TRADIAMO anche QUANDO siamo FELICI

Il tradimento esiste anche nelle coppie felici. Anche quando figli splendidi abitano le nostre dimore. Anche quando foto di lui e lei sorridenti e soddisfatti riempiono ogni anfratto della casa.

Siamo stati educati a pensare che quando tutto funziona in un matrimonio, non si è portati a guardare altrove, certi che l’infedeltà non ha modo di esistere e che l’equilibrio fra libertà e sicurezza, una volta raggiunto, si faccia compatto come ghiaccio. Eppure anche il ghiaccio si scioglie. Come i matrimoni felici ed infelici. Come le relazioni aperte dove i confini del sesso extraconiugale sono stati negoziati e consolidati.

Perché allora si tradisce se si è felici, se a casa c’è tutto ciò che serve? Perché neanche il matrimonio perfetto ci immunizza dal desiderio di vagabondare e sperimentare?

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITA’

Spesso non ha a che fare con l’altro ma con la scoperta di sé, come ricerca di una nuova identità. “L’infedeltà – sostiene la psicoterapeuta Esther Perel, non è tanto il sintomo di un problema, quanto un’esperienza liberatoria fatta di crescita, scoperta e trasformazione”. Quando cerchiamo lo sguardo di un’altra persona, non è dal coniuge che ci stiamo allontanando ma dalla persona che siamo diventati. Non stiamo cercando un amante ma una versione, diversa, nuova di noi stessi.

Ad attivarsi è, in questi casi, il cervello rettiliano, lo stesso che si attiva nell’alcolista che ha necessità di bere e il tossico della sua dose. “Il dio dell’amore vive in uno stato di bisogno, di urgenza. E’ un disequilibrio, allo stesso modo della fame e della sete. Si dice, in questi casi, tu sei la mia droga: l’amore è una dipendenza. A tutti gli effetti. Anche quando si tratta di se stessi. Abbiamo bisogno di una tossicodipendenza emozionale anche quando si tratta di noi.

Allo stesso modo degli altri, ci si stufa anche di una parte di noi. Difficile però ammetterlo, più comodo è cercare come fa l’ubriaco le chiavi perdute non dove gli sono cadute, ma dove c’è più luce. Noi umani tendiamo a cercare la verità dove è più facile guardare, non dove è più probabile che si trovi (la trappola dell’effetto lampione).

Ed è per questo che spesso è più facile dare la colpa a un matrimonio in crisi che fare i conti con se stessi, le proprie paure, aspirazioni, enigmi e la nostra incapacità di regalarci emozioni. Mossi dal sospetto che c’è una felicità più assoluta, cruciale, che ci stiamo perdendo, che non abbiamo esplorato: è la nostalgia per le vite che non abbiamo vissuto, le strade che non abbiamo preso, «il tradimento è la vendetta delle possibilità negate».

DOPAMINA E RICOMPENSA

Abbiamo bisogno di tornare a volerci bene, di inondandoci di dopamina, la sostanza della ricompensa all’infinito. Che infinito non è mai. Piuttosto un vertiginoso giro di giostra. Altrimenti è come quando veniamo lasciati e ci scottiamo. Non per nulla si attiva la stessa area del cervello che reagisce a un dolore fisico, tipo una scottatura.

La tentazione è pur sempre quella di non provare dolore, entrare in quello stato alterato della mente che corrisponde a far follie: non senti fatica, accetti sfide impossibili, perdi lucidità, e ogni cosa ti sembra la più bella del mondo. Ebbri di ossitocina: l’ormone della felicità. Dimentichi che abbiamo nella nostra mente tutto quello che serve. E se manca, non necessariamente è per colpa di qualcun altro al di fuori di noi.

Se SENTI gli ZOCCOLI PENSI al CAVALLO, non alla ZEBRA. A meno che non VIVI in AFRICA

“Se senti gli zoccoli pensi al cavallo non alla zebra”. A meno che non vivi in Africa.

Non sempre, di fronte a un problema, cerchiamo la spiegazione più semplice, eppure nella stragrande maggioranza è quella giusta, un chiaro riferimento al “rasoio di Occam”.

