Legge di FALKLAND: se NON vuoi prendere una DECISIONE, NON prenderla

Ci sono situazioni durante le quali tutto ciò che vorremmo fare è posticipare la presa di una decisione. Non decidere ci sembra, in quel frangente, l’unica cosa da fare. In fondo, ce lo consiglia anche la legge di Falkland che recita: “Se non vuoi prendere una decisione, non prenderla”.

Non fa una piega.

Forse.

In realtà, anche non decidere, è di fatto una decisione.

Spesso, procedere a una scelta è difficile per diverse ragioni. Per citarne un paio, una è legata al timore di non fare la scelta migliore. Avrai sentito, al riguardo, parlare di FOBO (fear of a better option), la paura che scatta quando si deve scegliere fra diverse opzioni all’apparenza ugualmente valide.

Quando le informazioni sono troppe si genera un sopraccarico cognitivo che porta, in molti casi, a procrastinare la decisione o lasciare che siano altri a scegliere per noi.

Un altro fattore che può minare il processo decisionale è la paura di dover fare i conti con effetti e conseguenze irreversibili e negative causati da una decisione errata. Si tratta, di fatto, di fare una valutazione fra guadagno e perdita. Il costo di una scelta, in questa ottica, corrisponde al valore della migliore alternativa scartata. E proprio l’alternativa scartata torna con le sue caratteristiche attraenti e positive quando abbiamo operato la nostra scelta, dandoci la percezione di essere vicini al fallimento. Come canta Passenger, nel brano Let her go: “Only know you love her when you let her go”, ovvero: “Capisci di amarla solo quando l’hai persa”.

COSA HA A CHE FARE LA LEGGE DI FALKLAND IN TUTTO QUESTO?

L’utilità della legge di Falkland è quella di spingerci a pensare in modo più critico prima di decidere. Spesso, per toglierci un problema, decidiamo senza riflettere sulle conseguenze o non decidiamo affatto ma prima o poi la nostra immobilità ci porterà il conto.

La legge di Falkland inoltre ci esorta ad ascoltare l’istinto soprattutto se ti invia segnali. Anche perché l’istinto non è magia ma l’esperienza che si fa voce. E poi, per quanto banale: una decisione andrebbe presa quando si ritiene che sia corretta. Così facendo, anche se si rivelerà sbagliata, non avremo rimpianti e saremo in grado di imparare dall’errore.

Ma se né Kidlin, di cui ho scritto nella scorsa newsletter, né Falkland ti sono di aiuto, ecco qualche consiglio che può comunque tornarti utile.

E ALTRI 8 CONSIGLI

Scegli sempre, anche non scegliere è una scelta. Come già scritto, non decidere è una decisione che ti porta a stare dove sei. Chiediti: È quello che voglio? L’importante è che tu ne sia consapevole.

Riduci le possibilità di scelta. Esplicita il problema e procedi a delineare pro e contro per ogni alternativa, eliminando quelle che non ti soddisfano o non sono strategiche rispetto all’obiettivo che vuoi raggiungere. Non sempre e non tutte le opzioni sono utili.

Chiediti: «Cosa succederebbe se sbagliassi?». Quale potrebbe essere lo scenario peggiore? È davvero così drammatico? Di solito quando ti fai questa domanda trovi anche le possibili soluzioni a un eventuale errore. «Se sbaglio farò così…». Pensare un’alternativa fa sentire più sicuri.

Non rimandare. Procrastinare ti fa sentire meglio solo all’inizio perché pensi che prima o poi prenderai una decisione, ma non ora e intanto speri che le cambino. Di solito succede nelle relazioni, e si sta in attesa che qualcosa accada. Se a volte dormirci su può aiutare a prendere una buona decisione, ci sono situazioni in cui rimandare equivale a non vivere il presente.

Non aspettare che tutto sia perfetto. A volte le soluzioni sono intermedie, richiedono molto impegno, ma ti consentono di fare delle scelte.

Si può spesso tornare indietro. Sii sincero con te stesso e cerca di capire se la scelta che dovrai operare ti permetterà o meno di rettificare, modificare delle azioni strada facendo o se una volta presa non ti sarà più possibile tornare indietro. Raramente qualcosa è definitivo.

Immagina di aver già scelto. E guarda che effetto e che conseguenze potrebbe avere l’alternativa che hai scelto. Annota le tue sensazioni, cogli le tue perplessità, usa carta e penna e pondera le opzioni.

Non farti condizionare dagli altri. Più una scelta è importante per te meno persone devi coinvolgere. Confrontati solo con cui può dare del reale valore aggiunto, altrimenti assumiti la tua responsabilità decisionale.

Per quanto difficile sia decidere, è una fatica che vale la pena fare. O per usare le pare di Jean Paul Sarte: “La cosa essenziale nella vita è scegliere. Se ti tolgono la possibilità di farlo è come se ti togliessero la libertà”.

Legge di KIDLIN: per trovare una SOLUZIONE a un PROBLEMA troppo difficile da RISOLVERE

Ti sei mai trovato nella situazione di avere un problema che sembrava troppo difficile da risolvere?

La domanda è retorica. Un po’ tutti ci siamo trovati a dover gestire un problema che, a prescindere dalle soluzioni, dal tempo e dalle energie profuse, non siamo riusciti a risolvere.

Quando ci si trova bloccati su un problema o quando quest’ultimo è vago, sfaccettato e poco chiaro, ricorrere alla legge di Kidlin può essere utile.

La legge di Kidlin è un principio di risoluzione dei problemi che dice: “Se scrivi chiaramente il problema, la questione è risolta a metà”.

Questa legge prende il nome da Kidlin, un personaggio immaginario in un romanzo di James Clavell che utilizzò questa tecnica in diverse sue sfide.

COME APPLICARE IL PRINCIPIO DI KIDLIN

Definisci il problema: il primo passo è riconoscere un problema esistente o l’incapacità di raggiungere l’obiettivo desiderato. È importante avere consapevolezza sulla natura e sulla portata del problema, nonché necessario rispondere al motivo per cui il problema è percepito tale.  Quindi occorre descriverlo in modo semplice e chiaro, evitando affermazioni vaghe o generiche, come “Sono infelice” o “Ho bisogno di più soldi”. Cerca invece di essere specifico e concreto: “Non sono soddisfatto del mio lavoro attuale perché non corrisponde alle mie capacità e ai miei interessi” oppure “Ho bisogno di più soldi per saldare i debiti e risparmiare per comprarmi un appartamento”.

Analizza il problema e determina le cause: il passo successivo è scomporre il problema in parti più piccole e semplici così da trovare la causa principale. Poniti domande del tipo: “Quali sono le cause del problema?”; “Quali sono gli effetti del problema?”; “Quali sono i vincoli o i limiti del problema?”; “Quali sono le ipotesi o le convinzioni alla base del problema?”; “Quali sono gli obiettivi o i risultati desiderati per risolvere il problema?”; “Da dove viene esattamente questo problema?”; Quali sono le sue dimensioni e il grado di impatto, qual è il livello di priorità?”.

