PRUDENTI? NON TROPPO… e nemmeno ci ASSICURIAMO! La nostra incapacità di valutare rischi e benefici.

Gli italiani sono un popolo sotto assicurato che ricorre alla polizza solo quando è obbligato…

Si sfoga un cliente durante un meeting aziendale, mentre confronta i dati italiani con quelli degli altri Paesi europei. Difficile dargli torto. Se si esclude l’Rc auto, il premio medio pagato da un italiano annualmente è di 300 euro, meno di un terzo di quello degli altri cittadini dei principali Paesi europei che in media spendono 937 euro per le coperture protection.

Non possono tutti essere propensi al rischio e avversi alle polizze…

La questione, ha ragione, è un po’ più complessa di così. E inevitabilmente mi viene in mente Lunch atop a Skyscraper (pranzo in cima a un grattacielo), la foto in cui 11 uomini dai vestiti sporchi e dai volti sereni, consumano il loro pranzo al sacco, seduti uno di fianco all’altro, sulla trave d’acciaio di un grattacielo in costruzione nella grande mela, quello che sarebbe diventato l’RCA Building, uno dei grattacieli che formano il complesso del Rockefeller Centre, all’altezza della 41° Strada.

Era il 1932. Undici uomini rischiavano ogni giorno la vita per quel lavoro, apparentemente niente affatto spaventati di consumare la propria pausa pranzo al 69° piano dell’edificio, a un’altezza di 260 metri dalle strade di Manhattan.

Chissà se quegli operai erano più incuranti del pericolo o incapaci di percepirlo, o se più semplicemente pensassero “a me non potrebbe accadere”.

Se nel 1932 la foto suscitò grande scalpore (fu pubblicata sull’Herald Tribune insieme a un articolo in cui si contestava la totale mancanza di adozione di dispositivi di protezione o misure di sicurezza), 90 anni dopo, continua a far venire le vertigini ad alcuni e ad altri la voglia di salire lassù. Insomma, passano gli anni, ma spericolatezza e paura ci abitano ancora allo stesso modo.

 

Perchè? Sembra quasi che non sappiamo quando avere paura…

Il modo in cui viene percepito il rischio è fenomeno complesso, nonché soggettivo e risente della nostra irrazionalità più di quanto ci piace credere e ha molto a che fare con il nostro vissuto e le nostre convinzioni. Questo fa sì che qualcuno sottovaluti e altri sovrastimino i rischi e quindi il pericolo e attivino dei comportamenti e delle reazioni non proporzionate al fenomeno. In parole semplici, capita che le persone a volta temano eventi che non sono in realtà pericolosi e non temano invece, eventi che potrebbero avere conseguenze drammatiche.

 

Come l’errata convinzione che viaggiare in auto sia più sicuro che prendere un aereo. Razionalmente sappiamo che non è così, ma la paura di volare è più impattante di quella di guidare soprattutto dopo un incidente aereo recente.

Alcuni fattori più di altri influenzano la percezione che abbiamo di un fenomeno. Uno di questi è quanto controllo possiamo esercitare sugli eventi che possono generare pericolo. Per esempio: crediamo di poter esercitare più controllo alla guida che di fronte a un terremoto. Un altro è: quanto volontariamente abbiamo deciso di affrontare una situazione pericolosa e quanto gravi sono le conseguenze.

A peggiorare le cose è anche la scarsa conoscenza che gli italiani hanno in materia di assicurazioni,

aggiunge il cliente, indicandomi percentuali e dati relativi all’attività svolta dall’IVASS, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni e dove si evince che:

  • gli uomini hanno livelli di alfabetizzazione assicurativa più alti rispetto alle donne;
    • i giovani e gli anziani sono i meno alfabetizzati e i più sotto-assicurati;
    • il Nord è più alfabetizzato rispetto al resto dell’Italia.
  • l’indice aumenta man mano che sale il grado di istruzione degli intervistati, in particolare di quelli con almeno un diploma di scuola superiore.

 

 E’ anche colpa dei bias?

Sicuramente i bias non aiutano. Gli italiani peccano di eccesso di fiducia nelle loro conoscenze. L’overconfidence genera un dislivello tra quello che crediamo di sapere e quello che davvero sappiamo.

  • Il 60% degli intervistati afferma di conoscere bene concetti base quali premio, franchigia e massimale, ma solo il 14% risponde correttamente a tutte le relative domande.
  • Il 39% dichiara di conoscere i prodotti assicurativi (infortuni, temporanea caso morte, vita e previdenza complementare, ecc) ma solo 1 su 2 mila risponde correttamente a tutti i quesiti.
  • Il 69% ritiene di non avere bisogno dei consigli dell’assicuratore né di doversi affidare a fonti informative esterne, facendo emergere quello che in finanza comportamentale è noto come “bias dell’autonomia”: l’illusione di essere i principali agenti delle proprie vite, laddove un grado molto elevato di autonomia percepita determina grande o grandissima sicurezza e poco o niente stress.
  • La scarsa conoscenza della statistica può innescare la fallacia dello scommettitore (sui piccoli numeri, ad esempio, ogni ripetizione di un evento mantiene intatte le probabilità medie della serie statistica) o di azione dell’effetto emozionale sulla stima (quando la percezione soggettiva delle probabilità è inficiata dal valore affettivo che l’individuo associa agli esiti attesi) o ancora di sconto temporale (preferenza a scommettere che eventi avversi non avverranno nel futuro e posticipare il costo del danno nel futuro) e infine di avversione all’ambiguità (propensione a preferire soluzioni costanti nel tempo anche se di fatto possono essere meno convenienti).

 

Il paradosso è che anche se timorose dei rischi, le persone non sempre accedono alle relative coperture.

I timori più sentiti per il presente o il futuro riguardano problemi di salute per malattie o infortuni nel 76,7%dei casi. Tuttavia, una polizza malattia è sottoscritta dal 10,6%degli intervistati e quella infortuni solo dal 20,2%.
Il timore di calamità naturali è maggiore al Sud e nelle Isole rispetto al Nord, ma è proprio al Nord che si riscontra una maggiore sottoscrizione di queste polizze: 20% contro il 4,1% al Sud e il 3,5% nelle Isole.
Forse, gli suggerisco, al di là di bias e paure, una migliore comunicazione con il cliente potrebbe aiutare a rendere maggiormente consapevole di rischi e benefici?

