NON BASTANO i BIAS, ora ci si mettono anche i NOISE (i RUMORI decisionali)

Immaginiamo, ipoteticamente, di aver commesso un reato. Qual è, a vostro avviso, il migliore momento della giornata per trovarsi di fronte a un giudice?

La mattina presto o subito dopo una pausa caffè o il pranzo.

Fame e stanchezza condizionano fortemente le nostre #decisioni, come ha rilevato uno studio condotto su oltre mille sentenze: mattina presto, dopo una pausa e post pranzo sono i momenti in cui le sentenze sono più clementi.

Ad avere la peggio è, di fatto, chi viene ascoltato a fine giornata o poco prima di pranzo.

Questo è solo un assaggio dell’impatto che i noise (rumori o errori decisionali) hanno sulle nostre #decisioni: capaci di colpire laddove i giudizi sono soggettivi e influenzabili da fattori non correlabili.

Il #noise è un problema a cui finora è stato dato poco risalto rispetto a bias ed euristiche poiché “il bias ha una sorta di fascino esplicativo che manca al rumore”. Solamente una visione statistica, permette di vedere il rumore, ma noi umani preferiamo le narrazioni causali alla statistica.

Ad affrontare il concetto di rumore nei contesti decisionali è ancora una volta, il premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, già autore di Pensieri lenti e veloci.  Lo psicologo ha, anche questa volta, raccolto le sue scoperte in un libro divulgativo Rumore. Un difetto del ragionamento umano, scritto insieme a Olivier Sibony, consulente specializzato in pensiero strategico e processi decisionali e Cass R. Sunstein, giurista, docente alla Harvard Law School e studioso della razionalità e dell’irrazionalità dei comportamenti economici, nonché, quest’ultimo, anche co-autore con Richard Thaler di Nudge, la spinta gentile.

COS’ È IL RUMORE?

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Per spiegare il concetto, Kahneman è ricorso all’analogia del poligono di tiro. Sia i bias sia i noise non permettono di centrare il bersaglio, fare cioè la scelta giusta. Se per i bias, però, gli errori sono persistenti e sistematici, quindi classificabili, per i noise gli errori sono casuali, ma contro intuitivamente, possono essere corretti più agevolmente.

Metaforicamente, il rumore è rappresentato dalle frecce che mancano il centro ma colpiscono il bersaglio in modo casuale, i bias dalle frecce che mancano il centro in modo coerente, sistematico e prevedibile.

Tradotto: dati gli stessi fatti, un criminale ottiene l’ergastolo e un altro, ugualmente colpevole, se la cava.

I NOISE NELLA PRATICA

CAMPO MEDICO

Un noise è ciò che porta i radiologi a fornire diagnosi differenti nel 23% dei casi guardando la stessa radiografia a distanza di una settimana. Considerando che i medici erano consapevoli di essere sotto esame e, con molta probabilità, avranno fatto del loro meglio per ottimizzare le loro prestazioni, il tasso di errore potrebbe essere più alto in un contesto privo di supervisione.

L’angiografia coronarica è un metodo per rilevare le cardiopatie, prima causa di morte negli Stati Uniti. Benché possa apparire un esame semplice e obiettivo, uno studio ha riscontrato un certo grado di variabilità nell’interpretazione dell’esame: nel 31% dei casi tra i medici vi è un disaccordo sul fatto che in un grande vaso vi sia un’ostruzione superiore al 70%.

E’ inoltre, molto più probabile che i medici prescrivano uno screening per la prevenzione del cancro al mattino presto anziché nel tardo pomeriggio.

Una possibile spiegazione risiede nel fatto che inevitabilmente i medici accumulano stanchezza psicofisica e ritardo nelle visite giornaliere ambulatoriali e di conseguenza questo “rumore occasionale” nella decisione medica diagnostica fa sì che i medici saltino il colloquio sulle misure di screening e prevenzione per le ultime visite, sebbene previsti da linee guida ben definite.

Se ci pensiamo bene, a quanti è capitato di ricevere diagnosi o cure discordanti da due o più medici? Ogni volta che un secondo parere diverge dal primo si è in presenza di rumore. il vero problema, però, non è la discrepanza fra il primo e il secondo parere, ovvero la presenza del rumore nella professione medica, quanto la sua pervasività.

La letteratura sul rumore in medicina è vasta. Non sorprende che in questo ambito si sia cercato di contrastare il fenomeno. Un esempio sono le linee guida, la più celebre è l’indice di Apgar sviluppato nel 1952 dall’anestesista ostetrica Virginia Apgar, utile a valutare lo stato di salute di un neonato.

SCIENZA FORENSE

Anche l’affidabilità delle analisi delle impronte digitali è soggetta ai bias degli esaminatori, che possono creare più rumore e quindi più errori di quanto si creda, come il caso Mayfield dimostra.