E’ di questo che parlo con alcuni studenti, persi nel cercare soluzioni dimenticandosi della semplicità.

RASOIO DI OCCAM – PRINCIPIO DI ECONOMIA

Il rasoio di Occam, chiamato anche “principio di economia” suggerisce di fare a meno delle ipotesi superflue quando si cerca di spiegare un fenomeno, in altre parole: a parità di elementi la soluzione di un problema è quella più ragionevole.

Insomma, inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non serve ad arrivare alla soluzione o a rendere edificante qualcosa.

Il principio di Occam, per cui il suo postulatore venne accusato di eresia dalla Chiesa, si usa indistintamente in trattati filosofici, per questioni quotidiane ma anche su grandi temi scientifici, ad esempio la natura e la composizione dell’universo.

PSEUDOSCIENZE E REALTA’

Il mancato uso è una caratteristica delle pseudoscienze, in tutti quei casi in cui si cerca di spiegare un fenomeno più o meno misterioso ipotizzandone altri di ancora più improbabili.

Per esempio, non è ancora del tutto chiaro come gli antichi Egizi riuscirono a costruire le piramidi: è possibile ipotizzare che lo abbiano fatto grazie a tecnologie avanzate fornite loro da civiltà aliene, ma seguendo il principio di economia è preferibile supporre che ci siano riusciti da soli sfruttando in modo ingegnoso le conoscenze dell’epoca.

In questo modo non siamo obbligati a ipotizzare una serie di condizioni particolari – che gli alieni esistano, che siano riusciti ad arrivare sulla Terra, a comunicare con gli Egizi e poi a scomparire senza lasciare tracce – e possiamo spiegare lo stesso fenomeno, le piramidi, facendo ricorso a meno ipotesi.

UTILITA’ DEL RASOIO DI OCCAM

L’importanza del rasoio di Occam sta nel costringerci a distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Nel vietarci di andare oltre la più semplice descrizione possibile e ci aiuta a stare alla larga dalle conoscenze presunte e a capire dove le nostre teorie sono incomplete e hanno bisogno di essere migliorate.

Questo però non vuol dire che possiamo usare il rasoio come arma impropria (che qualcuno chiama ironicamente “la motosega di Ockham”) per fare a pezzi le teorie che non apprezziamo, magari perché non rispondono a una definizione arbitraria di semplicità o non condividono i nostri presupposti metafisici.

Qualche volta, specialmente in temi complessi come la politica o l’economia, si assiste a usi spericolati del rasoio di Occam che fanno accapponare la pelle tanto quanto le fallacie delle pseudoscienze, ma in questi casi rientriamo nella propaganda e non nella buona pratica scientifica.

HANDWRITING IS GOOD FOR YOUR CREATIVITY AND MEMORY

Writing down information and appointments by hand (instead of using the keyboard) helps you to remember concepts and notions better.
In adults, because handwriting is slower than typing, it gives you more time  to reflect; whereas in children, it also facilitates the learning process: allowing them to  not only learn to read quicker, once having learned to write by hand, but also to  make them more capable of generating ideas and of conserving data.
In other words, it is not only what we write that counts, but how we do it.
SUPPORTING EVIDENCE
Several studies support this theory, including the one carried out on children by the psychologist of the University of  Washington, Virginia Berninger. The researcher demonstrated that when children write freehand , they not only produce more words more quickly than they do with a keyboard, but also express more ideas, showing greater fluidity of language and information (and neural activation in the areas associated to the work memory and to the networks of reading and writing of the brain), than similar aged children who do their writing with a keyboard.
THE BENEFITS OF HANDWRITING
The benefits of handwriting extend beyond childhood. Two psychologists, Pam Mueller of Princeton and Daniel Oppenheimer of the University of California, Los Angeles, have found that both under laboratory conditions and in the class, students learn better when taking handwritten notes. “Handwriting  – explain the researchers – allows the student to process the content and reformulate it: a process of reflection and handling that may lead to a better understanding and codification in the mind”
Put more simply writing things down on paper “teaches” us to read better, contributes to reinforcing the areas of the  brain where the shape of the letters is recognised or where the sounds are associated to words.
Further confirmation comes from China, where the “pinyin” transcription system of Chinese on QWERTY keyboards is increasingly used: abandoning the handwritten Chinese characters, diagnoses of dyslexia and other reading difficulties are undergoing continual growth. “Typing a letter does not let you really understand the shape and the possible variations that do not change its meaning, like what does actually happen when you learn to write it by hand”, explains Karin James of the University of Bloomington, in Indiana.
Basically: when writing something by hand or with a digital pen, several more parts of the brain “light up” than when we use the keyboard. And using the pen activates deeper areas of the brain and this has positive effects on both memory and on learning in children and in adults.

