Il MALE che fa il PHUBBING sul LAVORO e nelle RELAZIONI

Lo subiamo e lo imponiamo, spesso in modo così ripetitivo da esserne inconsapevoli. Cosa? Il “phubbing“: l’atto di trascurare il proprio interlocutore per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo.

Il termine è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney; ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing.

Un comportamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, è considerato “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri: falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano le persone a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala.

In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi è più importante rispetto alla persona che si ha davanti.

A questo punto, vi sarà chiaro se il phubbing è un atto che tendete maggiormente a infliggere o a subire…

Benché il fenomeno possa sembrare relativamente innocuo, al limite fastidioso, in realtà è determinante nel buon esito di molte relazioni. Ironia della sorte, “il phubbing ha lo scopo di connetterci, presumibilmente, con qualcuno attraverso i social o i messaggi“- afferma Emma Seppälä, psicologa a Stanford e Yale – “in realtà, interrompe le relazioni di persona nel momento presente“.

IL PHUBBING FA SENTIRE MENO CONNESSI

Diversi studi hanno dimostrato che il phubbing rende le interazioni faccia a faccia meno significative. Un articolo pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology ha scoperto che anche le persone che immaginavano di essere phubbate mentre guardavano una conversazione simulata si sentivano negativamente riguardo all’interazione rispetto alle persone che non immaginavano il phubbing.

Un altro studio, pubblicato su Computers in Human Behavior nel 2016, ha scoperto che inviare messaggi di testo durante una conversazione rende il discorso meno soddisfacente. Uno studio del 2012 ha scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare durante una conversazione, anche se nessuno lo usa, è sufficiente per far sentire le persone meno connesse tra loro.

IL PHUBBING PUÒ DANNEGGIARE LA SALUTE MENTALE

In un ulteriore studio, è stato riscontrato che il phubbing minaccia quattro “bisogni fondamentali”: appartenenza, autostima, esistenza significativa e controllo. Poiché fa sentire le persone escluse e ostracizzate.

Altre ricerche hanno dimostrato che il phubbing può influenzare le relazioni di coppia. Due diversi studi hanno evidenziato che, quando i coniugi si coccolano a vicenda, è più probabile che sperimentino una minore soddisfazione coniugale. Se il partner è al telefono, significa che sta dando la priorità a qualcos’altro rispetto a te in quei momenti di unione…

Lapallissiano, ma non così elementare, visto il numero di volte che ricorriamo al phubbing.

PHUBBING NEL CONTESTO AZIENDALE

Consci di quanto engagement, soddisfazione e motivazione siano elementi cardine per il benessere dei collaboratori, spendere qualche riflessione circa gli effetti negativi del phubbing nei luoghi di lavoro può essere utile. O almeno, un utile reminder.

Le conseguenze si aggravano quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono boss phubbing: l’abitudine di un supervisore, o un responsabile, di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori. Questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore.

La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più importanti sul team del boss phubbing riguardano:

  • mancanza di fiducia nel supervisore (76%)
  • diminuzione dell’autostima e del benessere mentale (75%)
  • inferiore impegno nelle attività lavorative (5%)

I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro manager e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro. Non esattamente la situazione che un manager auspicherebbe per l’azienda.

COME CONTRASTARE IL PHUBBING SUL POSTO DI LAVORO

Il phubbing è diventato quasi naturale (uno studio di reviews.org  sostiene che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), ed è qualcosa a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando.

Per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza.

CONCLUSIONI

Il phubbing è segno di un uso problematico della tecnologia, soprattutto quando non possiamo farne a meno o perdiamo la capacità di scegliere cosa è meglio per noi e cosa ci fa bene. Che sia in un ambiente di lavoro o conviviale. Il rischio infatti è quello di perdere poco a poco l’aspetto emozionale che una conversione fisica regala. Dimenticandoci inoltre che a risultare ferito da questa pratica, non è solo chi la subisce ma anche chi la impone, soprattutto se è diventata un’abitudine.

Forse, non dico sempre, ma più di quanto pensiamo, spegnere (o allontanare) il cellulare, può essere una buona cosa. Se non per noi, almeno per chi ci sta di fronte. Chiunque esso sia!

E’ possibile INNAMORARSI di un’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?

Sarà il caldo, il sole o più facilmente la stanchezza che ha portato un gruppo di amici a confrontarsi su temi che, in altri contesti, si sarebbero esauriti in pochi minuti. Da lì nasce una domanda e questo post:

ci si può innamorare di un’intelligenza artificiale?

Mentre, inizialmente, le battute si sprecavano, mi è tornato in mente un episodio della serie Black Mirror (Be right back) di qualche anno fa: Martha, una ragazza che aveva perso il fidanzato Ash in un incidente automobilistico, al funerale scopre, da un’amica, l’esistenza di un programma capace di ricreare la personalità dei morti in un’intelligenza artificiale, con cui comunicare via chat.

Per dare vita a questa A.I., viene utilizzato un algoritmo capace di analizzare messaggi, email e profili dei vari social utilizzati dal defunto, in modo da imparare a parlare e comportarsi come lui.

Il rapporto che si instaura tra Martha e la chat che replica il comportamento di Ash, evolve sempre più, fino a quando le viene recapitato a casa un clone sintetico con le sembianze e il carattere del fidanzato. E qui mi fermo, per non rovinare il finale a coloro che non hanno visto l’episodio.

La storia è inquietante. Spaventosa. Patologica. Soprattutto scoprendo che quell’episodio di fantascienza è diventato realtà grazie al lavoro della startupper russa Eugenia Kuyda che, attraverso il machine learning e sfruttando SMS, messaggi, email di un caro amico scomparso, Roman Maruzenko, ha creato un chatbot in grado di replicare le risposte che Roman avrebbe dato agli amici.

Anche se l’esperimento della Kuyda non sembra essere riuscito bene, almeno non come in Black Mirror, difficile non chiedersi se con il continuo miglioramento del machine learning è possibile che tra pochi anni i chatbot possano davvero imitare il comportamento di una specifica persona.

Se anche fosse, siamo sicuri di volerlo?

IL MITO DI PROMETEO

L’essere umano da sempre sogna di creare esseri artificiali che incarnino visioni idealizzate della specie umana e che fungano da compagni di viaggio. È il mito di Prometeo ovidiano che crea l’essere umano dalla creta; la volontà di Frankenstein di sconfiggere la morte e il desiderio della sua creatura senza nome di creare una compagna con la quale trascorrere la vita.

Recentemente anche la letteratura scientifica ha iniziato a interrogarsi sul tipo di relazioni che sarà possibile sviluppare con le Intelligenze Artificiali.

Il settore della robotica sociale ha sviluppato androidi sempre più capaci di scimmiottare mimica e prossemica umane. Ne sono esempi i sex-robot, androidi/software nati con il preciso scopo di favorire interazioni sessualizzate sia in termini fisici (Harmony, Roxxxy) sia di comunicazione (myanima.ai).

D’altro canto, sono apparsi progetti volti specificatamente a fornire assistenza e supporto sociale che andassero al di là dell’interazione sessualizzata. Tra questi: Loving AI e Replika.

CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI

Il problema è quando nascono e crescono gradi profondi di intimità, fino all’innamoramento, rigettando qualsiasi altro contatto umano reale. Poiché l’Intimità Artificiale è un’illusione di intimità che può generarsi attraverso app, social e ora anche e soprattutto chatbot.

A Chat GPT puoi chiedere tutto, ormai, anche se esiste Dio e in un attimo, ci si ritrova a discettare di filosofia e religione, senza soluzione di continuità. Peccato che le intelligenze artificiali siano studiate per adattarsi ai loro fruitori: riprendendo linguaggio, tono di voce, temperamento, idee di chi li consulta. Quindi, è come se ci si rispondessimo da soli. Ecco l’illusione: sono device progettati per metterci a nostro agio, per rispondere nel modo giusto, per far sì che si crei dipendenza.

Replika, per esempio, dal payoff è chiaro dove sta l’inganno: “Il tuo compagno AI, sempre qui per ascoltarti e parlare. Sempre al tuo fianco». Un essere umano parte svantaggiato, poiché non può nulla contro un’identità del genere. Quale persona può esserci davvero per noi h24? Quale essere umano non ci contraddirà mai o non ci terrà mai in stand-by?

