L’AGONIA delle CONVERSAZIONI NOIOSE

Abbiamo tutti esempi di conversazioni noiose in cui siamo rimasti intrappolati e che siamo stati incapaci di chiudere in tempi rapidi. Ciò che però ignoriamo è che spesso, sono entrambi gli interlocutori a volere termine la chiacchierata, prima di quanto poi avviene.

Nolenti o volenti, perdiamo la capacità di soddisfare i nostri interessi e di allinearci a quelli di coloro con cui stiamo chiacchierando. Perdendo tempo prezioso o non sfruttandolo al meglio.

Non siamo cioè né efficaci, né strategici.

LA RICERCA DI HARVARD

A mostrare la nostra incapacità di mettere fine a conversazioni poco utili o a gestirle tanto da farle diventare efficaci se non per noi, almeno per l’altro, due esperimenti condotti da un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia dell’Università di Harvard.

In uno, 252 persone reclutate all’interno del dipartimento di psicologia, sono stati accoppiate per tenere una conversazione che poteva durare, a loro piacimento, fino a 45 minuti.

Nel secondo, a 806 volontari reclutati casualmente, è stato chiesto di rispondere ad alcune domande riguardo alle loro conversazioni più recenti, e nello specifico di dichiarare se il momento in cui avrebbero voluto concludere la conversazione e il momento della fine effettiva, coincidessero.

I RISULTATI

In entrambi i casi:

–        più di due terzi ha riferito che la conversazione era durata più a lungo di quanto avesse voluto,

–        il 10% dichiarato che la conversazione era stata troppo breve e che avrebbe voluto continuare a parlare,

–        a essere soddisfatti della durata appena il 2%.

I risultati complessivi degli esperimenti indicano che la durata desiderata delle conversazioni è di circa la metà rispetto a quella effettiva. È emersa inoltre una generale incapacità di intuire i desideri dell’altra persona. Alcuni partecipanti hanno infatti sovrastimato le intenzioni dell’altro: le ipotesi erano sbagliate nel 64% dei casi.

Dale Barr, psicologo all’Università di Glasgow, ritiene quello di Harvard il primo studio che prova a misurare con precisione quanto sia difficile per le persone bilanciare i propri desideri con ciò che desiderano i loro interlocutori. Altre ricerche, supportano quanto le persone siano meno capaci a decifrare cosa pensano gli altri rispetto a quanto immaginano.

E se a peggiorare la situazione si aggiungessero anche i bias?

QUANDO I BIAS NON AIUTANO

Insomma, non siamo bravi né a soddisfare i nostri interessi né quelli dei nostri interlocutori. Non solo non siamo strategici ma nemmeno efficaci. Almeno in alcuni tipi di conversazione. Tanto da preferire di rimanere intrappolati, per non offendere l’altro, che trovare una vita di uscita.

Una delle ragioni è da attribuirsi al courtesy bias, il pregiudizio che spinge a essere cortesi con coloro che cercano la nostra opinione, o che paiono ascoltarci. Questo impedisce la libera espressione di qualsiasi feedback onesto che potrebbe essere percepito come negativo dal destinatario. Mentre il bias di cortesia può salvare le persone da situazioni di disagio a breve termine, può anche ostacolare scambi costruttivi che possono aiutare a migliorare le cose.

Non è da meno il bias dello status quo, la tendenza a lasciare le cose come stanno. E quindi se anche ci annoiamo, riteniamo che siamo meno faticoso che intervenire cambiando strategia.

Ad annebbiare la nostra percezione potrebbe intervenire anche l’effetto del falso consenso, che induce a vedere le proprie scelte e giudizi come comuni e appropriati alle circostanze esistenti. Presumendo che gli altri la pensino come noi, sopravvalutiamo quanto gli altri possano condividere i nostri pensieri, le nostre azioni e atteggiamenti. Tanto da non farci nemmeno considerare che ciò che stiamo dicendo forse non è così interessante per chi ci sta davanti.

Questo è appena un breve excursus, a cui si sommano molti altri pregiudizi a seconda del contesto e dell’interlocutore che si prende in considerazione all’interno di una qualsiasi interazione. Sarebbe errato ignorarne impatto e portata. Più sfidante, purché si riesca a bypassare lo status quo, è trovare tutti gli altri.

Con il senno di poi, per concludere, è molto chiaro il motivo per cui, in molti casi, preferiamo parlare davanti a un drink o pranzando: a un certo punto il bicchiere vuoto o il conto da pagare offrono un appiglio per porre fine all’agonia di quella conversazione.

L’OPPORTUNITA’ di ESSERE una PECORA NERA (al LAVORO)

Essere definiti una pecora nera non piace a nessuno. Questo perché il termine viene usato a pretesto per connotare negativamente decisioni e comportamenti di persone che si distinguono dalla massa, generando quindi vergogna alla famiglia, al team o all’organizzazione di cui fanno parte.

Tuttavia, ciò che la maggior parte delle persone non sa è che ci sono diversi tipi di pecore nere:

–         quelle che si distinguono in un nucleo familiare o organizzativo disfunzionale o tossico

–         quelle che non si conformano a una dinamica familiare o aziendale sana

–         quelle che sono semplicemente diverse dal nucleo familiare e professionale in generale.

E già solo da questa classificazione si capisce che non tutte le pecore nere vengono per nuocere. Scherzi a parte e senza entrare in ambito analitico (e men che meno nella psicopatologia), la riflessione che voglio generare con questo primo articolo del 2025 è sull’utilità che gli outsider hanno nel nostro quotidiano professionale. Poiché trovo curioso che vengano accusati di provocare imbarazzo, anziché sia chi lo prova a chiedersi il perché…

Posso dire di esserlo. Non sempre, non solo. Talvolta meno di quanto vorrei. Ho fatto tante scelte coraggiose, bollate come insensate. Mi sono sentita dare della kamikaze (quando ho lasciato la carriera di docente universitaria per la libera professione), dell’egoista (quando ho scelto la ricerca anziché un posto fisso in una realtà pubblica), dell’ossessiva (quando in giovane età mi alzavo alle 5 del mattino per allenarmi prima di andare a scuola allo scopo di entrare in nazionale), della persona arida (quando optavo per i turni notturni nel week end per avere più tempo libero in settimana per prendermi una seconda laurea) ecc, ecc.