Nel 2004 delle bombe piazzate su diversi treni regionali a Madrid provocò quasi 200 morti e migliaia di feriti. Un’impronta sospetta trovata sulla scena del crimine fu trasmessa alle forze dell’ordine di tutto il mondo e i laboratori forensi del FBI la attribuirono a un cittadino americano: Brandon Mayfield. Il sospetto sembrava credibile, ex ufficiale dell’esercito statunitense, si era prima sposato con una donna egiziana e poi convertito all’Islam. L’uomo fu posto sotto sorveglianza, la sua abitazione perquisita e le sue chiamate intercettate. Non riuscendo a ottenere informazioni utili, l’FBI lo arrestò nonostante la mancanza di un’accusa formale. Durante la custodia cautelare, però, gli investigatori spagnoli individuarono un altro sospettato e fu successivamente accertata la mancata corrispondenza tra le impronte digitali di Mayfield e quelle presenti sulla scena del crimine.

Mayfield fu quindi rilasciato e il governo americano dovette pagare un risarcimento di 2 milioni di dollari. L’FBI fece un’indagine per scoprire le cause di quell’errore: non si trattò di un problema metodologico o tecnologico ma di un errore umano.

Itiel Dror, neuroscienziato cognitivista dello University college di Londra fu tra i primi a domandarsi quanto rumore fosse presente nelle analisi delle impronte digitali, sapendo che dove c’è giudizio c’è rumore.

Dror scoprì che gli esaminatori erano suscettibili di bias che derivavano dalle informazioni fornite. Gli esaminatori erano tutt’altro che immuni ai condizionamenti. Quando un esperto che aveva già espresso un giudizio entrava in possesso di informazioni aggiuntive condizionanti spesso era tentato da rivalutare le stesse impronte digitali considerate in precedenza, specie davanti a decisioni difficili. Lo scienziato scoprì anche che gli esaminatori posti in un contesto affetto da bias non vedevano le stesse cose (in particolare osservavano un numero decisamente inferiore di dettagli) di chi non veniva esposto a informazioni condizionanti.

Per indicare l’impatto delle informazioni condizionanti a discapito delle informazioni reali contenute nelle impronte è stato coniato il termine bias di conferma forense.

LEGALE

Che dire invece delle sentenze che avvengono la settimana dopo che la squadra del cuore ha perso la partita? I giudici della Louisiana hanno dato sentenze più severe ai minori, in particolare di colore, la settimana dopo che la squadra di football della LSU aveva perso una partita.

In Francia e negli Stati Uniti, uno studio che ha analizzato oltre 5 milioni di decisioni ha documentato quanto i giudici tendano a essere più indulgenti quando l’udienza si svolge nel giorno del compleanno dell’imputato. La data di nascita, da sola, è sufficiente a condizionare la decisione di un giudice.

Secondo un’altra indagine, i giudici potrebbero essere influenzati perfino da un fattore apparentemente irrilevante come la temperatura esterna.

Ciò che molteplici studi hanno rilevato è che “l’assenza di consenso è la norma“.

FACCIAMO IL PUNTO

Il mantra del lavoro di Kahneman è:

“Dove c’è giudizio c’è rumore, e più di quanto non si pensi”.

In qualsiasi tipo di giudizio umano esisterà rumore in percentuali variabili, motivo per il quale, tanto quanto per i bias, è auspicabile ridurlo.

Questo, infatti, è l’antidoto più potente che abbiamo a disposizione per poter migliorare la qualità delle nostre decisioni, antidoto, che gli autori definiscono igiene decisionale. Ovviamente, la variabilità nel giudizio non è sempre un problema, altrimenti non avrebbero dignità di esistere opinioni, pareri e critiche. Nelle questioni di giudizio in senso stretto, però, il rumore sistematico (oltre che i bias) è sempre un problema e sorprende sapere in quanti casi sia presente.

COME RIDURRE IL RUMORE

Oltre a competenze, intelligenza e apertura mentale gli autori indicano fra le strategie di igiene decisionale:

  • L’obiettivo del giudizio è l’accuratezza non l’espressione individuale, il giudizio non è la sede appropriata per esprimere la propria individualità.
  • Pensare in termini statistici e assumere la visione esterna del caso.
  • Strutturare i giudizi in diversi compiti indipendenti per evitare quello che viene chiamato eccesso di coerenza che porta a distorcere o escludere informazioni che non si inseriscono in una narrazione preesistente.
  • Resistere alle intuizioni premature.
  • Ottenere giudizi indipendenti da più valutatori per poi eventualmente aggregarli.
  • Preferire giudizi e scale relative.