Definisci gli obiettivi.Cosa si otterrà una volta risolto il problema? Che tipo di risultato ti aspetterà una volta raggiunto l’obiettivo? Immagina la sensazione che proverai quando il problema sarà risolto. Per natura, programmiamo la nostra vita in base a ciò che ci aspetta alla fine della giornata. Agiamo in base al rapporto profitti-perdite.

Genera soluzioni. A questo punto occorre fare il brainstorming delle possibili soluzioni per ciascuna parte del problema. Non giudicare o valutare le tue idee in questa fase; ma scrivine il maggior numero possibile. Sii creativo e aperto.  Prova a guardare il contesto da diverse angolazioni e prospettive.

Valuta le soluzioni. Valuta le risposte e scegli quella migliore per ciascuna parte del problema. Considerare fattibilità, efficacia, efficienza, costi, rischi e fattori di impatto.

Implementa le soluzioni. Verifica se la soluzione è fattibile. Ci sono domande a cui è necessario rispondere per garantire la fattibilità: “Può essere implementata entro un lasso di tempo accettabile?”; “Si adatta a un piano scalabile?”; “È efficace, affidabile e realistica?”; “E’ tecnicamente possibile?”.

Dopo aver trovato una risposta alle domande, scegli la soluzione. Imposta scadenze e traguardi per ogni azione per misurare i progressi. Uno degli elementi più importanti è avviare un rigoroso processo di follow-up.

Affinché il processo sia applicabile in modo sano è necessario procedere costruendo un meccanismo di feedback.

Scrivere il problema aiuta a chiarire il pensiero, focalizzare l’attenzione, organizzare le informazioni e comunicare le idee. Consente inoltre di ridurre lo stress, aumentare la fiducia e motivare l’azione.

A questo punto, non ti rimane che applicare la legge di Kidling ogni qual volta un problema è troppo complesso o non riesci a trovare la soluzione.

BOSS in INCOGNITO NON è la SOLUZIONE ai PROBLEMI (in AZIENDA)

Facendo zapping, mi sono accorta che Boss in incognito – un reality game che mette a confronto il capo di una fabbrica con i dipendenti – è ripartito sui canali Rai. Più nello specifico, al capo di una importante realtà imprenditoriale, viene camuffato l’aspetto e fatta assumere una identità fittizia così da mescolarsi ai dipendenti e scoprire cosa pensano dell’azienda.

Il successo di un programma televisivo però non sempre è proporzionale alla sua utilità nel risolvere problemi. Per risolvere un problema occorre capire qual è il problema.

Se informazioni e tempo scarseggiano, si diventa vittime di decisioni irrazionali, una tra tutte l’euristica della disponibilitàche fa considerare eventi con una forte componente emotiva, più decisivi e probabili.

Eppure…

Segretezza: elemento chiave di Boss in incognito. È necessaria?

Mere observation effect: la semplice osservazione di un fenomeno lo modifica. Se sappiamo esserci un vigile modereremo la velocità alla guida. Ma l’effetto induce una modifica esclusivamente in quei comportamenti che sappiamo essere osservati e per i quali ci saranno conseguenze. Non è questo a rendere un comportamento, virtuoso e sostenibile nel tempo.

Campionamento sporadico, basato sulla ricerca di eventi eclatanti. L’approccio non è dettato da una scelta metodologica ma dall’esigenza di segretezza; se vogliamo mantenere l’incognito, dobbiamo prevedere che uno stesso “agente” non possa osservare una situazione più di una volta.

L’unico approccio utile è mantenere il senso della prospettiva e basare le decisioni su evidenze certe e numericamente rappresentative. Nonché cercare comportamenti positivi da estendere a tutti e non additare ciò che è negativo.

Soprattutto perché se ciò che è considerato negativo non lo è in percentuale maggioritaria, evidenziarlo servirà solo a farlo percepire come “la norma” e quindi invoglierà a uniformarsi. Questa è anche una delle ragioni che spiega il fallimento di tante campagne sociali, come dimostra l’economia comportamentale.

Cosa ne pensate?

SOPRAVVIVERE a un CAPO con un EGO smisurato

Talvolta accade. Di ritrovarsi a lavorare per un capo (o un socio) dall’ego spropositato ma che, inizialmente, era sembrato solo un po’ esuberante. Quasi simpatico. Se ne era anche apprezzata la capacità di eloquio, l’originalità nel proporre la sua ostinata visione del mondo.

Fino a quando si è scoperto, o dovuto ammettere, che la sua non era estroversione, ma puro egocentrismo. E le cose sono precipitate…

A me è accaduto, qualche anno fa. Ciò che più mi ha fatto riflettere è l’averne voluto ignorare i segnali, benché palesi. Forse, a spingermi in direzione opposta, è stato il fatto che il progetto su cui lavoravamo era particolarmente interessante. Sulla carta. Quando è venuto meno l’entusiasmo, e la sinergia ha perso la sua ragione d’essere, anche l’aurea magica che ruotava intorno al soggetto in questione si è dissolta. E io, ho dovuto fare i conti con la realtà.

LE MIE LEZIONI IMPARATE

DARE UN NOME ALLE COSE. La prima cosa da fare è riconoscere con chi si ha a che fare. E accettarlo. Anche se non ci piace. Ma è necessario se si vuol sopravvivere, ancor più se in quel momento non si ha modo di andarsene dall’azienda o lasciare il progetto su cui si sta lavorando. Più capiamo con chi abbiamo a che fare e più sarà possibile mettere in atto strategie funzionali al nostro obiettivo o quanto meno alla nostra sopravvivenza.

CAMBIARE STILE DI COMUNICAZIONE. Relazionarsi con chi ha un ego smisurato richiede l’apprendimento di una nuova lingua. O, meglio, di una parte. Allo stesso modo di come fanno gli attori. Quindi considerare l’utilità di frasi quali “Sì, hai assolutamente ragione“, seguito da “Hai mai considerato quest’altra idea che probabilmente ti era già venuta in mente?”. È una forma d’arte, in realtà, che naviga nel delicato equilibrio tra l’adulazione e il far capire il proprio punto di vista senza gonfiare ulteriormente l’ego di chi ci sta di fronte.

RENDI IL TUO LAVORO A PROVA DI EGO. Il tuo lavoro deve brillare, ma non così tanto da accecare l’ego del capo. Si tratta di far fare bella figura al capo senza annullarti. E’ un po’ come essere un ghostwriter per i tuoi successi. “Questo vecchio progetto? Ci ho lavorato nei ritagli di tempo, ma in realtà è stata la tua guida a renderlo tanto strategico“.

DAGLI, DI TANTO IN TANTO, QUELLO CHE VUOLE. A volte, il modo migliore per gestire chi ha un ego colossale è dargli ciò che vuole. Non dico di esagerare, ma la giusta quantità di elogi può oliare le ruote, rendendo la tua vita lavorativa meno in salita.

