(NON) è SOLO una COINCIDENZA

Ci sono coincidenze che possono cambiare la vita. Come quella di pensare a un amico che non si incontra da tempo e ricevere una sua telefonata nello stesso tempo in cui lo si pensa. O quella che porta i giocatori d’azzardo a interpretare come significativa una sequenza di numeri alla roulette. In realtà ogni volta che esce un colore, al giro di ruota successivo la possibilità che la pallina cada sul rosso o sul nero è sempre del 50 per cento.

Allo stesso modo dovremmo imparare a tener conto di tutte le volte che abbiamo pensato a un amico e le volte che quell’amico ci ha telefonato all’istante. Ci accorgeremmo presto che la correlazione è statisticamente irrilevante.

Eppure, la tentazione ad attribuire un significato più grande a un’esperienza è profondamente umana. Perché ci aiuta a riempire di senso un mistero sottile e invisibile che rende più sopportabili le nostre sofferenze e ansie.

Questo spiega il successo delle religioni, o dei guru di passaggio, dei santoni più simili a falsi mercanti. In fondo quando leggiamo un libro o guardiamo un film siamo consci che non è la realtà, ma questo non ci preclude il coinvolgimento.

Non a caso le persone che credono nelle coincidenze, nei complotti e nei fenomeni paranormali sono, a detta della scienza, meno portate al ragionamento probabilistico e alla statistica (Università di Bristol, Goldsmiths, e University of London). Di fatto la maggior parte di noi è impreparata a valutare la probabilità degli eventi, per questo quando l’amico dimenticato chiama tendiamo a dargli un significato sproporzionato.

Prendiamo un altro esempio: il paradosso del compleanno. Quante persone devono entrare in una stanza affinchè statisticamente ce ne siano almeno due nate nello stesso giorno dello stesso mese? Sono statisticamente sufficienti 23 persone per avere una probabilità superiore al 50 per cento di trovarne due. Per una probabilità del 99,9 per cento ne bastano 70.

COSA CI DICE TUTTO QUESTO?

Siamo molto bravi ad attribuire un senso grandissimo a eventi con una probabilità eccezionalmente bassa di verificarsi, ma non così improbabili come pensiamo. O meglio, potrebbero anche esserlo ma in un pianeta di 7 miliardi di persone, anche gli eventi più improbabili si fanno relativamente comuni.

A dimostrarlo la legge dei grandi numeri secondo cui un grande campione statistico alla fine porta sostanzialmente a qualsiasi risultato. Molte sono le persone che sono sopravvissute a una calamità naturale anche più volte, o che hanno vinto alla lotteria più di una volta.

Nonostante la spiegazione matematica non lasci dubbi, in molti non si rassegnano a non credere al caso. Anche perché supportare le coincidenze può fare ricchi molti. Se non occorre la scientificità a dimostrare un evento, una guarigione, un episodio, tutti diventiamo bravi e necessari in qualcosa.

CORRELAZIONE VS CAUSALITA’

Finché però il discorso è legato alle scie chimiche, i danni che ne derivano sono marginali, tutt’altra cosa quando si tenta di associazione l’aumento dei casi di autismo all’aumento dei numeri di vaccini somministrati – spiega David Hand, statistico e professore di matematica all’Imperial college di Londra -. L’autismo spesso di manifesta nello stesso periodo in cui sono effettuate le vaccinazioni, ma confondere la correlazione con la causalità, credere alle coincidenze può portare a prendere decisioni non sulla base di prove concrete ma di mezze teorie pseudoscientifiche”.

Non saper dire esattamente perché certi eventi accadono, non vuol dire che abbiano un significato. Sta a noi riempire il vuoto che i misteri della vita ci lasciano.

Se mentre mio fratello muore annegato a migliaia di chilometri di distanza, nello stesso istante anch’io mi sono sentito soffocare posso sapere che fra le due cose non c’è collegamento. Ma se lascio vagare il pensiero, magari scoprirò un nuovo modo di piangere la sua morte.

La nostra debolezza è quella di voler cercare a tutti costi un significato per ogni accadimento. Per trovare un punto di incontro fra mente e spirito. Un amico che ci chiama nell’istate stesso che lo pensiamo è solo un telefono che squilla, finché non decido che è qualcos’altro.

Ps. Non è un caso se di coincidenze ne vengano segnalate a migliaia e se volete sbizzarrirvi vi invito a visitare Cambridge Coincidences Collection, pagina creata da David Speigelharter (università di Cambridge).

NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

CARRIERA E FAMIGLIA: la DELICATA POTENZA dell’EQUILIBRIO

“Non sono una #workaholic come la maggior parte delle donne partner di questo studio, voglio avere presto un figlio, rincasare a orari normali, e non consumarmi in estenuanti gare a chi è l’ultimo a lasciare l’ufficio in virtù di un autoinganno, la rincorsa al potere che una volta che si raggiunge si frantuma in una lotta a sentirsi indispensabili abnegando se stessi”.

Se non fosse per gli anni di esperienza che mi porto addosso, avrei sicuramente portato sul personale questa conversazione. Ho respirato a fondo, invece, cercando di supportare la giovane manager nel modo più efficace che conoscevo. Pur sapendo che quel tema non si sarebbe esaurito nel corso di una sola chiacchierata.

“Ho visto il mio capo, donna, arrivare ad abdicare i propri valori. Accettare compromessi inimmaginabili, affinare l’arte della manipolazione, per il bene comune. Ma qual è il bene comune? Quello dello studio, della società o di se stessi?”.

Il potere cambia. E’ giusto sia cosi. Non è corruzione, piuttosto una nuova sicurezza e consapevolezza che si esplicita anche attraverso segni esteriori, grazie ai quali imporsi con maggior vigore.

Spesso – rifletto – le donne lo dimenticano: l’abbigliamento elegante non è vanità, sul luogo di lavoro è segno distintivo e di potere. Gli uomini lo sanno, con i loro completi perfetti. Le donne sentono di dover giustificare sempre qualcosa.

La consapevolezza di sé, è lo specchio di una abilità acquisita: il controllo di ciò che si è conquistato. Conquista che spesso presuppone un costo: centellinare la vita privata, come si fa con i dolci sotto dieta. Una dieta che però può trasformarsi in una dipendenza.

“Ha messo la carriera in cima alle sue priorità a discapito di tutti gli altri aspetti della sua vita. È triste, quasi inquietante, vederla ogni volta compromettere la sua vita privata. Il lavoro le è costato tantissimo: il matrimonio, il rapporto con il figlio. E’ una delle più brave professioniste nel suo campo, ma per diventarlo ha perso tutto ciò di cui aveva di più caro. Non voglio vivere la medesima solitudine, con le amiche più care a rincorrere l’agone della famiglia”.

Ascoltando la giovane manager, comprendo altrettanto bene il suo capo: due donne agli estremi, in comune la medesima battaglia. La difesa di valori personali e antitetici. Due facce della stessa medaglia. Ognuna con il proprio significato svelato, di cosa è veramente importante per il raggiungimento della (rispettiva) felicità.

Valori difficili da condividere, soprattutto con gli uomini che si sa, non sono soliti far sconti quando si tratta di sesso debole, più propensi a sfoderare un sordo antagonismo. Ma se poi la donna arriva a gestire il potere, sono proprio le altre donne ad aiutarla a ritrovare dentro di sé le doti tipiche di genere e a reimparare ad usarle, facendo spesso da leva per imporre sul lavoro un codice più visionario per lo sviluppo di un’organizazione più moderna e flessibile.

Il segreto, difficile ma necessario, confido alla giovane donna poco prima di salutarci, è trovare l’equilibrio fra doti maschili e femminili, fra valori e desideri, ricalibrandoli giorno dopo giorno nel rispetto di ciò che è più importante per se stessi.

L’autoinganno della disponibilità, dove vogliamo tutto in ogni momento e pensiamo di raggiungere tutto in qualsiasi istante, la famiglia perfetta, la relazione perfetta, i figli perfetti e il lavoro perfetto, è una delle trappole più audaci e perseveranti, alla quale cediamo. Miraggio o peccato universale? Guardare ma non toccare. Il biglietto omaggio per la vanità.

UMILTA’, AMBIZIONE e VOGLIA di MIGLIORARSI: le CARATTERISTICHE del LEADER EFFICACE (e con i MIGLIORI RISULTATI ECONOMICI)

Umile e ambizioso. A proprio agio dentro abiti da grandi magazzini, amante della solitudine e del perfezionismo “non smetto mai di migliorarmi in modo da essere quanto più possibile all’altezza del ruolo”.

Libero di definire il suo stile di leadership “eccentrico” al Wall Street Journal. E capace di generare un valore cumulativo delle azioni 4,1 volte più alto del mercato generale nei vent’anni (fra il 1971 e il 1991) in cui rivestì il ruolo di amministratore delegato alla Kimberly-Clark.