La scarsa comprensibilità risulta tra le principali cause di mancata sottoscrizione della polizza (50%), subito dopo il costo (67,5%) e prima della sfiducia nei confronti delle assicurazioni (42,4%) e delle esperienze negative pregresse (28,7%).

 

Scartabellando e mettendo ordine fra i numeri, il  concetto scientia potentia est attribuito a Thomas Hobbes ricorda l’importanza di conoscere una disciplina in modo fondato, per poterne così realizzare il miglior utilizzo. Si tratta di un assunto valido per ogni contesto e andrebbe ricordato e rimarcato per lo meno negli ambiti del quotidiano, per poter così ottenere un miglior livello di qualità di vita in modo generalizzato. E se il cliente non sente tutta questa spinta a informarsi, ecco che l’assicuratore può facilitare il processo, rendendo comprensibile anche i termini e i concetti più astrusi. Purchè il tutto venga fatto in modo etico e sostenibile. Per il cliente. E non dimenticando l’assunto degli assunti tanto caro al Nobel per l’economia Richard Thaler:

se vuoi che le persone facciano qualcosa, rendi quella cosa semplice.

 

FONTI

https://www.ivass.it/pubblicazioni-e-statistiche/pubblicazioni/relazione-annuale/2021/index.html

QUATTRO MILA SETTIMANE… poche o tante, decidete voi!

Quattromila settimane.

E’ la durata media della nostra vita.

Un numero che si fa scandalosamente scarno, convertito in settimane. E che si fa ancora più residuo con l’avanzare degli anni, non tanto perché i giorni diminuiscono, ma perché nella nostra mente il tempo, invecchiando, pare accelerare.

Per esempio, oggi sono arrivata a quota 2750. Mancano oltre mille settimane. Ma in quel poco più che mille, c’è malinconia e rassegnazione, per quanto è già passato e per tutto ciò che rimane da fare in uno spazio che ogni giorno si fa più sottile.

A portarmi a queste riflessioni è Oliver Burkeman, il quale sostiene che viviamo proiettati in modo permanente al futuro immaginato.  Le app eliminano le attese, permettendoci di fermare un taxi o ordinare delle pizze semplicemente ricorrendo al telefono. Interi modelli di business sono basati sul numero di secondi che un utente attende nel vedere caricata una pagina sul web.

Se la homepage di Amazon fosse più lenta di appena un secondo, perderebbe 1,6 miliardi di dollari di entrate annuali.

O, per capire l’umana impazienza, basta guardare il numero di secondi non utilizzati dal collega sul timer del microonde in ufficio o a casa con Alexa: registra esattamente il momento in cui l’attesa è diventata troppo grande da gestire.

Di fatto, cerchiamo di sottrarre secondi preziosi ai compiti più noiosi per dedicare più tempo a noi stessi. Ma il tempo è anche quello che gli economisti chiamano network good: trae il suo valore da quante altre persone possono accedervi e sincronizzare il loro accesso con il nostro. Per fare innumerevoli cose importanti con il tempo – amicizia, costruire relazioni, crescere i figli, fare carriera – hai bisogno del tempo per integrarti con il tempo degli altri. Usare bene il tempo significa avere meno controllo su di esso.

Burkeman diagnostica la condizione moderna come sopraffazione esistenziale. Ci sono troppe cose che sembrano valere la pena di fare. Ci consiglia di abbracciare “la gioia di perdersi”: il riconoscimento che la rinuncia alle alternative è ciò che rende significativa ogni scelta. Dovremmo arrenderci a quello che i tedeschi chiamano Eigenzeit, il tempo parte integrante di uno stesso processo. Se una cosa vale la pena, ci vuole tutto il tempo che serve per farla.

Four Thousand Weeks  è pieno di consigli saggi e sensati, forniti con arguzia. Non ho ripensato a nulla del tempo che ho passato a leggerlo. Ma aiuterà me e altri ad essere meno nevrotici? Fino a un certo punto. Vorrei avere la determinazione di non rispondere troppo rapidamente alle e-mail, perché genera solo più traffico e spesso l’imminente crisi segnalata dal mittente scompare comunque da sola. Ma io sono debole e la valanga di email è forte. Senza contare che gratifica.

Eppure è tutto fattibile. In fondo, se ci pensiamo bene, nel Medio Evo il “tempo” non era neppure considerato un’entità, scorreva e dava il ritmo, punto. Poi è diventato unità di misura e di concambio, del lavoro, della pena carceraria e metro di misura di molte relazioni. Siamo sempre al capitalismo come padre di tutti i mali. Il punto è che per Burkeman la vita umana è “terribilmente corta”.

Io non ho ancora preso una posizione.

Non ho avuto tempo…

QUANDO è più FACILE LASCIARE (l’azienda) che RIMANERE. 5 campanelli d’allarme e altrettante soluzioni…

Un collaboratore scontento che lascia l’azienda, per cercare condizioni più favorevoli altrove, ha un costo. Un costo che diventa un problema quando a seguirne l’esempio è più di uno solo.

Secondo l’ US Bureau of Labor Statistics, a settembre, 4,4 milioni dipendenti statunitensi (il 3% della forza lavoro) hanno lasciato il posto di lavoro. Ad agosto, il 65% dei dipendenti statunitensi era alla ricerca di un nuovo posto, il doppio rispetto a maggio. Con le dimissioni in aumento in Europa e in Asia, il fenomeno riguarda tutti. E non pensiate che sia tutta colpa della pandemia.

I problemi sono più complicati di così e sono iniziati molto prima dell’arrivo del Covid-19.

PERDITE INEVITABILI?

Paola, manager di grande capacità e dal roseo futuro, dopo che il suo responsabile viene promosso ad altro ruolo, si ritrova un nuovo capo che sebbene voglia (all’apparenza) supportarla allo stesso modo del predecessore, non ha però la stessa autorevolezza e capacità. Paola si ritrova così oberata di lavoro, con scarse proiezioni di carriera e una comunicazione via via più vacua e inconsistente, fatta di menzogne, cose non dette e una inutile perdita di tempo.

L’epilogo è segnato: stanca e insoddisfatta, Paola decide di guardarsi intorno e rapidamente riceve da un concorrente un’ottima proposta con tanto di promozione e un notevole aumento di stipendio.

Era una perdita che l’azienda poteva evitare?

La risposta è scontata. Nonostante ciò, errori di questo tipo si ripetono di continuo nelle organizzazioni. Spesso incapaci di comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno. O più semplicemente poco interessate a sondarli e dimentiche di quanto sia costoso sostituire i talenti.