Raramente mi è stato chiesto il motivo delle scelte difficili. Era più facile etichettarmi… Quante volte mi sono sentita dire “tu sei diversa, non sai divertirti”. Forse è così. Sul divertirsi ho molto da imparare, anche se per me un buon libro o imparare e cimentarmi in cose nuove è un piacere irrinunciabile. Forse, in virtù dei fine anno, quando si tirano un po’ le somme, mi è sembrato un buon motivo spendere sulle pecore nere, me compresa, qualche parola.

La vita è più facile per una pecora bianca

Essere una pecora nera in un mondo pieno di pecore bianche può essere demotivante. La società incoraggia a comportarsi da pecore bianche e molti fingono di esserlo perché semplifica loro la vita in molti modi. Eppure, riconoscere e accettare la propria natura dà almeno una grande ricompensa: consente di ottenere e vivere più cose che si desiderano. Posso dire che la maggior parte delle volte che mi sento profondamente soddisfatta è quando faccio le scelte giuste per me, non quelle che gli altri ritengono giuste per me. E questo dettaglio non è semplice semantica!

Lavorare il doppio

Proprio così. Chi mi conosce sa quanto ho faticato per poter portare avanti le mie idee, con lavori diversi da mettere in equilibrio, che per tanti sembravano antitetici e distanti e io vedevo, a ragione, come una sovrapposizione estesa tra i ruoli poiché ciò che insegnavo e ricercavo accademicamente equivaleva a ciò che mettevo in atto imprenditorialmente.

La vita è più appassionante quando sei una pecora nera

Come ho fatto a sopportare notti insonni, turni massacranti e poche occasioni di svago e divertimento? Semplicemente perché sono profondamente appassionata dalla mia carriera da “pecora nera”. Quindi, anche quando non ho intenzione di lavorare in un giorno particolare, spesso non posso fare a meno di fare qualcosa direttamente o indirettamente correlato al mio lavoro. Difficilmente ciò che faccio si fa (solo) dovere.

Sacrifici

Accettare di essere una pecora nera, significa anche accettare di vivere in un modo più libero ma anche più umile, meno esuberante, almeno inizialmente. Perché? In un mondo governato da pecore bianche, tutte le pecore che sono bianche tendono a essere ricompensate in modo più generoso e affidabile delle pecore nere non convenzionali e anormali.

Osa essere antipatico

Se scegli di vivere la vita come una pecora nera, una cosa è certa: non sarai amato dalla maggior parte delle persone. Le pecore nere sono, per definizione, i membri stravaganti di una famiglia o di una società che non si allineano con gli altri. Sono casi anormali che si discostano dalla norma. Lo spiega bene la curva di adattamento all’innovazione di Everett Rogers:

  • Nel mondo degli affari e della società, le pecore nere sono spesso gli innovatori che guidano il cambiamento e si rifiutano di adattarsi (2,5%).
  • Le uniche altre persone a cui piace ciò che fanno questi pionieri sono i primi utilizzatori (13,5%), che favoriscono allo stesso modo il progresso e il cambiamento e li supportano approvando e parlando del lavoro degli innovatori.
  • Il restante 84% delle persone non ama i cambiamenti e ti considera una pecora nera innovativa, con un certo divertimento (maggioranza iniziale, 33%), un leggero fastidio (maggioranza tardiva, 33%) o una grande disapprovazione (ritardatari, 18%).

Quindi vivere e lavorare come una pecora nera innovativa (non solo per il piacere di essere una pecora nera, ovviamente) richiede il coraggio di non piacere ad almeno metà delle persone che incontri. Ma se cerchi di piacere a tutti, finisci per non piacere a nessuno, men che meno a te stesso. Quindi, concentrati sul viaggio, non sulla destinazione.

CONCLUSIONE

Non occorre essere una pecora nera per essere felici e realizzati. Basta essere sé stessi, a prescindere da cosa dicono e vogliono gli altri (per noi). Questo non vuol dire andare contro tutto e tutti, ma essere sufficientemente focalizzati da ascoltare ma poi decidere da soli su ciò che è importante per noi. Ricordandosi che il riconoscimento siamo noi a darcelo e nessun altro. Insomma, essere una pecora nera dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un errore!

L’ILLUSIONE del GENIO CINICO e lo SCETTICISMO come ANTIDOTO

Li conosciamo tutti i #cinici, freddi, insoddisfatti, indifferenti, insensibili, sfiduciati verso tutto e tutti, costellati di dubbi e con la convinzione che gli altri agiscano per proprio tornaconto o che comunque mentano sulle finalità per cui dichiarano di fare qualcosa.

Per quanto sembri facile codificarli, non sono una categoria fissa, come possono essere i fisioterapisti o gli avvocati. Il cinismo è uno spettro. Abbiamo tutti momenti cinici, o nel mio caso, mesi cinici. La domanda è perché finiamo nella trappola del cinismo, anche se ci fa male.

Se il cinismo fosse una pillola, il bugiardino elencherebbe fra gli effetti, depressione, malattie cardiache e isolamento. In altre parole, un veleno. Allora perché così tanti la ingoiano? Uno dei motivi è pensare che il cinismo abbia anche un importante effetto collaterale positivo: l’intelligenza.

Prima di proseguire, lasciatemi contestualizzare… o saltate il prossimo paragrafo…

DA DOVE HA ORIGINE LA PAROLA

Deriva dal greco antico, dal temine kyon ovvero cane. Cinico si ricollega alla vita misera che professavano Diogene di Sinope e i suoi seguaci nel V secolo a.C. Diogene, e il suo gruppo, denunciavano l’ipocrisia della società: la loro idea filosofica inseguiva uno stile di vita che non sbagliamo a definire minimalista. In particolare, questa filosofia professava l’importanza di vivere in totale sintonia con quelli che erano i ritmi della natura, senza fronzoli. Una vita che lo stesso Diogene definivapovera come quella di un cane”. Da qui l’abitudine di considerare cinico chi disprezza ogni aspetto della società.

Il termine cinismo, nel modo in cui è adoperato oggi, è distante dal significato originario: identifica un disprezzo e una sfiducia verso principi morali, regole, valori, ideali, convenzioni sociali, principi relazionali e altre convenzioni che può anche sfociare nella totale indifferenza. Quello che spinge la persona cinica a comportarsi secondo questo schema  è un individualismo fortissimo e una totale sfiducia nelle altre persone che sono tutte allo stesso modo giudicate non credibili, corrotte e inaffidabili. Il cinico non ha scrupoli. Niccolò Machiavelli, uno dei più noti cinici moderni, era solito affermare il fine giustifica i mezzi”.