Così coraggioso da vendere gli stabilimenti per investire nel mercato del largo consumo e in marchi come Kleenex e Huggies, seppur molti definissero stupida quella mossa, e contro tutte le previsioni l’azienda divenne la cartiera più grande al mondo, sbaragliando ogni concorrente.

Umiltà e ambizione, insieme a tenacia e voglia di migliorarsi: furono i fattori critici di successo di questo uomo schivo, sconosciuto ai più, capace di imporre uno stile di leadership controcorrente. Lo stesso che si scopre tra i manager di successo come Bill Gates, Michele Ferrero, Enzo Ferrari, Brenda Barnes (prima donna a diventare AD alla Pepsi), Charles Schwab e James Copeland (Deloitte Touche Tohmatsu), Lou Gerstner (IBM), Elon Musk (Tesla Motors) Warren Buffet… per citarne alcuni.

“Tra i leader più efficaci con cui ho lavorato – ha scritto Peter Drucker – alcuni si barricavano in ufficio e altri erano super socievoli. Alcuni erano istintivi, altri studiavano la situazione e impiegavano tempo per arrivare a una decisione. L’unico tratto che avevano in comune era la mancanza: tutti dimostravano nessuno o poco carisma”. A sostegno gli studi del prof. Agle, che analizzando i CEO di 128 grandi società, scoprì che coloro che erano reputati più carismatici potevano vantare retribuzioni più alte ma non risultati economici migliori.

“Ad alcune persone si dà autorità solo perché parlano bene e hanno buona presenza scenica. E’ fin troppo facile confondere la buona parlantina con il talento – ha spiegato il colonnello S. Gerras, docente di scienza del comportamento allo US Army War College -. Chi si presenta come un buon comunicatore, vede premiate certe caratteristiche perché si tende a dare eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Un altro studio noto è quello condotto da Jim Collins che evidenziò come molte delle migliori aziende di fine ‘900 erano capitanate da manager straordinari noti non per il loro carisma o per la loro esuberanza ma per l’umiltà estrema associata a una indiscutibile professionalità, come ben descritto nel suo testo ”Good to Great”. Leader pacati, umili, riservati, timidi, schivi.

Sintetizzando: abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’esuberanza dei leader. Quando in realtà abbiamo più bisogno di leader capaci di far crescere non il proprio ego ma le organizzazioni che dirigono. O per dirla in un altro modo: umile non è chi PENSA POCO DI se stesso ma chi PENSA POCO A se stesso.

VOGLIO e NON VOGLIO. L’INDECISIONE può farsi VIRTU’

Amore e odio. Felicità e tristezza. Paura e desiderio. Attrazione e repulsione. Rabbia e dolcezza.

Quante volte li viviamo entrambi, nello stesso tempo… Si chiama #ambivalenza questo altalenare di sentimenti, parte della vita, dai tempi di Cicerone, quando scriveva “Ama come se più tardi dovessi odiare”, e chissà quanti altri ancora, prima di lui.

Ci si sente “tirati” da due parti contrapposte, non a caso è insito nell’etimo (ambi = entrambi e valentia = forza), e non accade solo in amore: possiamo provare contemporaneamente paura e desiderio di buttarci con il paracadute, o attrazione e avversione (specie se siamo a dieta) nei confronti di una sacher torte.

Possiamo sentirci allettati e respinti da un’offerta di lavoro, da sembrare interessante quanto faticosa e piena di insidia. E possiamo nutrire sentimenti ambivalenti per un partito politico, un personaggio famoso, una squadra sportiva. O verso l’idea di iscriverci in piscina o in palestra (mi farebbe bene! Nuotare è noiosissimo!).

Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo, i nostri comportamenti diventano più contraddittori e meno prevedibili. Per districarci ci tocca cimentarci in un salto di ragionamento. Un pensare al modo in cui stiamo pensando, arrivando a scrivere, su una scala da 1 a 10, quanto vale la nostra attrazione e quanto la nostra repulsione.

In pratica quando siamo lontani, le componenti attraenti sembrano più forti, e dunque ci avviciniamo. Ma più siamo vicini, più le componenti respingenti diventano visibili e tornano a prevalere. Così ci allontaniamo di nuovo. Questo scomodo andirivieni può ripetersi molte volte.

L’ambivalenza genera ansia e incertezza. Proprio per questo, quando ci troviamo ad affrontare un grande tema controverso tendiamo a non prendere in considerazione le argomentazioni di chi non la pensa come noi: interpretiamo male i fatti, ragioniamo in maniera sbrigativa e in base a pregiudizi la cui fondatezza evitiamo di verificare. Oppure rimuoviamo del tutto la questione.

