FEEDBACK: li si DESIDERA RICEVERE più di quanto PIACCIA DARLI

Qualche tempo fa, un amico mi chiese un #feedback su un suo speech dove erano presenti un centinaio di persone.

Non è stato un bell’intervento. Non era a suo agio sul palco e nemmeno dimostrò di conoscere a fondo ciò di cui parlava, senza contare che era inciampato in errori grossolani che avevano suscitato l’ilarità di molti dei presenti.

Cercai di svicolare ma vista l’insistenza, mi lasciai convincere a dirgli cosa, a mio avviso, non aveva funzionato. Soprattutto perché uno dei suoi obiettivi a breve termine avrebbe dovuto essere quello di tenere conferenze.

A convincermi a dare un feedback, oltre alla sua insistenza fu anche un episodio che mi capitò ai tempi in cui ancora insegnavo all’università. Colloquiando dei candidati per alcuni progetti, mi trovai di fronte una donna preparata ed entusiasta, che però attribuì una ricerca a un docente sbagliato dell’università in cui lavoravo. Non volendo metterla in difficoltà non dissi nulla. Scoprì poi che rifece lo stesso errore con un altro membro della commissione. Questo mi dispiacque molto poiché se le avessi dato il feedback quando ne ho avevo avuto la possibilità, avrebbe potuto correggersi e non perdere una chance importante per la sua carriera.

Entrambe le esperienze mi hanno lasciato l’amaro in bocca. Difficile però capire quando è utile tacere e quando intervenire, pur sapendo che i feedback sono importanti e, se ben dati, fondamentali per migliorarsi.

Analizzando scientificamente la questione è emerso che spesso le persone preferiscono non dare feedback, anche se viene espressamente loro richiesto.

Secondo le ricerche, le persone esitano e/o evitano di fornire feedback per tre motivi principali:

–      Per non ferire i sentimenti degli altri o metterli in imbarazzo

–      Per non essere visti come portatori di cattive notizie

–      Poiché non riconoscono quanto e quando gli altri vogliono davvero un feedback.

Il terzo motivo è stato frutto di non pochi studi sia sul campo sia in laboratorio, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sul Journal of Personality and Social Psychology.

A essere testato è stato il desiderio di dare e ricevere feedback in ogni tipo di situazione e contesto, con estranei e amici intimi; quando il feedback era meno consequenziale (come pronunciare male una parola) e più consequenziale (come commettere un grave errore durante un’intervista).

I ricercatori hanno scoperto che, in quasi tutte le situazioni, le persone hanno sottovalutato quanto gli altri volessero un feedback.

Uno degli esperimenti ha richiesto di inviare degli assistenti in un campus. Ognuno di loro aveva tracce di cioccolato sul volto e una barretta di cioccolato in mano. Gli assistenti hanno avvicinato degli studenti e chiesto loro di partecipare a un sondaggio: su 155 persone che hanno ammesso di aver notato le tracce di cioccolato, solo quattro (2,6%) hanno informato l’assistente.

Quando in seguito è stato loro chiesto il perché del mancato feedback, il 40% ha detto che non pensavano che il ricercatore volesse saperlo. Il 37% dei commenti si è invece concentrato su motivi: “Non erano affari miei” e “Non volevo essere scortese” e il restante 23%: “Ero di fretta” o “Il ricercatore sembrava occupato.”

Sottovalutare il desiderio di feedback

Non solo non abbiamo l’abitudine di dare feedback ma siamo anche poco bravi a capire quando il nostro interlocutore lo desidera. Tra i destinatari del feedback, l’86% ha dichiarato di volerlo ricevere, ma solo il 48% ha voluto darlo.

Come capire quando gli altri vogliono il nostro feedback?

Con un gruppo di partecipanti online assegnati in modo casuale a dare o ricevere feedback, sono stati testati due interventi.

In uno, è stato chiesto ai partecipanti incaricati di fornire feedback, di mettersi nei panni dell’altra persona prima di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback. “Se tu fossi stato in quella situazione, quanto pensi che avresti voluto che qualcuno te ne parlasse?”