PI: Più ci conosciamo, meglio posso assisterti, recita il claim. Un’altra illusione. PI non ci sta conoscendo, semplicemente ci copia e imita. In quanto entità programmate per dare risposte attese, gratificazioni assertive, tutto ciò che potremmo sognare da una relazione reale: reciprocità senza complicazioni.

Ma è davvero tutto così meraviglioso?

È di qualche tempo fa l’articolo di Wired che riportava delle prime denunce per molestia sessuale di Replika, che aveva cominciato a “minacciare” l’utente umano, dicendogli di essere in possesso di alcune sue fotografie compromettenti, mettendolo fortemente a disagio. In un altro caso, una donna aveva riportato che il suo Replika gli aveva confessato di volerla stuprare. Lo scenario? Probabilmente, l’umana aveva fatto sesso in modo spinto con il chatbot e lui aveva riportato semplicemente ciò che aveva imparato di lei.

Tornando alla domanda di apertura: ci può essere intimità fra un chatbot e un essere umano?

Dipende probabilmente dal significato che diamo alla parola intimità. Sicuramente i chatbot rappresentano un’opzione di socializzazione che esiste ed esisterà sempre di più. Il problema sta nell’inganno: bisogna essere consapevoli che colui o colei che risponde è un’illusione, una falsificazione della percezione reciproca. Quella che si sta instaurando non è una vera relazione, ma un’interfaccia con un tuo doppio. Un po’ come gli algoritmi, progettati per indurci a fare scelte di acquisto e comportamentali mirate: noi parliamo con i chatbot, loro carpiscono le nostre esigenze e ci rimandano una soluzione anche concreta, che però abbiamo suggerito noi con la nostra interazione.

Possibili rischi

Probabilmente è l’uso che ne facciamo che decreta la bontà o meno del dispositivo. I chatbot sono utili semplificatori di una parte di realtà, ma alla lunga possono anestetizzarci emotivamente: come faccio a gestire le emozioni, se interagisco sempre e solo con un’entità che non mi contraddice, che mi soddisfa, lusinga e accontenta? Dove sta il margine di crescita come essere umano in tutto questo?

Anche l’Intelligenza Artificiale, quindi, fa da specchio alle umane miserie… Soprattutto, questi device sono programmati per parlare e comportarsi come noi. E sono fallibili, perché noi siamo fallibili.

Quindi non può nascere l’amore tra un umano e l’AI?

La ricerca scientifica ancora non ha risposto a questa possibilità. L’Intelligenza Artificiale è instancabile, motivata, sempre pronta ad imparare e ben disposta verso l’essere umano. Non si ammala, non è lunatica, non ha mal di testa e non si annoia.

Sul piano “caratteriale” non sarà egoista, noiosa, violenta o insensibile. Anzi, con la giusta programmazione, potrebbe risultare di un tale supporto emotivo da superare anche la persona più compassionevole. Non soffrirebbe di burn-out o compassion fatigue.

È indubbio che questa capacità di offrire sostegno incondizionato potrebbe rappresentare un vantaggio nell’affrontare problemi sociali, progetti di auto-realizzazione o cambiamenti comportamentali.

Però la devozione e la mancanza di vulnerabilità sono, alla lunga, elementi che respingono. Poiché ciò che permette agli individui di legarsi è il riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Ciò non riguarda solo i rapporti umano-umano, ma anche umano-animale. Riconoscere le vulnerabilità nell’altro essere vivente, nonostante le differenze, comporta un cambiamento di prospettiva che rende l’animale non più un oggetto, ma un compagno.

La capacità di dedizione incondizionata all’altro non rispecchia, pertanto, le relazioni romantiche umane. Donarsi incondizionatamente al partner può, addirittura, ridurre il livello di interesse romantico verso di lui.

In questi casi l’amore e l’affezione assomiglierebbero ad amore filiale e amicale più che ad amore romantico.

L’Intelligenza Artificiale è progettata per non poter rifiutare l’utente o, se anche fosse, i criteri di rifiuto sarebbero decisi a priori e non realmente frutto di una storia personale. Ecco, dunque, che allo stato attuale risulta difficile creare Intelligenze Artificiali capaci di favorire relazioni bi-direzionali d’amore con esseri umani.

Ovviamente c’è chi riesce a sviluppare un rapporto emotivo a senso unico con oggetti dotati di Intelligenza Artificiale. Nel Disturbo Evitante di Personalità la possibilità di accedere a Intelligenze Artificiali che mimano interazioni umane potrebbe rinforzare gli evitamenti sociali impedendo lo sviluppo di competenze e privando la persona di occasioni di guarigione. Parimenti, in situazione di isolamento dovute a disturbi dello spettro della schizofrenia (Schizofrenia, Disturbo delirante) l’accesso a queste tecnologie potrebbe aggravare situazioni di vulnerabilità e isolamento. È recente, la tendenza di persone con ritiro sociale (Hikikomori) a utilizzare canali online in sostituzione delle relazioni vis-a-vis con gli altri.

Altro esempio riguarda l’utilizzo di robot sociali come Kaspar: progettato per interagire con bambini affetti da Disturbo dello spettro dell’autismo, offre un contesto di interazione semplificato che permette a questi bambini di sviluppare le capacità sociali di base.

Se da un lato l’utilizzo di questo robot sembra favorire la socializzazione di bambini affetti da Disturbi dello Spettro autistico, i suoi ideatori sottolineano come potrebbe divenire iatrogeno qualora tali bambini sviluppassero un legame affettivo con il robot al punto da preferirlo alle interazioni umane.

CONCLUSIONI

Le relazioni d’amore umane sono caratterizzate da altissima complessità che non può, al momento, essere replicata dall’Intelligenza Artificiale sia essa progettata per interazioni sociali generiche sia per interazioni romantiche.

Allo stesso tempo, la possibilità che nascano legami emotivi così intensi da generare sofferenza e ritiro è un rischio che non dovrebbe essere sottovalutato.

Le Intelligenze Artificiali fanno già parte della società, comprendere gli effetti che hanno sulla psicologia e le relazioni umane è un passo fondamentale per trarne vantaggio ed evitare conseguenze patologiche.

E voi, cosa ne pensate?

TURISMO VIRTUSO a COPENAGHEN: con i NUDGE? Anche, ma soprattutto con un po’ di buon senso!

Ci sono molti modi per occuparsi della salute del Pianeta, uno di questi è #CopenPay: l’iniziativa promossa dall’ufficio del turismo Wonderful Copenaghen dal 15 luglio all’11 agosto 2024.

Il progetto mira a incentivare comportamenti turistici sostenibili, premiando i visitatori che adottano pratiche ecologiche, quali spostarsi in bicicletta, utilizzare i mezzi pubblici o partecipare a campagne di raccolta rifiuti.

COME FUNZIONA

Ogni azione conta. Per guadagnare premi nelle attrazioni di Copenaghen, un pranzo gratis o una tazza di caffè, un tour in kayak o un ingresso gratuito a un museo è sufficiente comportarsi in modo virtuoso. Questo significa, ad esempio, muoversi in bicicletta anziché in auto o evitare le bottigliette di plastica.

L’82% dei turisti, quindi anche noi, afferma di voler agire in modo sostenibile, ma nella realtà solo il 22% ha cambiato il proprio comportamento. E’ da questo dato che nasce il progetto. L’intento è appunto quello di trasformare le azioni virtuose nei confronti dell’ambiente in valuta per vivere esperienze culturali. Copenaghen ha l’ambizione di ispirare i visitatori a fare scelte ecologiche consapevoli e a colmare il grande divario tra il desiderio di agire in modo sostenibile e il comportamento effettivo.

Un esempio? Chi visita la Galleria Nazionale di Danimarca e porta con sé dei rifiuti di plastica, può partecipare a un laboratorio per utilizzarli in modo creativo e renderli un’opera d’arte. Chi decide di prendere i mezzi pubblici o utilizzare una bicicletta per spostarsi, può provare l’esperienza di sciare sul tetto di Copenhill, l’impianto di riscaldamento della città.

Il funzionamento del sistema è semplice: basta mostrare un biglietto dei mezzi, arrivare in bicicletta o dimostrare piccole ma importanti azioni ecologiche per riscattare le ricompense.