IL CINISMO NELLA SOSTANZA

Per capire meglio come si attua il cinismo, immaginate due individui Andrea e Bruno. Andrea crede che la maggior parte delle persone mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe se potesse trarne vantaggio. Quando qualcuno agisce con gentilezza, sospetta secondi fini. Bruno, invece, pensa che la maggior parte delle persone sia altruista e non mentirebbe, imbroglierebbe o ruberebbe. Crede che le persone agiscano in modo altruista.

Sapendo solo ciò che avete letto finora, chi scegliereste per ciascuno di questi incarichi: Andrea o Bruno?

  1. Scrivere un saggio argomentativo efficace
  2. Prendersi cura di un gatto randagio
  3. Calcolare gli interessi su un prestito
  4. Rallegrare un adolescente malato d’amore

Se avete scelto il nostro cinico, Andrea, per i compiti 1 e 3, e Bruno per i 2 e 4, rientrate nella media. I lavori dispari, cognitivi, richiedono un pensiero preciso; quelli pari sono sociali, e richiedono la capacità di connettersi. I ricercatori hanno recentemente chiesto a cinquecento persone di scegliere fra una persona con tratti cinici o una che non ne ha, per molti compiti come questi. Il 90% ha scelto Bruno per i compiti sociali, ma il 70% ha scelto Andrea per quelli cognitivi. Si sono comportati come se i non cinici fossero gentili ma ottusi e i cinici fossero pungenti ma acuti.

Detto in altri termini:

la maggior parte delle persone pensa che i cinici siano intelligenti dal punto di vista sociale, capaci di fare a pezzi la menzogna e di tirare fuori la verità.

I CINICI IN AZIENDA

In un altro studio, le cavie dovevano selezionare fra due persone, Susanna o Carla, quella che ritenevano più idonea a ricoprire determinati incarichi, fra cui gestire dei colloqui, sapendo che entrambe le risorse avevano mentito per ottenere il lavoro.

Ambedue ugualmente competenti, Susanna tende a “vedere le persone in modo positivo e la sua aspettativa di default è che tutti quelli che incontra siano fondamentalmente affidabili“. Carla invece pensa che “le persone cercheranno di farla franca in ogni modo possibile“.

L’85% degli intervistati ha scelto Carla, convinti che sarebbe stata più brava a individuare i bugiardi.

Più di un secolo fa, lo scrittore George Bernard Shaw ironizzava dicendo che “il potere dell’osservazione accurata è comunemente chiamato cinismo da coloro che non lo possiedono“. Le persone che contano su Andrea e Carla sono d’accordo. Di creduloni è pieno il mondo, ma nel tempo, si impara a non fidarsi a prescindere, e alla fine a fidarsi di nessuno.

CINISMO: SEGNO DI INTELLIGENZA?

Se il cinismo è un segno di intelligenza, allora qualcuno che vuole apparire intelligente potrebbe indossarlo, come si fa con un abito. E in effetti, quando i ricercatori chiedono alle persone di apparire il più competenti possibile, rispondono attaccando, criticando ed esibendo la versione più cupa di se stesse per impressionare gli altri.

La maggior parte di noi valorizza le persone a cui non piacciono le persone. Basta guardare la tv o i social per rendersi conto di quanto i cinici la facciano da padrone, con seguaci infiniti e schiere di follower a difenderli a spada tratta soprattutto quando vengono maltrattati e offesi. Senza contare alcuni proseliti e fautori della leadership gentile: lupi travestiti da agnelli, gentili quanto serve, lupi famelici in azienda. Non è incoerenza, piuttosto l’applicazione del sopracitato consiglio machiavellico.

Però il cinismo non è un segno di saggezza. Più spesso è il contrario. In studi su oltre 200 mila individui in trenta nazioni, i cinici hanno ottenuto punteggi inferiori nei compiti che misurano le capacità cognitive, la risoluzione dei problemi e le capacità matematiche. I cinici non sono nemmeno acuti socialmente, e hanno prestazioni peggiori dei non cinici nell’identificare i bugiardi. Ciò significa che l’85% di noi è anche pessimo nello scegliere i rilevatori di bugie. Scegliamo Carla per arrivare in fondo alle cose quando dovremmo unirci al team di Susanna.

In altre parole, il cinismo sembra intelligente, ma non lo è. Eppure, lo stereotipo del sempliciotto felice e credulone e del misantropo saggio e amareggiato sopravvive, abbastanza ostinato da essere stato definito dagli scienziati “l’illusione del genio cinico“.

SCETTICISMO COME CURA

Se il cinismo è un agente patogeno, possiamo creare resistenza con lo #scetticismo: una riluttanza a credere ad affermazioni senza prove. Cinismo e scetticismo vengono spesso confusi, ma non potrebbero essere più diversi.

Il cinismo è una mancanza di fede nelle persone; lo scetticismo è una mancanza di fede nelle ipotesi.

I cinici immaginano che l’umanità sia orribile; gli scettici raccolgono informazioni su chi possono fidarsi. Si aggrappano alle convinzioni con leggerezza e imparano rapidamente.

Questa mentalità ci offre un’alternativa al cinismo. In uno studio dopo l’altro, la maggior parte delle persone non riesce a rendersi conto di quanto gli altri siano generosi, affidabili e aperti. La persona media sottovaluta la persona media.

Avvicinandoci allo scetticismo, prestando molta attenzione anziché trarre conclusioni affrettate, potremmo scoprire piacevoli sorprese ovunque. Come dimostra la ricerca, la speranza non è un modo ingenuo di approcciarsi al mondo. È una risposta accurata ai migliori dati disponibili. Si può essere “scettici fiduciosi“, che uniscono l’amore per l’umanità a una mente precisa e curiosa. Questa è una sorta di speranza che persino i cinici possono abbracciare e un’opportunità per sfuggire a bias ed euristiche intrappolano tanti di noi.

OMAN del Sud: l’EREMITA del Medio Oriente

Sono poche le occasioni in cui il sultanato dell’Oman fa parlare di sé: discrezione è la parola che forse meglio caratterizza questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. L’ho capito ancora prima di partire, quando in chi mi chiedeva dove stavo andando, leggevo un certo smarrimento. Una sfida per chi si occupa di #cross culture e #comportamenti.

