La SOLITUDINE di SCRITTORI e NUOTATORI

La SOLITUDINE del NUOTATORE

Ore seguendo una linea scura disegnata sul fondo, macinando chilometri, virata dopo virata, vasca dopo vasca e sfidando un cronometro impietoso.

Ci vuole resistenza e resilienza per nuotare. Sport solitario per eccellenza, l’unico limite che ti pone, non è l’acqua ma se stessi. Con i propri pensieri, le fragilità che vengono a galla e sono incapaci di perdonarti.

Senti il tuo respiro mentre nuoti, nient’altro che questo. E nessuno può dire se stai andando bene, devi saperlo da solo: si suppone che tu sappia, ogni minuto, ogni secondo, cosa stai facendo e se lo stai facendo nel modo giusto.

Nel momento stesso che metti piede in piscina, tutto svanisce.

Stress, paura e debolezze non possono entrare in acqua con te, devi essere più leggero che puoi, più veloce che puoi, più perfetto che puoi.  Sei semplicemente solo con te stesso. E all’improvviso neppure te ne accorgi della profonda solitudine in cui sei immerso. Quando nuoti. E quando scrivi.

La SOLITUDINE dello SCRITTORE

«La solitudine della scrittura – scriveva Marguerite Duras – è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora”.

Ci vuole separazione dagli altri quando si scrive. E la solitudine reale del corpo diventa presto quella, inviolabile, dello scritto.

Penna alla mano, mi domando quanto la solitudine affogata nell’acqua, mi abbia portato alla solitudine della scrittura. Così affine, perversa, necessaria.

Forse è per questo che non tutti sono scrittori… Non tutti sanno stare soli, nell’immensità vuota che forse, si farà libro. Non tutti sanno rendere la solitudine una necessità.

EGO, INDIPENDENZA e LAVORO INDIVIDUALE

Mi rendo conto che non si può essere nuotatore o scrittore se non si ama la solitudine e l’indipendenza violenta e inesprimibile che ne deriva. Glaciale e silenziosa eppure così accogliente e protettiva. Un gioco che da un lato coccola l’ego, dello scrittore e del nuotatore professionista, dall’altra il lavoro individuale della scrittura, il trauma e lo schiaffo della pagina bianca e delle vasche ancora, incessantemente, da nuotare.

RAZZISMO: FENOMENO DILAGANTE o INUTILE ALLARMISMO?

Il pregiudizio razziale è quella cosa per cui oggi se vedi due arabi che consultano freneticamente una mappa di Roma in treno ti domandi se non stiano preparando un attentato a Piazza di Spagna, mentre se incroci due norvegesi, su un treno, che consultano la stessa mappa e sono ugualmente agitati, dai per scontato che cerchino la strada per l’hotel nel quale soggiorneranno.

Se ne fa un gran parlare, in queste ultime settimane, di razzismo e reati contro gli immigrati. E non c’è giorno che qualche giornale e qualche politico snocciolino pro o contro, dati schizofrenici. Capirci qualcosa è complesso, così nel disordine di un indiscriminato overloading di dati, l’unica cosa a cui possiamo appellarci sono le scienze.

SCHELLING e i MODELLI sulla SEGREGAZIONE RAZIALE

“Perché una società sia segregazionista è necessario che le persone siano razziste non al 100% ma al 33%”, dimostrò l’economista americano Thomas Schelling, premio Nobel nel 2005 “per aver fatto avanzare la comprensione del conflitto e della cooperazione tramite la Teoria dei Giochi”.

Per usare le parole di Lucio Biggiero, docente di Organizzazione aziendale all’Aquila “se vogliamo evitare di finire in una società segregazionista, dobbiamo essere fortemente anti razzisti. La domanda da porsi quindi non è se non siamo razzisti, ma se siamo abbastanza anti-razzisti”.

Studi successivi a quelli di Schelling dimostrano che la segregazione raziale si genera già con livelli di intolleranza piuttosto bassi a cui si sommano sentimenti ed emozioni individuali.