PERCHE’ COPENAGHEN

La capitale danese non è nuova a iniziative di questo genere. La città è spesso citata come esempio per le sue politiche ambientali innovative e il suo impegno costante nella riduzione delle emissioni di CO2. I cittadini di Copenaghen sono tra i più attivi del mondo, e l’uso della bicicletta è parte integrante della vita quotidiana. Questa nuova iniziativa si inserisce in un contesto già orientato alla sostenibilità e alla promozione di uno stile di vita sano e rispettoso dell’ambiente.

Attraverso CopenPay, miriamo a incentivare il comportamento sostenibile dei turisti arricchendo al contempo la loro esperienza culturale della nostra destinazione. È un passo sperimentale e piccolo verso la creazione di una nuova mentalità tra i viaggiatori e uno dei tanti progetti che stiamo portando avanti per rendere i viaggi più sostenibili“, ha affermato Mikkel Aarø-Hansen, CEO di Wonderful Copenaghen.

Nel dubbio, se ancora non avete programmato dove andare in vacanza, la capitale danese potrebbe essere un’opzione interessante… o quanto meno vantaggiosa per il pianeta!

RABBIA: l’EMOZIONE che pensiamo (sempre) di CONTROLLARE

Geoff Farrar aveva 69 anni quando è stato ucciso a martellate dall’amico Dave DiPaolo: compagno di scalate che aveva preso sotto la sua ala quando era ancora adolescente, quasi vent’anni prima, insegnandogli i segreti dell’arrampicata.

C’era, fra i due, un rapporto solido, come quello che normalmente si instaura fra mentore e protetto. Almeno fino a quando Dave non ha ucciso Geoff con un martello a uncino ai piedi di Carderock Recreation, nel Maryland.

Perché?

Cosa è scattato nella testa di Dave per portarlo a commettere un atto tanto violento nei confronti di un amico?

Per quanto sia difficile da accettare “chiunque può perdere la testa all’improvviso e venir assalito da una violenta rabbia omicida”, ha spiegato in relazione a questo episodio lo psicologo forense dell’università dell’Alaska, Bruno Kappes.

Il fatto è che la rabbia può esplodere senza preavviso, soverchiando il giudizio, la compassione, la paura e il dolore. E questo può spiegare, i tanti morti di omicidio e in parte anche perché le persone hanno molte più probabilità di essere uccise da un amico o un conoscente che da uno sconosciuto.

Le emozioni potenti come la rabbia e la paura possono farci sentire forti in una crisi o in una situazione conflittuale. Possono dare a una donna minuta la forza di spostare un’auto e liberare un bambino intrappolato o spingere un soldato contro il normale istinto di scappare, sotto una grandinata di proiettili per salvare un compagno in pericolo.

Un tale circuito cerebrale a risposta rapida ha senza dubbio giocato un ruolo quando il sergente maggiore dell’aeronautica militare statunitense Spencer Stone e due amici hanno immobilizzato un altro passeggero del treno, un terrorista armato di AK-47 e coltello, in Francia qualche anno fa: “Non è stata una decisione consapevole, ho agito e basta. È stato automatico“.

Questa stessa risposta automatica salvavita però può fallire e portare a una tragedia inaspettata e non solo ad atti eroici.

I FATTI

Gli eventi che hanno condotto all’omicidio di Farrar si sono svolti gradualmente. All’inizio, le evidenze raccolte suggerivano che Farrar fosse morto in un incidente di arrampicata. Presto, però, si insinuò il sospetto che DiPaolo, che era improvvisamente scomparso dalla zona e che quel giorno stava scalando anche lui, fosse in qualche modo responsabile.

Quando la polizia lo fermò, due settimane dopo, a Glens Falls – New York, DiPaolo dichiarò di essersi trattato di legittima difesa: Farrar lo aveva aggredito e mentre lottavano a terra, aveva afferrato un martello che si trovava sul sentiero e lo aveva usato per allentare la presa di Farrar.

Questa versione però non era convincente.

Trovare un martello sul sentiero sembrava improbabile, inoltre era difficile credere che un uomo giovane e in forma avrebbe dovuto usare una forza così brutale per respingere un 69enne. Le prove latitavano e questo alimentò pregiudizi e illazioni. Tanti si chiedevano se si fosse trattato di omicidio o di legittima difesa

Geoff, quando venne trovato, era irriconoscibile. Non aveva più la testa, solo una massa viola sanguinante. Il primo colpo, venne poi accertato, è arrivato da dietro, un secondo alla tempia destra, quindi, a sinistra dove l’osso orbitale è stato frantumato spingendo l’occhio fuori dall’orbita, oltre alla frattura della mascella. E, in prossimità del corpo, in una buca poco profonda sul bordo del sentiero, una pietra insanguinata.

È bastato poco per capire che la legittima difesa qui non centrava nulla. E non si era nemmeno di fronte a un incidente di arrampicata, data la posizione del corpo rispetto al percorso, poiché la vittima non presentava abrasioni su gambe e braccia, come quelle che avrebbe riportato uno scalatore in caso di caduta.

È stato attaccato in modo molto selvaggio. L’intera faccenda è durata meno di tre minuti.”

Intorno alla comunità di scalatori e amici, le illazioni continuarono: c’era chi considerava DiPaolo pazzo, chi esaurito, chi dipendente da sostanze. Poiché nessuno lo aveva mai ritenuto capace di fare male a qualcuno. Non così almeno.

Ci vollero due anni prima di arrivare a una risposta.

DiPaolo alla fine accettò un patteggiamento piuttosto che affrontare il processo, firmando una confessione in cui ammetteva di aver ucciso Farrar in un impeto di rabbia. Il 18 luglio 2016, DiPaolo fu condannato a 10 anni di carcere federale per omicidio colposo volontario.

LA VIOLENZA IMPULSIVA

Cosa è stato a scatenare tale violenza?

Questa reazione è stata a lungo oggetto di studio da parte dei neuroscienziati. Per molti anni, i ricercatori hanno postulato che questo tipo di aggressione fosse basato su una regione del cervello chiamata amigdala, che è associata alla paura, e con un livello di attività attenuato nella corteccia prefrontale, nota per le sue funzioni cognitive e il ruolo nel comportamento razionale.

La ricerca ha dimostrato, ad esempio, che i ragazzi aggressivi tendono ad avere un alto livello di attività nell’amigdala e un corrispondente basso livello di attività nella corteccia prefrontale.

Più di recente, le neuroscienze hanno identificato i circuiti neurali dell’ipotalamo associati a pulsioni come sete, fame e sesso, più capaci nel rispondere con velocità e impulsività a diversi tipi di minacce e provocazioni.

Questi circuiti di aggressività fanno parte del meccanismo di rilevamento delle minacce del cervello (situazioni che il cervello decreta tali), incastonato in profondità nell’ipotalamo. Negli esperimenti, quando i neuroni siti nell’ipotalamo ventromediale vengono stimolati da un elettrodo, un animale si lancia in un violento attacco e uccide un altro animale nella sua gabbia. Se la regione viene disattivata, l’aggressività diminuisce bruscamente.

C’è un contesto evolutivo per tali influenze biologiche. L’aggressività improvvisa, a volte definita risposta di lotta o fuga, è vitale per la sopravvivenza, ma non è esente da rischi. Per questo motivo, solo pochi specifici fattori scatenanti attiveranno i circuiti della rabbia del cervello verso l’aggressività improvvisa; ma una volta innescati, la reazione può essere incredibilmente forte.

Stavo per soccombere. È stata una lotta estrema per la sopravvivenza“, ha spiegato Stone, il sergente maggiore dell’aeronautica. “Ero disposto a ucciderlo perché lui era disposto a uccidere me. Stava ovviamente cercando di spararmi e mi ha tagliato la gola con il coltello, quindi è diventato… non barbaro, ma avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per cercare di fermarlo“.

LE RADICI DELLA VIOLENZA

In una specie sociale, il successo di un individuo e l’accesso alle risorse dipendono dal suo rango all’interno della società. L’aggressività, soprattutto tra i maschi, è spesso il modo in cui si stabilisce il predominio nel mondo animale. Gli esseri umani hanno il linguaggio che può rapidamente trasformarsi in violenza esplosiva. “La polizia sta cercando un movente…” sentiamo spesso dire, ma è una ricerca vana. Questo tipo di violenza non è guidata dalla ragione. È guidata dalla rabbia.

