QUANDO la PROMOZIONE SFUMA di un SOFFIO (per colpa di un mancato sponsor … forse)

Eri strasicuro, la promozione, per cui tanto ti eri dato da fare, era in arrivo, non a caso il capo ufficio più volte aveva portato ad esempio il tuo impegno, e l’AD ti aveva elogiato pubblicamente per come avevi gestito un progetto con un cliente importante.

Ma poi le cose sono andate diversamente…

Pur riflettendoci, non riesci a capacitarti di cosa sia andato storto, non ci sono stati da parte tua errori evidenti, mancanze… anzi. Tutto il contrario.

E se l’errore fosse stato quello di non saper distinguere fra i tuoi sostenitori, fan per usare un gergo moderno, e coloro che hanno un reale impatto sulla tua crescita professionale?

I fan sono persone che hanno una visione positiva di un dipendente, di un collega, ma non sono personalmente coinvolte nel successo di quell’individuo. Puoi avere dei fan, come l’ad, e un mentore, il capo ufficio, ma non avere degli sponsor.

CHI E’ UNO SPONSOR

Uno #sponsor è qualcuno che ha investito personalmente nella carriera di un dipendente e che dispone anche di sufficiente potere per influenzare decisioni aziendali come promozioni e aumenti.

In questo caso, l’errore è aver pensato che il capo ufficio fosse lo sponsor, ignorando più o meno consapevolmente che avesse anche titolo nell’organizzazione per sostenerne la promozione.

Non tutti hanno uno sponsor ma, per il successo professionale a lungo termine, averne è fondamentale. Ecco perché è importante saperli individuare e coltivare.

Occupandosi di comportamento organizzativo non è raro trovarsi a gestire situazioni di questo tipo.

Per non rimanere delusi, limitare i danni e utilizzare al meglio sforzi, risorse e capacità occorre essere in grado di distinguere e individuare chi può essere per noi solo un sostenitore e chi invece ha sufficiente potere e ruolo per prendere decisioni che ci riguardano.

Per semplificare, possiamo classificare il mondo del lavoro in quattro tipologie: fan occasionali, superfan, mentori e sponsor.

FAN OCCASIONALI E SUPER FAN

Hanno una visione positiva di un dipendente ma non si sentono personalmente responsabili del suo successo. Se qualcuno chiede loro informazioni su una determinata persona, diranno cose carine ma non si impegneranno a sostenerla. Né i fan occasionali né i super fan faranno qualcosa per supportare il dipendente. Nel nostro esempio, l’amministratore delegato era un superfan: sebbene fosse disposto a lodare il dipendente pubblicamente, non era personalmente coinvolto nel suo successo al punto da sostenerne la promozione.

Spesso confondiamo fan e superfan con gli sponsor.

MENTORI

Investono nello sviluppo del dipendente molto più di un fan. Si preoccupano di aiutare un individuo ad avere successo, ma non hanno il potere necessario nell’organizzazione per assumere un ruolo di sponsorizzazione. La differenza fondamentale tra sponsor e mentori è che, con uno sponsor, il focus della relazione è nel sostenere la progressione di carriera di un individuo e, con un mentore, l’enfasi è sullo sviluppo del dipendente come persona e professionista.

Mi è capitato di lavorare con un giovane professionista che credeva, impropriamente, che il senior manager a cui riferiva, fosse uno sponsor forte, perché spesso lo portava a pranzo, lo presentava a persone di alto livello e lo indirizzava su come affrontare situazioni interpersonali difficili sul lavoro. Tuttavia, quando si trattava di inserirlo in progetti prestigiosi, non aveva sufficiente potere e ruolo per farlo.

SPONSOR

Gli sponsor sono come i super fan in quanto parlano apertamente delle prestazioni di una persona, ma possono usare il loro ruolo e potere nell’azienda per avanzarne la carriera. Il ruolo di uno sponsor è investire nello sviluppo del dipendente. La sponsorizzazione può assumere la forma dell’inclusione intenzionale della persona in team desiderabili, garantendo l’accesso su progetti in linea con i suoi interessi e consentendogli di acquisire le competenze necessarie per l’avanzamento di carriera.

Una trappola comune per molti è presumere che solo i dirigenti senior possano essere, di default, sponsor efficaci. Sebbene le aziende abbiano spesso programmi formali di mentoring, la sponsorizzazione tende ad essere informale e organica, quindi le conversazioni sincere sono importanti per confermare il livello di investimento e supporto personale di un potenziale sponsor.

Il modo in cui gli individui vengono supportati o meno da manager e leader nelle loro organizzazioni ha un impatto diretto sul successo lavorativo e sulla carriera.

Le risorse umane hanno un ruolo importante in tal senso. Possono e devono aiutare i dipendenti a identificare le persone nell’organizzazione che possono migliorare le loro prospettive di carriera. Questo vale per tutti ma soprattutto per quei professionisti che sono i primi, nelle loro famiglie, a lavorare in un contesto aziendale o di servizi professionali. Spesso non hanno nessuno che possa consigliarli e rischiano più di altri di confondere sponsor con mentori.

Anche se un leader si considera un paladino della diversity and inclusion, questo non lo trasforma automaticamente in sponsor, ma in mentore. Con tutto quello che questo può comportare.

LA FIDUCIA

La fiducia è una parte importante della creazione di una relazione di supporto e uno dei modi in cui le persone costruiscono fiducia con gli altri è essendo affidabili. Trovare il tempo per fornire supporto quando è necessario crea fiducia. I migliori mentori e sponsor forniscono soluzioni concrete, feedback che contribuiscono alla crescita e allo sviluppo di un dipendente.

Potrebbe non essere sempre ciò che l’individuo vuole sentire, ma spesso può essere ciò di cui ha bisogno.

Non esiste un mix perfetto di tipi di supporto in un’organizzazione. Soprattutto a inizio carriera. Ciò che si dovrebbe fare è mirare a costruire, nel tempo, team che includano individui di ciascuna tipologia e rappresentino vari livelli all’interno della gerarchia organizzativa e, di conseguenza, diversi tipi di potere.

I leader dovrebbero assicurarsi che la loro azienda disponga di un sistema per il progresso di carriera e di una politica di diversità e inclusione che tutti, compresi mentori e sponsor, comprendano. Per i dipendenti è importante sapere come distinguere tra fan occasionali, super fan, mentori e sponsor.

Riconoscendo i diversi tipi di sostenitori nel proprio ecosistema organizzativo, adottando misure per sviluppare un’ampia coalizione di supporto e rivisitando regolarmente la propria matrice di supporto, i professionisti possono posizionarsi per il successo ora e in futuro.

E, credetemi, non è poco.

I MIGLIORI (AD) NON smettono MAI di IMPARARE

Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.

E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.

Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.

Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.

Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.

ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…

Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.

Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.

Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.

COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)

DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.

Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.

Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.

Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.

Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo[1].

Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.

Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.

Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.

L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.

Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:

–      Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?

–      Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?

–      C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’

Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.

PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.

In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.

L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).

Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.

Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.

All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.

DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.

Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.

Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.

Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.

ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.

Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.

Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.

Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.

Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.

Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.

Fonti

[1]  CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books


Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.

Un VOLTO, TRE EMOZIONI. Come ci INGANNA l’EFFETTO KULESHOV

Lo dirò senza mezzi termini: non importa quando si è empatici e/o allenati a leggere le #espressioni facciali per attribuire la corretta #emozione al volto di chi ci sta di fronte. Il medesimo volto comunicherà un’emozione diversa a seconda del #contesto. Quindi, al modificarsi del #contesto, cambierà anche la nostra #percezione sull’emozione che quello stesso viso trasmette.

Ecco l’effetto Kuleshov.

EFFETTO KULESHOV

È un #bias che si verifica nella mente dello spettatore. Utilizzato per la prima volta, negli anni ‘20, dal regista sovietico Lev Kuleshov, venne associata l’inquadratura di un volto senza espressione a una scena comunicante una particolare emozione.

Questo fa in modo che lo spettatore abbia l’impressione che l’attore comunichi attraverso il viso un’emozione coerente alla scena proposta. E spiega come la stessa espressione facciale possa cambiare significato a seconda dell’immagine a cui viene associata. 

L’esperimento dimostrò come un filmato potesse far nascere emozioni differenti negli spettatori a seconda delle inquadrature e, come due inquadrature in una sequenza avessero (e hanno) più impatto di una singola inquadratura.

Kuleshov credeva che l’interazione delle inquadrature nel cinema fosse ciò che differenziava il cinema dalla fotografia poiché le fotografie sono singole inquadrature isolate che non consentono di ricavare lo stesso significato.