Nell’altro intervento, è stato chiesto loro di immaginare che qualcun altro (non loro) avrebbe dato alla persona un feedback.

In entrambe le condizioni, dopo che i partecipanti avevano svolto l’esercizio assumendo la prospettiva dell’altra persona o dissociandosi, è stato chiesto di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback.

Si è così scoperto che entrambi gli interventi hanno reso i potenziali donatori di feedback più accurati nel prevedere il desiderio di feedback dei riceventi, ma è il primo tipo di intervento a dimostrarsi più efficace.

Tuttavia, nessuno dei due interventi ha colmato completamente il divario tra le stime dei donatori e le relazioni dei riceventi. Anche dopo essersi messi nei panni altrui, le persone continuavano a sottovalutare il desiderio di feedback dei destinatari, sebbene le loro previsioni fossero più vicine alle valutazioni dei destinatari rispetto alle stime di coloro che fornivano feedback nel gruppo di controllo.

In altre parole, gli interventi hanno aiutato, ma ancora non hanno colmato del tutto il divario tra il previsto desiderio di feedback da parte di chi dà e quello effettivo di chi riceve.

Dovremmo o non dovremmo dare feedback?

Gli studi suggeriscono che le persone desiderano il nostro feedback più di quanto pensiamo. Se dovessimo esitare sull’opportunità di dare un feedback a qualcuno, utile è provare uno dei due interventi citati. Questo potrebbe aiutare a capire quanto l’altra persona desideri il feedback e potrebbe renderci più propensi a fornire effettivamente il nostro parere.

Forse se mi fossi messa nei panni della candidata da colloquiare, l’avrei corretta e ne sarebbe stata grata. Nel primo caso invece, forse mi sarei accorta che la richiesta del mio amico non era tanto di un feedback quanto di un incoraggiamento. A prescindere.

E tu, che rapporto hai con i feedback?

fonti

  • Abi-Esber, N., Abel, J., Schroeder, J., Gino, F. (2022). “Just wanted to let you know…” Underestimating others’ desire for constructive feedback. Journal of Personality and Social Psychology, 123(6), 1362–1385.
  • Abel, J., Vani, P., Abi-Esber, N., Blunden, H., Schroeder, J. (2022). Kindness in Short Supply: Evidence for Inadequate Prosocial Input. Current Opinion in Psychology, 101458.
  • Moyer, M. W. (2022). The Case for Criticism. The New York Times.

NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

COME SVILUPPARE la CAPACITA’ di DELEGA. Il mio APPROCCIO nel TROVARE SOLUZIONI

“Non è così che il lavoro andava fatto… “Mi costringete sempre ad intervenire… “Incompetenti e ingrati. Ecco quello che siete…

Aggirandomi per gli uffici, dialogando con le persone, ascoltando e osservando, ho raccolto i modelli comunicativi e comportamentali che abitavano un’interessante realtà italiana, dalle grandi potenzialità ma più impegnata a risolvere conflitti che a fare business. Più avvolta su se stessa che focalizzata all’obiettivo.

Il mio cliente è un imprenditore intelligente e capace, sconfortato e preoccupato della scarsa motivazione e collaborazione dei dipendenti, sottoposto a un carico di lavoro disumano perché costretto quotidianamente ad intervenire sulle inefficienze dei collaboratori. “Delego di continuo – si lamentava – ma poi sono continuamente costretto ad intervenire perché il lavoro non viene svolto in modo per me soddisfacente”.

Risultato: i collaboratori si sentivano dequalificati, demotivati, con un’autostima in crollo verticale e progetti e obiettivi a rischio boicottaggio, senza contare l’aumento di vertenze sindacali.

In casi come questo, spesso il capo è spinto dalla paura (non sempre consapevole) di non riuscire a mantenere l’azienda solida, di perdere credibilità, clienti, tutte cose conquistate in decenni di duro lavoro e sacrifici personali al limite dell’impossibile.