TIENI PRONTO UN PIANO B. Non sempre sarà possibile evitare le sfuriate di chi ha un ego spropositato. Per questo è utile avere un riparo dove proteggersi, fino a che la tempesta non sarà passata. Tieni a portata di mano una scorta di ombrelli metaforici, come un’e-mail di elogio o un promemoria di un successo passato. Questi piccoli stimolatori dell’ego possono essere la tua offerta di pace agli dei del narcisismo.

MANTIENI L’EQUILIBRIO. Bilanciare l’adulazione con una delicata quanto necessaria verifica della realtà può talvolta essere pericoloso ed elettrizzante allo stesso tempo. Nonchè richiede una certa dose di equilibrio fatto di tatto e tempismo. “È un’idea rivoluzionaria, ma forse potremmo prendere in considerazione questa piccola modifica per renderla ancora più innovativa?“. Si tratta di fare in modo che l’ego atterri dolcemente, senza lividi o ammaccature.

NON E’ SOLO SOPRAVVIVENZA. Ciò che ho imparato è che non si riduce tutto a una mera questione di sopravvivenza. Ma si tratta di crescere, maturare. E’ la capacità di trovare l’umorismo nell’assurdità, imparare la pazienza che non sapevi di avere e sviluppare le capacità di negoziazione. Perché, alla fine, non è quasi mai una questione personale. È solo ego.

Con un po’ di pratica, anche se in certi momenti risulta difficile crederlo possibile, si può anche diventare indispensabili per quel capo dall’ego tanto smisurato. Trasformando quello che avrebbe potuto essere il nostro più grande incubo sul posto di lavoro in una masterclass di agilità psicologica. Dopotutto, se riesci a gestire un capo di questo tipo, cosa non puoi gestire?

Ci sono VOLTE in cui TACERE è peggio che DIRE ciò che si PENSA. Attenti all’IGNORANZA PLURALISTICA…

Ti è mai capitato di trovarti in mezzo a un gruppo di persone e non riuscire a sopportarne una in particolare? Potrebbe trattarsi di un amico di un amico, un collega o della nuova fidanzata di tuo fratello. Poco importa. Ciò che è rilevante è che mentre tu ritieni questa persona odiosa o indelicata, sembri anche l’unica a pensarla così. Così per non rovinare la serata, fai buon viso a cattivo gioco e cerchi di celare il tuo disappunto.

Ma, anche se nessuno palesa di non apprezzare quella persona, è comunque corretto ritenere che piaccia a tutti?

Assolutamente no, il gruppo potrebbe solo sperimentare ignoranza pluralistica.

Che cos’è l’ignoranza pluralistica?

Il termine è stato coniato, a inizio del Novecento, da Allport per descrivere una situazione in cui tutti i membri di un gruppo rifiutano privatamente le sue norme, credendo però, allo stesso tempo, che tutti gli altri membri le accettino.

Detto in altri termini: è quel fenomeno in cui la maggioranza delle persone non è d’accordo con l’opinione della minoranza, ma crede che l’opinione della minoranza sia l’opinione della maggioranza.

Questo accade perché nessuno parla contro l’opinione prevalente, presumendo che tutti gli altri siano d’accordo poiché nessuno sta parlando.

E’ dunque quella sensazione che proviamo quando crediamo che amici e colleghi la pensino diversamente riguardo a un argomento, anche se questi sono, in realtà, sulla nostra lunghezza d’onda. Un esempio si ha in un’aula universitaria quando gli studenti non interrompono un professore che dice una cosa sbagliata, poiché, guidati dall’inazione generale, credono di aver capito male.

In concreto

È dimostrato come i membri esterni di alcuni C.d.A. possano sottostimare la preoccupazione dei membri interni dello stesso consiglio riguardo a una performance non soddisfacente della propria azienda. E’ sufficiente che i membri interni non manifestino le loro preoccupazioni affinché il punto di vista della minoranza, quello dei membri esterni, venga percepito come quello di una larga maggioranza. Il supporto che ha la visione della minoranza viene così sovrastimato a causa dell’inazione dei membri interni.

Non è raro che i dipendenti di un’azienda, pur di dare sostegno al proprio gruppo supportino alcuni valori che, in privato, rigettano.

Una delle maggiori conseguenze dell’ignoranza pluralistica a livello aziendale è l’influenza negativa che questa può avere nei processi decisionali di gruppo. Dato che i dipendenti non condividono le loro reali opinioni in un contesto di decisione di gruppo, potrebbero essere inclini a intraprendere azioni che non sono supportate dai singoli membri del gruppo.

O più banalmente, potrebbe accadere al bar o in un contesto pubblico: un cliente abituale prende a fare battute sessiste ad alta voce verso alcune donne sedute al bancone. Per un po’ si tenderà ad osservare il comportamento dell’avventore, provando disagio ma anche un po’ di timore. Poi, una volta che ci è guardati intorno e resi conto che nessuno dice niente, si è tentati di pensare che forse non è un atteggiamento tanto errato visto che mette a disagio solo te.

Sfortunatamente, in casi come questo più a lungo il cattivo comportamento viene tollerato, più la persona è portata a pensare di essere appropriata e facilmente cercherà di spingere i limiti ancora più in là.

Perché si verifica l’ignoranza pluralistica?

Se ti sei trovato in una situazione come quelle sopra menzionate, o simili, conosci la sensazione. Hai paura di essere l’unica persona a sentirsi in difficoltà. Non vuoi causare problemi, innescare una lite o attirare l’attenzione. O, dai per scontato che qualcun altro interverrà. Due sono i fenomeni che spiegano perché ci sentiamo a disagio e come questo possa portare un intero gruppo a presumere la cosa sbagliata.

Effetto spettatore. Se a nessuno in un gruppo viene assegnato un compito, tutti possono presumere che qualcun altro se ne occuperà. Soprattutto se l’attività richiede di mettersi in evidenza o di separarsi dagli altri membri. L’effetto spettatore può avere conseguenze disastrose in caso di emergenza. In quanto, anziché intervenire, la prima cosa che fanno tutti è guardarsi intorno per vedere chi sta per agire e aiutare la persona in difficoltà. Perdendo tempo prezioso che potrebbe fare la differenza in caso di vita o di morte.

Ingroup Effetto. Agli albori dell’umanità, andare controcorrente era pericoloso. Nessuno voleva separarsi dalla propria “tribù”. Questa mentalità è ancora radicata in noi. Sentiamo il bisogno di conformarci agli altri, anche se quegli “altri” sono solo persone nella nostra stessa stanza mentre partecipiamo a un esperimento di psicologia sociale!

Per questo, ci vuole molto coraggio per andare controcorrente e dare voce a quella che si crede sia un’opinione minoritaria. Ma ci vuole anche fiducia. Se non sei sicuro che le persone del tuo gruppo reagiranno con rispetto alla tua opinione, specie se negativa, potresti pensare che sia più sicuro per te tenere la bocca chiusa.

