FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

DIO ESISTE, MA NON SEI TU

Tutti ne abbiamo incontrato uno. Almeno una volta. Con il complesso di Dio.
All’inizio, ci può anche essere sembrato divertente… all’inizio…
Poi, più il tempo passava e più quel bisogno di erigersi al di sopra di tutto e tutti, ha cominciato a erodere la nostra pazienza.
Ma a quel punto, talvolta, è troppo tardi…

 

FAUST, HITLER E TANTI ALTRI

Faust vendette l’anima al diavolo per appropriarsi dell’onnipotenza, il potere infinito negato agli esseri umani.
E da lì, i posteri, affamati dello stesso male e desiderosi di superare ogni limite terreno, ne hanno modellato il profilo, questo è infatti il processo evolutivo del nazismo e del suo capo Hitler.
Nei tempi moderni si aggiunge anche l’insoddisfazione di chi non è pago di nulla, vittima dei miraggi del suo desiderio.
Un desiderio che ossessiona l’umanità dalle origini e che ha il suo campione iniziale in Lucifero, che sfida Dio e induce ognuno di noi, a fare altrettanto.
Per alcuni elevarsi al di sopra di tutti si fa necessità, spinti dalla convinzione assolutamente schiacciante che la propria soluzione sia infallibilmente esatta.

 

E questi alcuni sono facili da riconoscere: sono coloro che di fronte a un mondo incredibilmente complicato, sono intimamente convinti di capire come funziona. Tutto.

 

IL COMPLESSO DI DIO

Il Complesso di Dio. E’ questo il nome che veste chi non accetta di sbagliare, di essere fallibile. Eppure è la realtà e difficilmente siamo disposti a concedere potere e credibilità a chi dice di non sapere, nonostante da millenni siano prove ed errori ad aver permesso evoluzione e scoperte scientifiche. Edison con il suo filamento per la lampadina ne è l’emblema. Ma lui aveva quella sensibilità paradigmatica che molti hanno perso: l’umiltà.
In ogni sistema complesso i dati hanno preso il sopravvento sulla sensibilità. Ti mostrano grafici che dovrebbero inquadrare meglio un problema, ma ogni grafico è solo un trucco, l’incapacità di schematizzare il tutto.

 

LA VERA STORIA DI COCHRANE

Prendiamo la storia del medico Archie Cochrane.
Voleva compiere un esperimento:  si chiese se le persone infartuate avessero migliori possibilità di guarigione post infarto, in ospedale o a casa.
Tutti i cardiologi tentano di farlo tacere. Loro sapevano che il posto migliore era l’ospedale, in virtù del complesso di Dio.
Cochrane a conclusione dell’esperimento, convocò i colleghi:
Ho i risultati preliminari che non sono significativi statisticamente. Ma qualcosa abbiamo. Ho scoperto che voi avete ragione e io ho torto. E’ pericoloso per i pazienti riabilitarsi a casa. Dovrebbero rimanere in ospedale”.
I medici cominciarono a lanciare commenti di giubilo.
Te lo avevamo detto che eri immorale, uccidi le persone per fare esperimenti clinici. Ora devi stare zitto”.
Cochrane aspettò che l’ambiente si calmasse e poi:
“E’ molto interessante signori, perchè quando vi ho dato le due tabelle ho invertito i risultati. Ho scoperto che i vostri ospedali stanno uccidendo le persone, e che i pazienti dovrebbero stare a casa. Volete sospendere gli esperimenti adesso o volete aspettare di avere risultati più significativi?”.
Cochrane faceva quel genere di cose. E il motivo per cui faceva quel genere di cose è perché aveva capito che ci si sente molto meglio a dire:
“Qui nel mio piccolo mondo, sono un Dio, capisco tutto. Non voglio che le mie opinioni vengano sfidate. Non voglio che le mie conclusioni siano messe alla prova”.
E’ rassicurante.
Cochrane capì che l’incertezza, la fallibilità, l’essere sfidati, è doloroso. E qualche volta bisognerebbe affrontare la realtà.
Così come è dolorosa la vita di Bucky Cantor in Nemesi di Roth, forte di una idea delirante di onnipotenza. Segnato, per tutta la vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato alla convinzione di essere l’autore, insieme a Dio, della malvagità onnipotente e di quella assurda morte.

 

SOCRATE DOCET

Forse andrebbe ricordato a chi vende l’anima al Diavolo per sostituirsi a Dio (e ce ne sono tanti, basta accendere la tv), che il male non ha nulla di sovrannaturale.
Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata, perchè il degrado sembra sempre irreversibile.
Non è neppure questione religiosa. In realtà sono sufficienti umiltà e cultura. Le performance incredibili sono, di fatto, il risultato di tentativi e di errori.
Perché ci sono problemi che non hanno una risposta giusta. Sapere di non sapere… insomma… ma Socrate non sentì il bisogno di vendere l’anima al diavolo…

C’E’ IL PECCATO E C’E’ IL PERDONO. NON C’E’ NIENT’ALTRO. PANICO – L’ULTIMA CICATRICE DI ELLROY

Credo sia la maestria crudele, la capacità di raccontare il reale senza fronzoli, e proporre argomenti feroci a legarmi a scrittori quali Ellroy, Roth e Amis.