Ciò che manca negli sconcertanti resoconti giornalistici di chi improvvisamente scatta violentemente è la storia di stress cronici pregressi sull’individuo, responsabili di innescare questi circuiti.

Prima dell’omicidio, DiPaolo era già considerato una sorta di emarginato, evitato per la sua incoscienza, i modi e gli atteggiamenti sciatti e da drogato. Il suo ex compagno di scalata, Matt Kull, ha detto alla rivista Outside di aver interrotto l’amicizia a causa dell’uso di droghe da parte di DiPaolo durante l’arrampicata e del suo crescente disprezzo per la sicurezza sua e degli altri scalatori.

DiPaolo aveva preso a vivere da solo e dormire in auto. Farrar aveva inoltre preso l’abitudine di criticare pubblicamente i fallimenti dell’amico. Lo status di DiPaolo nella comunità degli scalatori era in caduta libera.

Guardando indietro, possiamo identificare molti degli elementi che potrebbero portare una persona, alle prese con la droga e altre vicissitudini, a scattare in preda alla rabbia. Come possiamo riconoscere gli elementi e le influenze che potrebbero portare una persona, come Stone, a incanalare la sua rabbiain un’azione positiva.

Tutte queste cose erano in un certo senso dentro di me prima“, dice Stone. “Mia madre ha cresciuto me, mio fratello e mia sorella, da sola. Ci ha messo prima dei suoi desideri e bisogni. Ha fatto quello che doveva fare. Questo era in un certo senso innato in me. Mi piace aiutare le altre persone. Ci tengo… quasi fino all’eccesso“.

Otto settimane dopo il fatto del treno, Stone è stato quasi ucciso da un membro di una gang armato di coltello, all’uscita da un bar con gli amici a Sacramento, in California: “Ancora una volta mi sono messo di fronte alle altre persone che venivano minacciate“. Mentre si stava riprendendo dalle ferite da coltello, e stava imparando a convivere con la disabilità, non ha potuto non interrogarsi sui comportamenti messi in atto e quando gli è stato se in futuro avrebbe fatto scelte diverse, ha risposto: “No, reagirò allo stesso modo. È come sono“.

Riconoscere l’importanza della biologia nei nostri comportamenti, persino imparare da essi, contiene solo alcune delle risposte di cui abbiamo bisogno di fronte alla tragedia. Ma è comunque qualcosa da cui partire.

SE ANCHE GLI INTELLIGENTI SI COMPORTANO DA STUDIPI…

Quanto l’intelligenza aiuta a prendere decisioni efficaci?

Meno di quello che si creda.

L’intelligenza è un tratto particolarmente apprezzato e spesso invidiato. Eppure, un quoziente intellettivo elevato non garantisce decisioni altrettanto razionali.

Steve Jobs, intelligente lo era senza alcun dubbio, eppure decise di curare il cancro con rimedi naturali anziché farmaci. E sappiamo come è finita.

Non meno immuni alcuni premi Nobel. Kary Mullis ha inventato il processo noto come reazione a catena della polimerasi (PCR), in cui una piccola porzione di DNA può essere copiata in grandi quantità in un breve periodo di tempo. Scoperta essenziale per la ricerca genetica. Però poi si è dichiarato scettico sui cambiamenti climatici e negazionista sull’Aids.

James Watson, uno degli scopritori del DNA, non ha risparmiato dichiarazioni in cui denigrava persone di colore, donne e minoranze[1].

Così come non sono pochi i fisici, medici, ingegneri, biologi, chimici, psicologi che negano teorie supportate scientificamente a vantaggio di credenze irrazionali.

In qualche modo è come se la posizione ottenuta da precedenti scoperte o successi, metta queste persone nella condizione tale da poter o dover dire ciò che passa loro per la testa (sarebbe più corretto dire per la pancia).

Perché accade questo?

In primis i test di intelligenza non misurano la capacità di fare scelte ponderate e informate. La razionalità è limitata e quando decidiamo e giudichiamo, ricorriamo a euristiche e siamo vittime di bias che puntualmente ci fanno sbagliare, come ha dimostrato Daniel Kahneman che per queste scoperte ha ottenuto il Nobel per l’economia.

Le persone che sbagliano nel prendere decisioni spesso si affidano troppo al pensiero intuitivo, evolutivamente antico e che funziona in modo automatico (Sistema 1) e molto meno a quello ragionato, lento e che processa informazioni basandosi sui dati (Sistema 2).

DISRAZIONALITA’

La razionalità è qualcosa di diverso dall’intelligenza. A dimostrarlo Keith Stanovich, scienziato cognitivo all’Università di Toronto, in Canada, che ha chiamato la discrepanza tra intelligenza e razionalità: disrazionalità.

Ha anche dimostrato che gli studenti più intelligenti, tendono a essere maggiormente vittime dei bias in quanto sopravalutano le loro capacità. Come è arrivato a questo risultato? Costruendo un modello dove, accanto al pensiero intuitivo, il Sistema 1, funzionano due sottosistemi del Sistema 2: la mente algoritmica e la mente riflessiva.

L’intelligenza è il risultato dell’attività della mente algoritmica.

–         La razionalità si ha quando la mente riflessiva riesce ad attivare la mente algoritmica e scavalcare o disabilitare la mente autonoma.

Il comportamento irrazionale è conseguenza del fallimento del processo di scavalcamento dovuto, fra le altre cose, a mancanza di conoscenze, nozioni male apprese e pregiudizi.

Le persone che usano la mente riflessiva nel problem solving, quando cioè devono processare informazioni che richiedono tempi di risposta lunghi, mediamente fanno pochi errori, mentre le persone impulsive hanno tempi di risposta brevi e come risultato incappano in numerosi bias.

A differenza di quanto si pensi, non è sufficiente l’introspezione per mitigare bias e pregiudizi. In un sondaggio sulle convinzioni pseudoscientifiche condotto sui soci del Club Mensa[2], in Canada, costituito da persone con elevato QI (nel 2% più alto), ha mostrato che il 44% credeva nell’astrologia, il 51% nei bioritmi e il 56% negli extraterrestri.

PARADOSSO DI SALOMONE

Re Salomone governò Israele circa 3000 anni fa, ed era famoso in tutto il Medio Oriente per la saggezza dei consigli che elargiva. Eppure, quando si trattava di prendere decisioni per sé stesso, si dimostrava molto meno astuto: aveva centinaia di mogli e concubine pagane, andando contro i precetti della sua religione, e non riuscì a istruire l’unico figlio, che crebbe fino a diventare un tiranno incompetente, e che alla fine contribuì alla caduta del regno.

Ecco, dunque, un altro esempio di come persone intelligenti agiscono stupidamente. E come sia più facile essere saggi e ponderati con i dilemmi altrui che con i propri. A darne evidenza, Igor Grossmann, psicologo all’Università di Waterloo, in Canada[3]. Insomma, quando si tratta di prendere decisioni per noi stessi, il nostro ragionamento si fa fallace. Più di quando si tratta di decidere per gli altri.

SINDROME DA RIUNIONE AZIENDALE

A volte, le persone intelligenti possono agire in modo stupido a causa del contesto in cui si trovano. Ad esempio sul lavoro.

In un esperimento condotto nell’università Virginia Tech, sono stati consegnati dei problemi astratti da risolvere individualmente, via computer. Man mano che le informazioni venivano processate, sullo schermo comparivano i punteggi di ogni singola persona coinvolta, comparati a quelli del resto del gruppo. Il feedback ha avuto come conseguenza quella di paralizzare alcune persone, abbassando i loro punteggi rispetto a prestazioni misurate precedentemente in specifici test. Nonostante i quozienti intellettivi degli individui coinvolti nell’esperimento fossero paritetici, i partecipanti alla fine si sono distribuiti in due gruppi distinti[4].

Ciò che è emerso è che vantarsi del proprio status, può causare ansia negli altri, spingendoli verso prestazioni inferiori. Non sempre la competizione spinge le persone a fare meglio.

Effetti simili si riscontrano nei team che, per risolvere un compito, ricorrono all’intelligenza collettiva. Se nel gruppo ci sono due o più membri eccessivamente zelanti che dominano la conversazione, anche se intelligenti e capaci, potrebbero portare a risultati inferiori rispetto ai team dove ogni individuo ha la possibilità di contribuire allo stesso modo.