L’ignoranza pluralistica può verificarsi in quegli ambienti tutt’altro che sicuri dove proteggersi è più proficuo che dare la propria opinione.

Come superare l’ignoranza pluralistica

Il primo passo dovrebbe farlo colui che ha convocato la riunione per decidere su un determinato argomento. Questo individuo dovrebbe essere il primo a mostrarsi aperto a un potenziale feedback negativo, e dovrebbe in qualche modo cercarlo, esternando le proprie preoccupazioni qualora la decisione presa dovesse andare contro i desideri di un membro del gruppo stesso.

Le realtà aziendali però richiedono spesso decisioni complesse, non riducibili a semplici aperture verso potenziali feedback negativi. Nonostante ciò, essere consapevoli dell’esistenza di questo bias, può aiutare le organizzazioni ad approfondire l’argomento e ad affrontare i loro processi decisionali di modo da non andare contro gli interessi dei decisori stessi.

O almeno, questo è quello che penserebbe una larga maggioranza.

Fonti

Miller D.T., McFarland C. (1987). Pluralistic ignorance: When similarity is interpreted as dissimilarity. Journal of Personality and Social Psychology, 53(2), 298-305.

Halbesleben J.R.B., Wheeler A.R., Buckley M.R., Understanding pluralistic ignorance in organizations: application and theory. J Manag Psychol. 2007;22(1):65–83.

Latané B., Darley J., The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, Appleton-Century-Crofts, 1970.

Effetto KAYAK: per fare dell’ATTESA un ALLEATO

C’era una volta un fabbro che si lamentava di quanto gli affari andassero male. All’inizio della sua carriera, scassinare serrature lo impegnava a lungo e talvolta era costretto a sfondarle per aprirle, ma i clienti apprezzavano i suoi sforzi e lo ricompensavano con mance generose. Con il tempo, diventato esperto, per scassinare le serrature gli ci volevano pochi istanti, e i clienti, vedendo quanto fosse facile, avevano smesso di lasciare la mancia, risentendosi persino di pagare il suo compenso per quello che sembrava un lavoro da poco.

L’effetto kayak si può raccontare anche in quest’altro modo.

Immagina di trovarti a cena, con amici, in un nuovo bellissimo ristorante. Sfogliando il menù, la tua attenzione cade sul risotto allo zafferano e champagne. Mentre le persone che sono con te ordinano tutti piatti diversi. Il cameriere trascrive gli ordini, ringrazia e si allontana. Per comparire pochi minuti più tardi, con in mano il tuo risotto.

La prima domanda che ti poni, se non sei super affamato, è come sia possibile che l’ordine sia pronto in così poco tempo… e non solo il tuo…

Lo assaggi e ti sembra anche abbastanza buono, ma continui a pensare che mancano due ingredienti fondamentali: lo sforzo e il tempo per prepararlo. Così il dubbio che il risotto fosse già pronto prende il sopravvento. Dubbio che andrà poi ad influenzare il tuo giudizio sul piatto.

EFFETTO KAYAK O LABOR ILLUSION

L’effetto kayak o labor illusion è lo stesso meccanismo che si cela osservando un quadro d’arte contemporanea esposto in un museo e che ci porta a pensare: ‘Avrei potuto farlo io!’. Poche cose sono semplici come sembrano.

Quante bozze stracciate ci sono dietro un romanzo? Quanti anni di allenamento dietro un tiro decisivo? Quante startup fallite dietro un’azienda di successo?

Quando vediamo lo sforzo impiegato per realizzare un prodotto o erogare un servizio, la nostra percezione del suo valore aumenta. Lo apprezziamo di più e, di conseguenza, siamo disposti a pagarlo di più.

È per questo che siamo più inclini a spendere per acquistare un vaso in vetro soffiato dopo avere osservato un artigiano modellarlo, con maestria, nel suo laboratorio a Murano. Sicuramente di più di quanto lo pagheremmo se lo trovassimo esposto in vetrina senza conoscere l’impegno che sta dietro.

Succede anche il contrario: quando un prodotto ci sembra troppo facile da ottenere, il nostro cervello tende inconsciamente a ridimensionarne il valore. Come con il risotto di cui sopra e il falegname.

Ecco perché occorre conoscere l’effetto kayak, noto anche come labor illusion. La tendenza a dare maggiore valore a servizi o beni per i quali possiamo immaginare od osservare lo sforzo impiegato per produrli[1].

Siamo cioè disposti a pagare di più per un servizio o un oggetto quando osserviamo lo sforzo profuso nella sua produzione e quindi, se rendiamo visibile l’illusione dello sforzo, possiamo creare un plusvalore attorno al nostro servizio/prodotto.

DOVE NASCE

Questo effetto prende il nome da Kayak, un famoso sito comparatore di prezzi che, per farsi perdonare i tempi di attesa fra una pagina e l’altra, ricorre al trucco di mostrare agli utenti i progressi della sua ricerca, dando l’impressione di poter assistere dal vivo al software che analizza i prezzi di ogni hotel o volo[2].

Alcune piattaforme usano questo effetto, nelle schermate di caricamento, mostrando i nomi di tutte le compagnie aeree analizzate dal loro software, creando l’illusione di un complesso work in progress. Il messaggio implicito inviato all’utente è: “Ecco quanto sforzo stiamo impiegando, in questo preciso momento, per soddisfare la tua richiesta”.

L’efficacia di questa strategia è stata confermata nel 2011 da un esperimentocondotto da due ricercatori di Harvard, Buell e Norton: gli utenti che osservano il meccanismo ‘in azione’ sono più soddisfatti del risultato finale e sono disposti a sopportare attese più lunghe.

Tornando all’esempio del ristorante, soprattutto se è la prima volta che ci entriamo, non avendo molti elementi per giudicarlo, tendiamo a pensare che il tempo e la cura con cui un piatto viene preparato sia un indicatore di qualità. Ecco perché molti ristoranti optano per cucine a vista, così da enfatizzare il lavoro degli chef e aumentare il valore percepito.

A mostrare la persuasione di questo effetto, è un altro esperimento, durante il quale a dei volontari fu chiesto di valutare la qualità di alcuni quadri dopo aver mostrato loro l’impegno che ci era voluto per crearli (2 ore vs 2 giorni). Il risultato fu che quando era occorso più tempo e impegno, il valore percepito era maggiore, anche in termini di prezzo che sarebbero stati disposti a pagare[3]. A prescindere dal risultato.

L’effetto kayak trova applicazione nel design di applicazioni e siti web. Dopo aver effettuato l’ordine in Deliveroo, l’app consente un tracciamento in tempo reale delle operazioni svolte dal ristorante e dal rider, rendendo l’attesa della consegna a domicilio meno lunga[4].

Così l’app di Uber che consente di tracciare posizione dell’autista e monitorare il tempo di attesa. La banca argentina BBVA mostra animazioni di conteggio delle banconote mentre i clienti aspettano che la macchina eroghi il denaro.