Il rumore è poco prevedibile e non facilmente visibile o spiegabile, perciò, spesso tendiamo a trascurarlo anche quando causa danni importanti. Per questo il rapporto tra le strategie volte a ridurre il rumore e quelle volte a eliminare i bias è paragonabile a quello che accade con le misure di igiene o con un trattamento medico. L’obiettivo è prevenire una serie imprecisata di potenziali errori prima del loro verificarsi.

Come quando laviamo le mani, non sappiamo di preciso quali germi stiamo evitando, sappiamo solo che farlo è una buona prevenzione. Analogamente seguire dei principi di igiene decisionale significa adottare tecniche che permettono di ridurre il rumore senza sapere quali errori si stia contribuendo ad evitare. Il rumore è un nemico invisibile e prevenire l’attacco di un nemico invisibile non porterà che ha una vittoria invisibile. Tuttavia, visti i danni e le ripercussioni che può causare rumore vale la pena cercare di combatterlo.

Il tema, come avrete potuto constatare è ampio, e se in qualche modo vi ho incuriosito non vi resta, come primo passo, che leggere Noise.

COSA ho IMPARATO sulla VITA da chi è SOPRAVVISSUTO al SUICIDIO

C’è un solo problema filosofico veramente serio” – scriveva Camus nel 1942 ne Il mito di Sisifo – “e questo è il suicidio“.

Decisione temuta, maledetta. Non è un caso se anche i giornali, nella maggior parte dei casi, evitino di nominarlo. E non per rispetto.

Sul #suicidio (che piaccia o meno è la conseguenza di una scelta) rifletto da sempre, sia per il suo rigore filosofico (decidere di vivere, dopotutto, è l’ultimo impegno esistenzialista) sia per la ostinata provocazione. A cui si aggiungono un paio fra amici e colleghi che l’hanno optato come scelta ultima e alcune letture e film che hanno lasciato il segno.

Seppur il mio sia solo un ridicolo tentativo di svelare il sottile limite che spinge alcuni a valicarlo e altri a ricredersi, sono consapevole che seppur non siano pochi coloro che lo scelgono, molti di più coloro che lo rifuggono, non sono trascurabili nemmeno coloro nei quali, il tema in questione, provochi il sonno, per non dire la noia.

Come è accaduto con Near Death Experience: Paul (impersonato dallo scrittore francese #Houellebecq), è un impiegato che dice alla moglie che sta andando a fare un giro in bici prima di cena, ma in realtà si perde tra rocce e sterpaglie, intenzionato a suicidarsi.

Smettiamola di giocare” – direbbe Camus – “e diventiamo sinceri su ciò che conta”. Pur non essendoci alcuna indicazione che Camus abbia mai considerato di togliersi la vita; il suo saggio rappresenta un esteso esperimento mentale, che affronta l’enigma di come esistere in modo significativo in un universo assurdo.

Tornando a Paul/Houellebecq nel film è ubriaco, incapace di reggere una sigaretta, la linea della bocca costantemente all’ingiù, perché nella vita del suo personaggio, e forse anche nella sua, non c’è di che essere felici. I tentativi di suicidio sono goffi, improbabili, continuamente fallimentari.

«Paul tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza» dice. La rappresentazione della volontà di togliersi la vita è scandalosa di per sé.

Ma in assoluto la battuta, in perfetto stile Houellebecq, che rimane maggiormente impressa è quando, nei molti pensieri di cui Paul ci rende partecipi, sentiamo dire: «Un padre morto è meglio di un padre senza vita».

Brutale gioco di parole che fa subito venire in mente Clancy #Martin e il suo How Not to Kill Yourself: A Portrait of the Suicidal Mind, che inizia con un resoconto schietto del più recente dei numerosi tentativi di suicidio dell’autore.

L’ultima volta che ho cercato di uccidermi” – confessa – “è stato nel mio seminterrato con un guinzaglio per cani“.

Come Camus e Houellebecq, Martin è uno scrittore di narrativa. In How Not to Kill Yourself cerca di comprendere il suicidio sia come filosofia sia come impulso, intrecciando la storia personale, la sua profonda lettura nella letteratura sull’autoannientamento e le preoccupazioni etiche che l’immersione ispira.

Per tutta la vita” – osserva Martin – “ho temuto ed evitato la sofferenza fisica. È una sofferenza mentale che non ho potuto evitare – come del resto nessuno di noi può – ed è stato questo a motivare i miei tentativi di suicidio. Proprio quello che speravo di evitare quando pensavo alla mia morte era un dolore peggiore. Autolesionismo? No grazie. Autoestinguente? Ora hai la mia attenzione”.

Cito questo passaggio perché è intenzionalmente divertente. Martin può essere, come afferma, dipendente dall’ideazione suicidaria, ma è anche consapevole delle incongruenze di questa dipendenza.

UNA QUESTIONE DI SCELTA?

How Not to Kill Yourself riesce pienamente a introdurre la questione della #scelta.