Per questo la credenza che si era costruito era pensare di non aver bisogno di nessuno per fare le cose, avendole sempre fatte da solo e bene…, anzi… “meglio degli altri”. Finendo di fatto in un loop, più si sostituiva ai collaboratori percepiti come lenti, incapaci, imprecisi e più questi diventavano sempre meno indipendenti ed efficienti.

Intervenire per evitare un inesorabile crollo della qualità e dell’immagine dell’azienda era fondamentale. La mia supervisione ha avuto come obiettivo portare l’imprenditore a sentire che il suo comportamento (che prevedeva di sostituirsi ai collaboratori), gli permetteva sì di mantenere gli alti standard prefissati proprio perché ci metteva del suo senza riserve, ma la sua costante e assidua solerzia nel sostituirsi agli altri, impediva loro di imparare, fare esperienza, costringendoli in una posizione di inferiorità e di delegittimazione. Tutte le volte che aiutava i collaboratori contribuiva a renderli meno affidabili e capaci.

L’imprenditore ha così potuto ampliare gli strumenti a disposizione (nello specifico la capacità di delega), sviluppare la flessibilità e considerare le situazioni da differenti punti di vista, fino a quel momento inesplorati, sostituendo una strategia e un comportamento non funzionali, con abilità più efficaci ed efficienti. Per se stesso e l’azienda.

(NON) è SOLO una COINCIDENZA

Ci sono coincidenze che possono cambiare la vita. Come quella di pensare a un amico che non si incontra da tempo e ricevere una sua telefonata nello stesso tempo in cui lo si pensa. O quella che porta i giocatori d’azzardo a interpretare come significativa una sequenza di numeri alla roulette. In realtà ogni volta che esce un colore, al giro di ruota successivo la possibilità che la pallina cada sul rosso o sul nero è sempre del 50 per cento.

Allo stesso modo dovremmo imparare a tener conto di tutte le volte che abbiamo pensato a un amico e le volte che quell’amico ci ha telefonato all’istante. Ci accorgeremmo presto che la correlazione è statisticamente irrilevante.

Eppure, la tentazione ad attribuire un significato più grande a un’esperienza è profondamente umana. Perché ci aiuta a riempire di senso un mistero sottile e invisibile che rende più sopportabili le nostre sofferenze e ansie.

Questo spiega il successo delle religioni, o dei guru di passaggio, dei santoni più simili a falsi mercanti. In fondo quando leggiamo un libro o guardiamo un film siamo consci che non è la realtà, ma questo non ci preclude il coinvolgimento.

Non a caso le persone che credono nelle coincidenze, nei complotti e nei fenomeni paranormali sono, a detta della scienza, meno portate al ragionamento probabilistico e alla statistica (Università di Bristol, Goldsmiths, e University of London). Di fatto la maggior parte di noi è impreparata a valutare la probabilità degli eventi, per questo quando l’amico dimenticato chiama tendiamo a dargli un significato sproporzionato.

Prendiamo un altro esempio: il paradosso del compleanno. Quante persone devono entrare in una stanza affinchè statisticamente ce ne siano almeno due nate nello stesso giorno dello stesso mese? Sono statisticamente sufficienti 23 persone per avere una probabilità superiore al 50 per cento di trovarne due. Per una probabilità del 99,9 per cento ne bastano 70.

COSA CI DICE TUTTO QUESTO?

Siamo molto bravi ad attribuire un senso grandissimo a eventi con una probabilità eccezionalmente bassa di verificarsi, ma non così improbabili come pensiamo. O meglio, potrebbero anche esserlo ma in un pianeta di 7 miliardi di persone, anche gli eventi più improbabili si fanno relativamente comuni.

A dimostrarlo la legge dei grandi numeri secondo cui un grande campione statistico alla fine porta sostanzialmente a qualsiasi risultato. Molte sono le persone che sono sopravvissute a una calamità naturale anche più volte, o che hanno vinto alla lotteria più di una volta.