Annotare informazioni e appuntamenti a mano (anzichè con la tastiera) aiuta a fissare e memorizzare meglio concetti e nozioni.

Negli adulti la scrittura a mano permette, in quanto più lenta rispetto a quella su tastiera, un tempo di riflessione maggiore; mentre nei bambini facilita anche il percorso di apprendimento: permettendo loro non solo di imparare a leggere più velocemente una volta appresa la scrittura a mano, ma anche di renderli più capaci nel generare idee e conservare dati.
In altre parole, non è solo quello che scriviamo che conta, ma come lo facciamo.

EVIDENZE A SOSTEGNO

A sostegno numerosi studi, fra cui quello condotto, sui bambini, dalla psicologa dell’Università di Washington Virginia Berninger. La ricercatrice ha dimostrato che quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee, mostrando maggiore fluidità di linguaggio e informazioni (e di attivazione neurale nelle aree associate alla memoria di lavoro e alle reti di lettura e scrittura del cervello), rispetto ai coetanei che affidano il contenuto dei loro scritti alla tastiera.

I BENEFICI DELLA SCRITTURA A MANO

I benefici della scrittura a mano si estendono oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam Mueller di Princeton e Daniel Oppenheimer dell’University of California, Los Angeles, hanno riferito che sia nella condizione di laboratorio sia in classe, gli studenti imparano meglio quando prendono appunti a mano. “La scrittura a mano – spiegano i ricercatori – permette allo studente di elaborare i contenuti e riformularli: un processo di riflessione e di manipolazione che può portare a una migliore comprensione e codifica in memoria”
In parole semplici la scrittura su foglio “insegna” a leggere meglio, contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
Conferma ulteriore arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
In sintesi: quando scriviamo a mano o con la penna digitale si “accendono” più parti del cervello rispetto a quando utilizziamo la tastiera. E l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde e questo ha effetti positivi sia sulla memoria sia sull’apprendimento nei bambini e negli adulti.

E’ ANDATA a FINIRE che TUTTI quei REGALI non ERANO per ME… Le ASPETTATIVE TRADITE

Aspettative… come a ogni fine anno abbiamo bisogno di crearne di nuove. O meglio è la nostra mente ad esigerlo.

Un recente studio pubblicato su “Nature Communications”  ha dimostrato in che modo il nostro cervello gestisce le aspettative su ciò che sta per accadere e il loro continuo aggiornamento, se vengono disattese.

La mente infatti costruisce continuamente aspettative su ciò che sta per sperimentare. E continuamente deve rivedere queste aspettative, per formarne di nuove. Il team di ricerca della Northwestern University ha individuato le aree cerebrali in cui sono codificati tutti questi meccanismi. In sintesi, il mesencefalo, una parte del tronco encefalico, risponde alla sorpresa, e la corteccia orbitofrontale aggiorna l’informazione.

“L’aggiornamento delle aspettative si ripete continuamente nella nostra vita quotidiana; può succedere per esempio di portare nostro figlio al parco pensando di farlo giocare su un prato verde e di scoprire che è ridotto a una distesa di fango: così registriamo l’informazione e la utilizziamo come aspettativa per il giorno seguente”, ha spiegato Thorsten Kahnt, autore dello studio. “Ogni qualvolta non c’è corrispondenza tra ciò che ci aspettiamo di sperimentare e ciò che sperimentiamo effettivamente, il nostro cervello deve registrare l’errore e aggiornare le proprie aspettative: questi cambiamenti sono fondamentali per prendere decisioni e ora sappiamo dove tutti questi processi si svolgono all’interno del cervello”.