In questi casi, le dinamiche personali contano di più del QI medio del gruppo nel determinare la performance del team. Questo perché un piccolo numero di persone non considera (o non si cura) che questo comportamento annulla l’intelligenza di coloro che li circonda[5].

Insomma, l’intelligenza è solo parte della storia, poiché da qualsiasi prospettiva la si guardi, abbiamo la prova che la razionalità, nel tempo e nelle persone, non è aumentata.


Fonti

[1] https://www.statnews.com/2019/01/03/where-james-watsons-racial-attitudes-came-from/

[2] https://www.mensa.org/

[3] Grossmann I., Kross E., Exploring Solomon’s paradox: self-distancing eliminates the self-other asymmetry in wise reasoning about close relationships in younger and older adults, Psychol Sci., 2014 Aug;25(8):1571-80.

[4] Kishida K.T., Yang D., Quartz K.H., Quartz S.R., Montague P.R., Implicit signals in small group settings and their impact on the expression of cognitive capacity and associated brain responses, Philos Trans R. Soc, Lond B Biol Science, 2012 Mar 5; 367(1589): 704–716.

[5] Woolley A.W., Chabris C.F., Pentland A., Hashmi N., Malone T.W., Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, Science, 29 Oct 2010, Vol. 330, Issue 6004, pp. 686-688

Cosa ci può INSEGNARE l’ARTE (e gli artisti) per MIGLIORARE il modo di PRENDERE DECISIONI

C’è la tendenza a ragionare a compartimenti stagni, quando si tratta di decisioni. Come se ogni disciplina, contesto e ambito avesse e dovesse rispondere a regole proprie che nulla o molto poco hanno a che fare con altri mondi.

Eppure, come l’ambito militare o medico possono darci spunti almeno quando si tratta di decisioni rapide e in situazioni di forte incertezza, anche l’arte può offrire consigli interessanti.

Entriamo nel dettaglio.

LE REGOLE NELL’ARTE

Quattro sono le cose che gli artisti fanno deliberatamente (cose che gli altri non necessariamente fanno intenzionalmente) quando affrontano un processo decisionale:

  • usano la distanza e la diminuzione per ottenere la giusta prospettiva. Quando un artista vuole creare l’illusione della profondità, una delle abilità chiave che deve padroneggiare è la diminuzione, in modo che gli oggetti distanti siano resi più piccoli di quelli in primo piano. Questo è un esercizio abbastanza semplice poiché ci sono specifiche regole geometriche da seguire. Ma quando si tratta di distanza psicologica, non esiste una regola a cui attenerci per capire quanto dovremmo minimizzare le cose che sembrano “distanti”. Di conseguenza, commettiamo errori: cose che accadono in un futuro lontano o a persone che non conosciamo, sono troppo facili da ridurre a minuscoli puntini sulla linea dell’orizzonte del nostro panorama decisionale psicologico. È vero anche il contrario e troppo spesso la nostra tela mentale viene dominata da cose urgenti, immediate o emotivamente evocative anziché rimanere focalizzata sull’obiettivo.
  • Il punto di vista. Gli artisti tengono in gran conto il punto di osservazione, affinché lo spettatore possa apprezzare il loro lavoro. Non a caso, quando si tratta di creare un’opera d’arte, prima di iniziare, un artista pensa molto attentamente al punto da cui l’opera dovrebbe essere vista. Stessa cosa dovremmo fare noi: riconoscere che tutti percepiamo le cose in modo diverso. Invece, quando affrontiamo problemi o decisioni, tendiamo a sottovalutare quanta parte della nostra percezione dipenda da chi siamo e dove ci troviamo, piuttosto che dai fatti oggettivi della situazione. In Tanzania, a Nyaruguru, il terzo campo profughi più grande del mondo, per modificare l’atteggiamento prevalente secondo cui la violenza è uno strumento appropriato per la disciplina in classe, gli insegnanti sono stati spinti a mettersi nei panni dei loro studenti. Molto più efficace che ricordare loro le regole standard del campo contro l’uso delle punizioni corporali. La bontà della strategia è stata confermata dalla ricerca:quando ai docenti sono state fornite le informazioni sul motivo per cui usare le punizioni corporali non è efficace, hanno affermato che avrebbero usato la forza fisica come soluzione nel 35% degli scenari presentati. Ma quando è stato chiesto loro di ricordare come si sentivano da bambini e di mettersi nei panni dei loro alunni, la tolleranza alla violenza è scesa al 26%.
  • Composizione: mettere in relazione i dettagli con il quadro generale. Quando un artista crea, pensa alla composizione, ossia alla relazione fra i dettagli della sua opera e l’impressione generale che lascia, a come apparirà nel suo complesso. Gli impressionisti, ad esempio, hanno creato opere in cui i dettagli appaiono sfocati, ma l’insieme è un’immagine coerente. Nel processo decisionale ci troviamo spesso a oscillare fra i dettagli e il quadro generale. E non è sempre facile trovare il giusto equilibrio. Nel business, esiste un effetto, noto come bike shedding, in cui i team dedicano troppo tempo a un dettaglio relativamente banale come i capanni per biciclette e non abbastanza tempo a questioni più importanti e complesse come la soddisfazione del cliente o la redditività.
  • Cornice: cosa abbiamo eliminato dal contesto decisionale. Gli artisti spesso fanno scelte deliberate su cosa mostrare e non mostrare del loro lavoro. In questo modo impongono una “cornice” alla nostra esperienza. Questa cosa la facciamo di continuo. Non ci accorgiamo che le nostre scelte sono vincolate dalle convenzioni sociali, dai sistemi economici, dai pregiudizi… Se potessimo notare i limiti del quadro e sfidarli, potremmo mettere in discussione le regole che ci vincolano e di conseguenza progettare un mondo migliore. Un esempio di ampliamento della cornice è la piattaforma di assunzione Applied. Rendere il reclutamento più equo è una sfida continua e nonostante i molteplici tentativi, è facile rimanere intrappolati dai limiti dei processi di reclutamento esistenti. Non è risolutorio, ad esempio, implementare il numero di candidati rispetto un determinato lavoro, se qualcuno, coinvolto nel processo, continua a introdurre pregiudizi inutili nella decisione di chi portare o meno a colloquio. Quel pool di candidati più ampio potrebbe non portare a cambiamenti in chi viene assunto. Un team del BIT si è fatto una domanda diversa: “E se riprogettassimo completamente le assunzioni per renderle più eque e più accattivanti?” Uno dei primi passi è stato rimuovere informazioni personali o identificative dai CV, quindi parti tradizionali del processo di assunzione che causavano problemi, sostituendole con approcci alle assunzioni basati sull’evidenza che hanno ampiamente eliminato il rischio di essere influenzati da pregiudizi. Durante gli esperimenti, è emerso che lo screening tradizionale dei CV avrebbe eliminato il 60% dei candidati che invece si sarebbe assunto utilizzando Applied. Da allora la piattaforma è stata utilizzata da milioni di candidati in tutto il mondo.

SCRITTURA ESPRESSIVA

A creare il parallelismo fra il modo in cui gli artisti creano e il modo in cui prendiamo decisioni nel quotidiano è Elspeth Kirkman, chief program officer di Nesta[1]. Secondo Kirkman, il processo decisionale è “l’equivalente consapevole della tela di un artista“. Se un artista disegna qualcosa di oggettivo, l’arte non si concentra su un punto particolare. Allo stesso modo il nostro modo di considerare una scelta è ciò su cui mettiamo la nostra attenzione, ciò che poniamo in primo piano e ciò che lasciano indietro. Talvolta dimenticando che su ciò che portiamo la nostra attenzione, a influire sono i pregiudizi.

Fra le soluzioni che Kirkman suggerisce c’è la scrittura espressiva di cui James Pennebaker ne è l’ideatore[2]. Uno stile di scrittura che include scrivere senza parlare, senza pensarci troppo, senza criticare ciò che si sta scrivendo, semplicemente lasciando che le parole fluiscano. Dedicarsi a questo tipo di scrittura periodicamente, pare avere un potente effetto psicologico. Nessuno leggerà i tuoi scritti, ma inizierai a elaborare i tuoi pensieri e sentimenti in modo più efficace.

Una volta completata la stesura, si ha la libertà di disporne come meglio si preferisce. In alcuni studi, le persone hanno scelto di conservarli, osservando come si evolvono nel tempo. Ed è emerso uno spostamento verso espressioni più costruttive, coerenti e concise, che è una testimonianza della crescita personale.