Affascinato dal potere che i montatori avevano nel manipolare le #emozioni del pubblico, volle creare una distinzione fra i vari mezzi artistici, fra cui cinema, letteratura, teatro e fotografia. Nacque così l’effetto Kuleshov, che continua ancor oggi a influenzare il cinema moderno.

IN CHE MODO KULESHOV HA DIMOSTRATO IL SUO EFFETTO?

Kuleshov ha dimostrato l’effetto proponendo la stessa inquadratura di un uomo associata a scene diverse:

–       la prima inquadratura ritraeva l’uomo e un bambino in una bara,

–       la seconda, l’uomo e una scodella di zuppa,

–       la terza, l’uomo e una donna su un divano.

Rispettivamente, questi scatti trasmettevano tristezza, fame e lussuria.

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Nel creare questa dimostrazione, Kuleshov ha fatto credere che l’uomo nell’inquadratura stesse guardando ciò che seguiva (bambino, scodella, donna), anche se in realtà non era così. Ciò che è cambiato è la percezione della sua espressione quando è stata abbinata a un’altra inquadratura che ha generato emozione nel pubblico.

Questo effetto ha trasformato il processo di creazione dei film, poiché ha dimostrato di poter suscitare qualsiasi reazione montando e mettendo insieme le riprese: ossia di manipolare il tempo, lo spazio e la reazione dello spettatore.

L’effetto ha continuato a influenzare l’industria cinematografica ben oltre Kuleshov e non sono pochi i registi contemporanei che lo utilizzano.

ESEMPI DELL’EFFETTO KULESHOV

Alfred Hitchcock ha usato l’effetto Kuleshov, evolvendolo. La finestra sul cortile si basa ampiamente su questo effetto per creare la tensione che si accumula nel film. Intere scene si alternano tra il personaggio principale e ciò che vede attraverso la sua finestra, generando varie emozioni mentre il pubblico assiste al suo punto di vista.

Un altro thriller di Hitchcock, Psycho, utilizza l’effetto Kuleshov nella famosa scena della doccia. La comprensione di ciò che accade, l’accoltellamento del personaggio di Janet Leigh, è solo immaginato, poiché il pubblico vede solo tre fotogrammi di un coltello che perfora la carne. La vista passa da Leigh all’assassino armato di coltello, che crea questo effetto per evocare paura e tensione nello spettatore.

Una scena in Se7en, trasla fra ciò che è all’interno di una scatola e le reazioni di ogni personaggio nella scena, ognuno dei quali è drasticamente diverso dagli altri. Per capire la scena e cosa accadrà dopo, il pubblico deve vedere la reazione a ciò che c’è nella scatola.

La teoria di Kuleshov è pienamente efficace ne Il silenzio degli innocenti, generando tensione tra i personaggi mentre la scena è pronta per un’emozionante rivelazione. Questa particolare sequenza genera anche una reazione unica tra la maggior parte degli spettatori, poiché fa scoprire di una cosa che si pensava vera, il contrario.

L’effetto Kuleshov viene utilizzato anche nei film per bambini. Ne Inside Out il pubblico vive le emozioni attraverso la reazione di Riley, Fear, e gli altri personaggi.

In The Dark Knight Risesl’ultimo capitolo della serie “Batman”, il pubblico osserva Catwoman mentre Batman viene picchiato dal cattivo del film. Vedere la scena dal punto di vista della donna evoca rimpianto.

Spielberg è un maestro dell’effetto Kuleshov. Ne Incontri ravvicinati del terzo tipo, una delle inquadrature principali è il “volto di Spielberg”, che è una reazione ravvicinata a qualcosa che il personaggio vede, generando una reazione da parte del pubblico.

E così in molti altri film famosi.

CONTEXT IS KING

Benchè noi esseri umani siamo, in parte, capaci di leggere le emozioni nelle altre persone, non dobbiamo dimenticare la nostra incapacità di dare #giudizi imparziali e accurati. Questo per due ipotesi.

La prima sostiene che sarebbe il #contesto a suggerirci quali #emozioni dobbiamo aspettarci di provare quando osserviamo un volto. Questa teoria mette in discussione l’universalità della percezione delle emozioni umane e prevede che attribuiamo un valore emotivo viziato dal contesto a espressioni che in realtà sarebbero neutre.

La seconda ipotesi sostiene invece che è legata alla necessità di proiettare le nostre stesse emozioni sugli altri. Il contesto attiva in noi una risposta emotiva e fisiologica che verrebbe poi proiettata o attribuita a espressioni neutre altrui.

D’ora in poi, non dimenticate di considerare il contesto non solo per prendere decisioni ma anche nella lettura delle emozioni di chi vi sta di fronte, chiedendovi quanto sta influenzando la vostra percezione. Che piaccia o meno context is king.

LAVORO DUNQUE SONO… e davvero così?

Ciò che faccio è ciò che sono?

È una domanda che tutti, prima o poi, abbiamo rivolto a noi stessi. La maggior parte delle volte, però, la risposta è stata sepolta sotto il tappeto, in attesa di tempi migliori. Che non sono mai arrivati.

Non a caso è un tema dibattuto.

A risollevare il mio interesse è  un’intervista che Good Morning America fece alla  leggenda del basket Kobe Bryant, in cui il cestista raccontò di cosa avrebbe fatto una volta ritiratosi dalla pallacanestro, sottolineando l’importanza di riconoscere la “differenza tra chi sei e ciò che fai e capire che non siamo quello che facciamo“.

Sebbene sia un pensiero condivisibile relegare il #lavoro a un incomodo fra noi e le cose belle della vita, il rischio a cui andiamo incontro è banalizzare l’essere umano.

Per la maggior parte delle persone, me compresa, il lavoro viene percepito “non solo come fonte di reddito, ma anche come legittimazione sociale“, per citare Tom Fryers, docente di salute mentale pubblica all’Università di Leicester.

In una parola: #workism. Termine che si deve al giornalista americano di The Atlantic Derek Thompson,  che ne ha parlato in Workism Is Making Americans Miserable. 

LAVORO DUNQUE SONO

Personalmente il #workism non mi infastidisce, anche se Thompson lo usa in senso negativo.

Fin dall’infanzia siamo cresciuti con l’idea che è il lavoro a nobilitarci. Il lavoro è la priorità, l’imperativo, la strategia, la soluzione, il piacere, la filosofia alla base della nostra intera esistenza.

Senza contare che più ore di lavoro sono, in diversi contesti, un segno dello status di élite. Il tempo libero non è un privilegio, e nemmeno lo si desidera. Non c’è svago: solo tempo perso.

Per queste ragioni Thompson scrive che il #workism è un “tipo di religione, identità promettente, trascendenza e comunità“, che occupa il posto che un tempo il cristianesimo occupava nella società.

Se dedichiamo tanto tempo ed energie forse la questione è difficilmente relegabile in un articolo di giornale.

GLI ASPETTI NEGATIVI

Il #workism non è di per sé dannoso se lavorare tanto, tantissimo fa parte di un progetto personale; lo diventa quando le cose vanno male poichè i risultati possono essere emotivamente devastanti. Un progetto che fallisce, mancare una promozione o venire licenziati può rapidamente innescare un effetto domino negativo in coloro che si vedono definiti (solo) dai loro risultati professionali.

Su Harvard Business Review , la psicologa Janna Koretz ha condiviso la storia di un partner di un prestigioso studio legale che piangeva, seduto sul pavimento del bagno, quando si è reso conto di sentirsi insoddisfatto al lavoro. All’improvviso, di tutto quello che aveva conquistato, rimaneva poco o niente. “Chi sono io, se non posso più essere un avvocato di successo?”.

Anche per le organizzazioni c’è un prezzo salato da pagare se il #workism è parte integrante della cultura aziendale. Più persone vedono il loro lavoro come centrale per la loro identità, più è probabile che lavorino troppo. La ricerca mostra il danno che può derivare dal passare troppe ore in ufficio. “La produzione diminuisce drasticamente dopo una settimana lavorativa di 50 ore e precipita oltre le 55 “, ha osservato un articolo della CNBC nel 2015, citando uno studio di John Pencavel di Stanford e l’Institute of Labor Economics.

Uno degli insegnamenti che maggiormente porta a riflettere sui pericoli di fondere il lavoro con sé stessi arriva dal cofondatore di Facebook, Dustin Moskovitz. A lungo mitizzato per il suo impegno h24 – 7/7, Moskovitz oggi afferma che la sua eccessiva concentrazione sul lavoro lo ha danneggiato: “Vorrei aver dedicato più tempo ad altre esperienze che mi avrebbero aiutato a crescere rapidamente se solo avessi dato loro una possibilità. Potresti pensare: ma così facendo, Facebook non avrebbe avuto meno successo? In realtà, credo che sarei stato più efficace: un leader migliore e un dipendente più concentrato e riflessivo, oltre che meno frustrato e risentito. Insomma, avrei avuto più energia e l’avrei spesa in modi più intelligenti”.