Secondo il Work Institute’s  2017 Retention Report si stimano costi fino al 33% dello stipendio annuale di un lavoratore, un terzo dello stipendio annuo. Senza contare il rischio reputazionale.

Sicuramente è molto più economico e lungimirante monitorare le esperienze dei collaboratori e investire in soluzioni.

Ecco cinque campanelli d’allarme a cui prestare attenzione e cinque soluzioni.

5 CAMPANELLI DI ALLARME

Perdita di fiducia.

Più volte ho visto i migliori talenti perdere fiducia nel management a causa di opportunità non concretizzate e a cui sono seguiti i silenzi più imbarazzanti. Indipendentemente dalle ragioni, la persona inizia a chiedersi quanto sia utile fidarsi. Ancor più quando  non c’è una persona di riferimento a cui rivolgersi per capire cosa non ha funzionato e negoziare eventuali azioni correttive, senza parlare delle prospettive relative al futuro. Senza mentori e riferimenti fidati, un dipendente deluso può trovare più facile rivolgersi ad aziende esterne che stanno esprimendo interesse piuttosto che restare e sperare in tempi migliori.

Comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno è il primo passo per impedire agli altri di seguirli. Sostituire il talento è costoso se si considerano i costi di reclutamento, formazione e la perdita di produttività.

 

Percorsi di carriera poco chiari. 

L’incertezza genera domande.

Quando le persone non riescono a vedere cosa verrà dopo è inevitabile che inizino a dubitare delle scelte fatte. Non sapere quale tipo di esperienze sono necessarie, cosa serve per avanzare, o come colmare il gap (a parte chiedere al proprio capo), i collaboratori fanno fatica a costruire un piano a lungo termine. E iniziano a chiedersi se sono nel posto giusto. Il richiamo di un’altra azienda o cultura diventa più difficile da ignorare.

 

Squilibrio tra lavoro e vita privata. 

Quando i dipendenti sentono che le loro ambizioni personali sono troppo difficili da raggiungere, iniziano a pensare di andarsene. “Non mi dispiace fare sacrifici, ma i compromessi stanno producendo i benefici che mi aspettavo?” Quando questa domanda emerge, spesso le persone sono già con un piede sulla porta.

 

Mancanza di cura manageriale. 

Il management spesso mostra grande attenzione per le prestazioni e poca per le persone che forniscono i risultati. Sentirsi trascurati è mortale per la motivazione e distruttivo per le prestazioni a lungo termine.  Raramente i responsabili si interessano alla vita personale dei team. Troppi pochi manager mostrano genuina comprensione e apprezzamento per ciò che è servito per ottenere risultati importanti. Il risultato? Le persone sentono che tutto ciò che conta è la loro performance.

 

Comportamenti autolesionistici. 

Ognuno di noi ha abitudini e preferenze nel modo in cui lavora e coopera con gli altri. Alcune di queste sono funzionali, altre possono creare muri e barriere e finiscono con l’etichettarci, senza contare che sono difficili da correggere.

Il feedback è essenziale per creare un team di lavoro produttivo e sano. Ad esempio, i dipendenti più giovani hanno spesso bisogno di trovare colleghi che li aiutino su progetti complessi. E poiché tutti sono sempre piuttosto occupati, la modalità predefinita è quella di spingere gli junior ad arrangiarsi da soli e sviluppare comportamenti competitivi, talvolta fino all’eccesso. Se questi atteggiamenti non vengono corretti, e il leader non interviene, è più facile per chi non si ritrova in quello stile, andarsene che cercare di adattarsi. E al tempo stesso quel leader tenderà ad attrarre solo un certo tipo di collaboratori poco inclini alla collaborazione e allo spirito di gruppo. Con tutte le conseguenze che conosciamo.

 

5 SOLUZIONI

Monitora i comportamenti. 

Organizza riunioni periodiche per valutare come si sentono le persone. Incoraggia i manager a condividere di più aspetti della loro vita personale con il team e a mostrare interesse per la vita degli altri. E presta particolare attenzione quando ti riorganizzi o quando arriva un nuovo responsabile.

 

Parla di opzioni di carriera. 

Crea momenti in cui le persone possano discutere della loro carriera, dei loro fallimenti e dei loro successi e possano scambiarsi esperienze. È utile condividere lo stato dell’arte di progetti, programmi di formazione, empowerment, ecc. Infine, rendi le promozioni e i passaggi di carriera più trasparenti, compresi i processi, i criteri e le tempistiche.

 

Insisti sui piani di sviluppo per ogni membro del team. 

Aiuta le persone a fornire feedback utili, a creare piani di sviluppo misurabili e che facciano la differenza. Incoraggia tutti a parlare di ciò su cui stanno lavorando in modo che lo sviluppo continuo diventi una norma. Oltre ai percorsi di promozione, investi sullo sviluppo e sulla crescita.

 

Parla di esempi reali di resilienza. 

Poiché il benessere è nella mente dei dipendenti, è fondamentale che i manager controllino come stanno andando i team e agiscano in modo appropriato. Istruisci le persone su come dire no in modi che non danneggeranno la loro reputazione. Prendi, ad esempio, in considerazione la possibilità di vietare le e-mail al di fuori dell’orario di lavoro, come è stato adottato in Portogallo, o quanto meno di stabilire delle priorità. Se hai iniziato a limitare le ore per l’invio di e-mail o a impostare orari in cui non è possibile tenere riunioni, assicurati che i tuoi manager e i loro collaboratori seguano tali direttive.

 

Tieni d’occhio i talenti chiave. 

Non aspettare che qualcosa vada storto per avviare gruppi di confronto, perché a quel punto sarà troppo tardi, qualcuno se ne sarà già andato o la fiducia che nutre per te o l’azienda sarà già stata messa in discussione.

Se il management di Paola avesse eseguito solo alcuni di questi passaggi, molto probabilmente lei sarebbe ancora in azienda. Un po’ più di apprezzamento per il lavoro che stava facendo e i risultati che stava producendo, maggior confronto e feedback avrebbero fatto un’enorme differenza per lei.

