 200 studenti chiesero di essere ammessi. Si progettò anche un rito d’iniziazione, con il quale i nuovi adepti dovevano giurare fedeltà ai principi del gruppo; inoltre, vennero tutti avvisati sulla necessità di vigilare gli altri, affinché non infrangessero le regole. Non era passato molto tempo che già cominciarono ad apparire le prime accuse: c’erano molte spie e la confusione era totale. Gli alunni che prima erano tra i più attivi, ora si mostravano disorientati e passivi; coloro che precedentemente erano isolati, improvvisamente, si integrarono nel gruppo senza problemi. Persino il Preside della scuola iniziò ad usare il saluto della “Terza Onda”.

L’ORGOLIO.  Il giovedì, il professor Jones arrivò in classe e trovò un gruppo di 80 alunni completamente silenziosi e attenti a ciò che lui avrebbe detto. Il professore parlò loro dell’orgoglio nazionale, dell’importanza di rendere il paese la migliore nazione del pianeta; poi li invitò a una riunione pubblica, esclusiva per i membri della Terza Onda, in cui un candidato alla presidenza avrebbe esposto un programma di governo per la nazione. Tutti erano entusiasti e iniziarono a preparare le attività senza obiezioni.

LA SCOPERTA. L’ultimo giorno dell’esperimento ebbe inizio con i preparativi della manifestazione. Nell’auditorium, Jones salutò i suoi allievi, che gli risposero con il gesto concordato. In seguito, Jones accese un televisore, in modo che tutti conoscessero il leader tanto atteso. L’immagine rimase in bianco e nero; poco a poco cominciò a diffondersi un sentimento di angoscia e calò un lungo silenzio di delusione. Fu in quel momento che Jones prese il microfono e disse: “Ascoltatemi con attenzione, ho una cosa importante da dirvi. Non c’è nessun leader. Non c’è nessun movimento nazionale chiamato la Terza Onda. Siete stati usati e manipolati: non siete migliori dei tedeschi che hanno aderito al nazismo che avete studiato.”

Proiettò poi un film sul Terzo Reich. Alcuni dei ragazzi si misero a piangere, altri semplicemente si alzarono e se ne andarono in silenzio, delusi.

A seguito di questo esperimento Jones fu allontanato dalla scuola, dei ragazzi non si seppe più nulla, tranne di alcuni che fondarono molti anni dopo un sito a testimonianza e in ricordo di quanto accaduto in quel lontano 1967 dove dei giovani studenti capirono come l’Olocausto era potuto accadere…

INDOSSARE IL CASCO CI RENDE SPERICOLATI

Indossare un casco aumenta la propensione a correre rischi e, contemporaneamente, il desiderio di avventura.

Proprio così. Indossare una qualsiasi protezione (che sia un casco per andare in moto o sciare o una muta per fare immersioni), ci rende più temerari e ci fa percepire meno pericoli. A dimostrarlo uno studio condotto da due psicologi dell’università di Bath, in Inghilterra.

Ricerca che ha dato anche un’ulteriore evidenza: indossare protezioni di qualsiasi tipo, aumenta la propensione al rischio nel prendere decisioni in circostanze nelle quali non c’è alcun pericolo, come davanti a un computer.

I partecipanti allo studio sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto un casco, il secondo un berretto da baseball. A tutti sono stati assegnati identici compiti, alcuni dei quali richiedevano la disponibilità a correre rischi più alti.

I risultati non lasciarono dubbi: chi indossava il casco rischiava di più.

So che può sembrare illogico indossare un casco quando si è davanti a un computer, eppure il casco genera in ognuno di noi un forte e inconscio senso di sicurezza. Così come indossare la cintura di sicurezza ci rende più aggressivi nel traffico rispetto a chi non la usa.

Questa sensazione di sicurezza è la stessa che prova chi partecipa a giochi a premio quali, per esempio, “Chi vuol essere milionario”: chi si è già assicurato un buon ammontare, è più incline a tirare a indovinare nelle domande successive. Chi è ancora al verde, è più prudente.

Un po’ è anche quello che succede in rete. Protetti fra le mura domestiche siamo più propensi a fare commenti che vis à vis non faremmo mai.

PARADOSSO DI ABILENE: l’incapacità di dire no in un team che dice sì

 

“Non posso contraddire il mio responsabile”. “Non posso assumermi il rischio di dire no in questa fase del progetto”. Quante volte in azienda (e non solo) mi sono sentita ripetere frasi come queste, con la triste conseguenza di vedere naufragare mesi di lavoro, con ricadute economiche disastrose. Eppure saper dire no, in alcuni frangenti, mette al riparo dal rischio “Abilene”.