Ora cofondatore di un’azienda di software, Moskovitz ha costruito una cultura in cui “le persone non lavorano troppo… Possiamo incoraggiare un sano equilibrio tra lavoro e vita privata nella fredda e spietata ricerca del profitto. Stiamo massimizzando la nostra velocità e la nostra felicità allo stesso tempo”.

IL PROBLEMA è/e LA RISPOSTA

A questo punto una domanda sorge spontanea: come possiamo continuare a creare nuova ricchezza, inventare nuove tecnologie e progredire, trovando anche qualcosa che dia scopo, direzione e significato alle nostre vite?

Il #Workism potrebbe essere il problema e al tempo stesso la risposta.

Creare nuova ricchezza, inventare nuove tecnologie e progredire è qualcosa che dà scopo, direzione e significato. Workism è un termine peggiorativo – un aggiornamento di workaholic – usato per respingere quella che in realtà è un’idea molto convincente: che risolvere i problemi umani, costruire il futuro e semplicemente fare le cose è un’importante e significativa attività.

HOWARD ROARK E IL SENSO DEL LAVORO

Il lavoro è una necessità ineludibile. Non solo per il funzionamento della nostra economia, ma anche per il benessere delle persone.

La necessità di lavorare va molto più in profondità. Il lavoro e la produttività sono le attività essenziali della vita umana, da cui scaturisce tutto il resto. Ogni cibo che mangiamo, ogni capo di abbigliamento che indossiamo, tutti gli strumenti che usiamo per viaggiare, informarci, divertirci: niente di tutto ciò è fornito automaticamente dalla natura. Tutto deve essere prodotto. Ciò significa non solo millenni di fatica fisica, ma anche millenni di scoperte, invenzioni e creatività.

Come potrebbe questo non essere significativo? Come può l’ascesa dell’umanità dalla caverna al grattacielo – non essere vista come qualcosa che contribuisce alla identità personale e allo scopo della vita?

Forse nessuno rappresenta questo aspetto del workism meglio dell’eroe di Ayn Rand di “La fonte miracolosa”, Howard Roark. All’inizio del romanzo, spiega il motivo della sua ostinata insistenza: “Ho sessant’anni da vivere. La maggior parte di quel tempo sarà dedicata al lavoro. Ho scelto il lavoro che voglio fare. Se non ci trovo gioia, allora mi condanno solo a sessant’anni di torture“.

Successivamente, va più in profondità, ponendo l’argomento del lavoro al centro del significato della vita, in particolare in risposta a “coloro che cercano una sorta di scopo superiore, che non sanno per cosa vivere, che si lamentano di dover ‘ritrovare se stessi’”.

Il romanzo è del 1943; la crisi del significato non è una novità.

Ecco la risposta.

Roark strappò un grosso ramo da un albero, lo tenne con entrambe le mani, un pugno chiuso a ciascuna estremità; poi, con i polsi e le nocche tesi contro la resistenza, piegò lentamente il ramo in un arco. “Ora posso farne quello che voglio: un arco, una lancia, un bastone, una ringhiera. Questo è il senso della vita.”

La tua forza?”

Il tuo lavoro“. Gettò da parte il ramo. “Il materiale che ti offre la terra e quello che ne fai”.

Il rovescio della medaglia di trovare un significato nel lavoro è trovare un lavoro che meriti quel significato. Significa trovare un lavoro che ti interessa e che vuoi fare, piuttosto che finire dove la vita ti porta.

CONCLUDENDO

Il lavoro è un’attività centrale che occupa le nostre vite per necessità, e la maggior parte di noi riesce a trovare significato, valore e orgoglio nel farlo. Il workism non è né un’invenzione recente né una strana teoria. È la realtà effettiva di gran parte della vita umana. Faremmo molto meglio a riconoscerlo e ad abbracciarlo.

Siete d’accordo?

Una REGINA ROSSA (Attraverso lo specchio) per rimanere COMPETITIVI

“Qui, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto”,

dice la Regina Rossa ad Alice, in Attraverso lo specchio, il romanzo di Lewis Carroll.

Scrittore, Carroll, capace di far diventare i suoi racconti dei classici senza tempo ma anche di influenzare Leigh Van Valen, biologo statunitense, che da quella frase estrasse una vera e propria ipotesi #evolutival’ipotesi della regina rossa.

Nelle sue ricerche, Van Valen aveva notato che in nessuna situazione una specie poteva considerarsi protetta dall’estinzione. L’evoluzione è un processo continuo e tutti gli esseri viventi devono continuamente rispondere alle pressioni del proprio ambiente se non vogliono scomparire.

In sostanza, nessuna specie può permettersi il lusso di smettere di adattarsi senza correre il rischio di compromettere il proprio posizionamento competitivo e la propria sopravvivenza. Ogni essere vivente infatti, è costantemente alla ricerca di opportunità per acquisire un vantaggio e quindi l’adattamento è guidato anche dalla necessità di reagire ai cambiamenti di coloro con cui si condivide l’ambiente.

CORRERE PER RIMANERE NELLO STESSO POSTO

Nel campo della #biologia, gli organismi non decidono consapevolmente di adattarsi: un leone, osservando le antilopi, non pensa: “mannaggia, stanno correndo più veloci del solito. Devo allenarmi per migliorare il mio stato di forma.” Quello che accade in natura è che solo le antilopi più veloci riescono a sopravvivere e riprodursi. Questo metterà pressione ai leoni in quanto solo quelli più veloci riusciranno a catturare le prede e a continuare la specie.

Nel lungo periodo, la velocità media di antilopi e leoni aumenterà, poiché la pressione su prede e predatori è costante. Questa è l’essenza dell’Effetto Regina Rossa: costringere gli organismi a un adattamento continuo semplicemente per sopravvivere.

L‘equilibrio non esiste o, meglio, ci troviamo di fronte a un equilibrio dinamico. L’equilibrio c’è, ma cambia sempre. L’evoluzione è come una reazione a catena nel teatro dell’ecologia.

LA REGINA ROSSA E LA STRATEGIA AZIENDALE

L’Effetto Regina Rossa può essere utilizzato come modello per interpretare le pressioni competitive a cui sono soggette le aziende. Van Valen aveva osservato che la pressione sulle specie è costante e non connessa alla longevità: “indipendentemente da quanto una specie è sopravvissuta, l’incapacità di continuare ad adattarsi può comunque portarla all’estinzione”.

Nella competizione tra aziende, a volte correre veloci non basta neanche per rimanere fermi. Per progredire e innovare bisogna correre in maniera diversa dalla concorrenza, inventandosi nuovi mercati, cambiando le regole del gioco.

L’intensità dell’Effetto è quindi un fattore fondamentale per valutare il posizionamento di un’attività imprenditoriale, nonchè uno dei parametri chiave utilizzati da Munger e Buffett per decidere in quali aziende investire.

Secondo Munger esistono delle forze competitive distruttive (il suo modo per definire l’Effetto Regina Rossa) che nel lungo periodo mettono in pericolo la sopravvivenza di gran parte delle aziende.

Per questo Munger e Buffett hanno quasi sempre evitato settori caratterizzati da un Effetto Regina Rossa troppo intenso. Quando non hanno seguito questa regola, hanno subito perdite importanti: è il caso dell’investimento nel settore tessile, che Buffett considera uno dei suoi errori più importanti.

Tutti gli investimenti per ridurre i costi furono inutili perché anche tutti i competitor fecero lo stesso con il risultato che a ridursi furono solo i prezzi. E quindi dopo ogni giro di investimenti tutti i giocatori si ritrovarono con più soldi sul piatto e con gli stessi rendimenti anemici. Il classico esempio dell’Effetto Regina Rossa a massima potenza!

In ogni caso, per contrastare l’Effetto Regina Rossa presente in varie intensità in tutti i settori, le aziende devono sviluppare dei vantaggi competitivi, che Munger e Buffett definiscono moats, fossati, per difendersi dalle incursioni esterne. Questi fossati devono essere continuamente allargati per assicurare una protezione sostenibile nel tempo, altrimenti gli invasori troveranno, prima o poi, il modo di superarli.