A seguito di un incidente in auto mentre era ubriaco, Martin viene condannato a una breve detenzione in una struttura di minima sicurezza dove, durante il ricovero, gli viene mostrata la porta attraverso la quale potrebbe essere tentato di uscire. La #decisione di restare o andarsene, almeno in senso terapeutico, appartiene a lui. Se fa la seconda scelta, tuttavia, gli viene detto: “’Tieni presente che non appena lo farai – e abbiamo telecamere e allarmi, quindi sapremo quando lo farai – verrà emesso un mandato di arresto. Ma nessuno ti fermerà e nessuno di questa struttura ti inseguirà.”

L’idea del libero arbitrio e le sue implicazioni galvanizzano Martin. Nell’inquadrare il suicidio come una scelta piuttosto che come una costrizione, potremmo trovare un’azione inaspettata, anche se va subito aggiunto che una volta che la genetica o i disturbi psichiatrici entrano in gioco, l’idea di volizione diventa più complicata.

Per Clancy, invece, in How Not to Kill Yourself, la nozione di #scelta è un principio centrale, a cui attribuisce la sua capacità di rimanere in vita: “Per lo stoico, la capacità di suicidarsi è espressione fondamentale e quasi irrevocabile della nostra libertà. Seneca pone la questione in questi termini: Un uomo saggio vivrà quanto deve, non quanto può”.

Eppure, se questa sembra una giustificazione, la morte può essere la scelta più saggia e contiene anche il suo contrario. Come ammette: “Sono sempre stato libero di fare quello che volevo“. Per lui, questo ha significato rimanere in vita.

UN TENTATIVO PER APPREZZARE LA VITA?

Non so voi, ma avendo avuto a che fare con la morte e con il prima e il dopo, un numero troppo alto di volte, non ho potuto non domandarmi:

Cosa si prova a vivere sotto la costante pressione della morte…

Non ci si abitua, se è quello che verrebbe da sperare.

Paul Celan e Primo Levi, sopravvissero all’Olocausto solo per morire suicidi decenni dopo. Levé, Foster Wallace e Nelly Arcan anche loro sono morti per suicidio. Regalandoci resoconti dettagliati e intimi di come si sentissero a continuare a vivere mentre spesso o addirittura costantemente desideravano uccidersi.

Un tentativo per insegnare a chi è in bilico ad apprezzare la vita?

A negarmi tale spiraglio è un’altra scrittrice, Sarah Davys, che in A Time and a Time, ricorda due tentativi di suicidio da cui, si lamenta “non ho riportato nulla“, cioè nessuna informazione utile sulla vita o sulla morte. “È così che mi sembra di aver trascorso gran parte della mia vita avanzando passo dopo passo, costringendomi sempre a guardare l’abisso sotto i miei piedi“.

Saper (con)vivere con l’incertezza non è da tutti. E’ dimostrato che il modo in cui una persona prende decisioni è fra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari. Cinicamente, nessuno sa se arriverà alla fine della giornata, che abbia tendenze suicide o meno. La morte arriva quando vuole.

Dove sta quindi la possibilità di scelta?

Bisogna immaginare Sisifo felice“, scrive Camus alla fine del suo saggio, un riconoscimento della futilità della sua esistenza ma anche della grazia o della consolazione che deriva dalla scelta di accettare il proprio destino.

In ogni caso, per imparare a morire, dobbiamo prima imparare a vivere.

FEEDBACK: li si DESIDERA RICEVERE più di quanto PIACCIA DARLI

Qualche tempo fa, un amico mi chiese un #feedback su un suo speech dove erano presenti un centinaio di persone.

Non è stato un bell’intervento. Non era a suo agio sul palco e nemmeno dimostrò di conoscere a fondo ciò di cui parlava, senza contare che era inciampato in errori grossolani che avevano suscitato l’ilarità di molti dei presenti.

Cercai di svicolare ma vista l’insistenza, mi lasciai convincere a dirgli cosa, a mio avviso, non aveva funzionato. Soprattutto perché uno dei suoi obiettivi a breve termine avrebbe dovuto essere quello di tenere conferenze.

A convincermi a dare un feedback, oltre alla sua insistenza fu anche un episodio che mi capitò ai tempi in cui ancora insegnavo all’università. Colloquiando dei candidati per alcuni progetti, mi trovai di fronte una donna preparata ed entusiasta, che però attribuì una ricerca a un docente sbagliato dell’università in cui lavoravo. Non volendo metterla in difficoltà non dissi nulla. Scoprì poi che rifece lo stesso errore con un altro membro della commissione. Questo mi dispiacque molto poiché se le avessi dato il feedback quando ne ho avevo avuto la possibilità, avrebbe potuto correggersi e non perdere una chance importante per la sua carriera.

Entrambe le esperienze mi hanno lasciato l’amaro in bocca. Difficile però capire quando è utile tacere e quando intervenire, pur sapendo che i feedback sono importanti e, se ben dati, fondamentali per migliorarsi.