COME USARE IN MODO VANTAGGIOSO LA LABOR ILLUSION

Utenti, lettori o clienti valutano il nostro operato in base al prodotto finito: gli sforzi che abbiamo profuso per arrivare al risultato sono spesso invisibili ai loro occhi, e raramente incidono nella valutazione complessiva.

Per questo a volte essere più trasparenti come aziende o individui, svelando (anche parzialmente) meccanismi e processi, contribuisce ad aumentare il valore percepito in quello che facciamo.

È ciò che viene definita “trasparenza operazionale”.

A questo punto permettetemi una domanda: se poteste portare un po’ di effetto kayak nel vostro lavoro, si alzerebbe il valore percepito in quello che fate?

Fonti

[1] Efrat-Treister D., Cheshin A., Harari D., Rafaeli A., Agasi S., Moriah H., Admi H., 2009. How psychology might alleviate violence in queues: perceived future wait and perceived load moderate violence against service providers, Plos One 14.

[2] Marsden (2014). The kayak effect: why making customers wait drives satisfaction. www.digitalwellbeing.org

[3] https://online.ucpress.edu/collabra/article/9/1/87489/197632/The-Effort-Heuristic-Revisited-Mixed-Results-for

[4] https://www.bing.com/search?q=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&qs=n&form=QBRE&sp=-1&ghc=1&lq=0&pq=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&sc=6-47&sk=&cvid=46105991F7744532A0246A43A1BA42EE&ghsh=0&ghacc=0&ghpl=

Come DECIDONO i NAVY SEALs e come mettere in pratica i loro SUGGERIMENTI

Nonostante la si svolga migliaia di volte al giorno, prendere decisioni rimane un’attività complessa. E non solo per le scelte importanti. Spesso, sono le piccole decisioni ad avere l’impatto maggiore. Come sostiene Ryan Angold, ex Navy Seal e a.d. di ADS Inc, secondo cui “non esiste una decisione perfetta al 100 per cento[1].

Della stessa idea è Mike Hayes, Chief Digital Transformation Officer di VMWare, ed ex comandante dei Navy SEALs: “Tutte le decisioni sono fondamentalmente le stesse. Prendere decisioni sulla vita o sulla morte richiede lo stesso processo di scelta di quando la posta in gioco è più bassa[2].

Si può non essere d’accordo con Hayes, anche se di situazioni complesse ne ha vissute molte visti i 20 anni di carriera con i Navy SEAL, dove è stato comandante del SEAL Team TWO, e a capo di una task force per operazioni speciali in Afghanistan che includeva oltre mille missioni di bombardamento aereo.

Sia che, in azienda, io scelga di investire o che stia decidendo quali operazioni dovrebbero svolgere i SEAL, si tratta dello stesso quadro decisionale“, ha ribadito più volte.

Punto di vista forse un po’ estremo ma utile per mettere in discussione il nostro modo di fare una scelta.

RACCOGLI FEEDBACK, IDEE E PROPOSTE

Nella vita lavorativa si accumulano esperienze da cui si può attingere laddove e quando serve, se si è stati bravi a farne delle lezioni imparate.

Il requisito nei team SEAL è che tu abbia attraversato molteplici scenari diversi, ti sia allenato nei contesti più estremi, gli ambienti più difficili, gli scenari peggiori“, afferma Angold. “Questi vissuti sono utili poiché diventano punti di riferimento nel momento del bisogno”.

Anche se quello in cui ci si trova è raramente lo stesso scenario che si è vissuto in precedenza, ci permette comunque di imparare come funziona la squadra e noi stessi e ci consente di prendere decisioni rapide.

Raccogliere input, feedback e consigli dagli altri è fondamentale. Hayes, che è stato membro della Casa Bianca e direttore della politica e della strategia di difesa presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto le amministrazioni Bush e Obama, sottolinea quanto confrontarsi con persone che non la pensano come noi sia strategico e determinante.

Troppo spesso tendiamo a cercare idee e visioni di persone che pensano al nostro stesso modo“, afferma. “Gli artisti tendono ad assumere artisti e gli ingegneri assumono ingegneri. Ricevere input da chi non la pensa come noi, promuovendo una cultura che celebra le differenze e promuove altre idee, aiuti le persone a sentirsi a proprio agio nel dire cose come: Non penso che sia una grande idea. Ecco come farei…  Questo consente le migliori decisioni possibili”.

Per generare le migliori idee e soluzioni, far partecipare al tavolo voci diverse, è una best practice che fa bene, benchè non sia una pratica così diffusa.

Solo prendendo la tua migliore alternativa e confrontandola con una serie di altre, potrai decidere qual è la cosa migliore da fare”.

Troppi leader pensano di dover prendere la decisione da soli”, aggiunge Angold. “Contare sulla propria squadra non è un segno di debolezza. I leader forti sfruttano le proprie risorse”.

DECIDI QUANDO DECIDERE

La prima decisione, in un processo decisionale, non è la decisione. La prima decisione è quando prendere la decisione“, dice Hayes. “Questa è la cosa che la maggior parte delle persone sbaglia“.

Sapere quando prendere una decisione dipende dal tempo in cui si ottengono i migliori input e le alternative possibili. A volte il tempo decisionale è di 30 secondi, altre due settimane. Puoi anche decidere di non decidere.

A un certo punto, il valore delle diverse soluzioni costa più del tempo associato all’ottenimento di nuove“, afferma Hayes. “E’ quello il momento in cui prendere la decisione”.

Indugiando, si perde valore e si sprecano delle occasioni importanti.

Sapere quando è il momento giusto di decidere richiede però esperienza. “È quantitativo e qualitativo. Ci sono momenti in cui ottieni più informazioni utili per la tua decisione, ma ci sono altri momenti in cui devi agire d’istinto. L’istinto è in realtà un insieme di esperienze da cui estrai la logica”.

Spesso si tende a dare una rilevanza eccessiva a quello che definiamo “sesto senso”. In realtà l’istinto è spesso frutto dell’esperienza. L’essersi trovati in situazioni similari, aiuta il nostro cervello a fornire soluzioni, a unire i puntini. Spesso, in modo inconsapevole.

SII DISPOSTO A CAMBIARE ROTTA

Nonostante l’esperienza e le dovute valutazioni, si può incorrere in un errore.  La cosa importante è analizzare lo sbaglio e capire dove e quando questo è avvenuto.

Quando sbagliano, molti dirigenti senior lasciano che il loro ego prenda il sopravvento. Pensano che invertire la rotta farà fare loro brutta figura. Occorre sentirsi a proprio agio nel dire: ci sono nuove informazioni, lasciatemi rivalutare lo scenario“.

In poche parole, ci vuole umiltà.

Un leader è colui che non ha bisogno di fare bella figura di fronte alla squadra. Si prende le proprie responsabilità e sa mettere l’organizzazione prima di sé stesso. Ci vuole molta umiltà per ammettere di aver sbagliato. Ma è indispensabile per non perdere la fiducia del team“.