L’ODIO: MIELE delle MASSE

I fanatici assolutisti non sono mai stati tanti, è piuttosto l’appartenere a un gruppo di tanti individui mediamente intolleranti che genera mostri, come ci ricorda la storia. Neanche troppo lontana.

L’odio, non dimentichiamolo, lega all’avversario, persino più di un sentimento amoroso. L’odio regala una specie di identità, una ragione sociale, un terreno di lotta. Sindrome, che il più grande scrittore di horror, Stephen King ha così magistralmente sintetizzato: “Forse è solo lo spirito della massa. Dare addosso all’individuo”.

 

 

 

 

Sai ROMPERE LE RIGHE e USCIRE dai RANGHI?

“13 luglio 1942. Nelle prime ore del mattino i riservisti di polizia del Battaglione 101 (ndr: il battaglione dei riservisti della polizia tedesca che parteciparono allo sterminio degli ebrei in Polonia nel 1941) furono svegliati dalle loro cuccette nella città polacca di Bilgoraj. Erano padri di famiglia di mezza età del ceto medio e medio-basso, provenienti da Amburgo. Considerati troppo vecchi per essere utilizzati nell’esercito tedesco, erano stati arruolati nella polizia.

Cominciava a fare chiaro quando il convoglio si fermò alle porte di Józefów, un tipico villaggio polacco. Tra i suoi abitanti si contavano 1800 ebrei. Gli uomini del Battaglione 101 saltarono giù dai camion e si radunarono intorno al loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp, un poliziotto di carriera di 53 anni. Era giunto il momento di spiegare l’incarico affidato al battaglione. Trapp appariva pallido e nervoso, parlava con voce soffocata e le lacrime agli occhi, e lottava palesemente con se stesso per dominarsi.

Il battaglione aveva ricevuto l’ordine di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli ebrei restanti – donne, bambini e vecchi – dovevano essere fucilati sul posto. Dopo aver spiegato che cosa li aspettava, Trapp fece agli uomini un’insolita proposta: se qualcuno fra i poliziotti più anziani non si sentiva all’altezza del compito affidatogli, poteva fare un passo avanti”.

Su 500 persone che componevano il battaglione solo una dozzina fece un passo avanti, deponendo i fucili e mettendosi a disposizione per un altro incarico. Come mai solo 12 persone su 500 fecero un passo avanti?

La particolarità del caso del Battaglione 101 (vale a dire la possibilità di scegliere) ha stimolato molte riflessioni da parte di studiosi e ricercatori.

L’ipotesi più accreditata è quella dello storico americano Browning (autore di: Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia; suo lo stralcio in incipit): “Uscire dai ranghi e fare un passo avanti, cioè adottare apertamente un comportamento non conformista, era al di là della portata di molti uomini. Per loro era più facile uccidere. Perchè? Fare un passo avanti significava lasciare il «lavoro sporco» ai compagni”.

La maggior parte degli esseri umani non riesce a sottrarsi al conformismo del gruppo cui appartiene, anche se questo lo porta a commettere degli atti mostruosi. Quando il singolo individuo percepisce una certa opinione nella maggioranza del gruppo al quale in quel momento appartiene, si conforma ad essa rinunciando alla propria responsabilità. Questa conclusione naturalmente è valida anche per circostanze meno drammatiche: molti tendono ad accettare, senza effettuare verifiche, informazioni di nessun valore o addirittura palesemente contraddittorie, se percepiscono che la maggioranza le condivide.

Nella comunicazione di massa, l’oscuramento delle opinioni minoritarie è stato evidenziato dalla psicologa Noelle-Neumann con la teoria della spirale del silenzio: le persone hanno sempre un’opinione su quale sia la tendenza della maggioranza in merito a uno specifico tema e, dato che subiscono la paura dell’isolamento, nel caso in cui si trovino ad avere un’opinione difforme da quella della maggioranza preferiscono tacere la propria opinione. Poche persone sono abbastanza forti e libere da sostenere il peso psicologico di percepirsi isolati nel loro contesto sociale.