Le aziende migliori, quindi, sono quelle che non solo sono in grado di costruirsi un fossato, cioè un vantaggio competitivo, ma lavorano in maniera incessante per allargarlo, cioè continuano ad adattarsi e a evolvere per far fronte alla pressione continua dell’Effetto Regina Rossa a cui sono inevitabilmente sottoposte.

ALTRI MODI PER RACCONTARE LA REGINA ROSSA

In Deep SimplicitJohn Gribbon descrive il principio della regina rossa usando le #rane.

Ci sono molti modi in cui le rane, che vogliono mangiare le mosche, e le mosche, che vogliono evitare di essere mangiate, interagiscono. Le rane potrebbero sviluppare lingue più lunghe, per catturare le mosche; le mosche potrebbero evolversi in un volo più veloce, per scappare.

Le mosche potrebbero sviluppare un sapore sgradevole o espellere veleni che danneggiano le rane e così via. Sceglieremo una possibilità. Se una rana ha una lingua particolarmente appiccicosa, troverà più facile catturare le mosche. Ma se le mosche hanno corpi particolarmente scivolosi, troveranno più facile scappare. Immagina una situazione stabile in cui un certo numero di rane vive in uno stagno e mangia ogni anno una certa proporzione delle mosche.

A causa di una mutazione, una rana sviluppa una lingua extra appiccicosa. Andrà bene, rispetto ad altre rane, e i geni per lingue extra appiccicose si diffonderanno nella popolazione di rane. All’inizio viene mangiata una percentuale maggiore di mosche. Ma quelli che non vengono mangiati saranno quelli più scivolosi, quindi, i geni per una maggiore scivolosità si diffonderanno nella popolazione di mosche. Dopo un po’, nello stagno ci sarà lo stesso numero di rane di prima e ogni anno verrà mangiata la stessa proporzione di mosche. Sembra che non sia cambiato nulla, ma le rane hanno lingue più appiccicose e le mosche corpi più scivolosi.

Siddhartha Mukherjee, nel suo libro vincitore del premio Pulitzer The Emperor of All Maladies, descrive la Regina Rossa nel contesto della droga e del cancro.

Nell’agosto 2000, Jerry Mayfield, un poliziotto quarantunenne della Louisiana con diagnosi di leucemia mieloide cronica, iniziò il trattamento con il Gleevec, un farmaco antitumorale specifico per quella malattia. All’inizio la risposta fu rapida e positiva. Il poliziotto si sentiva bene, in forma. Ma durò poco. Tre anni dopo, la malattia si è ripresentata e pur aumentando e aumentando ancora la dose di Gleevec, non ci fu risposta. Il cancro di Mayfield era diventato resistente alla terapia…

Si era avviata una battaglia perpetua con un combattente instabile. Quando la malattia è riuscita a rendere innocuo il farmaco, solo un nuovo trattamento di nuova generazione avrebbe potuto contrastare la leucemia.

In Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, la Regina Rossa dice ad Alice che il mondo continua a muoversi così velocemente sotto i suoi piedi che deve continuare a correre solo per mantenere la sua posizione. Questa è la situazione con il cancro: “siamo costretti a continuare a correre solo per stare fermi”.

CONCLUSIONI

L’Effetto Regina Rossa ci ricorda che non possiamo mai rilassarci (troppo) neanche quando abbiamo acquisito una posizione di forza rispetto ai nostri concorrenti o il contesto in cui lo caliamo: la pressione è costante e se rimaniamo fermi, prima o poi qualcuno o qualcosa troverà il modo per raggiungerci e superarci. Non è la forza che ci consente di sopravvivere nel lungo periodo, ma la capacità di adattamento.

Ps. Attenti a non confondere la Regina Rossa con la Regina di Cuori del libro precedente Alice’s Adventures in Wonderland. Le due regine condividono le caratteristiche di essere rigorose e associate al colore rosso. Tuttavia, le loro personalità sono diverse “Ho immaginato la Regina di Cuori come una sorta di incarnazione di una passione ingovernabile: una Furia cieca e senza scopo. La Regina Rossa l’ho immaginata come una Furia, ma di un altro tipo; la sua passione deve essere fredda e calma – formale e severa, ma non scortese; pedante al decimo grado, l’essenza concentrata di tutte le governanti!

È facile (al LAVORO) PERDERE il SENSO di CHI SEI e diventare CHI PENSI che dovresti ESSERE

Il lavoro mi richiede di confrontarmi con persone di diversi settori e culture, ma c’è un comune denominatore che unisce molti di loro: la pressione a #conformarsi.

Per fare #carriera (spesso anche solo per sopravvivere), molti fanno del loro meglio per uniformarsi ai #valori dominanti all’interno dell’organizzazione nella quale operano, anche se li condividono poco o niente. Che sia un lavoro estremamente competitivo o di squadra, il successo, in parte, dipende dalla capacità a conformarsi. Dall’abbigliamento, agli hobbies, ai luoghi di vacanza, al quartiere, dove acquistare o affittare casa e così via…

Quando è arrivato il nuovo ad, grande amante della vela, non sono pochi coloro che, all’improvviso, si sono messi a praticarla”.

Il nuovo responsabile è un fan sfegatato del Milan. Molti, pur di non inimicarselo, hanno cambiato casacca”…

Esempi tristemente veri.

E quando punti sul vivo: “Non posso fare diversamente. O sarei l’unico del team a essere diverso e verrei escluso”.

Poco importa se per adattare valori e idee, dovranno gestire una dose di stress non indifferente. In certi casi “è il sacrificio che occorre fare per arrivare al successo”.

Ma se non fosse così?

TUTTO IL MONDO E’ PAESE

Questo (non so se ha senso dire per fortuna) non è un fenomeno solo italiano. Da una ricerca[1], un terzo dei dipendenti in Nord America sente la pressione di sopprimere i propri valori personali e fingere di assecondare quelli dell’organizzazione.

L’idea di fondo a cui ci si aggrappa fortemente è che è più sicuro mettere a tacere le idee quando divergono, piuttosto che renderle esplicite, fare buon viso a cattivo gioco, sorridere quando viene richiesto un sorriso, e dire sì quando c’è bisogno di acconsentire.

Anche se ben consapevoli di quanto tale #scelta non faccia bene alla salute. Ma nemmeno – aggiungo io – a motivazione, performance e in ultimo all’azienda[2]..

COSA CI SPINGE A CONFORMARCI?

–      Scarso potere decisionale

–      Impossibilità a esprimere il proprio pensiero

–      Valori personali disallineati a quelli aziendali

–      Leader dai forti valori etici

–      Status di minoranza

–      I consigli di chi apprezziamo e fidiamo

Nelle realtà in cui le persone non hanno né potere decisionale né la possibilità di esprimersi, tendono a sentirsi più sotto pressione e a indossare la maschera della conformità[3].

L’autenticità richiede sicurezza psicologica: un ambiente dove le persone possono liberamente correre rischi condividendo preoccupazioni, rilevando errori e dire: “Qui abbiamo fatto un errore, risolviamolo“.

A uniformarsi maggiormente sono poi coloro i quali hanno #valori personali non completamente allineati con quelli aziendali, ma considerano il loro responsabile integro, etico[4]. Le persone stimano così tanto questi leader, al punto da essere disposti a sopprimere i loro punti di vista come un modo per ricambiare i benefici di una buona #leadership.

A spingerci alla conformità ci si mette anche lo status di minoranza. Più sono le aree in cui ci identifichiamo come minoranza, più è probabile che ci sentiamo sotto pressione per creare una facciata di conformità. Nelle culture più orientate al collettivismo, che danno valore all’armonia di gruppo, la pressione a conformarsi è ancora maggiore.

Senza contare tutti i consigli che riceviamo da persone di cui ci fidiamo e che ci incoraggiano a conformarci. Chi non si è sentito dire: “Stai attento, tieni la testa bassa. Non tutti devono sapere cosa sta succedendo nella tua vita“. Poiché spesso, anche se non è lecito, veniamo valutati anche su questioni che vanno oltre le prestazioni lavorative. Specie se sei donna o appartieni a una minoranza di qualche tipo.

Consigli che possono anche rivelarsi utili, in certi contesti, ma che portano alla seguente domanda: cosa significa essere autentici.

CHE ASPETTO HA L’AUTENTICITA’?

Quando eravamo bambini, ci veniva detto di essere semplicemente noi stessi. Ma nessuno ci ha mai detto come farlo, perché chi ce lo diceva non lo sapeva.

In realtà accade anche da adulti.