Che piaccia o meno, saper correggere il tiro dopo aver fallito, velocizza la nostra capacità di prendere decisioni.

Nessuno vuole o deve correre rischi inutili, ma un leader empatico, umile e trasparente, che dà l’esempio, sa che anche facesse una scelta sbagliata, la sua squadra gli coprirà le spalle perché confidano che risolverà il problema”.

I suggerimenti per migliorare la presa di decisione sono simili nei diversi settori. La differenza la fa mettere o meno in pratica i consigli che via via ci vengono offerti. Non tutti ci saranno di aiuto, ma andranno ad alimentare il nostro bagaglio esperienziale. E chissà che un domani possa essere determinante… anche se sarà più romantico chiamarlo sesto senso!

FONTI

[1] https://www.industryleadersmagazine.com/us-navy-seals-reveal-secrets-of-effective-decision-making/

[2] Hayes M., Never Enough: A Navy SEAL Commander on Living a Life of Excellence, Agility, and Meaning, Celadon Books2021

 

LEGITTIMA DIFESA o LICENZA di UCCIDERE?

Ci sono storie capaci di tormentarti, forti di domande a cui difficilmente è possibile dare risposte secche. Anche se ti soffermi a pensarci. Ed è una di queste che voglio raccontare, perché seppur in toni diversi, a che fare con le persone, con il lavoro e i comportamenti. Il focus della mia newsletter del mercoledì.

Forse avrete sentito parlare di Mario Roggero, il gioielliere di Grinzane Cavour (nel cuneese dove vivo) condannato a 17 anni di carcere per omicidio volontario per aver ucciso due dei tre rapinatori che il 28 aprile 2021 assalirono la sua gioielleria.

CRONACA

Il giorno della rapina, alle 18,30, tre uomini con cappellino e mascherina chirurgica si presentarono in gioielleria. Dietro al bancone, la moglie e una delle figlie di Roggero. I tre si finsero interessati a un acquisto costoso, ma quando le donne aprirono le teche dei gioielli, le minacciarono con una pistola (che si rivelerà poi un’arma giocattolo).

Roggero era nel laboratorio dietro il negozio: allertato dalle grida delle donne, uscì con la sua pistola e colpì a morte due dei tre rapinatori. Il terzo, inizialmente, riuscì a fuggire, ma venne rintracciato nella notte nell’ospedale di un paese vicino, con una ferita alla gamba.

Questa la versione spicciola. Quella che alcuni preferiscono raccontare. Quella della legittima difesa.

Poi c’è la versione documentata dalle telecamere che mostra una storia differente. Roggero che, con un colpo alla schiena ammazza in negozio, il primo rapinatore, poi si mette all’inseguimento, in strada, sparando e uccidendo il secondo ladro e ferendo il terzo.

Questa è l’altra versione, quella della licenza di uccidere.

IL PASSATO

Quella del 2021 è la seconda rapina alla gioielleria. La prima, avvenuta nel 2015, aveva visto i rapinatori picchiare una delle figlie di Roggero, portandola a lasciare il lavoro in gioielleria e aprire un bed and breakfast.

LA DOMANDA

Premessa: non mi interessa appurare chi ha torto o ragione, e nemmeno entrare nelle polemiche politiche che inevitabilmente una vicenda come questa innesca. Ciò che vorrei è aprire un confronto con voi lettori e vi chiedo (anche non legata a questa vicenda): la difesa è sempre legittima?

Personalmente, sono dell’avviso, citando Marco Aurelio che “il miglior modo di vendicarsi d’una ingiuria è il non rassomigliare a chi l’ha fatta”. So che in alcune situazioni occorre trovarsi per giudicare, ma siamo davvero sicuri sia cosi?

RIFLESSIONI SPARSE

Per chi, come me, si occupa di comportamenti, non è possibile dimenticare che in qualche modo tutte le vittime dei malviventi sono turbate dalla violazione della propria casa perché è vissuta come una violazione della propria intimità. Ci sono persone, vittime di furti, che hanno difficoltà ad addormentarsi per mesi e vivono una sensazione di disgusto all’idea che degli estranei abbiano frugato tra le loro cose.

Chi si trova faccia a faccia con un ladro o ne vive semplicemente le conseguenze, spesso sviluppa le sintomatologie del disturbo post traumatico da stress. Non esiste però alcun modo rigoroso di accertare quale fosse la condizione di un individuo nel momento in cui ha subito un’aggressione, né di valutare se le sue reazioni possano aver avuto un nesso con lo stato d’animo in cui si trovava.

Le persone vanno riconosciute nella loro esperienza personale. Se un soggetto è stato vittima di diverse rapine sarà più predisposto a reagire in modo eccessivo quando sorprenderà il ladro in flagrante. Quella reazione, legata a una storia pregressa di esasperazione, potrebbe trasformarsi in tragedia, aggravata dal peso di dover elaborare l’omicidio di un altro uomo per tutta la vita.

La licenza di uccidere funziona solo nei film, occorre dirlo. Nella vita reale togliere la vita a una persona porta con sé una serie di traumi tanto gravi da richiedere anni di terapia per tornare alla normalità.

Anche se, in Roggero, soprannominato il pistolero, questa presa di coscienza pare mancare. Pentimento e rammarico latitano. Pare chiuso sul torto subito, sui danni che gli sono stati arrecati e meno in quelli generati. La morte, quella che ha inflitto, pare più una normale conseguenza. “Se la sono cercata”…

Insomma, non c’è una sola risposta. E più che schierarmi, ho necessità di comprendere. Aiutatemi a vedere il contesto da angolature diverse.

Il PRANZO è per CHI non ha NIENTE da FARE. Siamo sicuri che sia proprio così?

Molti di noi sono cresciuti con l’idea che lavorare fino a tardi, essere sempre super incasinati, avere orari folli, sia cool. Ci renda agli occhi degli altri, persone di valore, importanti. Degni di ammirazione.

Studi recenti lo confermano: sono considerati “moralmente ammirevoli” coloro che si impegnano molto indipendentemente dai risultati. Con la differenza, rispetto il passato, che “è il lavoro, non il tempo libero, il significante dello status sociale dominante”.

Benchè, l’essere indaffarati non è esattamene sinonimo di risultati, e nemmeno un indicatore affidabile per identificare i talenti, sono ancora molte le organizzazioni che premiano e promuovono chi fa l’alba alla scrivania. Nonostante i dati dimostrino che “quando si sovraccaricano i dipendenti, facendo dipendere gli incentivi dalla quantità di tempo lavorato, la produttività e l’efficienza diminuiscono”.

La busyness, la povertà di tempo, ha un impatto negativo molto forte sulle persone, in quanto incide sul coinvolgimento e aumenta l’assenteismo.