Nel migliore dei casi, trattenere le persone è una sfida. Oggi è fondamentale che le aziende facciano il possibile per rimanere attraenti per le persone che hanno già reclutato e formato. È essenziale concentrarsi su come i manager si relazionano con i team e su come l’organizzazione crea piani di carriera e pratiche di sviluppo. Anche se, alla fine, fondamentale è considerare le persone come individui complessi. Aiutare le persone a gestire gli inevitabili alti e bassi della carriera e a destreggiarsi tra le loro vite e le ambizioni personali con obiettivi chiari, misurabili e condivisi di lavoro li incoraggerà a rimanere. O almeno, non andarsene, alla prima occasione.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

NON mi PIACE più questo LAVORO, ma LASCIARLO SAREBBE un FALLIMENTO. 5 MITI da SFATARE

 

“Sono infelice. Il lavoro ha smesso di entusiasmarmi e non trovo più il perché nella maggior parte delle attività che svolgo. Voglio andarmene ma ogni volta che ne parlo in famiglia, ottengo le stesse reazioni: sei sicuro che sia la cosa giusta da fare? Tanti invidiano la tua posizione, o guadagnano meno di te. Non puoi essere così sprovveduto”.

Talvolta, quando opero progetti di change management incontro manager che in quello specifico contesto lavorativo non stanno bene, ma hanno paura a guardarsi intorno: “dopo la fatica che ho fatto per ottenere quest’incarico, tutti questi anni nella stessa azienda, andarmene sarebbe fallimento”.

Lasciare un posto solido e ben retribuito ma che non motiva più, non è una decisione facile da prendere. Ci sono molte variabili che occorre analizzare e ponderare.  Spesso però a rendere la scelta più complessa, non sono tanto le incertezze legate al cambiamento, ma alcuni pregiudizi che ci incollano allo status quo.

Ecco 5 miti da cui guardarsi.

 

Mito N. 5. Lasciare = fallire

  • “Non mollare.”
  • “Non piace a nessuno chi si arrende”.
  • “I vincenti non mollano mai e chi molla è un perdente.”

Alcune di queste frasi ti suonano familiari? Come alcuni bias insegnano, una volta che hai iniziato qualcosa non dovresti mai smettere fino a che non lo hai concluso, e se lo fai è un chiaro segno di fallimento. Ma se quella cosa non potesse mai dirsi conclusa… magari fino alla pensione?

A volte cambiare è esattamente la cosa giusta da fare.

Da bambina Tina Kiberg era una violinista di belle speranze che passava il tempo libero a esercitarsi. Un giorno, partecipando a un concorso, si rese conto che non sarebbe mai stata più che una violista mediocre. Però le piaceva cantare. Così abbandonò il violino e iniziò a cantare. E’ diventata una cantante d’opera internazionale di altissimo livello.

Prova a indovinare cosa hanno in comune Larry Page, Sergey Brin, Tiger Woods, Reese Witherspoon, John McEnroe e John Steinbeck? Hanno tutte lasciato Stanford.

 

Mito n. 4. È l’opzione più facile

  • Hai lasciato il lavoro? 
  • Immagino che tu non abbia ciò che serve per avere successo. 
  • Peccato, hai scelto l’opzione più facile.

Alcune persone vedono il cambiamento come un segno di debolezza.

Cambiare richiede coraggio. Lasciare un posto di lavoro tossico o allontanarsi da un capo incompetente o da un’attività che non regala soddisfazioni, può essere una scelta dolorosa e con strascichi emotivi non indifferenti. Sicuramente è tutt’altro che facile e comodo.

 

Mito n. 3. È un comportamento egoista

  • Come puoi essere così egoista da lasciare il lavoro? 
  • Stai deludendo clienti, colleghi, amici e tutti coloro che credono in te. Inoltre, pensa alla tua famiglia: come se la caveranno se te ne andrai?
  • Cosa penseranno i tuoi figli…

Se non ti piace il lavoro, non stai facendo un favore a nessuno rimanendo. Quando si è infelici, si tende a contagiare tutti coloro che stanno intorno. Per quanto riguarda la famiglia, forse sarebbero più contenti se non tornassi a casa ogni giorno stanco e frustrato.

Se vai al lavoro giorno dopo giorno, anno dopo anno, e odi davvero il tuo lavoro e torni a casa arrabbiato, cosa stai insegnando ai tuoi figli?

 

Mito n. 2. È rischioso per la carriera

  • Se lasci il tuo lavoro, il tuo CV ne risentirà e la tua carriera subirà un duro colpo.

Mentre rimanere per anni in un luogo di lavoro che odi e che ti sta lentamente logorando sarà FANTASTICO per la tua carriera! Più a lungo rimani, più perdi energia, motivazione e fiducia in te stesso di cui hai bisogno per avanzare nella carriera.

 

Mito n. 1. È l’ultima risorsa

  • Certo, puoi considerare di smettere, ma dovresti prima esaurire tutte le altre opzioni. 
  • Ti fermi solo quando non ce la fai più.

Per le persone che credono a questo mito, smettere è l’ultima opzione. È quello che fai una volta che sei distrutto ed esausto per continuare a svolgere il tuo lavoro attuale. Ciò lo rende il più pericoloso dei miti qui elencati, perché significa che le persone rimangono in lavori scadenti fino a (o oltre) i loro punti di rottura. Talvolta però è troppo tardi.

 

La tua opinione

Ci sono altri miti che ti vengono in mente? Hai incontrato qualcuno di questi nella tua vita lavorativa? Come reagisci quando qualcuno vicino a te valuta la possibilità di cambiare lavoro?

3 TIPI di RESISTENZA al CAMBIAMENTO (in azienda) e COME SUPERARLI

 

Solo il 30% dei progetti di change management va a buon fine, 1 su tre.

La causa? La resistenza al cambiamento. Non la mancanza di competenze o risorse tecniche, ma a causa di una reazione umana.

Cosa crea resistenza al cambiamento

La resistenza è negli occhi di chi guarda. Le persone che resistono non vedono quello che fanno, spesso è più un atto di sopravvivenza.

La resistenza al cambiamento è una reazione al modo in cui viene condotto un cambiamento.  Le persone resistono in risposta a qualcosa.

La resistenza serve a proteggere le persone. Se sono uno sciatore alle prime armi, è la resistenza a impedirmi di prendere la seggiovia per raggiungere la cima di una pista nera.

In un’organizzazione, la resistenza impedisce di dire “sì” a un incarico che penso metterà a rischio la mia carriera.

Quanto meglio riusciamo a vedere cosa causa resistenza, tanto più facile sarà creare le giuste condizioni per abbracciare il cambiamento. In altre parole, se comprendiamo la resistenza, comprendiamo anche l’altra faccia della medaglia: la spinta al cambiamento.