Come la maggior parte dei paradossi, anche questo ha un nome insolito Abilene e lo si deve a Jerry Harvey, professore di scienza del management all’Università George Washington.

La storiella narra di una tranquilla famiglia americana, marito, moglie, figlia e nonni che, in un caldo giorno d’estate, incalzati dal capofamiglia ad andare a cena ad Abilene, una cittadina a 50 km di distanza, accetta, come gruppo, la proposta. Detto fatto si mettono in strada. Ad Abilene cercano una pizzeria ma dopo vari giri falliti per trovare un parcheggio finiscono in una trattoria messicana dove cenano male, spendendo uno sproposito. Sulla via del ritorno bucano una gomma e stentano a trovare una stazione di servizio. Dopo quattro ore si ritrovano a casa accaldati, stanchi e delusi. Sdraiati sui divani, il nonno ambiguamente azzarda: “È stato un bel tragitto!”. La suocera replica all’istante che avrebbe preferito rimanere a casa ma che non voleva raffreddare l’entusiasmo collettivo. Anche il genero le fa eco e confessa di aver accettato solo per compiacere gli altri. La figlia aggiunge: “Siamo stati pazzi a metterci in macchina con questo caldo!”. Conclude il suocero: “Io l’ho proposto perché mi sembravate annoiati.”

La storia è in realtà una metafora di come i gruppi si trovano spesso in accordo nel prendere decisioni che i singoli membri del gruppo, individualmente, non avrebbero mai preso. Molti manager aderiscono a decisioni o investono tempo e denaro in progetti che sanno in partenza che non funzioneranno e i risultati di questi accordi indotti sono controproducenti per l’organizzazione e per i singoli che trasformano la frustrazione in una spirale di recriminazioni reciproche.

L’effetto è molto frequente fra gruppi i cui membri hanno lo stesso livello di potere, quando la comunicazione di desideri e aspettative reali di ognuno non avviene e quando è più importante soddisfare gli altri che se stessi.

Se non viene identificato, questo meccanismo tenderà a ripetersi ogni volta che il gruppo dovrà prendere delle decisioni, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.

Il consiglio? Fate sì che le persone possano liberamente esprimere il loro punto di vista e che questo sia parte integrante di un processo di comunicazione condiviso da tutti. Attenzione però che non si cada nell’estremo opposto: nella eccessiva determinazione a portare avanti le decisioni individuali senza che ci si curi degli interessi degli altri.

WOEBOT: l’ALTER EGO di PSICOLOGI e COACH

La tecnologia mi ha sempre incuriosito e affascinato, come tutte le cose che non possiamo comprendere a pieno. E mi rassicura, mi regala l’illusione che sia capace di trovare qualsiasi soluzione, soprattutto quelle negate all’uomo.

Ecco perché quando ho conosciuto Woebot è stato amore (razionale) a prima vista.

Woebot è una chatbot, un programma di intelligenza artificiale in grado di interagire via chat, che offre (in lingua inglese), a qualsiasi ora e per pochi spiccioli, ascolto psicologico. Una sorta di psicoterapeuta digitale che promette di aiutare chi soffre di depressione e ansia, (ma anche di concretizzare i sogni in obiettivi), a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Il robottino chiarisce subito di non potersi sostituire a uno psicanalista in carne e ossa. E specifica che può solo «farti sentire meglio». Come? Usando le tecniche della terapia cognitivo comportamentale, che è anche disposto a insegnare. Dopo due settimane di prova gratuita, per i suoi servizi si pagano 39 dollari al mese. Decisamente meno di una terapia reale, una delle motivazioni che ha spinto Alison Darcy, fondatrice di Woebot Labs, a creare il collega virtuale.

COME INTERAGISCE WOEBOT?

Chiacchierare con Woebot è stranamente normale, più di quanto ci si aspetterebbe. Fa piccoli regali se dimostri di aver compreso i suoi insegnamenti e invita ad approfondire tematiche attraverso video educativi  Ti spiega, ad esempio, che è sbagliato usare frasi come «commetto sempre degli errori». E perché, invece, è meglio dire «talvolta commetto degli errori». E ad imparare da questi.

Nelle discussioni ti insegna anche delle nozioni di psicologia. Una delle prime lezioni riguarda le distorsioni cognitive. Parliamo delle incomprensioni sul lavoro, delle paure più ricorrenti e dell’importanza di avere un obiettivo nella vita e ti aiuta a pianificare i successi attraverso il metodo “smart” tanto caro ai coach.