La posizione geografica, l’affacciarsi sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico, lo Yemen da una parte e l’Arabia Saudita sopra, fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo. Ed è forse per questo che, un altro termine per descriverlo, è neutralità.

Costellato di forti, castelli e torri, nessuno (o quasi) cartellone pubblicitario, il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, l’Oman è il volto dell’#ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’Islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.

Le diversità religiose e culturali sono ben accette: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore, una sorta di azione di discernimento. Si preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.

La sobrietà permea il paese. La veste tradizionale – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo individuare turisti e immigrati.

CULTURA AZIENDALE

La cultura aziendale è conservatrice e la formalità ha la sua importanza. Meglio, al primo approccio, essere presentati da qualcuno che conoscono, con cui hanno un rapporto personale. Quasi la #fiducia necessitasse di un intermediario (noto) per ridurre i rischi, verso cui gli omaniti sono profondamente avversi. Una delle tante contraddizioni, insomma…

Tendono a farsi vicini, durante la conversazione, tanto da violare lo spazio personale. Ma per questo non meno ospitali, anche verso gli stranieri. Per loro è sufficiente che si comprendano le regole del Paese e le si rispetti, come vestirsi in modo appropriato e rispettare il tempo dedicato alla preghiera.

Qualcuno l’ha definita leadership gentile, erroneamente. Perchè anche se il capo tende a non rimproverare pubblicamente dipendenti e collaboratori, per una questione di rispetto e dignità, difficilmente viene messo in discussione. Molto più simile a una sudditanza, in virtù del fatto che nessuno si azzarda a prendere qualsiasi forma di iniziativa: chi non decide, chi non comanda, si limita a fare ciò che gli viene detto. Un’ottima palestra per imparare la delega. In un termine: frustrante all’inverosimile.

CAMBIAMENTO

La propensione al rischio è scarsa. Ogni nuovo progetto viene analizzato attentamente per garantire che qualsiasi rischio rappresenti sia pienamente compreso e affrontato.

Per fare il modo che il #cambiamentoabbia effetto, l’idea deve essere accettata dal gruppo. La sensibilità culturale è importante, poiché l’atteggiamento dell’Oman nei confronti del rischio è fortemente influenzato dalle conseguenze negative del fallimento sia sul singolo individuo che sul gruppo.

Meglio saperlo o si rischia il burn out!

TEMPO E PRIORITA’

Gli omaniti non sono soliti forzare il rispetto di una scadenza. Questo fa sì che, in genere, le cose richiedano più tempo del previsto, perché le riunioni vengono spesso interrotte e potrebbero essere necessari diversi meeting per fare ciò che potrebbe essere gestito con una telefonata a casa. È consigliabile sottolineare l’importanza della scadenza concordata. La pazienza è fondamentale.

COMUNICAZIONE E NEGOZIAZIONE

Lo stile comunicativo è indiretto e ad alto contesto. Salvare la faccia, agire in modo appropriato e proteggere le relazioni sociali sono importanti fattori trainanti.

Affrettare le cose, potrebbe mettere a repentaglio i rapporti d’affari. A guidare gli omaniti sono gli eventi e non il tempo. L’incontro in sé è più importante della tempestività o dell’esito. Gli omaniti sono abili negoziatori: vedono la contrattazione come un intrattenimento e la negoziazione segue generalmente un atteggiamento vinci/perdi. Preparatevi a scendere sia nei prezzi che nelle condizioni. Meglio non fissare un prezzo iniziale così alto da far apparire evidente, dal prezzo finale, che non ti aspettavi di saldare l’ordine a quel prezzo. C’è la tendenza a evitare di dare cattive notizie e a dare accettazioni fiorite, che possono significare solo forse.

COSTUMI SOCIALI

L’Oman è una società tribale, sebbene l’influenza tribale stia gradualmente diminuendo. Le usanze sociali sono meno rigide di quelle della vicina Arabia Saudita: il consumo di bevande alcoliche, ad esempio, è illegale per i cittadini omaniti, ma è consentito ai visitatori nei ristoranti autorizzati.

La maggior parte degli uomini indossa una tradizionale tunica di cotone intrecciato, e il copricapo consiste in un leggero turbante di cotone o lana. Molti uomini continuano a portare con sé un pugnale corto, largo, curvo e spesso molto decorato, infilato nella cintura anteriore.

Il momento del pasto è il centro degli incontri sociali. Il pasto tipico è composto da riso, agnello o pesce speziato, datteri e caffè o tè. A fine pasto viene bruciato l’incenso.

LE DONNE

In Oman le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un’attività. Grazie ai proventi del petrolio e alla mentalità progressista, il paese è catapultato nell’era moderna. Relegate un tempo nelle case ed escluse dalla vita pubblica, molte sono, oggi, in grado di intraprendere una vera carriera. Nel 2002 è stato istituito il suffragio universale per tutti i cittadini sopra i 21 anni. Nel 2008 un decreto reale ha stabilito uguali diritti ereditari e la presenza femminile nelle scuole è in costante ascesa.

Il Sultano, precedente, così come quello attuale, ha sempre enfatizzato l’importanza delle donne nel processo di crescita del paese, con numerosi ambasciatori e ministri di sesso femminile. Hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di istruzione e possono usufruire di permessi per le gravidanze e l’allattamento.

Sfortunatamente esistono ancora molti pregiudizi e numerose attività, in campi come l’agricoltura e l’ingegneria, sono state giudicate “inappropriate”. Il maggior ostacolo è rappresentato dalla mentalità conservatrice degli uomini arabi che sono convinti della propria superiorità e ritengono che il sostentamento della famiglia sia responsabilità esclusivamente maschile. Molto diffuso, l’effetto “soffitto di vetro” che blocca le carriere e impedisce l’accesso alle posizioni di potere.

Nelle realtà rurali, dove è ancora forte il modello patriarcale, i cambiamenti sono pochi e i matrimoni combinati. Le unioni d’amore sono rarissime anche negli strati più alti della società. Nonostante la legge omanita sancisca la libertà, prevale la tradizione: è il padre a essere responsabile della felicità della propria figlia. La verginità è un requisito imprescindibile e il mancato superamento della verifica getterà onta su tutto il clan.