Hai un incontro di lavoro importante e quali consigli ti senti dare: “sii te stesso e tutto andrà bene”. Peccato che spesso chi te lo dice, il tuo te stesso non lo conosce affatto…

L’autenticità è relazionale. Viviamo in un mondo di relazioni. Trasudiamo la nostra autenticità, e poi è testimoniata da altri. Per questo motivo, l’autenticità deve essere combinata con l’intelligenza emotiva e il rispetto, l’ascolto e la comprensione. L’autenticità richiede l’assunzione di una prospettiva, non solo da noi stessi ma anche degli altri. Come uno studente che ho incontrato e ha detto in modo toccante: “Se vuoi essere autentico, ciò richiede che tu accetti l’autenticità degli altri”.

Ciò non significa che la nostra autenticità debba essere modellata in modo da essere universalmente apprezzati. Potremmo anche non piacere. Ma se la nostra autenticità ha lo scopo di ferire o mancare di rispetto a qualcuno, le nostre motivazioni sono discutibili.

L’autenticità è un viaggio personalizzato. Per alcuni di noi, i nostri valori si allineano con i valori del nostro ambiente. Ma in molti casi, la scelta di essere autentici è rischiosa. L’autenticità potrebbe essere un percorso senza indicazioni da fare da soli. Ma si può sempre cercare altri da cui imparare. Purchè sia sempre alle nostre condizioni.

Il modo in cui scegli di essere autentico può essere molto diverso da come il tuo collega, tua sorella o il tuo amico scelgono di farlo. Potresti scoprire che il tuo abbigliamento è fondamentale per riflettere la tua autenticità, mentre qualcun altro potrebbe voler integrare la vita familiare come estensione del lavoro (ad esempio, occasionalmente portando i figli in ufficio). Altri possono scegliere di onorare la loro cultura con oggetti da posizionare sulla scrivania e via dicendo.

L’autenticità si basa su valori fondamentali. L’autenticità non riguarda il fatto che dovremmo posizionare la caffetteria al secondo o al terzo piano. Riguarda aspetti fondamentali di noi stessi: la nostra identità, le nostre convinzioni e le nostre prospettive su ciò che è giusto e non lo è.

Mentre alcuni valori possono cambiare nel tempo, altri no. Se li compromettiamo, non ci sentiremo bene.

COME ESSERE (PIU’) AUTENTICI

La prima domanda da porsi sui valori è: sono funzionali?

Compromettono le relazioni?

Se sono disfunzionali, allora è il momento di rivalutarli e svilupparne di nuovi.

Mentre valuti i tuoi valori fondamentali, puoi porre queste domande: Quali sono quelli negoziabili e quelli non negoziabili? Cosa renderebbe il mio ambiente di lavoro più coinvolgente per me? Cosa mi farebbe sentire più autentico? Quando non sono in grado di essere me stesso e vivere i miei valori, come mi sento?

Il principio è che quando comprometti i tuoi valori, stai compromettendo il tuo benessere.

Mentre consideri queste domande, aiuta a pensare alla tua soglia. La tua soglia di autenticità è il livello di impegno autentico che porta benefici al tuo benessere, quel livello di soddisfazione che ti fa sentire fedele a te stesso.

Pensa a quelle volte in cui eri pienamente impegnato e hai pensato: “Questo è il mio momento. Mi sento autentico”. Con chi eri? Cosa stavi facendo? Come puoi replicarlo di più?”

Inoltre non tutti i valori devono avere a che fare con il lavoro. Forse ci sono altri contesti in cui puoi esprimere i tuoi valori. Si tratta di identificare ciò che è importante per te e determinare quanto puoi integrare quei valori nella tua vita lavorativa o in altre aree, in modo da poter sperimentare la soddisfazione della vita, sentirti coinvolto e dare un contributo positivo al lavoro e alla società.

La sfida delle organizzazioni oggi è come gestire un luogo di lavoro che incoraggi l’autenticità. Come leader, cosa fai quando tutti portano prospettive diverse? Devi gestire queste prospettive in un modo che consenta all’organizzazione di essere efficiente e prosperare. Più che mai, richiederà coraggio.

Leader che non hanno paura delle conversazioni difficili. Leader che sono disposti ad affrontare i loro pregiudizi e gestire quelli delle persone che lavorano con loro.

Conclusione

Se proprio non sapete da dove iniziare, per capire come si esprime la vostra autenticità, Psychology Today propone un esercizio bizzarro: scrivi il tuo necrologio. 

Chissà che non sia la via più veloce per dare un volto a chi siamo. Io non l’ho ancora fatto, e voi?

A ad ogni modo a me piace pensare che l’autenticità sia un viaggio in cui nessuno può dirci dove dovrebbe portarci. Per alcuni, essere autentici potrebbe essere la cosa più coraggiosa che abbiano mai fatto. O la più banale. L’importante è avere voglia di scoprirlo!

Fonti

[1] Morgan Roberts L., Dutton J.E., (2009) Exploring Positive Identities and Organizations, Psychology Press

[2] Boyraz G., Waits J.B., Felix V.A., (2014) Authenticity, life satisfaction, and distress: A longitudinal analysis. Journal of Counseling Psychology, 61(3), 498–505.

[3] Hewlin P.F., (2009) Wearing the cloak: Antecedents and consequences of creating facades of conformity.Journal of Applied Psychology, Vol 94(3), 727-741

[4] Hewlin P.F., Dumas T.L., Burnett M.F., To Thine Own Self Be True? Facades of Conformity, Values Incongruence, and the Moderating Impact of Leader IntegrityAcademy of Management Journal Vol. 60, No. 1

L’IMPATTO, di un singolo TOCCO, su DECISIONI e COMPORTAMENTI

Qualche giorno fa, entrando in un negozio di abbigliamento, la commessa (che non conoscevo), si è avvicinata e mi ha toccato la spalla invitandomi a visionare i nuovi arrivi. Il #gesto mi ha infastidito, come mi infastidiscono tutti coloro che mentre ti parlano ti devono per forza toccare. Ma ciò che mi ha sorpreso è constatare come invece, per molti, quel gesto apparentemente causale, è inconsciamente persuasivo e pervasivo.

MANCE, DRINK E CONSUMI

Proprio così, un semplice #tocco (una stretta di mano come una pacca sulla spalla) è estremamente persuasivo. Le prime evidenze risalgono al 1984, quando i ricercatori dell’Università del Mississippi e del Rhodes College hanno studiato, in un ristorante, le interazioni tra camerieri e clienti. Hanno così scoperto che un tocco è in grado di condizionare l’ammontare della mancia che verrà lasciata a fine pasto.

Durante lo studio, i camerieri hanno toccato per un istante la mano o la spalla di alcuni clienti, mentre consegnavano il resto. Il risultato è stato interessante: le mance sono risultate maggiori quando i camerieri toccavano i clienti rispetto a quando non lo facevano. Le persone erano disposte a dare più soldi dopo essere stati toccati.

Nella condizione no-touch, hanno dato mance nella percentuale del 12,2% rispetto l’ammontare del conto. Quando invece le persone hanno ricevuto un tocco sulla spalla, la percentuale è salita al 14,4, al 16,7% quando a venir toccata era la mano.

Tradotto in numeri significa che un cameriere, che segue dieci tavoli a sera, per cinque giorni a settimana, su un conto di 50 $ a tavolo, potenzialmente potrebbe ottenere circa 6 mila dollari di entrate extra l’anno. Una bella somma semplicemente aggiungendo un breve tocco insieme al conto.

Lo studio è poi stato esteso ad altre tipologie di ospitalità e comportamenti dei clienti: ad esempio, i ricercatori della Virginia Commonwealth University hanno scoperto che uomini e donne consumavano più alcol quando venivano toccati dai camerieri, mentre prendevano l’ordinazione.

E IN EUROPA?

Gli studi sull’impatto del tocco nelle #decisioni non ha coinvolto solo l’America. I ricercatori dell’Université Bretagne Sud hanno scoperto che anche i clienti francesi sono sensibili al tocco durante un’esperienza culinaria.

L’aspetto interessante dello studio francese è che la #mancia, pur non essendo obbligatoria, poiché inclusa nel conto, è stata comunque data in proporzioni maggiori dai clienti che sono stati toccati.

Questo dimostra che il tocco breve e non invasivo, ha un valore in #contesti e ambienti diversi.

TOCCO PERSUASIVO

Nel 1990, Jacob Hornik dell’Università di Tel Aviv ha condotto diversi esperimenti per misurare l’influenza del tocco sulle risposte dei #consumatori. In uno studio, gli acquirenti sono stati avvicinati mentre entravano in una libreria. Ad ogni cliente è stato dato un catalogo contenente informazioni su sconti e articoli presenti nel negozio. In particolare, alcuni clienti sono stati toccati sul braccio mentre veniva consegnato loro il catalogo, altri no.