LA SPERIMENTAZIONE

Nel corso della sperimentazione, gli autori hanno mostrato a un gruppo di volontari le immagini di alcuni cibi dolci e salati associando un odore a ciascuna pietanza. Dopo una serie di associazioni corrette, i partecipanti venivano sorpresi da un’immagine non corrispondente all’odore: per esempio, la fotografia di una bistecca mentre sentivano un odore di caramello. Durante il test, gli autori hanno sottoposto i volontari a scansioni di risonanza magnetica funzionale, una tecnica che consente di evidenziare le aree cerebrali che si attivano mentre il soggetto è impegnato in un compito.

I dati hanno mostrato che quando i volontari venivano sorpresi da un odore inatteso, s’incrementava l’attività dei neuroni all’interno del mesencefalo. Inoltre, le scansioni di risonanza hanno mostrato che l’attività della corteccia orbitofrontale codificava l’identità dell’odore atteso nel momento stesso in cui veniva presentato lo stimolo visivo.

L’aspettativa disattesa ci pone in una condizione di frustrazione, se non trova ordine nel caso dell’esperienza. Proprio come avviene nella vignetta dell’alberello di Natale. Saperlo, non cambierà l’ordine delle cose ma ci tranquillizzerà, in fondo si tratta “solo” di pensarne di nuove.

LEGGERE NELLA MENTE I PENSIERI DEGLI ALTRI… IL DESIDERIO PROIBITO CHE SI FA (QUASI) REALTA’.

 

Tutti abbiamo desiderato, almeno una volta, di poter conoscere i pensieri degli altri. Per  fare bella impressione, conquistare una bella ragazza o superare un esame particolarmente problematico. Con questo esperimento, le neuroscienze assottigliano la distanza fra utopia e realtà.

Tre persone, in tre diverse stanze, connesse fra loro solo telepaticamente, hanno giocato riuscendoci a un videogioco simile a Tetris.

E’ l’esperimento realizzato dai ricercatori dell’università di Washington e di cui fa parte anche l’italiano Andrea Stocco, creando una sorta di primo social network di cervelli al mondo.

LO STUDIO

Per l’esperimento il team di studiosi si è avvalso di due apparecchi usualmente utilizzati in medicina: una macchina che registra l’elettroencefalogramma (o EEG), cioè un tracciato dell’attività elettrica del cervello; e un dispositivo per la stimolazione magnetica transcranica, che permette di attivare specifiche porzioni del cervello dall’esterno della scatola cranica attraverso un impulso elettromagnetico.

L’ESPERIMENTO

Con il primo apparecchio sono stati registrati i cambiamenti nell’attività elettrica del cervello, e inviare le informazioni a una seconda persona.

Concentrandosi su una luce che lampeggia con una frequenza di 15 hertz è possibile modificare con facilità l’attività del cervello. Con la stimolazione magnetica, invece, è possibile trasmettere messaggi al cervello, in particolare sotto forma di lampi di luce che appaiono nel campo visivo quando si concentra l’impulso elettromagnetico dell’apparecchio nella zona occipitale.

LAMPI E AZIONI

Con questi apparecchi, i ricercatori hanno inventato un modo per mettere in contatto due cervelli. Un primo volontario concentra l’attenzione su una delle due luci dell’esempio precedente (a 15 o 17 hertz), l’EEG viene decodificato e l’informazione trasmessa a una seconda persona, il ricevente. A questo punto l’informazione è tradotta in un impulso magnetico, che produce un numero variabile di lampi nel suo campo visivo, e permette di trasmettere brevi messaggi stabilendo per convenzione una sorta di alfabeto morse rudimentale: un lampo sì, due lampi no.

DUE TRASMETTITORI E UN RICEVENTE

Questo il sistema utilizzato anche in passato, ma nel nuovo studio Stocco e colleghi sono andati ben oltre, mettendo in comunicazione non due ma tre cervelli contemporaneamente.