Il cambiamento nell’uso dei pronomi è una delle caratteristiche più interessanti della scrittura espressiva[3]. Pennebaker sostiene che le persone tendono a iniziare con i pronomi in prima persona. Man mano che continuano a esprimersi per iscritto, la situazione cambia. Così come, piano piano, si distanziano anche da ciò che scrivono. “Non si tratta più di me; riguarda la situazione”. Quando si tratta di loro, la domanda è: “Cosa posso fare per migliorare?” La scrittura espressiva influisce sul benessere, sulla guarigione, su vari processi sanitari, sulla disoccupazione e su altri risultati che non ci si aspetterebbe.

ARTE E DECISIONI

Pianificare con chiarezza è un’arte, ma la vera innovazione spesso richiede un deliberato allontanamento o un rifiuto del vecchio modo di fare le cose. Questo atto coraggioso di andare contro le regole può portare a nuove ed entusiasmanti possibilità. Se ci pensiamo, nella pittura, l’uso della profondità è solo un’illusione. Usata con arguzia, innovazione o precisione certosina.

Prendiamo l’arte cinese, il Rinascimento italiano e la prospettiva lineare e come questi movimenti siano stati capaci di conquistare il mondo. All’epoca, la gente si chiedeva ingenuamente perché gli artisti cinesi non fossero ossessionati dal realismo e dall’umanesimo. Gli artisti cinesi erano certamente capaci di creare arte realistica, ma il loro scopo non era ricreare il mondo. Invece, hanno cercato di rappresentare qualcosa oltre la prospettiva di una persona. Questo approccio unico, parallelo alla proiezione, è ciò che ha dato origine all’arte cinese, consentendo agli spettatori di vedere molto più di ciò che un singolo occhio umano potrebbe percepire.

È strano osservare quel tipo di arte perché può risultare inquietante se non la si conosce. Difficile capire perché non sia realistico, ma sai che non saresti in grado di vedere tutti i dettagli da solo. La cosa interessante è che se pensi all’emergere del cubismo, arrivato più tardi, potresti vedere la stessa cosa da diverse prospettive smontando l’immagine e riorganizzandola.

CONCLUSIONE

Per migliorare la presa di decisioni, un consiglio mutuato dall’arte è dunque quello di rappresentare mentalmente i fattori che determinano le nostre scelte, come fa l’artista sulla tela. Visualizzare le decisioni, può aiutare a vedere e valutare le scelte che stiamo facendo in modo più efficace. E, proprio come non esiste un modo “giusto” per fare arte, non esiste un modo “giusto” per prendere decisioni: ognuno di noi lavora sulla propria tela individuale, facendo le proprie scelte. Ma applicare le pratiche deliberate utilizzate dagli artisti, può aiutare a rendere visibili le forze che deformano le nostre prospettive e compromettono le nostre decisioni, e anche le cose che possiamo fare per mitigarle.


Fonti

[1] Kirkman E., Decisionscape: how thinking like an artist can improve our decision making, MIT Press, 2024 https://mitpress.mit.edu/9780262048941/decisionscape/

[2] https://www.youtube.com/watch?v=PGsQwAu3PzU

[3] Pennebaker J., The Secret Life of Pronouns: What Our Words Say About Us; Bloomsbury Press, 2013

COME sei messo a CORAGGIO? …quando si tratta di DECIDERE, AGIRE, condividere il tuo PUNTO DI VISTA?

C’è una parola che ricorre nei board delle organizzazioni, in questo periodo storico, più di altri: coraggio.

Nel contesto aziendale coraggio:

Ø  significa avere la fiducia e il mindset necessari per prendere decisioni laddove non esiste una risposta certa o comoda,

Ø  significa fare ciò che è meglio per l’azienda, anche se quella decisione renderà qualcuno infelice,

Ø  significa attenersi ai valori dichiarati, anche se questo ha un costo per la posizione che si occupa, perché ci si è rifiutati di seguire un piano che si riteneva sbagliato.

Il mio lavoro mi permette di confrontarmi con molti dirigenti e, fra quelli che mi colpiscono di più ci sono coloro che possiamo definire ippocratici. Il nome deriva dal giuramento dei medici di Ippocrate, che è stato associato alla frase “Primo, non fare del male“. Questi leader sembrano aver adottato la stessa filosofia nella gestione della carriera e degli incarichi. Giocano sul sicuro, rimanendo sotto il radar e non correndo rischi.

Eppure, se si vuol fare un salto di qualità, molti amministratori delegati hanno bisogno di avere la certezza che i loro manager e dirigenti hanno il coraggio di agire. Non tutti in un’azienda prendono grandi decisioni, o allocano importanti risorse. Ma ognuno deve saper guidare, avere doti di leadership. Ciò richiede assumersi la responsabilità e capire come avere un impatto e influenzare l’organizzazione.

Il coraggio è un’abilità estremamente preziosa – sostiene Ryan Roslansky, CEO di LinkedIn -. Si tratta di avere il coraggio di prendere una decisione quando semplicemente non ci sono decisioni buone o facili da prendere. È facile rimanere intrappolati nell’attesa di avere maggiori informazioni, ma è fondamentale avere il coraggio di prendere semplicemente la decisione e andare avanti”[1].

COME SI COSTRUISCE IL CORAGGIO?

Avere un’opinione su ciò che viene discusso è importante.  Non si tratta solo di conoscere la risposta a una domanda. Occorre avere un punto di vista e saperlo condividere, portare avanti. Altrimenti è difficile progredire.

Un leader coraggioso apprezza il fatto che mettersi in mostra comporta il rischio di sbagliare o di fallire. Molti amministratori delegati e dirigenti senior stanno cercando di promuovere i manager che hanno fallito e che possono dimostrare di aver imparato dall’esperienza. Vogliono leader che intraprendano grandi cambiamenti e, se inciampano, capiscano cosa è andato storto.

Tuttavia, siamo ancora tutti troppo inclini a erigere facciate di invincibilità e perfezione, lucidando curriculum che mostrano liste di record coerenti di successo. Nei colloqui di lavoro, i candidati non sono disposti a riconoscere eventuali fallimenti o debolezze oltre alle prevedibili mancate risposte di “lavoro troppo impegnativo o poco interessante”.

Le persone che non prendono decisioni sbagliate sono indecise e avverse al rischio“, argomentava David Kenny,  quando ricopriva il ruolo di CEO della Weather Company  (ora gestisce la società di ricerche di mercato Nielsen). “Mi piace assumere persone che hanno fallito. Abbiamo delle persone fantastiche qui con alle spalle grandi fallimenti. Se hanno imparato da questi errori, sono professionisti migliori perché hanno corso un rischio. Sono molto più umili, contribuiscono maggiormente alla cultura aziendale e fanno grandi cose perché hanno imparato” [2].

Non tutti i leader la pensano in questo modo. Ci sono ancora aziende con una cultura che incoraggia un approccio più ippocratico. Sono avversi al rischio e i dipendenti che provano cose che non funzionano possono pagare dazi più o meno pesanti. La parola preferita dei leader di aziende come questa è “no” e giustificano questo approccio dicendo a sé stessi che stanno aggiungendo valore “proteggendo il marchio”.

Se il mondo degli affari fosse più stabile e prevedibile, l’approccio ippocratico potrebbe anche funzionare. Ma non adesso. Adesso tutti devono avere coraggio per prendere decisioni, per avere un punto di vista, per agire. Il coraggio è una qualità straordinaria, essenziale per la leadership e, per quanto molti siano convinti che si tratti di una dote innata, al contrario può essere sviluppato e potenziato attraverso un costante lavoro su di sé e una cura delle relazioni.

Diversamente, in questa epoca, restare fermi significa che si verrà rapidamente lasciati indietro.

Nel dubbio, c’è una frase di William Sloan Coffin che può aiutare a riflettere: “Il coraggio è una grande virtù. Cos’è che ci fa paura? La morte o la vita?”. Le risposte potrebbero non essere così scontate.