L’ambivalenza ha uno scopo, dimostra una ricerca dell’Università di Stanford: coltivare deliberatamente l’ambivalenza nei confronti di un obiettivo che non siamo certi di raggiungere ci aiuta a consolarci più in fretta di un eventuale fallimento. Ma in caso di successo sminuisce il valore del risultato ottenuto. In parole semplici anche l’ambivalenza può avere conseguenze ambivalenti.

In tutta franchezza, le situazioni ambivalenti ci obbligano a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi.

Per uscirne la strategia è dare ascolto al proprio corpo. Immedesimarsi il più profondamente possibile nelle alternative e vedere come si sta. Poi, decidere di conseguenza.

OFFBOARDING: molto più di un grazie e arrivederci

C’è una pratica diffusa nelle organizzazioni: dedicare molto tempo e risorse a selezionare e trattenere i talenti e molto poco a curare i rapporti con le persone che vanno a lavorare altrove.

Un errore, se si considera che gli ex dipendenti di oggi, possono diventare i clienti, i fornitori, le opportunità, i migliori e i peggiori amici della nostra azienda, domani.

Secondo PeoplePath e l’Università Cornell, un terzo degli ex dipendenti mantiene contatti con i precedenti datori di lavoro in qualità di clienti, partner o fornitori e circa il 15% delle nuove assunzioni è rappresentato da ex dipendenti che tornano a lavorare per la precedente azienda. Non è un caso se le società di consulenza manageriali abbiano modificato le loro practices proprio per accaparrarsi un vantaggio competitivo futuro certo sfruttando la pubblicità positiva di chi va a lavorare da un’altra parte.

Analizzando le migliori prassi di programmi di offboading sul mercato, ho estrapolato alcuni suggerimenti.

GLI ADEMPIMENTI DI LEGGE NON BASTANO

Un programma serio di offboarding (le attività da svolgere quando un dipendente lascia l’azienda), non prevede solo di ottemperare agli obblighi di legge ma tiene conto della strategia, della cultura, mission e vision, delle disponibilità finanziarie, del tasso di tour over del personale, nonché dal settore in cui opera l’azienda.

Se ci pensiamo bene, il modo in cui vengono trattati i dipendenti in uscita racconta molto di un’impresa.

Per attirare i migliori talenti un’organizzazione fa di tutto per mostrare i vantaggi che si ottengono lavorando lì. Allo stesso modo quando qualcuno se ne va, anche in circostanze difficili, bisognerebbe fare in modo che il processo e l’esperienza di uscita rispecchino la cultura generale dell’organizzazione.

Pensare un programma di offboarding attento alle persone, ha un impatto considerevole sull’immagine aziendale, come ha documentato il premio Nobel Daniel Kahenman attraverso la regola del picco-fine: si giudica un’esperienza soprattutto dalle sensazioni provate nel momento di picco (fase più intensa) e alla fine, anziché ragionare sulla somma totale dell’esperienza.

Tradotto, significa che le persone prestano più attenzione al modo in cui le aziende gestiscono la fine del rapporto di lavoro che al modo in cui accolgono i neoassunti, di conseguenza i rapporti, anche se buoni, fra un dipendente in partenza e un datore di lavoro possono essere vanificati all’istante, se la separazione viene gestita male.

Quando una persona se ne va, è abbastanza normale che parlerà dell’azienda e di come è stato trattato al momento di andarsene. Se gestita male, questa fase, può essere un boomerang pericoloso per la reputazione aziendale.

PAROLA D’ORDINE: PIANIFICARE

I piani di offboarding che funzionano sono quelli pensati e a cui si dedica un’attenzione costante. E non quelli che vengono affrontati come un evento singolo. E prevedono molto di più di una exit interview e un passaggio di consegne.

I piani di offboarding che funzionano sono quelli che vengono organizzati al momento dell’assunzione. Talvolta, non dimentichiamolo, è necessario per un dipendente andare altrove per realizzare i propri obiettivi di carriera. Boicottarlo, remargli contro non è una strategia efficace nel medio-lungo periodo. Lui se ne ricorderà.

Pensate l’impatto che avrebbe ritrovarlo come cliente, in un’altra azienda: perdere un ordine, una commessa o una consulenza sarebbe quasi scontato. Vale la pena?