Nello studio, due persone hanno svolto il ruolo di trasmettitori, e una quello del ricevente. L’esperimento prevedeva di giocare a un videogioco simile a tetris, in cui un pezzo di forma variabile cade dall’alto dello schermo, e il giocatore deve decidere se e come farlo ruotare per incastrarsi nei pezzi già presenti nel campo di gioco.

UN TETRIS PER TRE

I due trasmettitori avevano a disposizione una visuale dell’intero campo da gioco, e potevano quindi prevedere la mossa giusta per far incastrare ogni pezzo a dovere. Mentre il ricevente, incaricato di muovere i pezzi, vedeva solamente la parte alta dello schermo, e non poteva quindi sapere quale fosse la mossa giusta.

Tutti i partecipanti, posti in stanze diverse, non potevano comunicare in alcun modo, se non attraverso l’interfaccia cervello-cervello. Guardando un led con frequenza 15 hertz inviavano al ricevente l’informazione “non ruotare il pezzo”, che a lui appariva come assenza di lampi e luci, mentre guardando quello da 17 hertz lo invitavano a “ruotare il pezzo”, attraverso la comparsa di un singolo lampo. Dopo aver ricevuto le indicazioni di entrambi i due trasmettitori, il ricevitore doveva scegliere come muovere il pezzo, utilizzando a sua volta l’Eeg per effettuare la mossa (concentrandosi cioè su uno tra due led a frequenze differenti).

LA MOSSA GIUSTA

I ricercatori hanno dimostrato che in questo modo i tre partecipanti riuscivano a effettuare la mossa giusta con una precisione dell’81%. Ma soprattutto, anche manomettendo il segnale il ricevente è risultato in grado di effettuare la mossa giusta dopo poche mani di allenamento, imparando a riconoscere i messaggi affidabili basandosi unicamente sulle informazioni che raggiungevano il suo cervello attraverso la stimolazione magnetica.

I SEGRETI DEL CERVELLO UMANO

I ricercatori assicurano che nulla vieta di replicare i risultati a distanze maggiori, fino a creare una sorta di social network cerebrale in cui un numero qualsiasi di partecipanti collabora per risolvere un dato task. “Realizzare una simile interfaccia cervello-cervello permetterebbe non soltanto di aprire nuove frontiere nella comunicazione e collaborazione tra esseri umani, ma ci fornirebbe anche una comprensione molto più profonda del funzionamento del cervello umano”.

 

COME fare il REGALO PERFETTO? Ce lo dice l’ECONOMIA COMPORTAMENTALE

Qualsiasi cosa farete trovare sotto l’albero, non sarà il regalo ottimale. A meno che non siano soldi.

A dirlo gli economisti comportamentali che, come ogni anno, consigliano di optare per i soldi anziché per doni insensati per la semplice ragione che ricevere banconote permette di acquistare esattamente ciò che si vuole al giusto prezzo.

Difficile dar loro totalmente torto soprattutto quando aperto il pacco ci si trova per le mani l’ennesimo foulard dai colori improbabili o un irritante maglione di lana riesumato da qualche fondo di magazzino.

Se agissimo come perfetti agenti razionali che non siamo, dovremmo regalare e voler ricevere denaro. A supporto gli studi dei ricercatori della Stockholm School of Economics, dove in ‘Conspicuous Generosity‘ (Generosità cospicua) stilano un elenco di ragioni per le quali è meglio scartare banconote, a Natale, piuttosto che regali.

L’acquisto dei regali comporta necessariamente dei rischi: il destinatario potrebbe non gradire il presente e, di conseguenza, il mancato piacere porterebbe all’annullamento del valore del dono; la valuta contante, al contrario, consente di acquistare esattamente ciò che si desidera.

Waldfogel, professore di economia applicata alla Carlson School of Management, ha dimostrato che la somma che vorrebbero ricevere le persone al posto dei regali è inferiore rispetto al valore di uno qualsiasi tra i regali ricevuti.

Il discorso, in soldoni, non fa una piega.