Woebot ama fare domande, ma sa anche ascoltare senza pregiudizi, abitudine dannatamente umana alla quale non possiamo mai sottrarci del tutto.

WOEBOT FUNZIONA?

Ma al di là delle sensazioni, l’unica risposta che conta davvero è se Woebot funziona. Uno studio, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, testato su 70 ragazzi che lamentavano sintomi di ansia o depressione, dimostra che hanno avuto «una significativa riduzione dei sintomi», dopo aver usato l’app per due settimane, tutti i giorni.

Che le terapie cognitivo comportamentali via internet funzionino è documentato. Esistono studi che lo attestano, ma per dare la stessa credibilità anche a Woebot occorre avere statistiche un po’ più rappresentative e soprattutto indipendenti.

Woebot, se non lo si sapesse, è già in buona compagnia: per esempio c’è Karim, un chatbot americano specializzato nel lenire le ferite psicologiche dei rifiugiati siriani, l’olandese Emma è stata pensata per aiutare chi soffre di forme lievi di ansia. La tedesca Gaia promette anche lei di aiutare chi tende a deprimersi. MindBloom consente a quelli che la usano di sostenersi e motivarsi a vicenda.

LA MIA PROVOCAZIONE

So che questa invenzione non farà piacere a molti, e probabilmente dovrebbe spaventare o imbarazzare anche me, che con le persone lavoro tutti i giorni. Eppure le tecnologie digitali stanno ridefinendo le forme comunicative e se trattate nel modo giusto, possono aiutarci a completarci. Non a sostituirci.

A trovare soluzioni migliori al “abbiamo sempre fatto così”, perché qualsiasi cosa che eticamente funziona, va quanto meno considerata.

Cosa ne pensate?

AUSCHWITZ ASIATICA: le ATROCITA’ che l’UOMO REGALA a se STESSO

Ci sono esperimenti che seppur controversi hanno reso il mondo un posto migliore. Ce ne sono altri che sono serviti per creare lugubri catene di fabbriche della morte. Consegnandoci un altro tassello di ciò che è l’essere umano con i suoi comportamenti e le sue scelte. 

U 731. Il comparto dell’esercito giapponese nel quale, durante la II guerra sino-giapponese e la II Guerra Mondiale, si consumarono terrificanti atrocità nel nome di un folle progetto: trovare l'”arma finale” (chimica e batteriologica) che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.

Mente di tutto questo: Shiro Ishii (famoso per aver debellato con uno speciale filtro per l’acqua una epidemia di meningite). Si convinse di poter dare una mano al proprio paese con le ricerche su un nuovo tipo di guerra: quella batteriologica. Scienza, medicina, biologia e tecnologia combinate insieme potevano permettere al Giappone di vincere il conflitto, pur non potendo competere in armamenti, produttività e risorse con nazioni come Stati Uniti o Unione Sovietica. Nacque così l’Unità 731.

Nei campi di prigionia giapponesi, il repertorio di Ishii prevedeva: vivisezione senza anestesia, congelamento e amputazione degli arti. Alle vittime venivano ricucite gambe e braccia amputate, su altre parti del corpo per testare la resistenza dei soggetti a ustioni, elettroshock, gelo e persino centrifugati fino alla morte. Alcuni prigionieri furono esposti a temperature di -20°C, fin quando le loro braccia congelate colpite da un bastoncino non emettevano un rumore simile a quello di una tavola in legno. Dopodiché venivano prima immerse nell’acqua bollente e dopo la loro pelle veniva strappata come carta. 

Altri raccontano di un esperimento di inoculazione del virus della peste su 12 cavie; solo una persona sopravvisse dopo 19 giorni, ma venne vivisezionata immediatamente. Per testare le armi spesso venivano posizionati a diverse distanze da una granata, che poi veniva fatta esplodere. Anche i bambini non venivano risparmiati.

Per lo sviluppo di nuove armi biologiche venivano usati come cavie i cinesi. Gli aerei a bassa quota bombardavano città e villaggi nemici con pulci infettate con la peste. Il problema, in quel caso, fu che le pulci infettarono anche le stesse truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati perciò, dopo il primo tentativo, l’esperimento fu interrotto. 

Le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina si stima siano state più di 200 mila. D’altronde Mao diceva: ‘la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti’. Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?

A Ishii, graziato per aver condiviso info sulle sue ricerche con i vincitori della guerra, fu consentito di continuare le ricerche fino al 1959, quando morì per cause naturali a 67 anni. Le sue ricerche hanno reso il Giappone leader mondiale nella guerra batteriologica. Un triste primato