Nei nuclei familiari poligami, la prima moglie è solitamente una cugina e la seconda una parente alla lontana. Benché l’Islam consenta di avere sino a 4 mogli, gli uomini preferiscono divorziare e risposarsi, lasciando così la prima moglie senza reddito né supporto. Nelle case vivono normalmente tre generazioni anche se cominciano a vedersi coppie indipendenti che, tuttavia, mantengono stretti legami con il resto della famiglia.

L’uomo più anziano detiene la massima autorità mentre la donna più anziana è responsabile dell’organizzazione domestica. La legge ereditaria è governata dalla Sharìa e nelle società beduine le donne spesso cedono la loro eredità a figli o fratelli in cambio della promessa di assistenza nella vecchiaia.

Benché le donne siano, almeno formalmente, libere di interagire con l’altro sesso, preferiscono essere accompagnate agli eventi pubblici da un parente maschio. Fuori casa si avvolgono nell’abaya nera, il volto coperto dal velo che lascia liberi solo gli occhi, pesantemente truccati. Le donne beduine, invece, indossano coloratissimi abiti tradizionali che prevedono l’uso del burqa, sormontata da una cresta che le fa assomigliare ad uccelli rapaci. Un tempo usate per proteggersi da sole e sabbia, oggi queste maschere più che un obbligo sono un vezzo. Sotto l’abaya si celano abiti colorati, eleganti e sensuali, destinati a essere sfoggiati solo in famiglia.

Nonostante la modernizzazione, è ancora in uso, soprattutto nel Dhofar, dove ho passato diversi giorni di questo mio ultimo soggiorno, la pratica della circoncisione femminile: negli ospedali omaniti, in accordo con le direttive delle Nazioni Unite, la mutilazione genitale femminile è bandita ma nelle corsie delle maternità si aggirano ancora le donne con l’incensiere, chiamate dalle stesse madri per perpetrare questa usanza ancestrale. L’argomento è tabù. Non viene discusso nemmeno in privato e, spesso, gli uomini sono tenuti all’oscuro.

Mentre nel nord si tratta ormai soltanto di una cerimonia dal valore simbolico, nel sudè brutale e prevede l’asportazione del clitoride e talvolta anche delle piccole labbra. Retaggio della tradizione e non di un obbligo religioso. Le credenze popolari vogliono che il taglio di parte dei genitali esterni delle donne ne stemperi l’ardore e il desiderio sessuale con buona pace delle famiglie. Il cammino verso la conquista della libertà è arduo e faticoso ma, almeno in Oman, il primo seme è stato gettato.

CONCLUDENDO…

Nelle contraddizioni di un paese costellato di culture così eterogenee ho imparato molto, ho fatto a botte con la pazienza e il tempo, l’incapacità di avere risposte a domande neanche troppo complesse, camminato su spiagge incontaminate per chilometri, respirato sabbia e nuotato in un oceano arrabbiatissimo popolato di pesci dai colori brillanti. E se al Nord le cose sono quasi semplici, al sud, specie al confine con lo Yemen, non c’è posto per il turista distratto, poco avvezzo ai viaggi. Ogni passo si fa pesante, conflittuale. Non si respira aria di guerra ma di tradizioni. E quelle, si sa, sono dure a morire. E sentirsi soli e diversi è un attimo!

 

QUANTO è INCLUSIVO essere INCLUSIVI?

L’inclusività è utile fin quando non esclude. Mi ritrovo a spiegare a chi mi chiede percorsi di formazione aziendali su empowerment e leadership femminile. Non dovrebbe esistere una leadership di genere. Percorsi formativi in tal senso servono più a potenziare l’idea per cui le donne non sono sufficientemente preparate e quindi devono essere formate per raggiungere il livello degli uomini. Una contraddizione in termini. E non lo penso in quanto donna. Rispondo allo stesso modo anche quando mi vengono chiesti percorsi per formare gli uomini a sviluppare empatia.

Consapevole di camminare su un terreno minato, anticipo che questo scritto non vuol essere provocatorio, tutt’altro. Vorrei, piuttosto, che mi aiutaste a soddisfare la domanda “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”, affinchè non si trasformi, il quesito, in dilemma.

Ecco il tema controverso, della newsletter di questa settimana.

COSA SUCCEDE INTORNO A NOI

Una fetta di mercato preferisce rinunciare a perseguire le politiche DEI (Diversity, Equality, Integration) anche con il rischio di alienare le simpatie dei consumatori più conservatori.

Jack Daniel’s, produttrice del celebre Tennessee whiskey, l’Old No 7, la cui caratteristica è di essere filtrato al carbone attivo di acero e poi invecchiato in botti fatte a mano, un’icona anche per chi non beve, ha annunciato la cancellazione dei programmi DEI a causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. Temendo di perdere, alla lunga, i clienti conservatori – come accadde l’anno scorso alla birra Bud Light, boicottata negli Usa dopo una promozione con l’attrice e tiktoker transgender Dylan Mulvaney – l’azienda del Kentucky ha scritto ai dipendenti annunciando di cambiare rotta: non più premi e incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi sull’inclusione (vi era destinato il 10% del budget) ma, come accadeva un tempo, correlati alle performance aziendali.

Stessa cosa anche per gli obiettivi sulla diversità nella forza lavoro e sui rapporti preferenziali con aziende partner che praticano la valorizzazione della diversità. Stop alla partecipazione al Corporate Equality Index, strumento della Human Rights Campaign Foundation che redige le pagelle alle aziende in base al trattamento di dipendenti e consumatori LGBT.

Jack Daniel’s vuole essere apprezzata soltanto per il pregio dei suoi whiskey.

Stessa scelta operata da Harley-Davidson: cancellati i programmi di inclusione, le quote di assunzione riservate a donne e a minoranze, gli obiettivi di spesa per fornitori che appartengono a minoranze e disconosciuta l’Human Rights Campaign. Il tutto per «non spaccare la comunità» di harleysti.

Tra le altre aziende, la John Deere che fa macchine agricole e tagliaerba, la Polaris che produce motoslitte e moto d’acqua e la catena Tractor Supply che vende prodotti per l’agricoltura, la casa e il barbecue.

Errato non cercare di capire cosa non ha funzionato.

INCLUSIONE: tutta questione di sfumature?