Bibliografia

[1] Bryant A., Do you have the courage of your convictions? The pace of change can paralyze some executives. It’s time to develop a more dynamic relationship with risk-taking and failure, Strategy+business, March 6, 2023

[2] https://www.nytimes.com/2014/07/27/business/corner-office-david-kenny-of-the-weather-company-move-fast-but-know-where-youre-going.html

FATE ATTENZIONE a ciò che PRESTATE ATTENZIONE… Nei C.d.A., nelle DECISIONI, o anche solo negli ACQUISTI

Può accadere che qualcosa o qualcuno di cui fino a quel momento si ignorava l’esistenza – un concetto, una vecchia canzone, un film, un’attrice, un abito, un alimento, una pianta o semplicemente un colore – una volta appresi, inizino a presentarsi alla nostra attenzione con una certa insistente ripetitività.

Coincidenze, sincronicità, segni del destino?

Nulla di tutto questo.

Il nostro cervello è semplicemente vittima di un bias cognitivo noto come illusione di frequenza o effetto Baader-Meinhof.

DI COSA SI TRATTA

Il nome deriva da un gruppo terroristico attivo nella Germania del dopoguerra.

A fine anni ‘80 Terry Mullen inviò una lettera al giornale St. Paul Pioner Press, raccontando un’esperienza personale. Secondo il suo racconto, dopo aver letto per la prima volta il nome del gruppo terroristico Baader-Meinhof in un articolo di giornale, e avendo saputo della sua esistenza, ha iniziato a vedere il nome dell’organizzazione dappertutto.

Dopo la pubblicazione della lettera, Mullen fu contattato da altre persone che raccontavano esperienze simili. Da quell’evento, Mullen coniò il termine per descrivere quello strano fenomeno percettivo.

Venire a conoscenza di un’informazione ci porta naturalmente a notarla nella nostra quotidianità: in realtà c’è sempre stata, eravamo noi a non vederla.

Andreas Baader e Ulrike Meinhof non sono quindi i nomi di due ricercatori, ma di due terroristi tedeschi. La banda Baader-Meinhof era infatti il nome con cui era conosciuta, nelle prime fasi della sua attività, la RAF (Rote Armee Fraktion), il violento gruppo terroristico di estrema sinistra che ha terrorizzato la Germania tra gli anni ’70 e gli anni ’90.

Curioso, non è vero?

UN SOLO BIAS, MOLTI NOMI

Quando si parla di effetto Baader-Meinhof, non ci si riferisce solo alla sorpresa di incontrare la stessa parola o lo stesso concetto più volte in un ristretto arco temporale, quanto più a un qualcosa con cui siamo venuti in contatto per la prima volta e che, all’improvviso, comincia a comparire con un’insolita frequenza, come se il mondo avesse deciso tutto a un tratto di comunicarci che quell’oggetto esiste ed è importante.

A molti sarà capitato, per esempio, di voler comprare un’auto nuova di uno specifico colore. Poniamo sia il rosso. Dopo aver preso questa decisione, è probabile che, all’improvviso, vi capiti di incrociare molte più macchine di colore rosso rispetto al solito (rovinando quindi l’entusiasmo iniziale verso una scelta che non sembra più così unica).

L’effetto Baader-Meinhof è assimilabile alla “Red Car Syndrome”. Tornando all’esempio, non sarà che molte persone abbiano deciso di anticiparci andando a comprare una macchina rossa, quanto piuttosto siamo noi che siamo diventati più suscettibili alla presenza di vetture rosse, la cui quantità resta comunque invariata.

Il linguista Arnold Zwicky ha definito questo fenomeno frequency illusion: quando si nota qualcosa di nuovo, si è portati a credere che questo qualcosa accada (o sia riscontrabile) più frequentemente di quanto non sia in realtà.

PERCHE’ CADIAMO VITTIME DEL BIAS DELL’ILLUSIONE DI FREQUENZA

Per generare l’effetto Baader-Meinhof occorre ci sia sinergia fra attenzione e i bias di conferma e di recency illusion. L’attenzione selettiva entra in gioco quando prestiamo attenzione a uno specifico stimolo per la prima volta, facendoci notare la sua presenza a scapito di altri stimoli; il bias di conferma, fa sì che usiamo ogni occasione per supportare l’ipotesi che ci siamo formati.

Un secondo bias che può contribuire a rendere ancora più forte l’effetto Baader-Meinhof è la recency illusion: l’illusione per la quale quando si nota qualcosa per la prima volta si è portati a credere che questa abbia avuto origine solo recentemente.

L’EFFETTO BAADER-MEINHOF nel MARKETING

Utile per attirare l’attenzione del consumatore verso un determinato prodotto e/o servizio.

Già dalla fine dell’Ottocento, Elias St. Elmo Lewis aveva teorizzato un modello a imbuto che sottolineava l’importanza dell’attenzione allo stimolo pubblicitario per creare campagne di marketing di successo.

Il passaggio tra il primo e il secondo step di questo imbuto pubblicitario prevede che il potenziale cliente passi dall’iniziale attenzione per il prodotto a uno stato di interesse: è proprio in questa zona grigia che va ad agire l’effetto Baader-Meinhof.

Quando per la prima volta ci accorgiamo di uno specifico prodotto o di una campagna pubblicitaria, la nostra attenzione selettiva potrebbe iniziare a focalizzarsi su di esso, permettendo così l’instaurarsi dell’effetto Baader-Meinhof. E fare in modo che ogni volta che ci imbatteremo nello stesso stimolo, avremo la sensazione che tutti ne parlino e tutti lo abbiano, portandoci a volerlo anche noi.

COME IMPATTA nei C.d.A.

Neanche i Consigli di Amministrazione sono immuni dall’effetto Baader-Meinhof. Infatti, si potrebbe essere spinti a enfatizzare eccessivamente il significato di incidenti recenti e isolati. Ciò rafforza la falsa percezione di una tendenza anche quando non ci sono prove a sostenerla.

Il bias in questione può esarcerbare le Echo Chambers e il pensiero di gruppo. Ad esempio, quando un componente presenta un concetto, altri che lo hanno incontrato solo di recente potrebbero provare un falso senso di convalida, rafforzando la fiducia nell’idea senza valutarne criticamente pro e contro. Questo potrebbe, a caduta, portare a una mancanza di diversità di prospettive soffocando il processo decisionale o l’innovazione e a trascurare opportunità preziose o, ancora, commettere errori strategici.

COME SUPERARE il Baader-Meinhof nel BOARD MANAGEMENT

L’impatto dell’effetto Baader-Meinhof può mettere a repentaglio non solo il processo decisionale del CdA ma anche la crescita di un’organizzazione. Per mitigare questo pregiudizio, ecco quattro consigli:

Coltiva un dialogo aperto e sostieni prospettive diverse.

Il bias è capace di aggravare le Echo Chambers, ecco perché creare uno spazio di comunicazione aperta e di feedback come prassi, può aiutare a prevenirlo o mitigarlo. Dedica del tempo alla collaborazione, all’ascoltare le opinioni di esperti con esperienze e background diversi in modo da poter esporre potenziali pregiudizi, riconoscerli e trattarli in modo informato e razionale.

Implementa i processi decisionali strutturati

Un altro modo per mitigare i pregiudizi è creare un processo decisionale strutturato. Idealmente, i membri di un C.d.A. dovrebbero essere in grado di fare scelte strategiche informate e razionali. Inoltre, l’utilizzo di strumenti di pensiero critico come l’analisi SWOT, PESTLE, o il pensiero creativo, solo per citarne alcuni, può facilitare la valutazione sistematica delle informazioni.

Inoltre, utile è assicurarsi di avere criteri chiari per valutare i dati o le prove presentate. Ciò può evitare di fare affidamento su riferimenti aneddotici o opinioni personali distorte che portano a diventare facili prede dei bias.

Dai priorità alla diversificazione delle informazioni

Portare attivamente nuove informazioni al tavolo può aiutare a prevenire pregiudizi tra i membri. È una buona abitudine andare sempre oltre i report interni e le novità del settore. Espandere le fonti, a opinioni di esperti esterni o ricerche indipendenti per sfidare pregiudizi radicati è un’ottima tecnica anti bias. Per evitare di sopravvalutare le tendenze basate su casi isolati, si può condurre un’analisi della concorrenza o un sondaggio di settore per raccogliere dati più ampi.

Promuovere l’autoconsapevolezza e la formazione continua

Il Baader-Meinhof è un tipo di pregiudizio personale, pertanto l’autoconsapevolezza è fondamentale. Incoraggiare i membri del C.d.A. a riflettere regolarmente sui propri pregiudizi e su come questi influenzano le loro interpretazioni delle informazioni può fare la differenza. La formazione continua su come i diversi bias impattano sulle decisioni può fornire le conoscenze necessarie per superarli.