Eppure milioni di persone preferiscono spendere i loro soldi nell’irrazionale paradosso del regalo perfetto e, nella maggior parte dei casi “poco utile”.

Il denaro viene associato a valori negativi, spiegano i ricercatori dell’Università svedese: la presenza di denaro spinge di fatto le persone a comportarsi in maniera sconsiderata. Gli individui sono più generosi quando hanno la possibilità di offrire solo il proprio tempo, piuttosto che l’opportunità di donare denaro.

I regali sono la manifestazione d’affetto nei confronti del prossimo e questo spiega il perché, quasi universalmente, i regali di Natale che richiedono tempo e sforzo siano più graditi rispetto a quelli molto costosi.

Tutti i regali rivelano qualcosa di ciò che colui che dona pensa rispetto al destinatario e sono la manifestazione tangibile della comprensione. Il regalo perfetto è ciò che il destinatario realmente desidera, gradisce ed apprezza e che magari non si comprerebbe mai da solo. Alla fine il dono giusto rimane, a dispetto dell’utopica razionalità, quello fatto con il cuore.

CHRISTMAS BLUES: NON TUTTI A NATALE SONO FELICI…

E’ il tempo dei sorrisi. E’ il tempo della tristezza.

E’ il tempo degli abbracci. E’ il tempo dell’abbandono.

E’ il tempo della compagnia. E’ il tempo della solitudine.

E’ il Natale, sinonimo di festa e di allegria, di obblighi, di cinismo, di isolamento forzato, cercato, fors’anche subito.

Per qualcuno è facile abbandonarsi alla festa, al divertimento tutto eccessi, per qualcuno il monologo ricorrente del rifiuto, del conformismo mette di malumore, e l’abito della tristezza pare l’unica veste che possa indossare.

Lo chiamano, gli americani, Christmas Blues, il leit motiv natalizio, di chi proiettato nei propri guai, nei pensieri negativi, fa fatica a rincorrere il sorriso.

LA MALINCONIA DEL NATALE SI CHIAMA CHRISTMAS BLUES

Ogni giorno la scienza ci dice che sono all’incirca 3 mila i pensieri negativi che ci passano per la mente, e lo stare lontano dal lavoro e dalle diverse frenetiche attività rende più difficile cadere nelle malinconie che abitano la nostra anima. A cui si aggiungono il sole che si fa meno pretenzioso e il clima rigido.

Spesso però l’anticonformismo di chi odia il Natale, è diventano così frequente da fare a botte con chi non perde occasione di raccontare di feste e balli a cui non ha mancato con la diligenza del perfetto soldatino. La giusta misura è sempre quella che sta nel mezzo.

Gli scienziati quando parlano di Christmas Blues, stentano a darne definizione univoca. Per alcuni dipende dalla chimica: alla serotonina che fa le bizze diminuendo, si assocerebbe l’aumento della melatonina, che va ad influenzare i ritmi biologici del sonno e della fame.

Forse, per vincerla sul Christmas Blues basterebbero un po’ più di empatia, sincerità e attenzione al prossimo. La risata si sa è contagiosa e costa poco. Non lesinatela mai, soprattutto nelle tempo delle feste natalizie!

NATALE senza COMPITI: EPPURE lo STUDIO RIDUCE il RISCHIO di INFARTO e le MALATTIE NEUROLOGICHE

Vorrei tranquillizzare il ministro dell’Istruzione Bussetti informandolo che di studio è mai morto nessuno e anzi fa bene al cervello, rallenta l’Alzheimer e riduce le probabilità di avere un infarto cardiaco.

E’ di questi giorni la circolare ufficiale firmata da Bussetti e mandata ai docenti al fine di sensibilizzarli ad avere la mano leggera nell’assegnare i compiti, essendo le imminenti vacanze “giorni di festa da passare in famiglia e non sui libri”. Forse il ministro non sa che gli adolescenti italiani, secondo i dati Ocse non  vantano un livello di alfabetizzazione di primo piano se confrontato  con gli altri paesi del mondo. Mi astengo da giudizi personali e rispondo appellandomi alla scienza…

Le ricerche

La ricerca svolta dall’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma ha dimostrato l’effetto positivo dello studio sull’integrità del cervello, sia dal punto di vista strutturale sia funzionale, in particolare dell’ippocampo, l’area del cervello che svolge un ruolo di primissimo piano nei processi di memoria a lungo  termine. L’indagine sperimentale, tutta italiana, si è guadagnata la copertina della rivista internazionale “Human Brain Mapping” che ha pubblicato i risultati del lavoro.