Spesso è necessario cambiare lavoro più volte nel corso della carriera, non è un caso che molti manager siano attratti dal tour of duty, come lo ha definito Reid Hoffman, uno dei fondatori di LinkedIn: un’assunzione la cui durata e le aspettative di crescita per il lavoratore e l’azienda sono fissate in anticipo. Partire dalla consapevolezza che nulla dura per sempre, aiuta i datori di lavoro a essere più onesti con i dipendenti e a prevenire antipatici misunderstanding, nonché utilizzare le risorse nel modo più produttivo.

Un piano di offboarding può includere, ad esempio:

–         Assegnare attività complesse ai dipendenti per permettere loro di potenziare il cv e spendersi poi altrove.

–         Attività di outskilling per aiutare le persone ad acquisire competenze che le rendano più attraenti agli occhi dei reclutatori. Il programma Career Choice di Amazon paga rette e corsi in alcuni campi di studi, mentre Archways to opportunity aiuta i dipendenti McDonald’s a prendere titoli di studio, migliorare la conoscenza delle lingue e pianificare la loro carriera con un consulente.

–         Piani di successione, utili ad assicurare continuità durante le transizioni. Un dirigente potrebbe comunicare al suo vice di avere in programma di ritirarsi fra 5 anni e il vice potrebbe realizzare di non voler attendere un tempo così lungo per salire nella scala gerarchica. In questo caso, aiutarlo a trovare un ruolo direttivo in un’altra azienda è un’ottima strategia che potrà dare i suoi frutti in futuro.

Prepararsi anzitempo all’offboarding mentre il lavoratore è ancora alle dipendenze dell’azienda, può inoltre aiutare i manager a non venir presi alla sprovvista dal ricambio del personale.

Essere aperti alla possibilità che un dipendente vada altrove può permettere di trasformare quella risorsa in un ambasciatore del marchio, una volta terminato il contratto di lavoro. E si sa quanto la pubblicità positiva sia utile.

GESTIRE L’USCITA

Lasciare un posto di lavoro può essere una esperienza complessa e dolorosa. Quando ho deciso di lasciare, per dare una spinta alla mia carriera, un mio vecchio capo fece di tutto per isolarmi dal resto del gruppo. Impedì ai colleghi di pranzare con me o fermarsi anche solo a parlarmi. Capite bene che questo non ha fatto bene né a lui, né a quel dipartimento né a quella organizzazione. A parlarne male, furono per lo più i colleghi preoccupati della reazione spropositata di un manager che si diceva aperto alle novità e ai cambiamenti. Ero la prima che osava andarsene. Inutile dire che furono in molti, nei mesi successivi, a seguire il mio esempio.

Nei negozi Apple, quando qualcuno se ne va, i dipendenti si riuniscono per applaudirlo e acclamarlo. Se l’azienda ha un programma ufficiale di offboarding, la partenza di un dipendente può essere un buon momento per accoglierlo ufficialmente nel gruppo degli ex.

Piani di offboarding possono essere applicati anche in caso di licenziamento, aiutando la persona a trovare un nuovo impiego o fornendo consulenza e altri tipi di supporto per gestire emozioni e situazione.

L’OFFBOARDING NON è UGUALE PER TUTTI

Il programma di offboarding non può essere uguale per tutti. Ogni dipendente ha le proprie esigenze e non tutti desiderano essere coinvolti nelle fasi di uscita. E questo va rispettato.

Un alto dirigente che va in pensione può aver bisogno di consulenza per orientarsi sui piani di indennità sanitarie o di pensionamento, ma anche essere rassicurato sul fatto che il suo successore sarà affiancato nel modo giusto per non distruggere ciò che lui ha costruito.

Impossibile dettagliare ogni specificità ovviamente. Ciò che va considerato è che la relazione con un dipendente non termina solo perché il rapporto di lavoro si è concluso. È qualcosa di molto più complesso e delicato. Ecco perché, in un contesto lavorativo sempre più dinamico e veloce, un offboarding ragionato e strutturato è un fattore critico di successo, una necessità strategica che non considerata può diventare un vero e proprio boomerang.

A questo punto, vi chiedo. La vostra azienda ha piani di offboarding coerenti e strutturati?

Fonti

–         Dachner A.M., Makarius, E. E. (2021). Turn Departing Employees into Loyal Alumni. A holistic approach to offboarding. HBR Magazine.