Nonostante la spiegazione matematica non lasci dubbi, in molti non si rassegnano a non credere al caso. Anche perché supportare le coincidenze può fare ricchi molti. Se non occorre la scientificità a dimostrare un evento, una guarigione, un episodio, tutti diventiamo bravi e necessari in qualcosa.

CORRELAZIONE VS CAUSALITA’

Finché però il discorso è legato alle scie chimiche, i danni che ne derivano sono marginali, tutt’altra cosa quando si tenta di associazione l’aumento dei casi di autismo all’aumento dei numeri di vaccini somministrati – spiega David Hand, statistico e professore di matematica all’Imperial college di Londra -. L’autismo spesso di manifesta nello stesso periodo in cui sono effettuate le vaccinazioni, ma confondere la correlazione con la causalità, credere alle coincidenze può portare a prendere decisioni non sulla base di prove concrete ma di mezze teorie pseudoscientifiche”.

Non saper dire esattamente perché certi eventi accadono, non vuol dire che abbiano un significato. Sta a noi riempire il vuoto che i misteri della vita ci lasciano.

Se mentre mio fratello muore annegato a migliaia di chilometri di distanza, nello stesso istante anch’io mi sono sentito soffocare posso sapere che fra le due cose non c’è collegamento. Ma se lascio vagare il pensiero, magari scoprirò un nuovo modo di piangere la sua morte.

La nostra debolezza è quella di voler cercare a tutti costi un significato per ogni accadimento. Per trovare un punto di incontro fra mente e spirito. Un amico che ci chiama nell’istate stesso che lo pensiamo è solo un telefono che squilla, finché non decido che è qualcos’altro.

Ps. Non è un caso se di coincidenze ne vengano segnalate a migliaia e se volete sbizzarrirvi vi invito a visitare Cambridge Coincidences Collection, pagina creata da David Speigelharter (università di Cambridge).

NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

CARRIERA E FAMIGLIA: la DELICATA POTENZA dell’EQUILIBRIO

“Non sono una #workaholic come la maggior parte delle donne partner di questo studio, voglio avere presto un figlio, rincasare a orari normali, e non consumarmi in estenuanti gare a chi è l’ultimo a lasciare l’ufficio in virtù di un autoinganno, la rincorsa al potere che una volta che si raggiunge si frantuma in una lotta a sentirsi indispensabili abnegando se stessi”.

Se non fosse per gli anni di esperienza che mi porto addosso, avrei sicuramente portato sul personale questa conversazione. Ho respirato a fondo, invece, cercando di supportare la giovane manager nel modo più efficace che conoscevo. Pur sapendo che quel tema non si sarebbe esaurito nel corso di una sola chiacchierata.

“Ho visto il mio capo, donna, arrivare ad abdicare i propri valori. Accettare compromessi inimmaginabili, affinare l’arte della manipolazione, per il bene comune. Ma qual è il bene comune? Quello dello studio, della società o di se stessi?”.

Il potere cambia. E’ giusto sia cosi. Non è corruzione, piuttosto una nuova sicurezza e consapevolezza che si esplicita anche attraverso segni esteriori, grazie ai quali imporsi con maggior vigore.

Spesso – rifletto – le donne lo dimenticano: l’abbigliamento elegante non è vanità, sul luogo di lavoro è segno distintivo e di potere. Gli uomini lo sanno, con i loro completi perfetti. Le donne sentono di dover giustificare sempre qualcosa.

La consapevolezza di sé, è lo specchio di una abilità acquisita: il controllo di ciò che si è conquistato. Conquista che spesso presuppone un costo: centellinare la vita privata, come si fa con i dolci sotto dieta. Una dieta che però può trasformarsi in una dipendenza.

“Ha messo la carriera in cima alle sue priorità a discapito di tutti gli altri aspetti della sua vita. È triste, quasi inquietante, vederla ogni volta compromettere la sua vita privata. Il lavoro le è costato tantissimo: il matrimonio, il rapporto con il figlio. E’ una delle più brave professioniste nel suo campo, ma per diventarlo ha perso tutto ciò di cui aveva di più caro. Non voglio vivere la medesima solitudine, con le amiche più care a rincorrere l’agone della famiglia”.