Tre sono i livelli di resistenza

1 – Non capisco

Riguarda le informazioni: fatti, cifre, idee. È il mondo del pensiero e dell’azione razionale. È il mondo delle presentazioni, dei diagrammi e degli argomenti logici.

Il livello 1 deriva da:

  • Mancanza di informazioni
  • Disaccordo con i dati
  • Mancanza di esposizione a informazioni critiche
  • Confusione su cosa significhi

Molti commettono l’errore di trattare tutte le resistenze come se fossero di Livello 1. I leader danno alle persone più informazioni – tengono più riunioni e fanno più presentazioni PowerPoint – quando, in realtà, sarebbe necessario qualcosa di completamente diverso. Ed è qui che entrano in gioco i livelli 2 e 3.

 

2 – Non mi piace

Il livello 2 è una reazione emotiva al cambiamento. La pressione sanguigna aumenta, l’adrenalina scorre, il cuore accelera. Si basa sulla paura: le persone hanno paura che questo cambiamento faccia perdere loro lo status, il controllo, forse anche il lavoro. Come ben esplicitato nel film Governance, che ha anche ispirato questo post.

Il livello 2 non è facile da gestire. Non basta dire “stai tranquillo” e aspettarti che il soggetto reagisca di conseguenza. Qui è in gioco la nostra stessa sopravvivenza.

Quando il Livello 2 è attivo, rende molto difficile comunicare il cambiamento. Quando l’adrenalina è in circolo, passiamo alla modalità di combattimento o fuga (o rimaniamo immobilizzati, come un cervo sotto i fari in mezzo a una strada la notte). E smettiamo di ascoltare. Quindi, non importa quanto sia eccezionale la tua presentazione, una volta che si è attivato il livello 2, la risposta è incontrollabile. A questo punto le persone non scelgono di ignorarti, è solo che hanno cose più importanti per la testa, come pensare alla loro sopravvivenza.

Le organizzazioni di solito non incoraggiano le persone a rispondere emotivamente; quindi, i dipendenti limitano domande e commenti ai problemi di Livello 1. Fanno domande educate su budget e tempistiche. Quindi può sembrare che siano con te, ma non lo sono. Fanno domande di livello 1 sperando che tu legga tra le righe e parli delle loro paure. E qui c’è una cosa difficile che va tenuta in considerazione: potrebbero non essere consapevoli di operare a un livello emotivo così elementare.

 

3 – Non mi piaci

Forse gli piaci, ma non si fidano di te o non hanno fiducia nella tua leadership.

La mancanza di attenzione a livello 3, è una delle ragioni principali per cui la resistenza aumenta e i cambiamenti falliscono. E se ne parla raramente. I libri sul cambiamento parlano di strategie e piani ma la maggior parte di questi consigli non riesce a riconoscere una delle ragioni principali per cui il cambiamento fallisce.

Nella resistenza di livello 3, le persone non stanno resistendo all’idea – in effetti, potrebbero amare il cambiamento che stai presentando – ti stanno resistendo. Forse sei tu che le rendi diffidenti, per decisioni prese in passato, magari.

O forse non sei tu a non piacergli. Le persone possono resistere a chi rappresenti. L’affermazione “Ciao, vengo da una riunione con il board, sono qui per aiutarvi”, spesso lascia le persone scettiche. Se ti capita di essere quella persona, avrai difficoltà a farti ascoltare.

Qualunque siano le ragioni di questa resistenza profondamente radicata, non puoi permetterti di ignorarla.

Le persone possono capire l’idea che stai suggerendo (Livello 1) e possono anche pensare che questo cambiamento possa essere utile (Livello 2), ma non diventeranno cooperative se non si fidano di te.

 

Come trasformare la resistenza in supporto

Ecco alcune idee per iniziare ad affrontare i vari livelli di resistenza. Ps. Tieni conto che tutti e tre i livelli potrebbero agire contemporaneamente.

 

Livello 1 – Crea il tuo caso

  • Assicurati che le persone sappiano perché è necessario un cambiamento. Prima di parlare di come vuoi fare le cose, spiega perché qualcosa deve essere fatto.
  • Presenta il cambiamento usando un linguaggio comprensibile a tutti. Se il tuo pubblico non è composto da specialisti finanziari, i grafici che mostrano analisi sofisticate, non avranno alcuna presa.
  • Trova modi diversi per sostenere il tuo caso. Le persone acquisiscono le informazioni in modi diversi. Ad alcuni piace ascoltare. Ad altri vedere. Qualcuno predilige le immagini, altri il testo.  Maggiore è la varietà dei canali di comunicazione a cui ricorri, maggiori sono le possibilità che le persone capiscano ciò che hai da dire.

 

Livello 2 – Sottolinea gli aspetti positivi

  • Sottolinea i lati positivi. Le persone devono credere che il cambiamento servirà loro: il lavoro sarà più semplice, le relazioni miglioreranno, si apriranno opportunità di carriera o aumenterà la sicurezza sul posto di lavoro…
  • Coinvolgili nel processo. Le persone tendono a proteggere e sostenere ciò che costruiscono.
  • Sii onesto. Se un cambiamento li danneggerà, ad esempio il ridimensionamento, allora dì loro la verità. È la cosa giusta da fare e impedisce che circolino storie su ciò che potrebbe accadere. Inoltre, l’onestà rafforza la loro fiducia in te (un problema di livello 3).

 

Livello 3 – Sii responsabile

  • Colpa mia. Assumiti la responsabilità delle cose che potrebbero aver portato alle attuali relazioni tese.
  • Mantieni gli impegni. Dimostra di essere affidabile.
  • Trova dei modi per trascorrere del tempo insieme in modo che conoscano te (e il tuo team). Ciò è particolarmente utile se la resistenza deriva da “chi rappresenti” e non solo dalla tua storia personale.
  • Lasciati influenzare dalle persone che ti resistono. Questo non significa che cedi a ogni richiesta, ma che puoi ammettere che potresti aver sbagliato e che potrebbero essere idee degne di considerazione.

Lo statista israeliano Abba Eban ha scritto:

Gli uomini e le nazioni si comportano saggiamente, una volta esaurite tutte le altre alternative“.

Quindi non demordere…

RISOLVERE PROBLEMI in TEMPI INCERTI e CONDIZIONI IMPERFETTE

 

Prendere buone decisioni non è una abilità innata. Si può allenare e migliorare.