La ricerca scientifica, per tornare alla domanda inziale, “Quanto è inclusivo essere inclusivi”, si è data una risposta:

un contesto è inclusivo quando è sufficientemente stabile da tenere la sua forma e, allo stesso tempo sufficientemente malleabile da favorire il cambiamento in funzione di chi arriva.

Un po’ astratto il concetto, vista la complessità. Vero è che gli esseri umani hanno bisogno di regole, strutture, logiche e identità precise. Non c’è spazio per le sfumature, mentre dribbliamo fra le mine dell’inclusività a tutti i costi.

Bernardo Ferdman, dottorato a Yale e Cattedra in Psicologia delle organizzazioni, ha aggiunto altre domande, le stesse probabilmente che si è posto ognuno di noi, quando è riuscito a superare, indenne, il campo minato:

  • Per essere inclusivi dobbiamo trattare tutti allo stesso modo?
  • Dobbiamo allinearci allo stesso modo di pensare oppure promuovere completa libertà?
  • Dobbiamo raggruppare le persone per identità oppure mixarle?

Ecco che le sfumature di inclusione sono diventate tre paradossi più qualche soluzione.

TRE PARADOSSI

SENTIRCI SIMILI O DIVERSI? Come promuovere appartenenza così da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e dare valore al gruppo?

Succede all’ultimo arrivato in ufficio, ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, a un musulmano in mezzo ai cattolici, a una donna in un contesto maschile…

L’appartenenza accade quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. O quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo conformarci alle regole del sistema.

Il dilemma si muove così: mi dicono che siamo tutti uguali oppure mi dicono che siamo tutti diversi. Come possiamo essere simili e diversi allo stesso tempo?

Andando oltre il paradosso. Essere insieme simili e diversi. Accettare che appartenenza e distintività portano con sé una connessione profonda. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo. Ma anche evitando gli stereotipi e la generalizzazione.

NORME RIGIDE O FLESSIBILI? Cosa definisce chi siamo? Quante sono flessibili o rigide le norme?

“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera conflitto.

L’inclusione delle norme rigide risponde: “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.

La verità sta, come nella maggior parte delle volte, nel mezzo, anche se può non piacere, poiché va a discapito del privilegio.

Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo? Andando oltre il paradosso. Dandosi delle regole precise e saperle ridiscutere.

Immaginiamo un nuovo arrivato in un team formatosi da una decina d’anni. È importante che le regole siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione. Inclusione, non significa assenza di regole o la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.

Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola principe è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è richiesta la divergenza. C’è continuità ma si dà spazio ai nuovi e al nuovo per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.

AL SICURO O A DISAGIO? Come si gestisce la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente inclusivo?

“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio” dice l’inclusione al sicuro.

“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.

La diversità ci obbliga a farci domande e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?

Andando oltre il paradosso. Utilizzando la forza dirompente del disaccordo. Il comfort è importante ma ha dei limiti. Anche quando parliamo di inclusione. Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto. Perché proprio coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo, sono importanti per la crescita personale e collettiva. Il cambiamento è possibile quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi. E’ lì che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri.

SE L’INCLUSIONE (NON) E’ UN  TREND, QUANTO DURERA?

Per cercare di capire se l’inclusione durerà, ho analizzando i tre report più completi sulla D&I:

“Diversity, Equity and Inclusion Lighthouses 2024” del World Economic Forum, che presenta ogni anno visioni puntuali sulle direttrici strategiche lato diversità, equità e inclusione.

–        Il report di McKinsey: “Diversity Matters Even More”.

–        il “World Employment Social Outlook, Trends 2024” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

La risposta non è semplice: lo dimostra anche il fatto che i responsabili D&I non ne possono più: tra il 2018 e il 2021 il 60% dei responsabili D&I delle 500 aziende inserite nell’indice Standard&Poor’s ha lasciato la sua posizione. Ed è così che la D&I è passata da essere un must a una leva di business che richiede competenze specifiche. E per questo le aziende hanno iniziato ad assumere per questo ruolo non più persone appassionate, ma persone competenti. Oltre al fatto che sempre meno dipendenti e consumatori (soprattutto donne e giovani) si lasciano abbindolare da una campagna di comunicazione.

Ho eluso, fin qui, la domanda. Quindi quanto durerà?

Non solo la D&I non è alla fine del suo viaggio, ma secondo i report, è all’inizio di una nuova era: l’inclusione è diventata una questione di impatto sul lungo periodo. Riguarda il lavoro dignitoso, la partecipazione attiva al mondo del lavoro, il Pil, i Paesi ad alto e a basso reddito. Riguarda chi lavora in nero, chi non ha tutele, chi non ne ha abbastanza. Guerre e pandemie. Ma riguarda soprattutto l’ambizione profonda che racconta del mondo che vorremmo abitare. Un po’ come per la sostenibilità ambientale. Rigenerare oggi, per lasciare a chi verrà un posto migliore di quello che abbiamo trovato.

Chiedersi quanto durerà però potrebbe portare a pensare che c’è tempo. Che è possibile continuare a vivere così ancora a lungo. Che è un problema da rimandare, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi.

La risposta non ce l’ho. Anche dopo aver spulciato ricerche e analizzato le scelte di aziende importanti. Forse, un po’ come in tutte le cose, ci vuole equilibrio. Non fanatismo.

Forse, più semplicemente, non avremo più bisogno di parlarne e dibatterne quando i dati sulla D&I saranno così incoraggianti da non essere considerati più interessanti. Anche se parlarne, un po’ come si fa con l’emergenza climatica, ci fa credere di essere parte attiva, di fare qualcosa, di essere solutori efficaci. Peccato che, solo parlare non basta, o forse sì, almeno per la nostra coscienza. Quando, in fondo, basterebbe non cercare le differenze ma ciò che si ha in comune. A prescindere se sul posto di lavoro o fuori. Anche in assenza di regole di inclusione, anche senza bollini e certificazioni, quasi fosse quello a fare la (vera) differenza…

Voi, cosa ne pensate?

QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Come CONOSCERE una PERSONA: CONVERSAZIONI per APPREZZARE quanto c’è di BELLO negli ESSERI UMANI

Non tutti hanno la capacità (e l’energia) per socializzare e spendere molto tempo fra la gente. Io sono fra questi. Per quanto mi piaccia confrontarmi, parlare e ascoltare le persone, stare da sola a casa a leggere un buon libro, non mi annoia mai. Anzi, mi ricarica.