–         Kahneman D., Fredrickson B.L., Schreiber C.A., Redelmeier D.A. (1993) When More Pain Is Preferred to Less: Adding a Better End. Psychological Science: 4(6):401-405

–         Tulpule D., Upendra Pandya N. (2020). The Relevance and Significance of Employee Lifecycle Management in HRD: Business Perspectives. International Journal of Creative Research Thoughts (IJCRT). Vol. 8, Issue 9 September 2020

SOLUZIONI INNOVATIVE? Non aver paura di rischiare

Forte è la tentazione di unire creatività e follia, genialità ed eccesso. Forse perché risveglia l’ideale romantico con cui siamo stati cresciuti fin da bambini. Eppure, la creatività ha poco a che fare con la follia e meno ancora con la sregolatezza.

Il fatto che Picasso soffrisse di depressione, non ha legami con la creatività. Lucy in the Sky with Diamonds può anche essere nata da un viaggio lisergico, ma è stata composta dalla collaborazione di due musicisti scrupolosi e perfezionisti: John Lennon e Paul McCartney. Le poesie di Rimbaud, autore maledetto per eccellenza, sono il frutto di ore di lavoro e non di una unica idea geniale. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, suonava il bongo in un night club per non ammuffire nelle aule universitarie e avere nuovi stimoli. Edvard Munch gravitava fra arte, ansie e allucinazioni, Einstein raccoglieva mozziconi di sigarette per strada e Henry Cavendish, il primo a identificare l’idrogeno, viveva in totale isolamento e con frugalità, nonostante fosse uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra.

A prescindere dalla genialità, i risultati creativi arrivano se c’è metodo e dedizione. Non esistono scorciatoie. Anzi, è probabile che la sregolatezza sia un limite che frena il talento, non il segreto che dà vita alla creatività.

Ecco perché lasciarsi sedurre dal mito genio e sregolatezza, al pari di un #pregiudizio, induce irrimediabilmente all’errore.

LA VOGLIA DI SPERIMENTARE

La creatività ha molto più a che fare con la volontà di sperimentare al di fuori dei confini del pensiero convenzionale e nell’essere consci che ciò che si pensa di sapere, potrebbe essere sbagliato.

Nel contesto aziendale, più che genio–sregolatezza, il binomio più evidente, ma forse più trascurato è quello che unisce la creatività al rischio. Proprio perché la creatività consiste nel provare qualcosa di nuovo, esplorare l’ignoto e accettare l’incertezza e la possibilità di fallire. Ci piaccia o meno, è la creatività ad alimentare la strategia e l’innovazione.

In altre parole, il vero potere della creatività va oltre la visione artistica e la capacità di immaginare e costruire qualcosa di nuovo. Grandi artisti, scienziati e pensatori sono disposti a fallire, venire sommersi da critiche negative e vedere andare in frantumi la propria reputazione, pur di portare avanti le loro idee. Sir Ken Robinson ha ben spiegato questo concetto nel TED Talk più visto di sempre : “Se non sei pronto a sbagliare, non ti verrà mai in mente nulla di originale”.

RISCHI, GIOCHI E RISULTATI

Sebbene la connessione tra creatività e assunzione di rischi sembri intuitiva, gli scienziati sociali hanno faticato a mostrarne il legame diretto. Questo perché misurare la creatività è difficile.

Studi passati che miravano a esplorare la relazione tra creatività e assunzione di rischi hanno equiparato la creatività alla fluidità associativa, al pensiero divergente, alla tolleranza dell’ambiguità e allo stile di vita“, hanno evidenziato gli psicologi Tyagi, Hanoch, Hall e Denham dell’Università della Georgia e Runco della Plymouth University in Frontiers in Psychology . Ma, hanno aggiunto “ognuna di queste misure fornisce solo una visione ristretta della creatività “.

Adottando un approccio diverso, i ricercatori hanno considerato la creatività come un tratto multidimensionale che coinvolge la personalità, i risultati, il processo di formazione di nuove idee, la risoluzione dei problemi. Hanno misurato il rischio utilizzando due test. Uno prevedeva di giocare alla roulette e l’altro la compilazione di un questionario che analizzava la probabilità di assunzione di diversi tipi di rischi: etici, finanziari, sanitari, legati alla sicurezza, ricreativi e sociali.

L’analisi risultante ha suggerito che il legame più forte tra creatività e assunzione di rischi coinvolge il rischio sociale, ovvero esporre tesi e idee anche quando le dinamiche di gruppo o di relazione incoraggiano i membri del team a rimanere in silenzio.

ESSERE CREATIVITI VUOL DIRE ASSUMERSI DEI RISCHI

Essere creativi significa correre il rischio che le tue idee vengano criticate o che falliscano miseramente“, sostiene Todd Dewett . Durante il dottorato, Dewett ha notato una lacuna nella ricerca sul legame tra creatività e assunzione di rischi. Quindi ha progettato uno studio attorno a un concetto che chiama disponibilità al rischio: un tipo specifico di assunzione di rischi che ha lo scopo di portare a risultati produttivi in un’organizzazione, anche se può avere conseguenze personali negative per l’individuo che si assume il rischio.