Il sociologo Gigerenzer riassume l’euristica del conformismo sociale, nella formula “non rompere le righe”.

A prescindere alla definizione che viene data, la prossima volta che vi trovate a decidere, esprimetevi liberamente e ricordate il detto: “meglio soli che male accompagnati”!

UFFICI OPEN SPACE ADDIO: TROPPE DISTRAZIONI, STRESS e MALATTIE

Nati nel 1964, gli uffici senza divisioni e a lungo elogiati come soluzione ai problemi del lavoro moderno, facilitatori della collaborazione e garanti della uguale informazione di tutti i colleghi, sembrano aver perso l’appeal di un tempo. E sempre più studi ne mostrano l’inefficacia.

Fra le ricerche più note, quella condotta in diretta tv in “The Secret Life of Buildings” (UK): secondo i test del neuroscienziato Jack Lewis, il lavoro negli open space riduce le prestazioni aziendali del 32% e fa diminuire la produttività del 15%. Prima responsabile è la distrazione, che si insinua negli impiegati portandoli a pensare a tutto meno che agli obiettivi di lavoro.

Lewis ha condotto gli esperimenti davanti alle telecamere, chiedendo ai volontari – tra cui volti noti della tv – di trascorrere una mattinata in ufficio indossando una cuffia per il rilevamento delle onde cerebrali. Dai risultati è emerso che i cervelli delle persone impegnate in un open space vagavano più distrattamente degli altri.

“Gli uffici aperti – spiega Lewis – sono stati progettati per permettere ai lavoratori di collaborare meglio, muoversi più facilmente e scambiarsi opinioni e soluzioni. In realtà non funziona così. Se ti stai concentrando su qualcosa ma all’improvviso un telefono suona intorno a te e qualcuno comincia a parlare, la tua attenzione si perde e devi ricominciare da capo. Il cervello risponde alle distrazioni continuamente, anche se lì per lì non ce ne rendiamo conto”.

Secondo un altro studio condotto al Politecnico di Bari, a far perdere la concentrazione sono prima di tutto le voci dei colleghi (31%), poi i telefoni (27%), gli impianti di condizionamento (15%), le macchine da ufficio (13%) e rumori esterni (13%).

Ulteriori studi (di DeMarco e Lister) hanno dimostrato che gli open space non solo riducono la produttività ma danneggiano la memoria, rendono le persone più esposte alle malattie (maggiore rischio di contrarre l’influenza, avere la pressione alta e alti livelli di stress), più ostili, scarsamente motivate e insicure.

Eppure le intenzioni di Propst (l’inventore dell’open space) andavano in tutta altra direzione: gli open space avrebbero garantito la privacy senza ricorrere ai muri, fornendo a ciascun impiegato un proprio spazio da personalizzare sia in orizzontale, con la scrivania, sia in verticale, attaccando fogli e poster sulle pareti posticce. La parola d’ordine del suo “spazio lavorativo aperto” era “a portata di mano”, concetto che col passare del tempo è stato snaturato riducendo questi ambienti futuristici ad alveari composti da tante piccole celle l’una attaccata all’altra.

DENARO o REGALI? COSA METTERE sotto l’ALBERO?

Gli economisti sconsigliano di far trovare doni sotto l’albero, a Natale, in quanto abitudine (teoricamente) insensata e poco razionale.

Difficile dar loro totalmente torto soprattutto quando aperto il pacco ci si trova per le mani l’ennesimo foulard dai colori improbabili o un irritante maglione di lana riesumato da qualche fondo di magazzino.

Se agissimo come perfetti agenti razionali che non siamo, dovremmo regalare e voler ricevere denaro. A supporto gli studi di T. Ellingsen e M. Johannesson della Stockholm School of Economics, dove in ‘Conspicuous Generosity‘ (Generosità cospicua) stilano un elenco di ragioni per le quali è meglio scartare banconote, a Natale, piuttosto che regali.