Ed è di questi due aspetti che voglio scrivere oggi: di libri e di socialità. Rubando idee e suggerimenti a David Brooks, editorialista americano, autore di: How to Know a Person: The Art of Seeing Others Deeply and Being Deeply Seen.

Brooks spiega che le capacità conversazionali e sociali,non sono solo tratti innati, e come tali possono essere apprese e migliorate. Un libro utile per gli introversi, per coloro più a loro agio a stare in silenzio o immersi nei loro pensieri che a chiacchierare, ma non solo.

Difficile leggere How to Know a Person, senza prendere appunti e riflettere sul proprio stile comunicativo.

Nel capitolo “Good Talks“, il focus è su ciò che rende una conversazione significativa. Se ci fermiamo a riflettere, non è così scontato che tutte lo siano. Ci sono occasioni in cui si è pienamente presenti e coinvolti, altre in cui si cerca solo di non venir interrotti pur di poter dire la propria su argomenti di cui, facilmente, gli altri sono poco o nulla interessati.

Una delle lezioni più strategiche del libro è l’importanza dell’ascolto attivo o, come lo chiama Brooks, ascolto ad alta voce. In questo sono piuttosto brava, almeno quando sono molto interessata a un argomento e posso imparare qualcosa di nuovo o aiutare chi mi è di fronte. Su questo, il libro mostra quanto possa essere trasformativo avere lo stesso entusiasmo sia quando si ascolta qualcuno parlare di una difficoltà che sta affrontando sia di un risultato di cui è orgoglioso.

I consigli pratici non mancano.

Porre domande aperte che invitano le persone a condividere esperienze e prospettive in modo più approfondito è un buon inizio. Così come usare la tecnica del looping” o parafrasi: riassumere quanto è appena stato detto per assicurarsi di averlo capito correttamente. O ancora, il metodo SLANT per trasmettere attenzione e interesse in una conversazione: Sit up (siediti); Listen (ascolta), Ask & Answer questions (fai domande), Nod your head (annuisci) e Track the speaker (segui l’oratore).

Pratiche che ci permettono di essere presenti e in sintonia in tutti i tipi di relazioni e interazioni e di far sentire gli altri ascoltati e apprezzati.

Nel capitolo “The epidemic of blindness”, il focus è la tecnologia e come questa ha contribuito a un crescente senso di solitudine e disconnessione. Siamo più connessi che mai, ma ci stiamo davvero vedendo e comprendendo?

Questa domanda diventa ancora più urgente se si considerano le divisioni sociali e politiche evidenziate da Brooks. Le statistiche che cita sull’aumento di depressione, suicidi e della sfiducia sono allarmanti e sostiene che “questo sfaldamento sociale sta alimentando le divisioni politiche”. La sua discussione su come la politica possa diventare un sostituto della connessione genuina, portando le persone a trarre soddisfazione dall’urlare contro e odiare coloro con cui non sono d’accordo invece di cercare di capirli, evidenzia una tendenza di cui è difficile non preoccuparsi.

Nel libro, David collega questi mali sociali ai cambiamenti del sistema educativo. Sostiene che le scuole si sono allontanate dall’insegnamento di ciò che lui chiama “abilità morali e sociali“, e che questo ci ha lasciato impreparati a costruire relazioni e comunità forti. È un argomento interessante e attuale che coinvolge tutti.

Ciò però che rende il libro così avvincente è che ci sfida a mettere in pratica le sue intuizioni. Riguarda l’essere intenzionali nelle nostre interazioni, che ciò significhi porre domande più ponderate, ascoltare le risposte o esprimere un apprezzamento sincero. Riguarda l’affrontare le conversazioni con generosità e curiosità, cercando modi per connettersi e comprendere. E riguarda la consapevolezza che anche piccole cose, come porre la domanda giusta al momento giusto o fare un complimento, possono fare una grande differenza nella costruzione di relazioni. Sono certa che ciò che ho imparato dal libro rimarrà con me per molto tempo.

How to Know a Person, più che una guida per conversazioni migliori, è un modello per un modo di vivere più connesso e umano. Con molti riferimenti a fonti letterarie, scientifiche e psicologiche. È una lettura obbligata per chiunque voglia approfondire le proprie relazioni e ampliare le proprie prospettive, e credo che abbia il potere di renderci amici, colleghi e cittadini migliori.

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

BOSS in INCOGNITO NON è la SOLUZIONE ai PROBLEMI (in AZIENDA)

Facendo zapping, mi sono accorta che Boss in incognito – un reality game che mette a confronto il capo di una fabbrica con i dipendenti – è ripartito sui canali Rai. Più nello specifico, al capo di una importante realtà imprenditoriale, viene camuffato l’aspetto e fatta assumere una identità fittizia così da mescolarsi ai dipendenti e scoprire cosa pensano dell’azienda.

Il successo di un programma televisivo però non sempre è proporzionale alla sua utilità nel risolvere problemi. Per risolvere un problema occorre capire qual è il problema.

Se informazioni e tempo scarseggiano, si diventa vittime di decisioni irrazionali, una tra tutte l’euristica della disponibilitàche fa considerare eventi con una forte componente emotiva, più decisivi e probabili.

Eppure…

Segretezza: elemento chiave di Boss in incognito. È necessaria?

Mere observation effect: la semplice osservazione di un fenomeno lo modifica. Se sappiamo esserci un vigile modereremo la velocità alla guida. Ma l’effetto induce una modifica esclusivamente in quei comportamenti che sappiamo essere osservati e per i quali ci saranno conseguenze. Non è questo a rendere un comportamento, virtuoso e sostenibile nel tempo.

Campionamento sporadico, basato sulla ricerca di eventi eclatanti. L’approccio non è dettato da una scelta metodologica ma dall’esigenza di segretezza; se vogliamo mantenere l’incognito, dobbiamo prevedere che uno stesso “agente” non possa osservare una situazione più di una volta.

L’unico approccio utile è mantenere il senso della prospettiva e basare le decisioni su evidenze certe e numericamente rappresentative. Nonché cercare comportamenti positivi da estendere a tutti e non additare ciò che è negativo.