IL POTERE DELLA BUSYNESS

Ci sono tre ragioni dietro la nostra incessante ricerca di cose da fare:

1) Giustificazione allo sforzo. Più siamo impegnati a raggiungere un obiettivo, più lo apprezziamo. Anche per compiti privi di significato. Questo perché più un’attività è impegnativa, più ci sentiamo coinvolti. E questo finisce per spingerci a giustificare la fatica che facciamo, senza accorgersi che il burnout è dietro l’angolo.

Purtroppo, una volta che la cultura della busyness si è insediata in un contesto, tende a persistervi. Eradicarla diventa un’impresa titanica.

Pensateci: se fin dai primi giorni in una nuova realtà, ci viene mostrato che non c’è un preciso orario di inizio e fine, tenderemo a uniformarci agli altri per essere accettati, fino a che diventeremo parte integrante di quel sistema. Raramente lo metteremo in discussione. Vuoi perché aspiriamo a una promozione, un aumento di carriera o responsabilità o anche solo non vogliamo perdere il ruolo acquisito. Come in un circolo vizioso, a nostra volta imporremo ai nuovi arrivati, la medesima dedizione, dandola per normale.

2) Avversione all’ozio: preferiamo fare qualcosa che ci tenga occupati piuttosto che aspettare 15 minuti senza fare nulla, a patto di riuscire a trovare una giustificazione per agire in questo modo.

E’ la stessa cosa che avviene in aeroporto. Molte volte occorre seguire un percorso piuttosto lungo prima di arrivare alla zona di recupero bagagli: questo ha il solo scopo di tenerci occupati, far guadagnare tempo agli addetti allo scarico delle valigie e farci tollerare meglio il tempo di attesa della nostra borsa.

3) I clienti si comportano allo stesso modo. Tendiamo a credere che il valore di un prodotto sia direttamente proporzionale all’impegno profuso. Uno studio ha dimostrato che i partecipanti apprezzavano di più oggetti (un dipinto, una poesia, ecc) e li valutavano meglio in termini di qualità e valore quando pensavano fossero stati prodotti con uno sforzo maggiore. Una ricerca ha inoltre scoperto che i clienti di un bar apprezzavano di più il servizio quando un panino veniva preparto davanti a loro, quando cioè potevano osservare il lavoro che stava dietro il prodotto, rispetto a quando il panino veniva solo consegnato.

COME FERMARE LA BUSYNESS

–        Premiate i risultati

Pagare le persone per lo sforzo e non per i risultati, le spinge a incrementare lo sforzo ma non la produttività. Una ricerca ha dimostrato che quando le persone impegnate in un’attività collaborativa si differenziano solo per le abilità naturali e vengono pagate sulla base del tempo profuso, finiscono per lavorare più a lungo ma meno intensamente, ottenendo meno risultati. In parte perché percepiscono una sorta di ingiustizia in un incentivo economico uguale per tutti.

Risultati simili si sono avuti con uno studio condotto nelle professioni legali. La tendenza degli studi legali a promuovere gli associati che hanno il maggior numero di ore fatturabili porta a una mentalità improntata alla competizione sfrenata e fa sì che gli avvocati lavorini troppe ore e siano inefficienti.

Per incentivare la produttività, una retribuzione più legata ai risultati può essere utile purchè non sia il solo indicatore preso in considerazione. Inseguire le ricompense può portare a superlavoro e burnout parimenti a considerare solo lo sforzo profuso slegato dai risultati.

Un mix fra i due è utile sia per incoraggiare l’innovazione e l’assunzione di rischi, sia per massimizzare la produttività. Così da trasmettere il messaggio che non si dà valore solo alla busyness.

–        Qualità del lavoro

Spesso ciò di cui vengono sovraccaricati i dipendenti sono attività che poco li coinvolgono, cosi da costringerli al multitasking, pur sapendo che il multitasking riduce la produttività fino al 40%.

Utile potrebbe essere chiedere alle persone di valutare le attività che svolgono su una scala da 1 a 5, indicando quanto la ritengono impegnativa dal punto di vista cognitivo. Così da poter eliminare le attività superficiali o demandarle.

  • Spingete le persone a prendersi una pausa

C’è la paura, in molti manager, che se ai dipendenti fossero date ferie illimitate questi ne approfitterebbero. Eppure, sono molti coloro che non esauriscono i giorni di vacanza retribuita annualmente e altrettanti lavorano anche quando sono in ferie.

Gli studi mostrano come la maggior parte dei dipendenti controlla la posta aziendale quando non è in ufficio, tant’è che questo ha spinto governi come Francia, Spagna e Portogallo ad approvare leggi che impongono alle organizzazioni di consentire ai lavoratori di disconnettersi fuori dall’orario di lavoro.

Nel 2014 la casa automobilistica tedesca Daimler (ora Mercedes Benz) ha consentito di utilizzare, quando erano fuori ufficio, un programma di posta elettronica che cancellava automaticamente le email in entrata e informava i mittenti che le loro mail erano state cancellate e che in caso di emergenza chi si poteva contattare.

  • Manager, date l’esempio!

Per incentivare il benessere a scapito del busyness dare il giusto esempio è sicuramente una delle strategie più efficaci. Se arriva dal vertice!

  • Allentare il tiro

Sebbene assumere più risorse è, a ragione, una scelta poco vantaggiosa sull’immediato, è in realtà una buona strategia soprattutto quando si tratta di gestire una crisi e si cerca di mantenere gestibile il carico di lavoro quotidiano nel tempo. Banale, ma come tutte le cose all’apparenza banali, sottovalutate. Accrescere le risorse è un costo ma non lo è meno perdere talenti.

In conclusione, attenzione a non confondere l’attività con i risultati. Non necessariamente chi è molto occupato è anche parimenti produttivo. Premiare chi si ferma fino a tardi, più di chi in un minor numero di ore porta maggiori risultati, accresce il rischio di creare un ambiente tossico dove non tutti vogliono lavorare o rimanere. In parte, le nuove generazioni ce lo stanno già dicendo, magari non nel modo che ci piace sentire e forse un po’ estremizzato. Ma rivedere collaudate abitudini, potrebbe prevenire impatti che oggi neanche riusciamo a immaginare. O forse sì, ma ci rifiutiamo di farlo.

VUOI raggiungere un OBIETTIVO? NON seguire il MIGLIORE

Non userò mezzi termini: il modeling non funziona.

Partiamo dall’inizio. Il modeling o modellamento, la tecnica che i paladini della PNL (programmazione neuro linguistica) dispensano a gogo, non funziona.

Per dovere di scienza, occorre una precisazione, il modeling non è un’invenzione della PNL (che ne ha fatto una delle sue tecniche di punta) ma un concetto sviluppato da Albert Bandura, psicologo canadese noto per i suoi studi sulla teoria dell’apprendimento sociale.