Ecco 5 approcci che possono rivelarsi molto utili.

1. Sii curioso

Di fronte all’incertezza, non stancarti di chiedere “Perché?

Sfortunatamente, crescendo, tendiamo a smettere di fare domande. Il cervello dà un senso a un numero enorme di informazioni imponendo modelli che si sono dimostrati utili in passato. Ecco perché è utile fare una pausa e chiedersi:

perché le condizioni o le ipotesi sono quelle che sono?

Questo fino a quando non si arriva alla radice del problema.

 

I bias, tra cui conferma, disponibilità e ancoraggio, spesso portano a restringere anzitempo la gamma di soluzioni. Eppure le risposte migliori derivano dall’essere curiosi.

Un suggerimento arriva dell’economista Caroline Webb: mettere un punto interrogativo dopo le ipotesi iniziali tende a incoraggiare più percorsi di soluzione e pone l’accento, correttamente, sulla raccolta dei dati.

Utili sono anche le sessioni di tesi/antitesi, in cui un gruppo viene diviso in squadre avversarie che mettono in dubbio le conclusioni iniziali. I risultati migliori derivano dall’accettazione dell’incertezza. La curiosità è il motore della creatività.

 

2. Tollera l’ambiguità e rimani umile!

Spesso, quando pensiamo ai bravi decisori, tendiamo a immaginarli perfettamente razionali, quasi matematici. La realtà è che la maggior parte delle buone decisioni prevede molti tentativi e altrettanti errori; è più simile all’apparente casualità del rugby che alla precisione di un programmatore.

Le ipotesi basate sull’istinto possono essere sbagliate. Ecco perché una delle chiavi per operare in ambienti incerti è l’umiltà epistemica che Erik Angner definisce come:

la consapevolezza che la nostra conoscenza è sempre provvisoria e incompleta e può richiedere una revisione alla luce di nuove prove“.

Inizia con soluzioni sfidanti che implicano certezza. Puoi farlo nel modo migliore ponendo domande come:

“Cosa dovremmo credere perché questo sia vero?

Ciò rende più facile valutare le alternative. Quando l’incertezza è alta, vedi se puoi fare piccole mosse o acquisire informazioni a un costo ragionevole per arrivare a un insieme di soluzioni. La conoscenza perfetta scarseggia, in particolare per problemi aziendali e sociali complessi. Abbracciare l’imperfezione può portare a una risoluzione dei problemi più efficace. È praticamente un must in situazioni di elevata incertezza, come l’inizio di un processo di problem solving o durante un’emergenza.

 

3. Apri la visione

Le libellule hanno una visione quasi a 360 gradi, con un solo punto cieco dietro la testa. Questa straordinaria visione è una delle ragioni per cui è in grado di tenere d’occhio un singolo insetto all’interno di uno sciame e inseguirlo evitando collisioni a mezz’aria con altri insetti dello sciame.

L’idea di un occhio che cattura 360 gradi di percezione è un attributo dei “superprevisori”: i migliori nella previsione degli eventi.

Pensa a questo come ad allargare l’apertura su un problema o guardarlo attraverso diverse angolature.  Allargando l’apertura, possiamo identificare minacce o opportunità diversamente impensabili. Il segreto per sviluppare una visione tipica delle libellule è “ancorarsi all’esterno” quando si affrontano problemi di incertezza e opportunità. Allarga più che puoi il contesto.   Ma prendi nota: quando tempi e risorse sono limitate, si potrebbe essere tentati di restringere oltre modo il campo e fornire una risposta convenzionale.

 

4. Sfrutta l’intelligenza collettiva e la saggezza della folla

È un errore pensare che la tua squadra abbia le persone più intelligenti nella stanza. Non è così. Sono altrove e nemmeno hanno bisogno di essere lì se puoi accedere alla loro intelligenza con altri mezzi.

E’ il consiglio di  Chris Bradley.

Quando Sir Rod Carnegie era CEO di Conzinc Riotinto Australia (CRA), era preoccupato per i costi dei tempi di stop imprevisti degli autocarri pesanti, in particolare quelli che richiedevano il cambio dei pneumatici. Ha chiesto al team chi era il migliore al mondo a cambiare le gomme; la risposta è stata la Formula Uno, la competizione automobilistica. Un team si è recato nel Regno Unito per apprendere le migliori pratiche per il cambio degli pneumatici nei box della pista e poi ha implementato ciò che ha appreso a migliaia di chilometri di distanza, nella regione di Pilbara, nell’Australia occidentale. La squadra più intelligente per questo problema non era affatto nel settore minerario. Non era sul posto, ma non ce ne sarebbe comunque stato bisogno.

 

5. Mostra e racconta perché la narrazione genera azione

I risolutori di problemi con poca esperienza tendono a mostrare il loro processo in modo analitico per convincerti dell’intelligenza della loro soluzione. I risolutori di problemi esperti raccontano il modo in cui collegano il pubblico al problema e poi usano combinazioni di logica e persuasione per ottenere l’azione.

Un team della Nature Conservancy, stava presentando una proposta per chiedere a una fondazione filantropica di sostenere il ripristino delle barriere coralline e la salvaguardia delle ostriche. Prima della presentazione, il team ha portato 17 secchi pieni d’acqua nella sala riunione. Quando i membri della fondazione sono entrati nella stanza, hanno subito voluto sapere a cosa servivano i secchi. Il team ha spiegato che il ripristino delle barriere migliora notevolmente la qualità dell’acqua perché ogni ostrica filtra 17 secchi d’acqua al giorno. Le ostriche possono aiutare a far funzionare l’economia. I decisori sono stati portati nella risoluzione dei problemi attraverso lo spettacolo e il racconto.

Il problem solving più elegante è quello che rende ovvia la soluzione. Il compianto economista Herb Simon l’ha messa in questo modo:

“Risolvere un problema significa semplicemente rappresentarlo in modo da rendere la soluzione trasparente”.

Inizia con l’essere chiaro sull’azione che dovrebbe scaturire dalla risoluzione dei problemi e dai risultati: l’idea guida per il cambiamento. Quindi trova un modo per presentare visivamente la tua logica in modo che il percorso verso le risposte possa essere discusso e abbracciato. Presenta l’argomento in modo emotivo e logico e mostra perché l’azione preferita offre un interessante equilibrio tra rischi e benefici. Ma non fermarti qui. Spiega i rischi dell’inazione, che spesso hanno un costo maggiore rispetto alle azioni imperfette.