Ad esempio, i dipendenti possono rischiare di essere rimproverati o ostracizzati se segnalano potenziali errori di un progetto particolarmente caro al capo, propongono miglioramenti a un venerato prodotto di punta o sostengono le innovazioni in un’azienda quando i loro colleghi resistono al cambiamento o sono più propensi a proteggere il loro territorio.

Lo sviluppo e la discussione di nuove idee è rischioso, perché rappresentano rumors nelle routine, nelle relazioni, negli equilibri di potere e nella sicurezza di un”organizzazione“, ha scritto Dewett sul Journal of Creative Behavior. La sua ricerca ha documentato una stretta relazione tra creatività e disponibilità al rischio. Dewett ha creato un sondaggio che ha somministrato a 1.100 dipendenti di una società di ricerca e sviluppo con sede negli Stati Uniti. Il sondaggio ha esaminato come specifici comportamenti dei manager siano in grado di influenzare le decisioni dei dipendenti riguardo creatività e propensione al rischio.

Ciò che è emerso è che i manager garantivano ai dipendenti l’autonomia, ovvero la sensazione di libertà di scegliere come svolgere un’attività, sostenendo la loro volontà di rischiare ma non la loro creatività.

Secondo Dewey, le aziende possono aumentare la creatività individuale e di squadra in vari modi. Tutti implicano che i dipendenti si sentano più a loro agio a parlare e ad assumersi dei rischi. Le organizzazioni più innovative possono includere formalmente la disponibilità al rischio nelle valutazioni delle prestazioni, ponendo ai dipendenti domande come: “Quali cambiamenti hai apportato? Che tipo di idee o cambiamenti hai sostenuto o chi hai sostenuto per facilitare un cambiamento?

LA CREATIVITA’ IN AZIENDA

Una volta che inizi a cercare il tipo di assunzione di rischio sociale costruttivo che va di pari passo con la creatività, potresti trovare sorgenti creative dove non te lo aspettavi.

Ecco perché le persone che sono disposte a parlare indipendentemente dal fatto che siano o meno le benvenute, potrebbero essere le più grandi risorse di un’azienda. Il vantaggio è duplice: portano ossigeno, incentivano il pensare fuori dagli schemi a supporto di nuove opportunità e contemporaneamente sono disposte a evidenziare problematiche che possono aiutare l’organizzazione a evitare perdite onerose e inutili.

E se questo non bastasse si può sempre ricorrere, per spingere le persone ad assumersi qualche rischio in più, alla tecnica dei piccoli passi dello psicologo di Stanford passi di Albert Bandura. La tecnica è nata inizialmente per aiutare le persone a superare le fobie. Una fra tante, quella dei serpenti. La creatività in fondo è un po’ come maneggiare serpenti, secondo quanto sostiene un bell’articolo sulla Harvard Business Review: sperimentare senza temere il giudizio altrui, proprio come facevamo da bambini.

Un modo per farlo è appunto quello di superare gradualmente le paure apprese. All’inizio ci può sentire a disagio ma, piano piano con la creatività come con i serpenti, al timore si sostituiscono fiducia e capacità nuove. La prima regola è abbandonare le certezze e la protezione offerta dal proprio ufficio, misurarsi con il mondo, sia che si tratti di inventare un’app che cambierà gli eventi o progettare la start up del secolo.

Il successo, spesso, nasce dal fallimento, come insegna l’economista Albert Hirschman.

In realtà, nessuno si imbarca in imprese che vanno così male da dover richiedere una soluzione creativa. Eppure, proprio quando mal giudichiamo la natura del compito che ci stiamo assumendo sottovalutandone i rischi, poi succede che il precipitare stesso degli eventi ci forzi a tirar fuori soluzioni creative.

Non a caso la vita di Hirschman, economista eretico, si svolge all’insegna del mettersi in gioco. “Gli ostacoli portano alla frustrazione, la frustrazione all’ansia, e nessuno vuole essere ansioso. Eppure, l’ansia è il fattore di motivazione più potente, l’emozione che guida alla ricerca di soluzioni”.