Analizzando scientificamente la questione è emerso che spesso le persone preferiscono non dare feedback, anche se viene espressamente loro richiesto.

Secondo le ricerche, le persone esitano e/o evitano di fornire feedback per tre motivi principali:

–      Per non ferire i sentimenti degli altri o metterli in imbarazzo

–      Per non essere visti come portatori di cattive notizie

–      Poiché non riconoscono quanto e quando gli altri vogliono davvero un feedback.

Il terzo motivo è stato frutto di non pochi studi sia sul campo sia in laboratorio, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sul Journal of Personality and Social Psychology.

A essere testato è stato il desiderio di dare e ricevere feedback in ogni tipo di situazione e contesto, con estranei e amici intimi; quando il feedback era meno consequenziale (come pronunciare male una parola) e più consequenziale (come commettere un grave errore durante un’intervista).

I ricercatori hanno scoperto che, in quasi tutte le situazioni, le persone hanno sottovalutato quanto gli altri volessero un feedback.

Uno degli esperimenti ha richiesto di inviare degli assistenti in un campus. Ognuno di loro aveva tracce di cioccolato sul volto e una barretta di cioccolato in mano. Gli assistenti hanno avvicinato degli studenti e chiesto loro di partecipare a un sondaggio: su 155 persone che hanno ammesso di aver notato le tracce di cioccolato, solo quattro (2,6%) hanno informato l’assistente.

Quando in seguito è stato loro chiesto il perché del mancato feedback, il 40% ha detto che non pensavano che il ricercatore volesse saperlo. Il 37% dei commenti si è invece concentrato su motivi: “Non erano affari miei” e “Non volevo essere scortese” e il restante 23%: “Ero di fretta” o “Il ricercatore sembrava occupato.”

Sottovalutare il desiderio di feedback

Non solo non abbiamo l’abitudine di dare feedback ma siamo anche poco bravi a capire quando il nostro interlocutore lo desidera. Tra i destinatari del feedback, l’86% ha dichiarato di volerlo ricevere, ma solo il 48% ha voluto darlo.

Come capire quando gli altri vogliono il nostro feedback?

Con un gruppo di partecipanti online assegnati in modo casuale a dare o ricevere feedback, sono stati testati due interventi.

In uno, è stato chiesto ai partecipanti incaricati di fornire feedback, di mettersi nei panni dell’altra persona prima di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback. “Se tu fossi stato in quella situazione, quanto pensi che avresti voluto che qualcuno te ne parlasse?”

Nell’altro intervento, è stato chiesto loro di immaginare che qualcun altro (non loro) avrebbe dato alla persona un feedback.

In entrambe le condizioni, dopo che i partecipanti avevano svolto l’esercizio assumendo la prospettiva dell’altra persona o dissociandosi, è stato chiesto di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback.

Si è così scoperto che entrambi gli interventi hanno reso i potenziali donatori di feedback più accurati nel prevedere il desiderio di feedback dei riceventi, ma è il primo tipo di intervento a dimostrarsi più efficace.

Tuttavia, nessuno dei due interventi ha colmato completamente il divario tra le stime dei donatori e le relazioni dei riceventi. Anche dopo essersi messi nei panni altrui, le persone continuavano a sottovalutare il desiderio di feedback dei destinatari, sebbene le loro previsioni fossero più vicine alle valutazioni dei destinatari rispetto alle stime di coloro che fornivano feedback nel gruppo di controllo.

In altre parole, gli interventi hanno aiutato, ma ancora non hanno colmato del tutto il divario tra il previsto desiderio di feedback da parte di chi dà e quello effettivo di chi riceve.

Dovremmo o non dovremmo dare feedback?

Gli studi suggeriscono che le persone desiderano il nostro feedback più di quanto pensiamo. Se dovessimo esitare sull’opportunità di dare un feedback a qualcuno, utile è provare uno dei due interventi citati. Questo potrebbe aiutare a capire quanto l’altra persona desideri il feedback e potrebbe renderci più propensi a fornire effettivamente il nostro parere.

Forse se mi fossi messa nei panni della candidata da colloquiare, l’avrei corretta e ne sarebbe stata grata. Nel primo caso invece, forse mi sarei accorta che la richiesta del mio amico non era tanto di un feedback quanto di un incoraggiamento. A prescindere.

E tu, che rapporto hai con i feedback?

fonti

  • Abi-Esber, N., Abel, J., Schroeder, J., Gino, F. (2022). “Just wanted to let you know…” Underestimating others’ desire for constructive feedback. Journal of Personality and Social Psychology, 123(6), 1362–1385.
  • Abel, J., Vani, P., Abi-Esber, N., Blunden, H., Schroeder, J. (2022). Kindness in Short Supply: Evidence for Inadequate Prosocial Input. Current Opinion in Psychology, 101458.
  • Moyer, M. W. (2022). The Case for Criticism. The New York Times.

NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

COME SVILUPPARE la CAPACITA’ di DELEGA. Il mio APPROCCIO nel TROVARE SOLUZIONI

“Non è così che il lavoro andava fatto… “Mi costringete sempre ad intervenire… “Incompetenti e ingrati. Ecco quello che siete…

Aggirandomi per gli uffici, dialogando con le persone, ascoltando e osservando, ho raccolto i modelli comunicativi e comportamentali che abitavano un’interessante realtà italiana, dalle grandi potenzialità ma più impegnata a risolvere conflitti che a fare business. Più avvolta su se stessa che focalizzata all’obiettivo.

Il mio cliente è un imprenditore intelligente e capace, sconfortato e preoccupato della scarsa motivazione e collaborazione dei dipendenti, sottoposto a un carico di lavoro disumano perché costretto quotidianamente ad intervenire sulle inefficienze dei collaboratori. “Delego di continuo – si lamentava – ma poi sono continuamente costretto ad intervenire perché il lavoro non viene svolto in modo per me soddisfacente”.

Risultato: i collaboratori si sentivano dequalificati, demotivati, con un’autostima in crollo verticale e progetti e obiettivi a rischio boicottaggio, senza contare l’aumento di vertenze sindacali.

In casi come questo, spesso il capo è spinto dalla paura (non sempre consapevole) di non riuscire a mantenere l’azienda solida, di perdere credibilità, clienti, tutte cose conquistate in decenni di duro lavoro e sacrifici personali al limite dell’impossibile.

Per questo la credenza che si era costruito era pensare di non aver bisogno di nessuno per fare le cose, avendole sempre fatte da solo e bene…, anzi… “meglio degli altri”. Finendo di fatto in un loop, più si sostituiva ai collaboratori percepiti come lenti, incapaci, imprecisi e più questi diventavano sempre meno indipendenti ed efficienti.

Intervenire per evitare un inesorabile crollo della qualità e dell’immagine dell’azienda era fondamentale. La mia supervisione ha avuto come obiettivo portare l’imprenditore a sentire che il suo comportamento (che prevedeva di sostituirsi ai collaboratori), gli permetteva sì di mantenere gli alti standard prefissati proprio perché ci metteva del suo senza riserve, ma la sua costante e assidua solerzia nel sostituirsi agli altri, impediva loro di imparare, fare esperienza, costringendoli in una posizione di inferiorità e di delegittimazione. Tutte le volte che aiutava i collaboratori contribuiva a renderli meno affidabili e capaci.

L’imprenditore ha così potuto ampliare gli strumenti a disposizione (nello specifico la capacità di delega), sviluppare la flessibilità e considerare le situazioni da differenti punti di vista, fino a quel momento inesplorati, sostituendo una strategia e un comportamento non funzionali, con abilità più efficaci ed efficienti. Per se stesso e l’azienda.

(NON) è SOLO una COINCIDENZA

Ci sono coincidenze che possono cambiare la vita. Come quella di pensare a un amico che non si incontra da tempo e ricevere una sua telefonata nello stesso tempo in cui lo si pensa. O quella che porta i giocatori d’azzardo a interpretare come significativa una sequenza di numeri alla roulette. In realtà ogni volta che esce un colore, al giro di ruota successivo la possibilità che la pallina cada sul rosso o sul nero è sempre del 50 per cento.

Allo stesso modo dovremmo imparare a tener conto di tutte le volte che abbiamo pensato a un amico e le volte che quell’amico ci ha telefonato all’istante. Ci accorgeremmo presto che la correlazione è statisticamente irrilevante.

Eppure, la tentazione ad attribuire un significato più grande a un’esperienza è profondamente umana. Perché ci aiuta a riempire di senso un mistero sottile e invisibile che rende più sopportabili le nostre sofferenze e ansie.

Questo spiega il successo delle religioni, o dei guru di passaggio, dei santoni più simili a falsi mercanti. In fondo quando leggiamo un libro o guardiamo un film siamo consci che non è la realtà, ma questo non ci preclude il coinvolgimento.

Non a caso le persone che credono nelle coincidenze, nei complotti e nei fenomeni paranormali sono, a detta della scienza, meno portate al ragionamento probabilistico e alla statistica (Università di Bristol, Goldsmiths, e University of London). Di fatto la maggior parte di noi è impreparata a valutare la probabilità degli eventi, per questo quando l’amico dimenticato chiama tendiamo a dargli un significato sproporzionato.

Prendiamo un altro esempio: il paradosso del compleanno. Quante persone devono entrare in una stanza affinchè statisticamente ce ne siano almeno due nate nello stesso giorno dello stesso mese? Sono statisticamente sufficienti 23 persone per avere una probabilità superiore al 50 per cento di trovarne due. Per una probabilità del 99,9 per cento ne bastano 70.