Secondo Bandura, apprendiamo tramite modelli di comportamento, e questi modelli sono rappresentati dalle persone più importanti e salienti all’interno dei contesti dove viviamo, lavoriamo, ecc. Un bambino può, cioè, apprendere osservando un genitore o un adulto, un collaboratore da un responsabile, un cittadino dal proprio leader politico e così via. Gran parte dell’apprendimento deriva quindi dall’osservazione di modelli comportamentali.

Studi recenti hanno però dimostrato che il modeling non solo non funziona ma può diventare controproducente.

MODELING E OBIETTIVI

Spesso, quando vogliamo raggiungere un obiettivo, ci affidiamo a una guida esperta, a chi quello stesso obiettivo lo ha già soddisfatto, a chi reputiamo un punto di riferimento del settore. E’ un mantra che molti formatori e coach dispensano in modo seriale: “se vuoi raggiungere il successo, impara dai migliori”.

Vuoi diventare un grande cuoco, partecipa a una masterclass con uno chef stellato. Vuoi suonare la batteria, modella gesti e comportamenti del più bravo batterista del mondo. Perché non studiare fisica con Einstein… Insomma, gli esempi si sprecano.

Questa teoria però ha dimostrato di non essere infallibile come molti vogliono farci ciecamente credere.

A sentire i fautori del modeling, tale tecnica dovrebbe aver ormai annullato la povertà. Scusate, il lapsus, la mediocrità…

LO STUDIO CHE CONFUTA IL MODELING

A mettere in dubbio il modeling ci hanno pensato gli economisti comportamentali analizzando l’efficacia del metodo, fra gli altri, sugli studenti.

Chiedendosi: modellando gli esperti, gli studenti imparano di più?

I ricercatori hanno raccolto dati su ogni matricola della Northwestern University dal 2001 al 2008 e verificato se avessero ottenuto risultati migliori in una disciplina quando a tenere le lezioni erano stati i docenti più qualificati.

Ci hanno abituato a pensare che si apprende di più se a insegnare è un professore esperto rispetto a uno preparato ma con meno esperienza.

I dati hanno invece mostrato il contrario: gli studenti che hanno seguito corsi con i migliori esperti, in una determinata disciplina, hanno finito per ottenere voti peggiori rispetto a chi ha seguito le lezioni con un docente preparato ma non il migliore.

I risultati sono stati trasversalmente coerenti: i 15 mila studenti presi in esame hanno imparato meno dalle lezioni tenute da esperti, a prescindere dalla materia.

I MIGLIORI ESPERTI SONO LE GUIDE PEGGIORI

Ciò che è emerso è che quando si vuole iniziare ad apprendere qualcosa di nuovo, i migliori esperti sono spesso le peggiori guide.

Ci sono almeno due ragioni per cui gli esperti faticano a dare buone indicazioni ai principianti. Uno è la distanza che hanno percorso: sono arrivati troppo lontano per ricordare cosa significhi essere dei neofiti. E’ la maledizione della conoscenza: più sai, più è difficile per te capire cosa significhi non sapere.

Come riassume lo scienziato cognitivo Sian Beilock: “Man mano che diventi più bravo in quello che fai, la tua capacità di comunicare il tuo sapere o di aiutare gli altri a imparare quell’abilità spesso peggiora irreversibilmente“.

Questo era anche il tallone di Achille di Einstein, in classe. Sapeva troppo, e i suoi studenti sapevano troppo poco. Aveva così tante idee che gli frullavano in testa che aveva difficoltà a organizzare le lezioni, figuriamoci a spiegare a un principiante la gravità.

Quando fece il suo debutto come insegnante in un corso di termodinamica, nonostante fosse un astro nascente della fisica, il suo insegnamento poco brillante attirò solo tre studenti. E quando, il semestre successivo non riuscì ad attirare un gruppo più numeroso, cancellò il corso.

CHI SA NON PUO’ INSEGNARE (LE BASI)

Si dice spesso che chi non sa fare, insegna. Sarebbe più corretto dire che chi sa fare, non può insegnare le basi. Gran parte della conoscenza degli esperti è tacita, implicita, non esplicita. Più progredisci, meno consapevolezza hai dei fondamenti.

Gli esperimenti dimostrano che i golfisti esperti e gli appassionati di vino hanno difficoltà a descrivere le loro tecniche: anche chiedere di spiegare i loro approcci è sufficiente per interferire con le loro prestazioni.

Gli esperti hanno spesso una comprensione intuitiva di un percorso, ma faticano ad articolare i passaggi da compiere.

PIU’ MENTORI E’ MEGLIO CHE UN SOLO SUPER ESPERTO

Anche se l’esperto che hai scelto può guidarti attraverso il suo percorso, quando chiedi indicazioni sul tuo, ti imbatterai in una seconda sfida. Non condividete gli stessi punti di forza e di debolezza: i suoi non saranno gli stessi che hai tu. Potresti avere la stessa sua destinazione, ma stai partendo da una posizione diversa. Questo rende il tuo percorso tanto sconosciuto a lui quanto il suo lo è a te.

Naturalmente, riceverai consigli più personalizzati da una guida che ti conosce bene. Ma per quanto sia allettante rivolgersi a un super esperto per un saggio consiglio, nessun individuo avrà tutte le giuste indicazioni.

Lo si è visto in uno studio sugli avvocati che aspirano al ruolo di partner. La guida di un singolo mentore non ha fatto la differenza. C’erano altri lati positivi: gli avvocati che avevano un mentore di supporto erano più soddisfatti e impegnati rispetto ai loro colleghi che ne erano sprovvisti. Ma quando si trattava di essere promossi a partner, ciò che contava era essere guidati da più mentori. Due o tre mentori sono in grado di condividere diverse informazioni e consigli su come avanzare.

Nessun altro conosce il tuo viaggio. Ma se raccogli indicazioni da più guide, queste possono combinarsi per rivelare soluzioni impensate. Più il percorso è incerto e più alta è la vetta, maggiore è la gamma di guide di cui avrai bisogno. La sfida è mettere insieme i vari suggerimenti in un percorso funzionale per te.

Imparare da più guide è un processo iterativo e interattivo. Non è così semplice come andare dalle persone e chiedere: “Posso modellare i tuoi comportamenti“. Le informazioni non sono semplicemente lì, in attesa di essere estratte. Non viviamo in Matrix. Le guide non possono semplicemente mettere a disposizione la loro esperienza per consentirci di fare un copia e incolla.

Lo scopo di coinvolgere mentori e guide non è quello di seguire ciecamente le loro indicazioni. Si tratta di tracciare possibili percorsi da esplorare insieme. Per farlo, devi rendere esplicita la loro conoscenza implicita. Invece di ricorrere al modeling, è più utile conoscere i punti di svolta, le decisioni che persone con più formazione ed esperienza di te, hanno preso e i loro impatti.

La buona notizia è che per iniziare ad agire, non hai bisogno di una mappa esatta che il modeling illude di poter fornire solo guardando altri in posizione più avanzata rispetto alla tua. Tutto ciò di cui hai bisogno è una bussola per valutare se stai andando nella giusta direzione.