Ascoltando la giovane manager, comprendo altrettanto bene il suo capo: due donne agli estremi, in comune la medesima battaglia. La difesa di valori personali e antitetici. Due facce della stessa medaglia. Ognuna con il proprio significato svelato, di cosa è veramente importante per il raggiungimento della (rispettiva) felicità.

Valori difficili da condividere, soprattutto con gli uomini che si sa, non sono soliti far sconti quando si tratta di sesso debole, più propensi a sfoderare un sordo antagonismo. Ma se poi la donna arriva a gestire il potere, sono proprio le altre donne ad aiutarla a ritrovare dentro di sé le doti tipiche di genere e a reimparare ad usarle, facendo spesso da leva per imporre sul lavoro un codice più visionario per lo sviluppo di un’organizazione più moderna e flessibile.

Il segreto, difficile ma necessario, confido alla giovane donna poco prima di salutarci, è trovare l’equilibrio fra doti maschili e femminili, fra valori e desideri, ricalibrandoli giorno dopo giorno nel rispetto di ciò che è più importante per se stessi.

L’autoinganno della disponibilità, dove vogliamo tutto in ogni momento e pensiamo di raggiungere tutto in qualsiasi istante, la famiglia perfetta, la relazione perfetta, i figli perfetti e il lavoro perfetto, è una delle trappole più audaci e perseveranti, alla quale cediamo. Miraggio o peccato universale? Guardare ma non toccare. Il biglietto omaggio per la vanità.

UMILTA’, AMBIZIONE e VOGLIA di MIGLIORARSI: le CARATTERISTICHE del LEADER EFFICACE (e con i MIGLIORI RISULTATI ECONOMICI)

Umile e ambizioso. A proprio agio dentro abiti da grandi magazzini, amante della solitudine e del perfezionismo “non smetto mai di migliorarmi in modo da essere quanto più possibile all’altezza del ruolo”.

Libero di definire il suo stile di leadership “eccentrico” al Wall Street Journal. E capace di generare un valore cumulativo delle azioni 4,1 volte più alto del mercato generale nei vent’anni (fra il 1971 e il 1991) in cui rivestì il ruolo di amministratore delegato alla Kimberly-Clark.

Così coraggioso da vendere gli stabilimenti per investire nel mercato del largo consumo e in marchi come Kleenex e Huggies, seppur molti definissero stupida quella mossa, e contro tutte le previsioni l’azienda divenne la cartiera più grande al mondo, sbaragliando ogni concorrente.

Umiltà e ambizione, insieme a tenacia e voglia di migliorarsi: furono i fattori critici di successo di questo uomo schivo, sconosciuto ai più, capace di imporre uno stile di leadership controcorrente. Lo stesso che si scopre tra i manager di successo come Bill Gates, Michele Ferrero, Enzo Ferrari, Brenda Barnes (prima donna a diventare AD alla Pepsi), Charles Schwab e James Copeland (Deloitte Touche Tohmatsu), Lou Gerstner (IBM), Elon Musk (Tesla Motors) Warren Buffet… per citarne alcuni.

“Tra i leader più efficaci con cui ho lavorato – ha scritto Peter Drucker – alcuni si barricavano in ufficio e altri erano super socievoli. Alcuni erano istintivi, altri studiavano la situazione e impiegavano tempo per arrivare a una decisione. L’unico tratto che avevano in comune era la mancanza: tutti dimostravano nessuno o poco carisma”. A sostegno gli studi del prof. Agle, che analizzando i CEO di 128 grandi società, scoprì che coloro che erano reputati più carismatici potevano vantare retribuzioni più alte ma non risultati economici migliori.