COSA CI DICE TUTTO QUESTO?

Siamo molto bravi ad attribuire un senso grandissimo a eventi con una probabilità eccezionalmente bassa di verificarsi, ma non così improbabili come pensiamo. O meglio, potrebbero anche esserlo ma in un pianeta di 7 miliardi di persone, anche gli eventi più improbabili si fanno relativamente comuni.

A dimostrarlo la legge dei grandi numeri secondo cui un grande campione statistico alla fine porta sostanzialmente a qualsiasi risultato. Molte sono le persone che sono sopravvissute a una calamità naturale anche più volte, o che hanno vinto alla lotteria più di una volta.

Nonostante la spiegazione matematica non lasci dubbi, in molti non si rassegnano a non credere al caso. Anche perché supportare le coincidenze può fare ricchi molti. Se non occorre la scientificità a dimostrare un evento, una guarigione, un episodio, tutti diventiamo bravi e necessari in qualcosa.

CORRELAZIONE VS CAUSALITA’

Finché però il discorso è legato alle scie chimiche, i danni che ne derivano sono marginali, tutt’altra cosa quando si tenta di associazione l’aumento dei casi di autismo all’aumento dei numeri di vaccini somministrati – spiega David Hand, statistico e professore di matematica all’Imperial college di Londra -. L’autismo spesso di manifesta nello stesso periodo in cui sono effettuate le vaccinazioni, ma confondere la correlazione con la causalità, credere alle coincidenze può portare a prendere decisioni non sulla base di prove concrete ma di mezze teorie pseudoscientifiche”.

Non saper dire esattamente perché certi eventi accadono, non vuol dire che abbiano un significato. Sta a noi riempire il vuoto che i misteri della vita ci lasciano.

Se mentre mio fratello muore annegato a migliaia di chilometri di distanza, nello stesso istante anch’io mi sono sentito soffocare posso sapere che fra le due cose non c’è collegamento. Ma se lascio vagare il pensiero, magari scoprirò un nuovo modo di piangere la sua morte.

La nostra debolezza è quella di voler cercare a tutti costi un significato per ogni accadimento. Per trovare un punto di incontro fra mente e spirito. Un amico che ci chiama nell’istate stesso che lo pensiamo è solo un telefono che squilla, finché non decido che è qualcos’altro.

Ps. Non è un caso se di coincidenze ne vengano segnalate a migliaia e se volete sbizzarrirvi vi invito a visitare Cambridge Coincidences Collection, pagina creata da David Speigelharter (università di Cambridge).

NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

CARRIERA E FAMIGLIA: la DELICATA POTENZA dell’EQUILIBRIO

“Non sono una #workaholic come la maggior parte delle donne partner di questo studio, voglio avere presto un figlio, rincasare a orari normali, e non consumarmi in estenuanti gare a chi è l’ultimo a lasciare l’ufficio in virtù di un autoinganno, la rincorsa al potere che una volta che si raggiunge si frantuma in una lotta a sentirsi indispensabili abnegando se stessi”.

Se non fosse per gli anni di esperienza che mi porto addosso, avrei sicuramente portato sul personale questa conversazione. Ho respirato a fondo, invece, cercando di supportare la giovane manager nel modo più efficace che conoscevo. Pur sapendo che quel tema non si sarebbe esaurito nel corso di una sola chiacchierata.

“Ho visto il mio capo, donna, arrivare ad abdicare i propri valori. Accettare compromessi inimmaginabili, affinare l’arte della manipolazione, per il bene comune. Ma qual è il bene comune? Quello dello studio, della società o di se stessi?”.

Il potere cambia. E’ giusto sia cosi. Non è corruzione, piuttosto una nuova sicurezza e consapevolezza che si esplicita anche attraverso segni esteriori, grazie ai quali imporsi con maggior vigore.

Spesso – rifletto – le donne lo dimenticano: l’abbigliamento elegante non è vanità, sul luogo di lavoro è segno distintivo e di potere. Gli uomini lo sanno, con i loro completi perfetti. Le donne sentono di dover giustificare sempre qualcosa.

La consapevolezza di sé, è lo specchio di una abilità acquisita: il controllo di ciò che si è conquistato. Conquista che spesso presuppone un costo: centellinare la vita privata, come si fa con i dolci sotto dieta. Una dieta che però può trasformarsi in una dipendenza.

“Ha messo la carriera in cima alle sue priorità a discapito di tutti gli altri aspetti della sua vita. È triste, quasi inquietante, vederla ogni volta compromettere la sua vita privata. Il lavoro le è costato tantissimo: il matrimonio, il rapporto con il figlio. E’ una delle più brave professioniste nel suo campo, ma per diventarlo ha perso tutto ciò di cui aveva di più caro. Non voglio vivere la medesima solitudine, con le amiche più care a rincorrere l’agone della famiglia”.