L’acquisto dei regali comporta necessariamente dei rischi: il destinatario potrebbe non gradire il presente e, di conseguenza, il mancato piacere porterebbe all’annullamento del valore del dono; la valuta contante, al contrario, consente di acquistare esattamente ciò che si desidera.

Waldfogel, professore di economia applicata alla Carlson School of Management (Università del Minnesota), ha dimostrato che la somma che vorrebbero ricevere le persone al posto dei regali è inferiore rispetto al valore di uno qualsiasi tra i regali ricevuti.

Il discorso, in soldoni, non fa una piega.

Eppure milioni di persone preferiscono spendere i loro soldi nell’irrazionale paradosso del regalo perfetto e, nella maggior parte dei casi “poco utile”.

Il denaro viene associato a valori negativi, spiegano i ricercatori dell’Università svedese: la presenza di denaro spinge di fatto le persone a comportarsi in maniera sconsiderata. Gli individui sono più generosi quando hanno la possibilità di offrire solo il proprio tempo, piuttosto che l’opportunità di donare denaro.

I regali sono la manifestazione d’affetto nei confronti del prossimo e questo spiega il perché, quasi universalmente, i regali di Natale che richiedono tempo e sforzo siano più graditi rispetto a quelli molto costosi.

Tutti i regali rivelano qualcosa di ciò che colui che dona pensa rispetto al destinatario e sono la manifestazione tangibile della comprensione. Il regalo perfetto è ciò che il destinatario realmente desidera, gradisce ed apprezza e che magari non si comprerebbe mai da solo. Alla fine il dono giusto rimane, a dispetto dell’utopica razionalità, quello fatto con il cuore.

La PERSUASIONE OCCULTA nel WEB si CHIAMA CAPTOLOGIA

Influenza il modo in cui pensiamo e agiamo e ci aiuta a risolvere nuovi problemi attraverso nuove soluzioni. Ci ammalia, motiva e convince.
Chi, cosa?

La captologia, quel territorio di indagine dove arte della persuasione e scienza dei computer si mescolano e che comprende la progettazione, la ricerca e l’analisi di prodotti informatici interattivi, come il Web, software per computer, smartphone e apparecchi specializzati, inclusi siti, applicazioni mobili e social network, creati allo scopo di cambiare atteggiamenti o comportamenti delle persone.

A coniare il termine, nel 1996, B.J. Fogg, direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva alla Stanford University, derivandolo dall’acronimo Computers As Persuasive Technologies: CAPT.

La persuasione, nel senso della captologia, si riferisce a qualsiasi tentativo atto a provocare “intenzionalmente”, tramite l’interazione uomo-macchina, un determinato cambiamento “volontario” nelle idee e nei comportamenti, senza far uso di inganno o coercizione. Sono esclusi quei cambiamenti che, pur avvenendo a seguito dell’interazione uomo- macchina, non sono stati voluti e intenzionalmente pianificati dal progettista.

L’idea della persuasione subliminale ha origine negli anni 50 con gli “inserti subliminali” nei cinema, poi screditata quando chi la lanciò ammise di aver falsificato le ricerche. L’attuale resurrezione del subliminale, questa volta su computer, si fonda su nuove evidenze dalle neuroscienze che hanno mostrato come ad esempio le parti del cervello deputate all’elaborazione del linguaggio si attivano di fronte a stimoli subliminali contenenti parole.

Non si può non citare alcuni curiosi risultati.

Come quello condotto da M. Cavazza (Teesside University) in cui gli utenti usando al computer una simulazione 3D di un frigorifero, dovevano riempirlo con vari cibi. I ricercatori hanno tentato di influenzarne le scelte inserendo immagini subliminali di cibi. Quando gli utenti reagivano immediatamente dopo lo stimolo subliminale (entro 1 secondo), le loro scelte venivano effettivamente influenzate, mentre se passava più tempo l’effetto andava perso.