 

Questi approcci possono essere utili in un’ampia gamma di circostanze, ma in tempi di grande incertezza sono essenziali.

Ora tocca a te…

 

Fonti

Angner E., “Epistemic humility—knowing your limits in a pandemic,” Behavioral Scientist, April 13, 2020, behavioralscientist.org.

Duke A., Thinking in Terms of Bets: Making Smarter Decisions When You Don’t Have All the Facts, New York, NY: Portfolio/Penguin, 2018.

Tetlock P., Gardner D., Superforecasting: The Art and Science of Prediction, New York, NY: Crown, 2015.

Bradley C., Hirt M., Smit S., Strategy Beyond the Hockey Stick: People, Probabilities, and Big Moves to Beat the Odds, Hoboken, NJ: Wiley, 2018.

Bradley C, McLean R., “Want better strategies? Become a bulletproof problem solver,” August 2019.

Simon H., The Sciences of the Artificial, Cambridge, MA: MIT Press, 1969.

5 REGOLE per EVITARE DECISIONI SBAGLIATE ( a volte il successo consiste solo nel non fallire)

 

Una parte del mio lavoro consiste nell’aiutare le persone a prendere decisioni migliori.

Talvolta, per quanto non ci piaccia ammetterlo, il successo sta nell’evitare di prendere decisioni sbagliate.

Ecco cinque motivi per cui prendiamo decisioni sbagliate.

 

  1. Siamo involontariamente stupidi

Ci piace pensare di poter elaborare razionalmente le informazioni come computer, ma non siamo in grado di farlo. Almeno non nel lungo periodo e non in presenza di grandi quantità di dati. I bias cognitivi spiegano perché abbiamo preso una decisione sbagliata, ma raramente ci aiutano a evitarli o prevenirli.

Sull’immediato è più utile concentrarsi su alcuni segnali che ci stanno avvertendo che stiamo per fare, involontariamente, qualcosa di stupido:

  • Sei stanco, di fretta, distratto o emotivamente coinvolto.
  • Stai decidendo in gruppo o stai seguendo le indicazioni di una figura eccessivamente autoritaria.

La regola: non prendere mai decisioni importanti quando sei stanco, emotivo, distratto o di fretta.

 

  1. Risolviamo il problema sbagliato

Chi butta sul lavoro un problema, raramente ha chiaro il problema. Eppure il modo in cui lo pone può condizionare la capacità di problem solving del gruppo, senza contare che sovente dimentica di chiedere se si sta risolvendo il problema giusto.

Segnali di avvertimento che si sta risolvendo il problema sbagliato:

  • Hai lasciato che qualcun altro definisse il problema per te.
  • Sei lontano dal problema.
  • Stai pensando al problema senza considerare il contesto

La regola: non permettere mai a nessuno di definire il problema per te.

 

  1. Usiamo informazioni errate o insufficienti

Ci piace credere che le persone dicano la verità. Ci piace credere che le persone con cui parliamo capiscano di cosa stanno parlando. Ci piace credere di avere le informazioni utili per contestualizzare e gestire il problema.

Segnali di avvertimento che hai informazioni errate o insufficienti:

  • Stai parlando con qualcuno che ha parlato con qualcuno che ha parlato con qualcuno…

La regola: cerca informazioni da qualcuno il più vicino possibile alla fonte. Quando le informazioni vengono filtrate (e spesso accade), prima si considerano gli incentivi e solo dopo si pensa alla correttezza delle informazioni acquisite.

 

  1. Non impariamo

Hai presente il collega con vent’anni di esperienza che continua a ripetere sempre gli stessi errori? Non ha vent’anni di esperienza, ha un anno di esperienza ripetuto venti volte. Se non puoi imparare, non puoi migliorare.

La maggior parte di noi può osservare e reagire di conseguenza. Ma per imparare dall’esperienza, dobbiamo riflettere sulle nostre reazioni. La riflessione deve essere parte del tuo processo, non qualcosa che potresti fare se hai tempo.  In breve, non possiamo imparare dall’esperienza senza riflettere. Solo la riflessione ci permette di distillare l’esperienza in qualcosa da cui possiamo imparare per prendere decisioni migliori in futuro.

Segnali di avvertimento che non stai imparando:

  • Sei troppo occupato per riflettere.
  • Non tieni traccia delle tue decisioni.
  • Non puoi calibrare il tuo processo decisionale.

La regola: essere meno occupati. Tieni un diario di apprendimento. Rifletti ogni giorno.

 

  1. Ci concentriamo poco sui risultati

Siamo portati a fare ciò che è facile rispetto a ciò che è giusto. Dopotutto, è più facile dire di essere virtuosi che esserlo.

Segnali di avvertimento:

  • Stai pensando a come difenderai la tua decisione.
  • Stai scegliendo consapevolmente ciò che è difendibile rispetto a ciò che è giusto.
  • Prenderesti una decisione diversa se fossi il proprietario dell’azienda.
  • Ti sorprendi a dire che questo è ciò che il tuo capo vorrebbe.

La regola: agisci come vorresti che un dipendente agisse se fossi il proprietario dell’azienda.

 

Evitare decisioni sbagliate è importante quanto prenderne di buone. Conoscere i segnali di pericolo e avere una serie di regole limita la quantità di fortuna di cui hai bisogno per ottenere buoni risultati.

 

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

BIKESHEDDING: la TENDENZA a CONCENTRARSI su cose BANALI (a scapito di quelle IMPORTANTI)

Di fronte a due decisioni, una importante e una irrilevante, abbiamo la tendenza a dare la precedenza a quella banale credendo che ci vorrà meno tempo a processarla.

Sbagliando…

BIKESHEDDING

La tendenza a dedicare troppo tempo a questioni banali, spesso sorvolando su quelle importanti, ha un nome insolito: bikeshedding.

Il bikeshedding ci rende miopi nella allocazione del tempo, portandoci a dedicarci prima ai compiti semplici pensando che ci vorrà meno tempo per espletarli.

Se l’odg di una riunione include decidere se aprire a nuovo mercato oltreoceano e l’acquisto di nuove scrivanie, la tendenza è spesso quella di dedicarsi prima agli arredi, poiché ritenuta una decisione più semplice e veloce ma così facendo quando si arriva a analizzare i dati per una eventuale espansione si avrà a malapena il tempo sufficiente per aprire il confronto.