Ascoltando la giovane manager, comprendo altrettanto bene il suo capo: due donne agli estremi, in comune la medesima battaglia. La difesa di valori personali e antitetici. Due facce della stessa medaglia. Ognuna con il proprio significato svelato, di cosa è veramente importante per il raggiungimento della (rispettiva) felicità.

Valori difficili da condividere, soprattutto con gli uomini che si sa, non sono soliti far sconti quando si tratta di sesso debole, più propensi a sfoderare un sordo antagonismo. Ma se poi la donna arriva a gestire il potere, sono proprio le altre donne ad aiutarla a ritrovare dentro di sé le doti tipiche di genere e a reimparare ad usarle, facendo spesso da leva per imporre sul lavoro un codice più visionario per lo sviluppo di un’organizazione più moderna e flessibile.

Il segreto, difficile ma necessario, confido alla giovane donna poco prima di salutarci, è trovare l’equilibrio fra doti maschili e femminili, fra valori e desideri, ricalibrandoli giorno dopo giorno nel rispetto di ciò che è più importante per se stessi.

L’autoinganno della disponibilità, dove vogliamo tutto in ogni momento e pensiamo di raggiungere tutto in qualsiasi istante, la famiglia perfetta, la relazione perfetta, i figli perfetti e il lavoro perfetto, è una delle trappole più audaci e perseveranti, alla quale cediamo. Miraggio o peccato universale? Guardare ma non toccare. Il biglietto omaggio per la vanità.

UMILTA’, AMBIZIONE e VOGLIA di MIGLIORARSI: le CARATTERISTICHE del LEADER EFFICACE (e con i MIGLIORI RISULTATI ECONOMICI)

Umile e ambizioso. A proprio agio dentro abiti da grandi magazzini, amante della solitudine e del perfezionismo “non smetto mai di migliorarmi in modo da essere quanto più possibile all’altezza del ruolo”.

Libero di definire il suo stile di leadership “eccentrico” al Wall Street Journal. E capace di generare un valore cumulativo delle azioni 4,1 volte più alto del mercato generale nei vent’anni (fra il 1971 e il 1991) in cui rivestì il ruolo di amministratore delegato alla Kimberly-Clark.

Così coraggioso da vendere gli stabilimenti per investire nel mercato del largo consumo e in marchi come Kleenex e Huggies, seppur molti definissero stupida quella mossa, e contro tutte le previsioni l’azienda divenne la cartiera più grande al mondo, sbaragliando ogni concorrente.

Umiltà e ambizione, insieme a tenacia e voglia di migliorarsi: furono i fattori critici di successo di questo uomo schivo, sconosciuto ai più, capace di imporre uno stile di leadership controcorrente. Lo stesso che si scopre tra i manager di successo come Bill Gates, Michele Ferrero, Enzo Ferrari, Brenda Barnes (prima donna a diventare AD alla Pepsi), Charles Schwab e James Copeland (Deloitte Touche Tohmatsu), Lou Gerstner (IBM), Elon Musk (Tesla Motors) Warren Buffet… per citarne alcuni.

“Tra i leader più efficaci con cui ho lavorato – ha scritto Peter Drucker – alcuni si barricavano in ufficio e altri erano super socievoli. Alcuni erano istintivi, altri studiavano la situazione e impiegavano tempo per arrivare a una decisione. L’unico tratto che avevano in comune era la mancanza: tutti dimostravano nessuno o poco carisma”. A sostegno gli studi del prof. Agle, che analizzando i CEO di 128 grandi società, scoprì che coloro che erano reputati più carismatici potevano vantare retribuzioni più alte ma non risultati economici migliori.

“Ad alcune persone si dà autorità solo perché parlano bene e hanno buona presenza scenica. E’ fin troppo facile confondere la buona parlantina con il talento – ha spiegato il colonnello S. Gerras, docente di scienza del comportamento allo US Army War College -. Chi si presenta come un buon comunicatore, vede premiate certe caratteristiche perché si tende a dare eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Un altro studio noto è quello condotto da Jim Collins che evidenziò come molte delle migliori aziende di fine ‘900 erano capitanate da manager straordinari noti non per il loro carisma o per la loro esuberanza ma per l’umiltà estrema associata a una indiscutibile professionalità, come ben descritto nel suo testo ”Good to Great”. Leader pacati, umili, riservati, timidi, schivi.

Sintetizzando: abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’esuberanza dei leader. Quando in realtà abbiamo più bisogno di leader capaci di far crescere non il proprio ego ma le organizzazioni che dirigono. O per dirla in un altro modo: umile non è chi PENSA POCO DI se stesso ma chi PENSA POCO A se stesso.