Gli stimoli ambientali, quali colori od odori, a cui non siamo soliti attribuire significati persuasivi, possono influenzarci, come hanno dimostrato due ricercatori olandesi, Cees Midden e Jaap Ham. Cambiare il colore delle luce ambientale in base a quanto elevato è il consumo risultante dalla programmazione del termostato, è una strategia efficace per ottenere comportamenti energetici più contenuti. Un’ottima applicazione di nudge, posso aggiungere.

Se invece si vuole persuadere in rete e raccogliere un numero ampissimo di followers? La cosa più valida da fare (come ha dimostrato Genevieve Johnson dell’Università dell’Oklahoma) è:
– millantare un elevato livello di esperienza sul tema che si tratta,
– esprimersi con la sicurezza e chiarezza di chi sa tutto (anche se non è così)
– atteggiarsi ad autorità indiscutibile, e quindi impossibile da contraddire
– e per rafforzare anche i più insensati “ragionamenti”, ricordate di citare qualche (sconosciuto) scienziato o (improbabile) pubblicazione scientifica.

Talvolta o forse troppo spesso purtroppo il Web riesce a dare credibilità anche a persone che non apparirebbero né esperte né autorevoli in un confronto pubblico faccia a faccia ed in tempo reale.

PERCHE’ ci AFFIDIAMO alle FAKE NEWS?

Immancabilmente come i tormentoni musicali da spiaggia, allo stesso modo anche le fake news sono diventate la compagnia fissa delle nostre giornate. Impossibile non accendere radio e tv o sfogliare un giornale senza incapparci, nonostante tutte le tattiche che mettiamo in atto per seminarle (e non diventarne vittime inconsapevoli).

Eppure la disinformazione è sempre esistita, la differenza è che oggi ha la strada spianata, grazie a internet che si sta rivelando una piattaforma ideale per la diffusione, la moltiplicazione e l’acritico consumo di fatti infondati.

Una cosa che va tenuta a mente, quando si tratta di abbattere la diffusione delle fake news, è che i fatti non ci fanno cambiare idea, nemmeno se suffragati da dati e documenti. Neanche se sono veri e corretti. A dirlo numerosi studi, fra cui quello del 2010 di Nyhan e Reifler: “chi è disinformato non solo rimane ancorato alle proprie opinioni, anche se confutate, ma tende a radicalizzarle fino all’estremizzazione, entrando di fatto in una sorta di stato di difesa dei propri pregiudizi”.

Questo comportamento detto in gergo backfire effect (ritorno di fiamma) porta a rifiutare a priori e a reagire aggressivamente di fronte a tutto ciò che mette in crisi le nostre opinioni: in pratica, combattere la disinformazione con i fatti è come cercare di spegnere con l’acqua un fuoco originato da olio: può sembrare efficace, invece peggiora le cose.

Per confutare la disinformazione, la soluzione si chiama debunking, ma il processo è tutt’altro che automatico in quanto i giudizi errati continuano a condizionare il pensiero, anche una volta corretti.

Fra i maggiori studiosi dei meccanismi di diffusione di disinformazione su internet, Walter Quattrociocchi dell’IMT di Lucca che ha analizzato migliaia di post e interazioni fra utenti su FB, dividendoli in due categorie: quelli a contenuto scientifico e quelli cospirazionisti.

I risultati mostrano l’esistenza di “echo chambers”, comunità polarizzate di utenti che selezionano e condividono contenuti relativi ad un tema specifico, ignorando il resto. La conclusione a cui è arrivato è che i confirmation bias riforniscono queste echo chambre (community) che a loro volta promuovono la diffusione dei contenuti sul social. Ma se le notizie scientifiche tendono a diffondersi all’inizio della loro vita, le dicerie cospirazioniste hanno durata estesa su FB.

Quattrociocchi ha poi esplorato l’apprendimento di notizie analizzando 920 nuovi canali di informazione e 376 milioni di utenti: le persone che prendono informazioni da FB limitano la propria ricerca a pochi siti, nonostante il grande numero di nuove fonti disponibili.