Il punto è che tra creatività e rischio c’è una connessione spesso sottovalutata. “La creatività fallisce, e la buona creatività fallisce spesso”. Ma non solo: creatività vuol dire trovare connessioni inaspettate e quindi sottoporre il cervello a un grande sforzo e a una immane fatica. E come si può rendere accattivante tutta quella fatica? Non lasciandogli alternative. Prendendosi qualche rischio in più e cercando stimoli nuovi, perché i rischi spingono la mente a pensare fuori dagli schemi.

PARADOSSO di FREDKIN: perché perdiamo TEMPO in DECISIONI (in)utili

La maggior parte delle #decisioni sono facili.

Poi ci sono le decisioni difficili.

E sono difficili per due ragioni:

  1. nessuna singola opzione domina sulle altre
  2. per le possibili conseguenze e i rimpianti futuri

Le decisioni sono difficili quando nessuna #alternativa domina sulle altre. Se sono ugualmente allettanti (o ugualmente poco attraenti, a seconda dei casi), importa molto quale scegliamo?

No. Di conseguenza sarebbe più produttivo e meno faticoso lanciare in aria una monetina e giocarsela a testa o croce.

Questo #paradosso lo si deve a un fisico statunitense, pioniere delle fisica digitale, Edward Fredkin: “Più due alternative sembrano ugualmente attraenti, più è difficile fare la scelta, a prescindere dalla complessità della decisione”.

Detta in altro modo, più le opzioni si avvicinano qualitativamente, minore sarà la differenza dell’effetto che la scelta finale avrà sulla nostra vita.

Il rischio è passare quindi sempre più tempo analizzando attentamente alternative che faranno sempre meno differenza.

Considerato che non siamo in grado di sapere come andrà a finire, per molte scelte almeno, pensarci troppo è inutile, quindi non potrà incidere su quella che gli economisti chiamano utilità prevista. In seguito sicuramente ci accorgeremo dell’importanza e del peso della scelta fatta, ma sarà comunque troppo tardi.

In realtà importando poco, le scelte difficili (almeno alcune) dovrebbero apparirci facili.

Prendiamo la scelta tra due gusti di gelato: cioccolato o vaniglia. Ponendo che le due opzioni siano ugualmente allettanti, la decisione diventa difficile poiché nessuna alternativa domina chiaramente sull’altra.

In questo caso sbagliare non cambia la vita. E, non sembrano neppure delle vere decisioni: se nessuna scelta sembra migliore dell’altra e non è possibile ridurre l’incertezza facendo ulteriori ricerche o analisi, ciò che si deciderà non è, alla fine, così importante.

Eppure, il paradosso di Fredkin non lenisce gli insonni, in quanto le decisioni difficili sono difficili poichè la posta in gioco si fa molto più alta e di conseguenza, il #costo e il #rimpianto diventano preponderanti.

Ciò che conta nelle decisioni difficili, quindi, non è solo il processo decisionale, ma anche la necessità di ridurre al minimo i rimpianti futuri (per aver fatto una scelta che a posteriori si è dimostrata fallace).

La conoscenza del paradosso di Fredkin sicuramente non ci impedirà di bloccarci di fronte alle decisioni che la vita ci porta a fare. E se saremo tentati di prendercela con noi stessi per aver scelto il lavoro, la casa o il partner sbagliato, il paradosso ci ricorda che al momento della scelta non potevamo sapere quale sarebbe stata quella giusta. Il tempo che avremo impiegato per ponderare bene le opzioni ci suggerirà che avremmo potuto scegliere meglio, quando in realtà stavamo scegliendo senza conoscerne le conseguenze a lungo termine.

Una risposta al paradosso di Fredkin è calibrare il tempo del processo decisionale con l’importanza della decisione: calcolare il costo dell’ottimizzazione nell’ottimizzazione, una versione del valore delle informazioni (Valore delle informazioni VOI o VoI è l’importo che un decisore sarebbe disposto a pagare per informazioni prima di prendere una decisione).

Tuttavia, questa risposta è autoreferenziale e genera un nuovo paradosso: il decisore deve ora #ottimizzare l’ottimizzazione dell’ottimizzazione, e così via.

Fonti

– Minsky M., (1986). La società della mente. NY, Simon e Schuster, p. 52.

https://scholar.google.com/citations?user=5QMmygwAAAAJ&hl=en

https://www.npr.org/sections/13.7/2017/04/17/524386548/why-hard-decisions-should-be-easy-but-aren-t?t=1540204545810

– Klein G., (2001). La finzione dell’ottimizzazione. In Gerd Gigerenzer, Reinhard Selten (a cura di). Razionalità limitata: gli strumenti adattivi, Londra, MIT, pp. 111–112

FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.