Da tempo le teorie sostengono che un individuo maggiormente scolarizzato e con un più alto livello di istruzione, quindi più impegnato mentalmente, è in grado di creare una sorta di riserva cognitiva che protegge il cervello dai danni causati dai processi legati all’invecchiamento, come accade nella malattia di Alzheimer.

In altri termini, l’allenamento allo studio e il livello culturale permetterebbero di accumulare un “patrimonio” mentale più ingente che poi viene eroso più lentamente dai fenomeni legati all’invecchiamento cerebrale fisiologico e patologico.

Studiare non fa bene solo alla mente, m anche al cuore: riduce infatti il rischio di infarto. A darci questa notizia i ricercatori di varie università europee, dalla Oxford al Centro Ricerche in Epidemiologia e Medicina Preventiva (Epimed) dell’Universita’ dell’Insubria, che ha coordinato lo studio: “Education and coronary heart disease: mendelian randomisation study” e pubblicato sul British Medical Journal.

Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato 162 varianti genetiche già collegate in passato con gli anni di studio e raccolte da 543.733 uomini e donne di origine europea.

I risultati

Dai dati raccolti è emerso che 3,6 anni aggiuntivi di scolarità causano il 33% in meno di eventi coronarici, insomma, le persone che studiano di più rischiano di meno di avere un infarto. Incrementare il numero di anni a studiare riduce il conseguente rischio di sviluppare malattie coronariche. Insomma, se la cultura non dovesse essere un sufficiente motivo per studiare, a stimolarci potrebbero essere i rischi per il nostro cuore.

Conclusioni

I ricercatori spiegano: “Il legame tra bassa educazione e incremento di rischio coronarico è noto da tempo, ma è sempre stato attribuito ad altri fattori, quali fumo, dieta ed attività fisica. I risultati devono stimolare il dialogo tra la comunità medico-scientifica, la classe politica e gli operatori di salute pubblica per pianificare strategie volte a incoraggiare i giovani a migliorare sempre il proprio livello di educazione. Infatti, interventi come la riduzione delle tasse scolastiche, o il contrasto dell’abbandono scolastico precoce, potrebbero diventare misure con riflessi positivi in termini di salute pubblica, con forte impatto sulla prevenzione delle malattie coronariche”.

Di studio dunque non solo si muore ma anzi se ne esce più forti. Forse qualcuno dovrebbe avvisare il Ministro dell’Istruzione…

PERCHE’ TUTTI ABBIAMO BISOGNO di CREDERE in un qualche DIO…

Sei dodicenni già vecchi, sei bambini soldato. Avevano visto la morte, forse l’avevano anche data, erano vissuti a contatto con l’orrore. E di colpo si erano ritrovati invecchiati: la fronte solcata da rughe profonde, gli occhi che avevano smesso di ridere, le mascelle serrate che indurivano i tratti del volto. Uno di loro mi chiese di spiegargli perché lui stava bene soltanto in chiesa. “Non vedo che immagini spaventose. Ma appena entro in chiesa vedo cose belle”.

All’età di 14 anni, un altro bambino fu gettato in un inferno dove la realtà si era trasformata in follia: Auschwitz. Di ritorno dal regno dei morti non riusciva a parlare. Intorno a lui tutti domandavano “Quale Dio ha permesso tutto questo?”. Finchè il ragazzo capì che Dio soffriva per la presenza del male.

PSICOTERAPIA DI DIO

Inizia così “Psicoterapia di Dio”, un libro che dà risposte. Anche quelle scomode. Sulla vita e sulla morte. Sul dolore e sul peccato e spiega perché miliardi di persone, hanno bisogno di rivolgersi a Dio in cerca di aiuto.