“Ad alcune persone si dà autorità solo perché parlano bene e hanno buona presenza scenica. E’ fin troppo facile confondere la buona parlantina con il talento – ha spiegato il colonnello S. Gerras, docente di scienza del comportamento allo US Army War College -. Chi si presenta come un buon comunicatore, vede premiate certe caratteristiche perché si tende a dare eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Un altro studio noto è quello condotto da Jim Collins che evidenziò come molte delle migliori aziende di fine ‘900 erano capitanate da manager straordinari noti non per il loro carisma o per la loro esuberanza ma per l’umiltà estrema associata a una indiscutibile professionalità, come ben descritto nel suo testo ”Good to Great”. Leader pacati, umili, riservati, timidi, schivi.

Sintetizzando: abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’esuberanza dei leader. Quando in realtà abbiamo più bisogno di leader capaci di far crescere non il proprio ego ma le organizzazioni che dirigono. O per dirla in un altro modo: umile non è chi PENSA POCO DI se stesso ma chi PENSA POCO A se stesso.

VOGLIO e NON VOGLIO. L’INDECISIONE può farsi VIRTU’

Amore e odio. Felicità e tristezza. Paura e desiderio. Attrazione e repulsione. Rabbia e dolcezza.

Quante volte li viviamo entrambi, nello stesso tempo… Si chiama #ambivalenza questo altalenare di sentimenti, parte della vita, dai tempi di Cicerone, quando scriveva “Ama come se più tardi dovessi odiare”, e chissà quanti altri ancora, prima di lui.

Ci si sente “tirati” da due parti contrapposte, non a caso è insito nell’etimo (ambi = entrambi e valentia = forza), e non accade solo in amore: possiamo provare contemporaneamente paura e desiderio di buttarci con il paracadute, o attrazione e avversione (specie se siamo a dieta) nei confronti di una sacher torte.

Possiamo sentirci allettati e respinti da un’offerta di lavoro, da sembrare interessante quanto faticosa e piena di insidia. E possiamo nutrire sentimenti ambivalenti per un partito politico, un personaggio famoso, una squadra sportiva. O verso l’idea di iscriverci in piscina o in palestra (mi farebbe bene! Nuotare è noiosissimo!).

Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo, i nostri comportamenti diventano più contraddittori e meno prevedibili. Per districarci ci tocca cimentarci in un salto di ragionamento. Un pensare al modo in cui stiamo pensando, arrivando a scrivere, su una scala da 1 a 10, quanto vale la nostra attrazione e quanto la nostra repulsione.

In pratica quando siamo lontani, le componenti attraenti sembrano più forti, e dunque ci avviciniamo. Ma più siamo vicini, più le componenti respingenti diventano visibili e tornano a prevalere. Così ci allontaniamo di nuovo. Questo scomodo andirivieni può ripetersi molte volte.

L’ambivalenza genera ansia e incertezza. Proprio per questo, quando ci troviamo ad affrontare un grande tema controverso tendiamo a non prendere in considerazione le argomentazioni di chi non la pensa come noi: interpretiamo male i fatti, ragioniamo in maniera sbrigativa e in base a pregiudizi la cui fondatezza evitiamo di verificare. Oppure rimuoviamo del tutto la questione.

L’ambivalenza ha uno scopo, dimostra una ricerca dell’Università di Stanford: coltivare deliberatamente l’ambivalenza nei confronti di un obiettivo che non siamo certi di raggiungere ci aiuta a consolarci più in fretta di un eventuale fallimento. Ma in caso di successo sminuisce il valore del risultato ottenuto. In parole semplici anche l’ambivalenza può avere conseguenze ambivalenti.

In tutta franchezza, le situazioni ambivalenti ci obbligano a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi.

Per uscirne la strategia è dare ascolto al proprio corpo. Immedesimarsi il più profondamente possibile nelle alternative e vedere come si sta. Poi, decidere di conseguenza.

OFFBOARDING: molto più di un grazie e arrivederci

C’è una pratica diffusa nelle organizzazioni: dedicare molto tempo e risorse a selezionare e trattenere i talenti e molto poco a curare i rapporti con le persone che vanno a lavorare altrove.

Un errore, se si considera che gli ex dipendenti di oggi, possono diventare i clienti, i fornitori, le opportunità, i migliori e i peggiori amici della nostra azienda, domani.