Coloro che sono stati toccati hanno trascorso il 63% di tempo in più nel negozio rispetto a quelli che non sono stati toccati. Hanno anche valutato il negozio in modo più favorevole e hanno speso il 23% in più.

Ci sono poi studi che dimostrano come la sola visualizzazione del tocco può influire sulle intenzioni di acquisto. Uno studio monitorato con imaging cerebrale, condotto da ricercatori dell’Università di Shenzhen ha scoperto che guardare altre persone mentre toccano i prodotti ha aumentato l’intenzione di acquistare gli articoli, un’intuizione applicabile al nostro mondo moderno pieno di shopping online e annunci multimediali.

Un veloce contatto sociale può aumentare i comportamenti amichevoli e prosociali. Includere un tocco a una richiesta, può aumentare la nostra disponibilità a partecipare a sondaggi, a dare soldi in beneficenza e persino a prendersi cura del cane di uno sconosciuto per 10 minuti mentre entra in un negozio!

Uno studio, del 1970, ha scoperto che le persone sono più propense a restituire una moneta dimenticata in una cabina telefonica se chi le ha precedute le toccava quando lasciavano la cabina rispetto a chi non lo faceva. Quasi tre decenni dopo, uno studio del 2007 in Francia ha rilevato che le persone sono più propense a regalare una sigaretta se la richiesta è accompagnata da un tocco.

Questi risultati ci mostrano come i tocchi che riceviamo nelle interazioni sociali quotidiane possano fornire un punto di partenza per la #cooperazione e la conformità. Un breve tocco persuasivo può esercitare un forte impatto, anche tra estranei.

E SE A TOCCARCI E’ UN ROBOT?

Anche il tocco di un #robot ha potere persuasivo. Nel 2021, in Germania, è stato condotto uno studio che ha coinvolto degli studenti universitari, per capire se un robot umanoide che toccava o meno loro la mano durante una conversazione ne avrebbe modificato i #comportamenti.

Gli studenti sono stati divisi in due gruppi. Un gruppo ha avuto una semplice conversazione con il robot. Il secondo gruppo ha ricevuto tre carezze alla mano, durante l’interazione.

Pensaci un attimo: saresti più propenso a soddisfare una richiesta di un robot se ti toccasse o ti parlasse?

Questa è la domanda che i ricercatori hanno posto agli studenti.

Il robot ha chiesto agli studenti di prendere parte a un corso. I risultati hanno mostrato che l’81% degli studenti ha risposto “sì” laddove il robot li ha toccati. Nel gruppo dove il tocco è mancato, ha soddisfatto la richiesta solo il 59%. Il tocco di un piccolo robot ha contribuito a convincere le persone a conformarsi.

A questo punto una domanda sorge spontanea: se un robot ti toccasse mentre entri in un negozio, pensi che soddisferesti la richiesta di provare un nuovo prodotto?

In una società e in un’epoca storica in cui le interazioni tra esseri umani e robot non posso che aumentare e affinarsi, i risultati di questi studi hanno potenti implicazioni.

Forse, dopotutto, vista la ritrosia verso chi invade il mio spazio, non sarei la vittima perfetta per commessi e camerieri ma chissà se a toccarmi fosse un robot… forse mi parrebbe meno invasivo.

Cosa ne pensate?

QUANDO il CAPO ha un PREFERITO… e NON sei TU

Antonella è la classica donna mediterranea, rossetto rosso acceso, occhi e capelli neri. Quando la incontri la prima volta, ti accoglie con gentilezza ed entusiasmo, facendo sembrare tutto semplice, tanto che ti viene da pensare “questo nuovo incarico sarà stupendo. Il team è solare, affiatato, collaborativo”. E in effetti lo è. Per un po’.

Intanto, Antonella, pur non abbandonando il sorriso rosso accesso, inizia a lavorare ai fianchi, in modo quasi impercettibile. Non ci fai caso, anche perché i #valori decantati dell’azienda sono, fra gli altri, #meritocrazia e #inclusione, così, quando lo fai, è troppo tardi.

Mentre con i colleghi risolvevi problemi e trovavi soluzioni lei, Antonella, lavorava assiduamente per ritagliarsi su misura il ruolo di #preferita. Dell’ufficio, del capo.

La storia, vera, finisce male. Io me ne vado, una collega finisce in burnout e un’altra, per aver cercato di fermarla, deve difendersi in commissione disciplinare.

Ciò che ho imparato, da quella situazione, è sia riconoscere i #preferiti, evitarli, laddove serve, sia accettare il fatto che parte della #responsabilità non è (solo) dei manipolatori seriali, quelli ci saranno sempre, ma del management, del board, chi decide e crea la cultura di un’azienda. Troppo spesso inconsapevoli o non abbastanza strutturati per trattare tutti in modo equo.

OVUNQUE VAI C’E’ SEMPRE QUALCHE PREFERITO

Piaccia o meno, in ogni organizzazione c’è sempre qualche preferito. La cosa non sarebbe così tragica se si limitasse a questo, anzi è quasi normale. Il malinteso nasce se all’eleggere il preferito si unisce anche il mancato #riconoscimento di tutti gli altri, o di una parte.

Seppur paradossale, si dimentica che è riconoscendo le persone per chi sono e cosa fanno che le si coinvolge, trattiene e rende felici e quindi performanti; molto più della sola busta paga.

Gallup e Workhuman hanno studiato le esperienze di riconoscimento di oltre 7.500 dipendenti statunitensi. L’analisi ha rivelato che solo il 26% è d’accordo sul fatto di ricevere quantità di riconoscimento simili a quelle degli altri membri del team con livelli di prestazioni simili.

Le conseguenze di un mancato riconoscimento sono di vasta portata: se il riconoscimento sembra iniquo, crea un problema di inclusione, mina l’esperienza dei dipendenti e invia messaggi contrastanti su come appare l’eccellenza.

CHI SI SENTE ESCLUSO

Sebbene l’analisi sia stata fatta oltre oceano, da noi la situazione non è meno triste. In generale, la maggior parte dei dipendenti non è certa che il riconoscimento che riceve sia equo o puramente guidato dal #merito. E quando le organizzazioni non riescono a fornirlo equamente, stanno minando i sentimenti di appartenenza e inclusione sul lavoro. Non si può sfruttare il potere della diversità senza inclusione.

La nuova generazione. Quattro dipendenti su 10 della generazione Z, preferirebbero essere riconosciuti dal loro responsabile almeno un paio di volte alla settimana, ma solo un quarto sta effettivamente ottenendo il riconoscimento con quella frequenza. I più giovani hanno maggiori esigenze di riconoscimento rispetto ai più esperti e ai senior.

Il riconoscimento non è da intendersi come una lamentela. Piuttosto come un elemento indispensabile per far crescere e consolidare la fiducia, lo spirito di gruppo, la collaborazione e la cooperazione fra le persone.

Il riconoscimento crea #talento: il modo in cui i più giovani vengono riconosciuti ora, determinerà le loro prestazioni e il loro potenziale futuri, per non parlare del loro impegno. Le organizzazioni possono far crescere collaboratori forti e fiduciosi rafforzando positivamente l’eccellenza fin dall’inizio.

I manager. Concordano sul fatto di essere fra i ruoli che meno ricevono un riconoscimento equo. Sebbene tutti riferiscano di dare più riconoscimento di quello che ricevono, i manager sono quelli più svantaggiati: dicono di dare riconoscimento tre volte di più di quanto lo ricevono dai propri responsabili, supervisori o leader e 2,5 volte di più di quanto lo ricevono dai colleghi.

Non è un segreto che le organizzazioni si affidano pesantemente sui manager. I leader si fidano di loro per svolgere operazioni quotidiane, avviare nuove iniziative e priorità strategiche. I dipendenti dipendono da loro per risolvere problemi e sostenere il loro sviluppo. I manager sopportano il peso dall’alto e dal basso, e questo finisce per essere scontato anziché riconosciuto in qualche modo.

Non sorprende che il burnout dei manager stia aumentando a un ritmo più elevato rispetto agli altri ruoli. Escluderli dal riconoscimento può essere una cattiva scelta nel medio-lungo termine. Riconoscerli ne aumenta il coinvolgimento e il morale e, a loro volta, quello dei team che coordinano.

COME FAR SENTIRE LE PERSONE RICONOSCIUTE

Ci sono alcuni passaggi che permettono di meglio riconoscere e valorizzare le persone.