Se alla segregazione nelle community, a cui gli utenti rimangono morbosamente fedeli (a causa di una pseudo sindrome che associa l’herd – gregge -, l’ingroup e il band wagon effect quest’ultimo ci porta a fare nostra un’opinione quando è condivisa da tante persone) si associa l’estrema semplificazione dei contenuti volta a massimizzare il numero di like, ecco che i social diventano il luogo ideale nel quale la disinformazione si può diffondere. Su questo l’università di Harvard mette in guardia perché è ciò che può seriamente danneggiare la deliberazione democratica.

D’ora in avanti quando vi incaponite a difendere una notizia o uno studio scientifico che non avete elaborato o condotto voi, chiedevi la ragione di tanto fervore perchè è probabile che qualche effetto dal nome improbabile si sia attaccato al vostro ragionamento come una fake news ai titoli dei giornali…

TUTTI SAPEVANO. E allo STESSO TEMPO NESSUNO SAPEVA

E’ potente quanto una droga.
E’ una tentazione che il diavolo ci sussurra all’orecchio lasciandoci credere al libero arbitrio.
Soffoca i sensi delle Società che dichiarano di non tollerare predatori, incivili, maniaci, ladri e tiranni, ma continuano a premiarli.
Pietrifica le abitudini e le convinzioni, portandoci a trovare razionalizzazioni e giustificazioni verso i comportamenti contraddittori.

E’ il meccanismo noto come dissonanza cognitiva, messo in evidenza da Leon Festinger nel 1957. Si verifica quando non sopportiamo l’idea di dover cambiare idea e si arresta solo quando, in un modo o in un altro e persino attraverso l’autoinganno, riusciamo a risolvere la contraddizione. Sono dissonante quando sostengo la fedeltà matrimoniale e poi tradisco il coniuge o quando dico che tutti dovrebbero pagare le tasse e poi pago in nero l’idraulico perché così mi fa spendere meno.

E’ il meccanismo del “tutti sapevano e nessuno sapeva”.

Delle donne che hanno protetto, così a lungo, gli abusi del produttore Harvey Weinstein: tutti sapevano. Hollywood sapeva E allo stesso tempo nessuno sapeva.

Dei professori apparentemente rivali, in realtà alleati per spartirsi la ricca torta delle cattedre universitarie in Italia: il triste caso dei concorsi truccati. Tutti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

Della bimba di 6 anni che si ribella a un adulto di 43 che voleva violentarla, ed è stata buttata giù dall’8° piano. E il fatto non riguarda solo una bambina e un adulto, perché altre bambine erano state violentate. Alcune di queste erano figlie della donna con la quale l’uomo viveva. Tanti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

Scomodiamo la storia. Degli iscritti al partito nazista di un piccolo paese tedesco che, fra il 1993 e il 1945, non sapevano cosa stesse succedendo agli ebrei, nonostante giorno dopo giorno ne sparissero silenziosamente un numero non trascurabile. Tutti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

E’ il gioco della politica serpeggiante fra strategie opportunistiche senza futuro e l’abitudine di posizionare nomi e stringere alleanze, prima di delineare progetti e idee.

Sapere di non sapere è quasi una scelta inconscia. E’ il cervello che lo chiede a gran voce. Non tollera l’incoerenza, così si cimenta in aggiustamenti, opera una ristrutturazione cognitiva. Se la dissonanza è debole, abbiamo margini di tolleranza, ma quanto più è forte la sensazione di incoerenza, tanto più cerchiamo soluzioni per eliminarla, ristrutturiamo i nostri pensieri, ci arrampichiamo sugli specchi pur di tornare a sentirci in pace con noi stessi. Siamo bravissimi a raccontarcela, a trovare scappatoie, spiragli etici a nostro uso e consumo, eliminando dal nostro campo visivo ciò che non ci torna. Il tutto in uno stato di coscienza non così cosciente.