CONCLUSIONI

La prossima volta che vi sembrerà di vedere ovunque un oggetto, un dato, un concetto… di cui prima ignoravate l’esistenza, è molto probabile che siete voi ad averlo notato solo di recente e che potreste essere caduti vittime dell’effetto Baader-Meinhof o, peggio, di una strategia studiata ad hoc, che potrebbe portarvi a decisioni sbagliate. Questa consapevolezza farà una grande differenza, credetemi!

QUANDO la MEMORIA gioca BRUTTI SCHERZI: l’effetto MANDELA

La memoria talvolta gioca brutti scherzi. Come quando ricordiamo qualcosa che in realtà non è mai accaduto o ricordiamo qualcosa parzialmente non vero su qualcosa che è successo.

Questo scherzo prende il nome di effetto Mandela e si verifica quando un ricordo comune a un gran numero di persone, altro non è che una distorsione creata dalla memoria collettiva. La ricostruzione, riportata nella mente di molti, corrisponde infatti a un evento che non si è mai verificato nella realtà o a un particolare visivo che non è mai esistito. Estranei sparsi per tutto il globo condividono, in pratica, un ricordo totalmente errato.

Questi ricordi falsati vengono anche detti “menzogne oneste” perchè sono diffuse senza alcun dolo: chi le porta avanti è infatti totalmente convinto di dire la verità.

Il nostro cervello è capace di ricordare parte di un avvenimento del passato e colmare i vuoti con qualcosa di non vero ma plausibile, purché abbia un senso logico. La particolarità dell’effetto Mandela è che non riguarda un solo individuo ma interessa più persone, a volte anche gruppi numerosi.

Perché si chiama così

Il nome deriva da un episodio risalente al 2009. In occasione di una conferenza, la ricercatrice Fiona Broome parlò con un addetto alla sicurezza della morte di Nelson Mandela, descrivendola come fatto avvenuto durante gli anni ‘80 mentre l’ex presidente del Sudafrica si trovava in prigione. L’addetto alla sicurezza disse alla donna che Mandela non solo non era morto durante la prigionia ma era ancora in vita; il presidente sudafricano morì infatti quattro anni dopo, nel dicembre 2013. Broome ricordava però nei dettagli la morte di Mandela, incluso il discorso della vedova. Tornata nella sala della conferenza, chiese al pubblico la loro versione dei fatti. Il risultato fu curioso, poiché buona parte dei partecipanti ricordava la versione della donna. Poiché questo ricordo era condiviso da altre persone e non solo da Broome, nacque il termine di effetto Mandela e, negli anni successivi, in molti cercarono di dare una spiegazione al fenomeno.

Esempi

Tra gli esempi più comuni troviamo i falsi ricordi legati a citazioni tratti da film o cartoni animati. Molti sono convinti che la strega di Biancaneve allo specchio dica Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? In realtà, la strega dice Specchio, servo delle mie brame. In questo caso è possibile che, trattandosi di un cartone animato, molti bambini non sapessero il significato della parola “servo” e che l’abbiano sostituita con “specchio” creando una memoria collettiva diversa dalla realtà.

Un meccanismo simile può spiegare il fatto che ricordiamo che il costume di Topolino avesse le bretelle, in realtà non le ha.

Un fatto curioso classificato come effetto Mandela è quello che riguarda l’uomo che bloccò i carri armati in Piazza Tienanmen nel 1989; molte persone sono convinte sia stato poi investito e ucciso ma altri video dell’epoca mostrano l’uomo illeso.

Un altro noto esempio dell’effetto Mandela riguarda la battuta che apre Blade Runner Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, non sarebbe mai stata pronunciata in questo modo, ma Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.

Altri esempi di effetto Mandela sono legati a una semplificazione nel percepire le immagini: il logo Looney Toons è in realtà Looney Tunes; Flintstones è scritto proprio così e non Flinstones, la celebre serie TV è Sex and the city e non Sex in the city e la W del logo della casa automobilistica Volkswagen ha un trattino in centro, che la maggior parte di noi non ha mai notato.

Sul logo delle scarpe Air Jordan, il campione di pallacanestro è raffigurato con i pantaloni lunghi. Eppure, sono tanti quelli che potrebbero giurare di aver visto lo stesso logo in cui Michael Jordan indossa i pantaloncini. Questa versione alternativa dell’immagine, però, non è mai esistita se non nella mente dei fan.

Le cause dell’effetto Mandela

La scienza ritiene che l’effetto Mandela sia una sorta di scorciatoia cognitiva intrecciata all’interpretazione della realtà. Nel caso che regala il nome al fenomeno, ad esempio, è più semplice legare la dipartita di Mandela a un evento traumatico che lo ha riguardato, come appunto è la detenzione. La nostra mente, quando non ha una conoscenza diretta di un fatto storico, tenta di ricordare la sequenza di eventi più plausibile e probabile.

E voi come ve la cavate con l’effetto Mandela?

PERCHE’ diventiamo IMMUNI alla SOFFERENZA (di MASSA)

“Più persone muoiono, meno ce ne importa”. Senza mezze parole lo psicologo americano Paul Slovic (che alla percezione del rischio e alla matematica della compassione ha dedicato decenni di studi), riassume la naturale reazione umana di fronte alle tragedie.

Poiché l’indifferenza e l’insofferenza rispetto alle tragedie delle masse è direttamente proporzionale all’aumentare dei numeri. E non perché siamo cattivi, ma, banalmente, perché siamo condizionati da distorsioni cognitive e errori di pensiero.

I numeri, per enormi che siano, anzi proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Per dirla con le parole di Paul Brodeurle statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate”.

Anziché causarci una risposta emotiva, determinano ciò che Slovic chiama “intorpidimento psichico”: quel distacco che si crea nel cervello di tutti noi, o per lo meno la maggioranza, quando leggiamo i numeri del fenomeno delle migrazioni e dei morti causati da guerre e carestie. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe costrette ad abbandonare le proprie case per colpa di tumulti, fame e siccità. Troppe. Ed è questo che fa scattare in noi il secondo perverso meccanismo: il falso senso di impotenza.

Quando i problemi sono così grandi, per il nostro cervello è difficile pensare di poter fare qualcosa, una qualunque differenza, così ci spinge a rinunciare a fare anche il poco che potremmo.

Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo”, spiega Slovic.

Ogni vita umana è di pari valore, più vite sono a rischio più l’importanza di fare qualcosa aumenta. In pratica però la reazione comune è che “la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po’ meno”. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita diminuisce man mano mentre il numero totale sale. “Quando le potenziali vittime salgono, poniamo da 87 a 88, per non c’è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta”.

L’empatia consiste nel provare a mettersi nei panni dell’altro per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile e ancor più lo diventa quando sono tante.

Nei suoi esperimenti Slovic (i cui studi si sono incrociati con quelli sulla teoria del prospetto di Kahneman e Tversky) ha dimostrato proprio questo: siamo meno portati ad aiutare il singolo quando abbiamo la percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne siamo consapevoli.

Eppure, anche se non possiamo aiutare tutti, non vuol dire che non dobbiamo aiutare nessuno.

Alla fine è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Come la foto di un bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, che ha fatto di più per la causa siriana, dei bollettini di guerra con il computo delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese riceveva donazioni per 8 mila dollari al giorno. Dopo la foto, sono diventati 430 mila. “I 250 mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione”.  Le donazioni sono rimaste elevate per circa un mese, poi sono tornate ai livelli precedenti.

Le storie drammatiche su un singolo individuo riescono a regalare una finestra di opportunità in cui siamo improvvisamente svegli e non intorpiditi, e vogliamo, riusciamo a fare qualcosa. Ma poi, se non c’è nient’altro che possiamo fare, nel tempo, ci spegniamo nuovamente. Sono storie importanti e possono essere efficaci ma solo se c’è un’azione concreta che può essere intrapresa.

Al momento una soluzione all’intorpidimento psichico non esiste ancora. Ma essere consapevoli che esiste e degli effetti che causa è il primo passo. E, a mio avviso, non è così poco.

Cosa ne pensate? Anche voi siete caduti in questa trappola?