Predisporre audit. Le organizzazioni non devono tirare a indovinare per scoprire dove si nascondono le disuguaglianze e le preferenze. Incentivare i momenti di feedback, le riunioni in team e gli incontri one to one a tutti i livelli, unitamente a dare la possibilità di fornire pareri in forma anonima, consente di creare un contesto dove più facilmente le persone si sentiranno incentivate e sicure a parlare. Coinvolte. Difficilmente le persone distruggono ciò hanno costruito.

Formare i manager in modo da essere consapevoli del riconoscimento. Dai dati, quasi tre quarti delle organizzazioni non formano i manager sulle migliori pratiche di riconoscimento. Per quanto possa apparire strano non sempre i manager (e non solo loro) sono consapevoli di avere dei #preferiti e di come tendano a favorirli. Esserne consapevoli permette, non sono solo di individuare i manipolatori seriali per non caderne vittime, ma anche di attuare i giusti comportamenti affinchè tutti vengano trattati e premiati nel giusto modo.

Difficilmente chi ha un preferito lo ammetterà. Non solo agli altri ma addirittura a sé stesso.

Creare pari opportunità di riconoscimento. Offrire un riconoscimento sul posto di lavoro significa ringraziare ed elogiare i dipendenti per il loro contributo, se meritato ovviamente. Il riconoscimento può assumere varie forme: da un semplice grazie detto di persona o pubblicato sulla piattaforma social media dell’azienda a benefit professionali o permessi retribuiti. Anche se il riconoscimento può essere di natura finanziaria, è molto utile offrire feedback pubblici positivi.

Le organizzazioni hanno molte opportunità per offrire ai dipendenti un riconoscimento per il loro impegno e per i risultati raggiunti:

·      Fissare uno standard di lavoro: il riconoscimento pubblico può aiutare i responsabili a stabilire un benchmark che i team dovrebbero raggiungere.

·      Raggiungimento di un obiettivo importante: utile è non limitarsi ad annunciare e celebrare solo le promozioni. Sottolineare ricorrenze come gli anniversari di lavoro contribuisce a creare un senso di appartenenza. Le persone apprezzano riconoscimenti più ampi, e percepiscono l’azienda che celebra gli eventi della vita privata dei dipendenti (il matrimonio o la nascita di un figlio), come un luogo di lavoro migliore.

·      Ringraziamento dei neoassunti nei primi mesi dall’assunzione. Nei primi sei mesi di un nuovo lavoro, il turn over è elevato ed è quindi fondamentale offrire feedback positivi sin dall’inizio. Diversamente da altri incentivi, il riconoscimento non deve necessariamente attendere il raggiungimento di un obiettivo. Esprimere il proprio apprezzamento risulta particolarmente efficace con i più giovani.

No all’approccio universale. Per far sentire riconosciute le persone l’approccio universale non è efficace. La motivazione dipende da fattori diversi e, per alcuni, i piccoli gesti sono significativi quanto un premio importante. Anche l’origine degli apprezzamenti ha la sua importanza. Spesso le persone collegano il riconoscimento a figure quali manager e leader, ma anche l’apprezzamento dei colleghi (ovvero il riconoscimento sociale) può essere fondamentale.

Premi flessibili. È finita l’epoca in cui della ricompensa prestabilita e non negoziabile. Dare la possibilità alle persone di scegliere fra più opzioni le farà sentire apprezzate e ascoltate, e sentiranno i loro #valori rispettati. Per alcuni può essere particolarmente utile l’abbonamento alla palestra, per altri orari flessibili per accompagnare i figli a calcio e via dicendo.

Per esempio Cisco,  dispone di un programma di riconoscimento che permette a qualsiasi dipendente di nominare un collega per l’assegnazione di un premio monetario. I dipendenti possono inoltre scegliere un premio in occasione del primo e del quinto anniversario di lavoro nella azienda.

McDonalds premia con coupon i dipendenti con la maggiore anzianità di servizio. Offre loro anche sconti presso vari rivenditori e opportunità di formazione e sviluppo.

General Motors (GM) ha un programma di riconoscimento attivo in 26 Paesi. I dipendenti possono inviare e ricevere riconoscimenti basati su punti, da utilizzare per riscattare premi a loro scelta.

COME CREARE UN PROGRAMMA PER IL RICONOSCIMENTO DEI DIPENDENTI

Definisci obiettivi e traguardi: stabilisci quali obiettivi vuoi raggiungere, quando e decidi come valutare i progressi compiuti.

Allineamento con la cultura aziendale: per quali comportamenti vuoi assegnare un riconoscimento? Cosa li mette in relazione con i valori dell’azienda?

Comunica il programma: posiziona il programma come campagna e accertati che tutti ne siano informati

Assegnazione frequente e regolare dei riconoscimenti: eccedere nei riconoscimenti ne riduce l’efficacia, ma è importante mostrare apprezzamento almeno a intervalli di qualche mese. Inoltre, se qualcuno si distingue per la qualità del lavoro svolto, riconosci subito il contributo apportato.

·       Personalizzazione dei premi: se possibile, offri ai dipendenti una scelta

·       Richiesta di feedback per misurare l’efficacia: l’efficacia dei programmi è relativamente facile da misurare. Usa i sondaggi per scoprire se i dipendenti si sentono apprezzati e perché.

Il cambiamento non sarà immediato, ma nel tempo sarà facile capire come e quanto il programma influisce positivamente su: turn over dei dipendenti, assenteismo, vendite e ricavi, oltre a rendere l’organizzazione più connessa e trasformarla in un posto di lavoro più piacevole.

Il turn over ha un costo elevato: sostituire una persona costa da metà al doppio della retribuzione di un dipendente. E questo è solo il costo monetario, senza considerare le implicazioni in termini di perdita di competenze e di impatto negativo sul morale causato dall’alto tasso di turn over. Tuttavia, difficilmente le persone che si sentono apprezzate lasciano un’azienda.

Il 63% delle persone che ricevono riconoscimenti professionali ritiene altamente improbabile l’ipotesi di cercare un nuovo lavoro, contrariamente all’11% delle persone il cui lavoro viene apprezzato di rado o mai. Inoltre, i dipendenti apprezzati e considerati sono più propensi a impegnarsi maggiormente, con un conseguente aumento della produttività.

La soddisfazione sul lavoro non solo incrementa la produttività del 31% e le vendite del 37%, ma influisce anche sul modo di lavorare delle persone, con un aumento del 19% del livello di accuratezza con cui svolgono le attività.

A te la scelta…

CONTROLLARE ciò che POSSIAMO CONTROLLARE: il miglior antidoto al senso di impotenza (anche sul lavoro)

Sarà capitato anche a voi di entrare in ascensore e non riuscire a resistere alla tentazione di premere compulsivamente il pulsante chiusura porte. Vi siete mai chiesti #perché?

Schiacciando ripetutamente il pulsante si ha (l’errata) sensazione che le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, quanto questo innervosisse gli altri giocatori. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003.

Come era abituato a fare in #azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo, è descritta come un’“illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e #incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere #obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è #pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di #impotenza, alla scarsa #fiducia in noi stessi. L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

“RENDERE il FAMILIARE STRANO e lo STRANO FAMILIARE” per facilitare il CAMBIAMENTO (in azienda)

C’è una costante che ritrovo nelle #organizzazioni che vogliono abbracciare il #cambiamento: cercare il nuovo (pretendere che le cose cambino), senza modificare il come (continuando a fare le stesse cose nello stesso modo).

Un #paradosso. Comodo, tranquillizzante e fallimentare, quello di reiterare vecchi schemi, #abitudini e #strategie, con la convinzione che si otterranno risultati diversi.

Non dico sia semplice, riuscire a riconoscere le routine consolidate, così come non lo è adattarle al nuovo a cui aspiriamo.

Fra le #strategie che possono venire in aiuto, una è rendere il familiare strano e lo strano familiare.

RENDERE IL FAMILIARE STRANO E LO STRANO FAMILIARE

Si tratta, a grosso modo, di vestire i panni dell’antropologo: mettere in discussione e capovolgere le cose, interessarsi a come la #cultura si esprime, diventare curiosi delle routine quotidiane (come viene svolto il lavoro) per poi modificarle, anziché lanciare grandi e faticosi programmi di cambiamento.

Come ha fatto quell’AD, il cui primo intervento trasformativo è stato togliere, durante la convention annuale, il ruolo/titolo gerarchico sotto il nome dei partner senior sul badge dell’evento. Il primo passo di un piano che ha visto poi trasformare i processi di produzione affinchè fossero più in linea con il cambiamento sociale e i progressi tecnologici.