Che sia il Dio dei cristiani, quello degli ebrei o dei musulmani, che sia una presenza benevola o un equilibrio cosmico di ascendenza orientale, resta il fatto che moltissime persone si rivolgono a Dio per provare pace.

Esiste una spiegazione?  Boris Cyrulnik, il più noto neuropsichiatra francese, profondo studioso dei traumi dei bambini-soldato, si pone questa domanda cruciale. Il tema è immenso e non scevro da valenze politiche in un momento storico come il nostro, nel quale masse di persone compiono crimini efferati proprio in nome di un cieco credo religioso.

GLI EFFETTI POSITIVI DELLE RELIGIONI

Ma resta il dato positivo: l’ambiente pacifico, calmo e fiocamente illuminato delle cattedrali gotiche, il cantillare delle liturgie ebraiche, la voce rassicurante del muezzin che chiama i fedeli in preghiera sono tutti esempi del lato consolatorio della religione, in cui così tanti esseri umani cercano riparo. Con gli strumenti delle neuroscienze e con i concetti chiave di attaccamento e di resilienza, Cyrulnik mostra come la religione sia effettivamente in grado di avere effetti psicoterapeutici, spesso visibili. L’approccio scientifico e psicologico porta a comprendere come il cervello del bambino instauri con Dio un rapporto affettivo paragonabile a quello che si instaura coi genitori. Il mondo della mente in via di sviluppo si struttura e nel cervello si scolpisce un sé neurologicamente e psicologicamente legato all’ambiente di crescita, che spesso aiuta, e molto, a combattere le inevitabili avversità della vita. Dio e psicoterapia sembrerebbero dunque alleati, almeno fintanto che Dio viene percepito come un padre buono e accogliente. I problemi iniziano quando l’ambiente della crescita presenta ai bambini un Dio vendicativo e intransigente. Proprio come avviene coi padri violenti.

Che tu sia credente o non lo sia affatto, poco importa. Non è un libro che indottrina, è un libro che sviluppa la resilienza.

COME il BLACK FRIDAY SEDUCE il nostro CERVELLO

Il prezzo seduce e si fa ancora più manipolatorio nella settimana del Black Friday. Fenomeno dilagante anche in Italia e che non si accontenta più di rimanere contenuto in un solo giorno, il venerdì appunto.

Settimana in cui ci ritroviamo a comprare un po’ di tutto, da ciò che ci sembra conveniente, a ciò che ci è utile fino a ciò che, a prezzo pieno, non compreremmo mai.

Ed ecco che mettiamo in borsa quei jeans troppo stretti per la nostra taglia, ma irrinunciabili a un prezzo così conveniente e soprattutto non vogliamo correre il rischio che li compri qualcun altro.

Il problema è proprio questo: percepiamo i capi in saldo come il treno che passa una volta sola, e pentirci per aver perso l’occasione del momento, fa troppo male al nostro cervello. Ed ecco che andare oltre è quasi sacrilego.

E poi quei jeans possono sempre essere la “spinta gentile” per motivarci a perdere peso. Infatti tendiamo a usare gli sconti per trovare uno scopo, un motivo per fare qualcosa che procrastiniamo da tempo, pur sapendo che quell’intento svanirà appena usciti dal negozio.

Senza contare l’effetto gregge che il “Venerdì Nero” si fa ancora più prepotente: il cervello umano tende ad imitare e imitare è il miglior modo per funzionare in un gruppo. Dunque se tutti comprano per il Black Friday, comprerò anch’io, così mi sentirò parte della società.

Il consiglio? Prendete tempo per compiere verifiche e valutare e confrontare le opzioni, solo così capirete se quella spesa, seppur scontata, vale davvero la pena o se non finireste addirittura per pagare di più (non indossando mai quei jeans).

Insomma gli acquisti fatti in occasione del “Venerdì Nero” non sono frutto di un ragionamento razionale. Compriamo non per risparmiare ma per rimpianto, piacere ed imitazione. Questo è ciò che più di altri fattori decreta il grande successo del Black Friday in ogni parte del mondo.