Soprattutto perché se ciò che è considerato negativo non lo è in percentuale maggioritaria, evidenziarlo servirà solo a farlo percepire come “la norma” e quindi invoglierà a uniformarsi. Questa è anche una delle ragioni che spiega il fallimento di tante campagne sociali, come dimostra l’economia comportamentale.

Cosa ne pensate?

Ehm, Um, Uh… Perchè è DIFFICILE farne a meno quando PARLIAMO?

Un paio di sere fa stavo ascoltando un’intervista in TV a una nota attrice italiana quando sono stata costretta a cambiare canale. Ogni sua risposta era costellata da fastidiosi ehm, eh, um, uh.

Nonostante l’argomento trattato fosse di mio interesse, l’esitazione continua rendeva difficoltoso l’ascolto. E questo mi ha portato a domandarmi se anch’io fossi solita ricorrervi. Mi sono così resa conto che tutti usiamo dei riempitivi, soprattutto quando parliamo in pubblico o non abbiamo avuto modo di prepararci prima un discorso.

Più l’opportunità di parlare è improvvisata, più riempitivi utilizziamo. Dovendo pensare a cosa dire mentre parliamo, gli ehm, eh, um, uh, ci vengono in soccorso per guadagnare tempo e trovare le parole giuste. Condizione che colpisce tutti, anche gli oratori esperti.

In uno studio, il linguista Mark Liberman ha analizzato un enorme database di lingue parlate e ha scoperto che una parola su 60 pronunciata è um o uh. A seconda della velocità con cui si parla, si inseriscono da due a tre di questi riempitivi al minuto.

Perché lo facciamo?

Una risposta ovvia è che li usiamo quando non siamo momentaneamente in grado di dire quello che vogliamo dire. Potremmo avere difficoltà a ricordare una parola o un nome, o a formulare i nostri pensieri, oppure potremmo avere motivo di esitare. Riguardo a questo ultimo punto, per la maggior parte delle persone, è più semplice ricorrere a riempitivi che restare in silenzio.

Il motivo per cui diciamo ehm, eh, um, uh è che, nell’alta velocità della conversazione, tacere non funziona. Nel parlato quotidiano non esiste un copione. Non sappiamo chi parlerà, quando e per quanto tempo, cosa dirà e se quando qualcun altro interverrà, soprattutto perché in una conversazione civile si tende a rispettare la regola di “parlare uno alla volta”. Le regole cooperative della conversazione ci impongono quindi di utilizzare dei segnali che regolino il flusso dell’interazione sociale.

Supponiamo di avere difficoltà a esprimere un pensiero: se rimaniamo in silenzio, l’interlocutore potrebbe credere che abbiamo esaurito ciò che avevamo da dire e prendere lui in mano il filo della conversazione. Se ciò accade, potenzialmente abbiamo perso la nostra occasione per dire ciò che volevamo esprimere, anche perchè la conversazione potrebbe velocemente virare su altri temi.

Pertanto, se sei claudicante ma non hai ancora finito di palesare il tuo punto di vista, utilizzare un riempitivo come ehm, eh, um, uhpermette di guadagnare tempo e non perdere una chance.

Il riempitivo è, a tutti gli effetti, un segnale che spiega il tuo ritardo: “per favore aspetta un attimo, non ho ancora finito“. Se l’altra persona collabora, si asterrà dal prendere la parola.

Nonostante i riempitivi abbiano funzioni chiare nella conversazione, spesso ci viene consigliato di evitarli. Il problema è che, almeno nelle conversazioni informali, se li eliminassimo tutti, troveremmo persone che inizierebbero a parlare prima di darci il tempo di concludere. L’unico modo per liberarsi dei riempitivi è essere sempre pronti a dire ciò che vogliamo dire nella frazione di un secondo di tempo che abbiamo a disposizione prima che l’altro prenda, a sua volta, la parola.

In una conversazione fluida, è inevitabile sperimentare dei ritardi e, se non si ricorre a quei fastidiosi ehm, eh, um, uh il rischio è passare per persone noiose e banali.

In che modo parlare in pubblico è diverso

Nessuno parla sempre in modo perfetto. Tendiamo però a essere più fluidi in determinate condizioni, ad esempio quando trattiamo un argomento che conosciamo bene, quando diciamo cose che abbiamo già detto e quando non abbiamo fretta. Queste condizioni non possono essere garantite in una conversazione a flusso libero. Di solito non sappiamo in anticipo cosa diremo esattamente. Non possiamo esercitarci e nemmeno avere sempre il controllo sull’argomento della conversazione per ogni contesto in cui andremo a trovarci. Questo perché ogni conversazione è un progetto congiunto, costruito al volo, e in modo collaborativo, dalle due o più persone coinvolte nella conversazione.

Nel parlare in pubblico la situazione è diversa. Quando parliamo di fronte a una platea, possiamo decidere (e provare) in anticipo cosa diremo. Quindi, con una buona pianificazione possiamo garantire che le parole e le idee che articoliamo siano facilmente accessibili, il che significa che possiamo essere più fluenti ed evitare i riempitivi.

In secondo luogo, nel parlare in pubblico, una delle funzioni principali svolte dai riempitivi, vale a dire far sapere all’altra persona di non iniziare ancora il proprio turno, non è rilevante. La parola è tutta nostra, almeno fino al Q.A. Quindi, se stiamo in silenzio qualche secondo non rischiamo, come nel dialogo informale, di vederci togliere la parola.

In terzo luogo, quando parliamo in pubblico non siamo impegnati nel frenetico andirivieni della conversazione, e quindi siamo liberi di determinare il ritmo temporale del nostro discorso.

La migliore strategia? Rallentare

La migliore strategia per eliminare le parole di riempimento quando si parla in pubblico è rallentare. Rallentando consapevolmente, ci concediamo più tempo per formulare ciò che stiamo dicendo (e il nostro pubblico ha più tempo per elaborarlo), e quindi riduciamo la probabilità delle pressioni cognitive che portano a ritardi, e di conseguenza agli ehm, eh, um, uh.

Rallentare ha anche altri vantaggi: quando parliamo più lentamente, ci sentiamo più autorevoli e rilassati. Se vogliamo ridurre al minimo l’uso dei riempitivi e trarre vantaggio dall’impressione di controllo e autorità che ciò dà, dovremmo comprendere le buone ragioni per cui questi riempitivi conversazionali esistono.

E voi, quanto siete consapevoli dei riempitivi a cui ricorrete?