Secondo PeoplePath e l’Università Cornell, un terzo degli ex dipendenti mantiene contatti con i precedenti datori di lavoro in qualità di clienti, partner o fornitori e circa il 15% delle nuove assunzioni è rappresentato da ex dipendenti che tornano a lavorare per la precedente azienda. Non è un caso se le società di consulenza manageriali abbiano modificato le loro practices proprio per accaparrarsi un vantaggio competitivo futuro certo sfruttando la pubblicità positiva di chi va a lavorare da un’altra parte.

Analizzando le migliori prassi di programmi di offboading sul mercato, ho estrapolato alcuni suggerimenti.

GLI ADEMPIMENTI DI LEGGE NON BASTANO

Un programma serio di offboarding (le attività da svolgere quando un dipendente lascia l’azienda), non prevede solo di ottemperare agli obblighi di legge ma tiene conto della strategia, della cultura, mission e vision, delle disponibilità finanziarie, del tasso di tour over del personale, nonché dal settore in cui opera l’azienda.

Se ci pensiamo bene, il modo in cui vengono trattati i dipendenti in uscita racconta molto di un’impresa.

Per attirare i migliori talenti un’organizzazione fa di tutto per mostrare i vantaggi che si ottengono lavorando lì. Allo stesso modo quando qualcuno se ne va, anche in circostanze difficili, bisognerebbe fare in modo che il processo e l’esperienza di uscita rispecchino la cultura generale dell’organizzazione.

Pensare un programma di offboarding attento alle persone, ha un impatto considerevole sull’immagine aziendale, come ha documentato il premio Nobel Daniel Kahenman attraverso la regola del picco-fine: si giudica un’esperienza soprattutto dalle sensazioni provate nel momento di picco (fase più intensa) e alla fine, anziché ragionare sulla somma totale dell’esperienza.

Tradotto, significa che le persone prestano più attenzione al modo in cui le aziende gestiscono la fine del rapporto di lavoro che al modo in cui accolgono i neoassunti, di conseguenza i rapporti, anche se buoni, fra un dipendente in partenza e un datore di lavoro possono essere vanificati all’istante, se la separazione viene gestita male.

Quando una persona se ne va, è abbastanza normale che parlerà dell’azienda e di come è stato trattato al momento di andarsene. Se gestita male, questa fase, può essere un boomerang pericoloso per la reputazione aziendale.

PAROLA D’ORDINE: PIANIFICARE

I piani di offboarding che funzionano sono quelli pensati e a cui si dedica un’attenzione costante. E non quelli che vengono affrontati come un evento singolo. E prevedono molto di più di una exit interview e un passaggio di consegne.

I piani di offboarding che funzionano sono quelli che vengono organizzati al momento dell’assunzione. Talvolta, non dimentichiamolo, è necessario per un dipendente andare altrove per realizzare i propri obiettivi di carriera. Boicottarlo, remargli contro non è una strategia efficace nel medio-lungo periodo. Lui se ne ricorderà.

Pensate l’impatto che avrebbe ritrovarlo come cliente, in un’altra azienda: perdere un ordine, una commessa o una consulenza sarebbe quasi scontato. Vale la pena?

Spesso è necessario cambiare lavoro più volte nel corso della carriera, non è un caso che molti manager siano attratti dal tour of duty, come lo ha definito Reid Hoffman, uno dei fondatori di LinkedIn: un’assunzione la cui durata e le aspettative di crescita per il lavoratore e l’azienda sono fissate in anticipo. Partire dalla consapevolezza che nulla dura per sempre, aiuta i datori di lavoro a essere più onesti con i dipendenti e a prevenire antipatici misunderstanding, nonché utilizzare le risorse nel modo più produttivo.

Un piano di offboarding può includere, ad esempio:

–         Assegnare attività complesse ai dipendenti per permettere loro di potenziare il cv e spendersi poi altrove.