Per raggiungere questo #obiettivo, e per realizzarlo rapidamente, sapeva di dover rimuovere la power-distance culturale che esisteva tra i livelli organizzativi e che, fra le altre cose, non consentiva ai più giovani di contribuire a un nuovo modo di pensare.

Rendere ciò che è sempre stato familiare (sapere chi è chi in linea gerarchica), strano (perché dovremmo farlo?!) può generare ansia e attivare le routine difensive che l’accompagnano – al fine di continuare a fare ciò che si è sempre fatto. 

Fare ciò che sembra strano (le persone non si offenderanno se il loro titolo non è evidente?!) ossia la cosa più ovvia (ho solo bisogno di presentarmi), può provocare disturbo, fastidio e resistenza.

La #familiarità ha uno scopo: regalarci serenità e sicurezza. Le #abitudini ci permettono di agire senza pensare, peccato che ci impediscono di vedere le cose da nuove prospettive.

Troppo presi dalla nostra storia di come è il mondo e come dovrebbe funzionare, finiamo per non considerare scenari diversi da quelli noti.

APOLLO 8

Un po’ come è successo agli astronauti della missione Apollo 8, e brillantemente narrato in Overview Effect: gli astronauti pensavano che sarebbero andati sulla luna per saperne di più (della luna). In realtà, la cosa più importante che il viaggio sulla luna ha insegnato loro è stato vedere il nostro familiare pianeta terra in modo diverso.

Mentre si libravano sopra la terra, non potevano smettere di fissarne il mistero, vedendolo di nuovo in tutta la sua interconnessa bellezza, unità e fragilità, per la prima volta. Questa sorprendente rivelazione ha fornito loro utili #intuizioni per apprezzare, e fare diversamente le cose, una volta tornati a casa.

Non c’è chiaramente bisogno di andare sulla luna per riscoprire la terra, per fortuna. Possiamo, in qualsiasi momento, fermarci per osservare le nostre routine, le nostre risposte emotive e mentali predefinite a ciò che sperimentiamo, e sottoporle a un’ispezione compassionevole ma feroce.

A cosa servono? In che modo ci forniscono risorse e in che modo (specialmente nei tempi che cambiano) potrebbero essere disfunzionali?

LE ABILITA’ PER GUIDARE IL CAMBIAMENTO

Due sono le abilità essenziali correlate al successo nel guidare il cambiamento:

–       una interiore (dell’essere): la capacità di entrare in sintonia con il sistema e percepire una causalità più profonda dietro ciò che vediamo in superficie. Portare la percezione sistemica a ciò che normalmente sperimentiamo può essere intellettualmente impegnativo, ma può portare a una sorprendente reinterpretazione del modo familiare di vedere le cose.

–       una esteriore (del fare): la pratica of edge and tension leadership, in cui i leader possono parlare in modo chiaro e inequivocabile della realtà e, in particolare, sfidare le convenzioni e le routine comportamentali comuni. Rendere ciò che è familiare, strano.

L’AD che ha deciso di modificare i badge, ha usato entrambe le abilità, insieme. Non ha criticato i partner presenti alla conferenza quando hanno ripetutamente riscritto ruolo e titoli sui badge (è così facile personalizzare l’esperienza e vederla come un problema attitudinale o di abilità). No. Ha piuttosto interpretato questa routine familiare come un segnale sistemico della cultura che richiedeva ancora un cambiamento. Questo gli ha permesso di dispiegare poi visibilmente edge and tension con grande sensibilità.

L’AD ha aperto la conferenza con la storia del badge, evidenziando ciò che ancora richiedeva un cambiamento nella cultura – e ha chiesto a ogni leader presente di guardarsi dentro e riconoscere il disagio che viveva conseguentemente al rovesciamento della gerarchia: “il modo in cui funziona il badge, è rappresentativo del modo in cui si esplicita la vostra leadership quotidiana?’

Un approccio semplice ma di impatto, che ha permesso di rendere strano ciò che fino a quel momento era familiare.

TO DO

Per rendere strano ciò che è familiare occorre:

  • Formare e coinvolgere osservatori interni. Troppo spesso inseriamo il pilota automatico, senza mai fermarci a osservare gli schemi nei quali siamo coinvolti. Tali osservatori distaccati e imparziali possono essere potenti specchi della cultura, capaci di premere il pulsante pausa di volta in volta in una riunione e condividere le loro osservazioni su ciò che stanno notando e ipotizzando. Tale approccio è utilissimo per cambiare le routine del momento.
  • Portare le persone dalle familiari realtà lavorative in #contesti in cui il futuro sta già emergendo. Contesti diversi, stimolanti e che possono aiutare a guardare la cultura aziendale sotto una nuova luce, meno stereotipata e difensiva. Questo è un ottimo modo per incentivare l’innovazione.
  • Raccogliere le intuizioni e le idee dei nuovi arrivati. Qualcuno ha detto che “la cultura aziendale è ciò che smetti di notare dopo tre mesi che la respiri e vivi tutti i giorni“. Dopo quel tempo, quello che sembrava strano all’inizio si è fatto routine, tra l’altro senza nemmeno essertene accorto. Incoraggio sempre i senior a confrontarsi con i nuovi arrivati per capire cosa sembra bizzarro della cultura aziendale.

Oltre a mettere in discussione le routine culturali quotidiane e sottoporle a ispezione imparziale, rendendo strano ciò che è familiare, gli antropologi sono addestrati a rendere normale ciò che potrebbe sembrare bizzarro di una cultura. Tutti i pensieri e le azioni possono avere perfettamente senso se visti attraverso gli occhi della cultura che li ha creati.

Come possono i leader del cambiamento introdurre nuovi modi di pensare e agire senza che la cultura “nativa” respinga questo sforzo?

Occorre conoscere da dove parte il sistema, e capire qual è il punto di disagio accettabile a cui si può spingere la cultura di quella specifica realtà (cosa che il mio osteopata fa magnificamente quando ho mal di schiena, sapendo quanta manipolazione è necessaria per portarmi beneficio ma senza causare danni).

IN CHE MODO?

C’è un altro video che può venire in soccorso: First Follower: Leadership Lessons from Dancing Guy. A un festival musicale si vede una persona uscire dalla folla e iniziare, da sola, a ballare in modo strano. Dopo un po’, un tizio lo raggiunge e appena inizia anche lui a ballare, il primo ballerino non appare più così strano, e presto l’intera folla si unisce ai due. Ciò che inizialmente era strano è diventato il nuovo familiare.

Il segreto è quindi quello di trovare e coltivare persone che non hanno paura di sperimentare, conoscere per ingaggiare tutti gli altri. In questo modo, qualsiasi novità che inizialmente sembra strana diventa, per riprova sociale e imitazione, ok.

Di fatto per incentivare il cambiamento occorre essere in grado di dare un #posto e uno #scopo alle diverse esperienze, in particolare a quelle che sembrano difficili, strane e bizzarre. Normalizzando poi in modo #acritico e non reattivo ciò che è scomodo (d’altronde, quale cambiamento avviene senza alcun disagio?), così da consentire alle persone di abituarsi a ciò che non è familiare. Nonché la capacità di rimanere curiosi e non ansiosi, anche in situazioni difficili e spigolose. Se il leader non si sente al sicuro con lo strano, allora nessun altro lo sarà.

SPUNTI PRATICI

Altri spunti pratici per “rendere familiare lo strano” e quindi aumentare le possibilità che un’organizzazione accetti e non rifiuti il cambiamento:

  • Presenta il nuovo come naturale evoluzione del vecchio. Quando Edison lanciò l’elettricità negli Stati Uniti, progettò il suo nuovo sistema di illuminazione sulla falsariga dei precedenti sistemi di illuminazione a gas, in particolare le lampade a vista, in modo che le persone non rifiutassero ciò che era nuovo e possibilmente pericoloso.
  • Inizia in piccolo e poi dai slancio al nuovo con interventi che si ripetono e creano la strada verso nuovi atteggiamenti e routine.
  • Vai a caccia dei positive deviance: in ogni comunità ci sono persone dai comportamenti e dalle strategie insolite ma vincenti che consentono di trovare soluzioni migliori a una sfida di cambiamento rispetto ai loro coetanei, pur trovandosi nello stesso #contesto e con le stesse #risorse. Lo strano può sembrare più familiare quando ci si rende conto che sta già funzionando con buoni risultati nel proprio sistema.

Nel guidare il cambiamento occorre guardare alle differenze con rispetto. La differenza porta valore, non lo sottrae. E rendere il familiare strano e lo strano