Nell’illusione del non sapere che “nel mondo c’è così tanta violenza e menzogna” ci culliamo, finchè accade qualcosa: una donna che trova il coraggio di parlare, un professore che si fa “disubbiente” o un vaso che Pandora scoperchia per curiosità. E così i nostri valori tornano ad essere la nostra stella Polare.

Sono MONOGAMO in TUTTE le mie RELAZIONI. COMPORTAMENTI nella RELAZIONE

La subiamo e la infliggiamo. Dalla notte dei tempi. Eppure l’infedeltà continua a erodere sicurezze, a privare le relazioni di felicità e identità, con una tenacia senza pari. E pur essendo universalmente proibita è allo stesso tempo universalmente praticata. Perché? Perché tradiamo?

Nei secoli agli uomini è stato consensualmente permesso tradire, giustificati da teorie biologiche ed evoluzionistiche le più diverse, ma ciò che realmente accade all’interno di una camera da letto, non si sa. Gli uomini si vantano, dettagliano prestazioni spesso mutuate dalle fantasie, le donne nascondono, negano, minimizzano. Non a caso in molti stati le donne possono ancora essere uccise per adulterio.

“Un tempo monogamia significava una persona per la vita – per usare le parole della terapeuta di coppia Esther Perel – oggi, monogamia significa una persona per volta. Probabilmente molti usano dire sono stato monogamo in tutte le mie relazioni”. In realtà la monogamia non ha nulla a che fare con l’amore. Ma circoscrivere una condizione in continua espansione qual è la infedeltà, diventa complesso, proprio perché non c’è una definizione universalmente riconosciuta.

Più che di una definizione, dovremmo parlare di contraddizione: il 95% delle persone sostiene che è terribilmente sbagliato da parte del partner mentire su un’avventura, ma lo stesso numero dirà che è esattamente quello che farebbe se ne avesse una.

Ciò che è certo è che non è mai stato così facile tradire. Quando il matrimonio era “combinato”, l’adulterio minacciava la sicurezza economica, oggi che è un accordo romantico, l’infedeltà minaccia la sicurezza emotiva. E se un tempo vi si ricorreva per cercare il vero amore, oggi che cerchiamo l’amore nel matrimonio, l’adulterio lo distrugge.

L’infedeltà ci ferisce perché erode l’ideale romantico che abbiamo costruito intorno al matrimonio e rivolgersi a un’altra persona per soddisfare un’infinità di bisogni è l’unico balsamo: essere l’amore più grande, il fidato confidente, il compagno emozionale, il pari intellettuale. E io sono: la prescelta, l’unica, l’indispensabile, l’insostituibile. L’infedeltà mi sbatte in faccia che non lo sono. È il tradimento estremo e che frantuma la grande ambizione d’amore. Se nel corso della storia, l’infedeltà è sempre stata dolorosa, oggi si fa trauma, perché minaccia il nostro senso del sé.

A causa di questo ideale romantico, pretendiamo la fedeltà del partner , pur non essendo mai stati più inclini al tradimento, proprio perché viviamo in un’epoca in cui ci sentiamo autorizzati a rincorrere i nostri desideri, al “mi merito di essere felice”. Se un tempo si divorziava perché eravamo infelici, oggi si divorzia perché potremmo essere più felici. E se il divorzio portava grande vergogna, oggi, scegliere di rimanere quando si può andare è la nuova vergogna.

Perché allora si tradisce?

“I tradimenti sono anche l’espressione di un desiderio e di una perdita – spiega la dr.ssa Perel -. La necessità di trovare un legame emotivo, libertà, autonomia, intensità sessuale, desiderio di riconquistare parti perdute di noi o il tentativo di riportare indietro la vitalità di fronte a una perdita e a una tragedia. La storia sottolinea che quando cerchiamo lo sguardo di un altro non è sempre al partner che voltiamo le spalle, ma alla persona che siamo diventati. Non stiamo cercando tanto un’altra persona, quanto stiamo cercando un altro noi stessi. Chi tradisce lo fa per sentirsi vivo. La morte e la mortalità spesso vivono all’ombra di un’avventura. Alcune storie sono il tentativo di ricacciare indietro la mortalità, un antidoto contro la morte”.