–         Attività di outskilling per aiutare le persone ad acquisire competenze che le rendano più attraenti agli occhi dei reclutatori. Il programma Career Choice di Amazon paga rette e corsi in alcuni campi di studi, mentre Archways to opportunity aiuta i dipendenti McDonald’s a prendere titoli di studio, migliorare la conoscenza delle lingue e pianificare la loro carriera con un consulente.

–         Piani di successione, utili ad assicurare continuità durante le transizioni. Un dirigente potrebbe comunicare al suo vice di avere in programma di ritirarsi fra 5 anni e il vice potrebbe realizzare di non voler attendere un tempo così lungo per salire nella scala gerarchica. In questo caso, aiutarlo a trovare un ruolo direttivo in un’altra azienda è un’ottima strategia che potrà dare i suoi frutti in futuro.

Prepararsi anzitempo all’offboarding mentre il lavoratore è ancora alle dipendenze dell’azienda, può inoltre aiutare i manager a non venir presi alla sprovvista dal ricambio del personale.

Essere aperti alla possibilità che un dipendente vada altrove può permettere di trasformare quella risorsa in un ambasciatore del marchio, una volta terminato il contratto di lavoro. E si sa quanto la pubblicità positiva sia utile.

GESTIRE L’USCITA

Lasciare un posto di lavoro può essere una esperienza complessa e dolorosa. Quando ho deciso di lasciare, per dare una spinta alla mia carriera, un mio vecchio capo fece di tutto per isolarmi dal resto del gruppo. Impedì ai colleghi di pranzare con me o fermarsi anche solo a parlarmi. Capite bene che questo non ha fatto bene né a lui, né a quel dipartimento né a quella organizzazione. A parlarne male, furono per lo più i colleghi preoccupati della reazione spropositata di un manager che si diceva aperto alle novità e ai cambiamenti. Ero la prima che osava andarsene. Inutile dire che furono in molti, nei mesi successivi, a seguire il mio esempio.

Nei negozi Apple, quando qualcuno se ne va, i dipendenti si riuniscono per applaudirlo e acclamarlo. Se l’azienda ha un programma ufficiale di offboarding, la partenza di un dipendente può essere un buon momento per accoglierlo ufficialmente nel gruppo degli ex.

Piani di offboarding possono essere applicati anche in caso di licenziamento, aiutando la persona a trovare un nuovo impiego o fornendo consulenza e altri tipi di supporto per gestire emozioni e situazione.

L’OFFBOARDING NON è UGUALE PER TUTTI

Il programma di offboarding non può essere uguale per tutti. Ogni dipendente ha le proprie esigenze e non tutti desiderano essere coinvolti nelle fasi di uscita. E questo va rispettato.

Un alto dirigente che va in pensione può aver bisogno di consulenza per orientarsi sui piani di indennità sanitarie o di pensionamento, ma anche essere rassicurato sul fatto che il suo successore sarà affiancato nel modo giusto per non distruggere ciò che lui ha costruito.

Impossibile dettagliare ogni specificità ovviamente. Ciò che va considerato è che la relazione con un dipendente non termina solo perché il rapporto di lavoro si è concluso. È qualcosa di molto più complesso e delicato. Ecco perché, in un contesto lavorativo sempre più dinamico e veloce, un offboarding ragionato e strutturato è un fattore critico di successo, una necessità strategica che non considerata può diventare un vero e proprio boomerang.

A questo punto, vi chiedo. La vostra azienda ha piani di offboarding coerenti e strutturati?

Fonti

–         Dachner A.M., Makarius, E. E. (2021). Turn Departing Employees into Loyal Alumni. A holistic approach to offboarding. HBR Magazine.

–         Kahneman D., Fredrickson B.L., Schreiber C.A., Redelmeier D.A. (1993) When More Pain Is Preferred to Less: Adding a Better End. Psychological Science: 4(6):401-405

–         Tulpule D., Upendra Pandya N. (2020). The Relevance and Significance of Employee Lifecycle Management in HRD: Business Perspectives. International Journal of Creative Research Thoughts (IJCRT). Vol. 8, Issue 9 September 2020