PERCHE’ SUCCEDE

A spiegarlo è lo storico navale Cyril Northcote Parkinson:

La quantità di tempo trascorso a discutere un problema, in una organizzazione, è inversamente correlata alla sua effettiva importanza nello schema delle cose”.

Ciò significa che meno un problema è importante, più tempo viene dedicato ad esso. O per dirla in un altro modo, se assegni un’ora a un compito che richiede solo 30 minuti, psicologicamente, il compito finisce per acquisire la complessità di un compito della durata di un’ora.

Per illustrare l’assunto, lo storico chiese di immaginare una riunione del comitato finanziario con un ordine del giorno in tre punti:

  1. Una proposta per una centrale nucleare da 10 milioni di sterline
  2. Una proposta per un capanno per biciclette da £ 350
  3. Una proposta per un budget annuale di £ 21 per il caffè

Cosa accadde?

Il comitato finì per esaminare il primo punto in un tempo non sufficiente a prendere una decisione informata. La decisione era, per la maggior parte dei membri, eccessivamente complessa e poco sapevano sull’argomento e chi era preparato, non sapendo come spiegare i dettagli al resto del gruppo, ha finito con il complicare ulteriormente la decisione.

La discussione si sposta così sul secondo punto. Qui, i membri del comitato si sentono più a loro agio nell’esprimere opinioni. Sanno tutti cos’è un capanno per biciclette e che aspetto ha. Molti avviano così un dibattito sul miglior materiale possibile da utilizzarsi, valutando le opzioni che potrebbero consentire risparmi modesti. E finiscono con il discutere del capanno delle biciclette molto più a lungo della centrale nucleare.

Infine, la commissione passa al punto tre: il budget del caffè. Improvvisamente, tutti sono esperti. Prima che qualcuno si renda conto di cosa sta succedendo, trascorrono più tempo a discutere del budget di £ 21 per il caffè rispetto alla centrale nucleare e al capanno delle biciclette messi insieme! Alla fine, terminando il tempo a disposizione, il comitato decise di riunirsi di nuovo per completare la analisi. Tutti se ne andarono soddisfatti, avendo contribuito alla conversazione.

LA SFERA DI COMPETENZA

Parlare di biciclette è semplice, tutti hanno un’opinione al riguardo e quindi più cose da dire. Quando qualcosa è al di fuori della nostra sfera di competenza, come una centrale nucleare, non proviamo nemmeno ad articolare un’opinione. Ma quando qualcosa è appena comprensibile, anche se non abbiamo nulla di valore da aggiungere, ci sentiamo obbligati a dire qualcosa per non sembrare stupidi. Chi non ha niente da dire su una rimessa per biciclette? Tutti vogliono dimostrare di conoscere l’argomento in questione.

Qualunque sia la decisione, non dovremmo dare uguale importanza a ogni opinione. Vanno enfatizzati gli input di coloro che hanno esperienza in merito. E se siamo noi a voler intervenire, dovremmo chiederci se ciò che vogliamo dire è davvero utile e prezioso ai fini della decisione.

STRATEGIE ANTI-BIKESHEDDING

Avere uno scopo e un obiettivo chiaro impedisce di cadere vittime del bikeshedding.

La specificità è un ingrediente cruciale. Così facendo sarà facile rendersi conto che non è una grande idea discutere la costruzione di una centrale nucleare e di un capanno per biciclette nella stessa riunione. Non c’è abbastanza specificità.

Le opinioni più informate sono le più rilevanti. Questo è uno dei motivi per cui non è strategico invitare alle riunioni un numero eccessivo di persone presenti, se non portano valore aggiunto alla discussione. Tutti vogliono partecipare, ma non tutti hanno qualcosa di significativo da contribuire. Evita di invitare coloro che difficilmente hanno conoscenze ed esperienza pertinenti. Ottenere il risultato desiderato, una discussione ponderata e informata sulla centrale elettrica, dipende dall’avere le persone giuste nella stanza.

Utile è organizzare riunioni specifiche per tipologia di decisione da prendere. Se un problema complesso viene portato in una riunione con un lungo ordine del giorno, può perdersi tra questioni banali. Se è l’unico punto all’odg,  sarà difficile evitare di parlarne.

Esempio – Zoom come soluzione

A causa del COVID-19, le riunioni Zoom sono diventate la nuova normalità e potrebbero essere di supporto nel contrastare il bikeshedding.

Zoom versione base infatti consente riunioni gratis di 45 minuti: questo è un antidoto perfetto. Sapere che si ha solo 45 minuti per la riunione può aiutarci a rimanere concentrati sulle questioni importanti. Zoom ci dà anche promemoria di quanto tempo è rimasto, il che significa che se la discussione è andata fuori strada, questi promemoria possono aiutare a riportare il gruppo sulla questione importante.

Riepilogo

Il bikeshedding descrive la nostra tendenza a passare troppo tempo a discutere di questioni banali e, di conseguenza, troppo poco tempo a discutere di questioni importanti. Descrive la relazione inversa tra il tempo trascorso e l’importanza di un problema.

Si verifica perché è molto più facile discutere questioni semplici che comprendiamo adeguatamente. Nei contesti di gruppo, spesso cerchiamo di esprimere le nostre opinioni come un segno di partecipazione e abbiamo maggiori probabilità di parlare di un problema relativamente semplice perché è scoraggiante discutere di un argomento complicato, anche se è più importante.

Il bikeshedding può essere evitato cercando di rimanere in tema. Per rimanere concentrati su questioni importanti, possiamo optare per riunioni con un unico punto all’odg; questo rende meno probabile che si vada fuori strada, o ancora, assegnare una persona specifica che tenga conto del tempo a disposizione. Un altro modo è limitare la partecipazione alla riunione alle persone strettamente necessarie.

 

Fonti
  1. https://effectiviology.com/bikeshedding-law-of-triviality/
  2. https://www.lifehack.org/articles/featured/how-to-use-parkinsons-law-to-your-advantage.html
  3. https://fs.blog/2020/04/bikeshed-effect/
  4. https://www.safaribooksonline.com/library/view/perspectives-on-data/9780128042618/
  5. Schachter, H. (2020, July 18). Explaining ‘bikeshedding’: When trivial things waste meeting time: Bikeshedding, or the law of triviality, can often eat up precious minutes in meetings as attendees get caught up with trivial topics. The Globe and Mail