Come si supera un tradimento?

La maggior parte delle coppie che hanno provato il tradimento, non si separano. Alcune sopravvivono, altre riescono a trasformare la crisi in un’opportunità, dando un nuovo ordine al disordine, investendo in una profondità di conversazioni oneste e trasparenti, mai avute prime, con se stessi, e con l’altro. Conoscersi, ascoltarsi, come fosse la prima volta. Iniziando da se stessi. Dare spazio a se stessi. Tutto inizia da qui.

TRE BUFALE da SFATARE sul CERVELLO

 

Non è vero che la parte destra del cervello è creativa e la sinistra razionale.
Non è vero che usiamo solo il 10% delle potenzialità del nostro cervello.
Non è vero che il cervello umano è il più grande in natura.

NON E’ VERO CHE l’emisfero destro è creativo e il sinistro razionale. Il pensiero creativo non è collegato a nessuna area specifica del cervello, l’unica certezza è che la corteccia prefrontale (lobo frontale) si attiva quando si svolgono attività creative. E’ vero però che i due emisferi cooperano costantemente e si scambiano informazioni attraverso una struttura che si chiama corpo calloso. Talvolta sui libri viene fatta questa schematizzazione ma solo a fini didattici. Diverso è confonderla con la realtà.

Ciò che rende una persona particolarmente creativa, hanno dimostrato i ricercatori della Università di Padova e della Duke University (Bayesian Inference and Testing of Group Differences in Brain Networks è il titolo della ricerca), non è l’attività dell’emisfero destro ma l’attività fra i due emisferi.

Diffidate quindi di coloro che promettono di sviluppare le capacità creative del vostro emisfero destro. Se veramente volete esaltare la vostra creatività, leggete, ascoltate musica, viaggiate, visitate mostre e musei. Tutte cose che fanno bene non solo alla creatività ma all’intero cervello.

NON E’ VERO CHE usiamo solo il 10% delle potenzialità del nostro cervello, anche se questo è ciò che erroneamente crede il 50% delle persone, insegnanti compresi. L’idea suggestiva che fa pensare a ognuno di noi di avere un “tesoro” imponente di capacità inespresse, è sensata forse perché ognuno di noi, ogni giorno, si sente troppe volte stanco, apatico, deconcentrato, e facendo il confronto con i momenti più brillanti, sogna di poterne fare la norma. Purtroppo non è così.

Nonostante sia stata smentita più volte dalla ricerca, da ultimo anche dall’università di Cambridge, e risalga probabilmente a un testo tutt’altro che scientifico degli anni ’30, un celeberrimo manuale di Self Help, quest’idea con il suo innegabile potere evocativo continua a circolare nell’immaginario collettivo. Una tentazione ghiottissima anche per il cinema, sempre alla ricerca di spunti suggestivi e di storie che trascendano la quotidianità, come è accaduto con Lucy di Luc Besson.
Il cervello proprio perchè plastico può modificarsi e più lo usiamo più lo aiutiamo a funzionare meglio. Per migliorare le proprie prestazioni occorre esercizio indispensabile per consolidare i percorsi neurali e accrescere le facoltà cognitive

NON E’ VERO CHE il cervello umano è il più grande in natura. Il primato lo detiene il capodoglio con una massa di 7800 grammi. L’essere umano arriva a 1360. Quello che conta in realtà è l’organizzazione al suo interno, quali le aree sviluppate maggiormente rispetto ad altre. A meno che le dimensioni non siano talmente ridotte da impedire un’organizzazione sufficientemente complessa.

I miti spesso nascono per dare un significato ad eventi che non si possono spiegare. Aristotele lo ha spiegato bene: “Quando c’è qualcosa che ti stupisce, è naturale che tu ti chieda perché. Se non trovi una spiegazione soddisfacente, devi cercare ancora, tentando di individuare le cause di ciò che accade”. Forse, c’è sempre e solo stato bisogno di più scienziati