E Panico, l’ultima fatica di James Ellroy, non è da meno: ex tossico, ex alcolista, ex topo di appartamento ossessionato dalla morte della madre, assassinata quando lui aveva dieci anni, nel 1958. Tutto per il romanziere è fermo a quel giorno: tutte le vittime sono sua madre, l’America degli anni ‘50 è la scena del delitto.

Ho trascorso ventotto anni in questo buco infernale. Ora mi dicono che scrivendo le memorie delle mie disavventure potrei uscirne”.

A parlare è Freddy Otash, poliziotto corrotto, poi investigatore privato esperto in estorsione, che tiene in pugno mezza Hollywood. Freddy è un uomo morto. Morto nel ’92.

Faccio di tutto tranne l’omicidio. Lavoro per chiunque tranne i comunisti.”

Ellroy non è diverso da Philip Roth, capace di sbattere in faccia tragedia e speranza, attesa e dolore. Orrore e mostruosità. Niente di meno di ciò che accade, parole non edulcorate, non tramutate, non castigate per qualche pseudo sorta di moralismo o ignoranza. Non sopra o sotto, ma dentro la storia è dove Roth, parola dopo parola, conduce. Un orizzonte ristretto e dove paura e dramma dei protagonisti si fa cronaca semplice e diretta.

Ellroy non ha pc, non ha internet e neppure un cellulare e racconta i suoi personaggi con una vecchia macchina da scrivere: killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Ogni personaggio ha uno scopo preciso. Molti ritornano in un tempo che si perde fra il prima e il dopo. Se si ha pazienza di aspettare. E labile si fa il confine fra realtà e fantasia. Ed Ellroy ben sa che la gente è avida di notizie, segreti e vizi di politici, star del cinema, poliziotti e giornalisti.

L’America non è mai stata innocente

Otash spia, ricatta e spiffera tutto a Confidential. Nel tritacarne finiscono tra gli altri John Kennedy, Marlon Brando, Rock Hudson, James Dean.

C’è il Peccato e il Perdono. Non c’è nient’altro”,

è una delle mille frasi da ricordare.

Leggere Ellroy è complesso, faticoso: ritmo vertiginoso, frasi brevissime, molti punti, qualche virgola, innumerevoli personaggi che entrano ed escono dalla storia. Ancor più quest’ultima cicatrice, molto distante dal resto dei suoi libri, per lingua – oscena e tagliente, ma più colta, ricca di allitterazioni – e per ironia. E’ un viaggio nel purgatorio, dove il protagonista è un peccatore alla ricerca di redenzione.

E poi arriva il mio preferito Martin Amis, bocca alla Mick Jagger e fascino da vendere e l’inarrivabile incipit de L’informazione:

Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere”.

Panico non si dimentica. Anche se lo si capisce e accetta solo per metà. Come l’Informazione o Nemesi o il teatro di Sabbath. Forse è anche questo che unisce i tre scrittori.

«Sono cresciuto ignorato e inquieto. E ho sempre desiderato che la gente mi guardasse. Dopo la morte di mia madre attiravo l’attenzione degli amici ebrei gridando “Heil Hitler”: pura provocazione. Poi ho capito che sapevo far bene solo due cose nella vita: scrivere e parlare in pubblico. Far ridere, piangere, sospirare. Per iscritto o a parole. E allora vai! Ho sognato di diventare uno scrittore famoso da quando avevo otto anni. Perché leggere era ciò che amavo di più: mi consentiva di evadere da quell’infanzia di merda. Genitori che si odiavano, la casetta lercia di una madre alcolizzata, i weekend con un padre smidollato. Perfino quando dormivo in strada divoravo i libri della biblioteca pubblica. Ho smesso di bere e inghiottire anfetamine anche per quella fissa di scrivere. Per svettare. Per dare ad altri la possibilità di sfuggire alla realtà. Con libri che non finiscono mai”.

Gli occhi feroci e la parlata sciolta è quella di Ellroy, capace di esprimere tutte le emozioni possibili tranne il sorriso.

 

La tentazione irrazionale di privilegiare i brand attenti ai problemi della società

Quanto pensi che la frase

“Tutti i profitti andranno in beneficenza”

possa influenzare le tue decisioni e il tuo comportamento di acquisto?

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un notevole aumento delle azioni socialmente responsabili da parte delle aziende di tutto il mondo.

Ti sei mai chiesto perché ?

Noi, come consumatori, quindi esseri irrazionali , tendiamo a percepire i prodotti delle aziende che fanno uno sforzo sociale come superiori a quelli che non adottano questo tipo di politica .

Questo errore di valutazione è causato dall’effetto Noble Edge , o effetto beneficenza.

Questo effetto è in grado di modificare il nostro comportamento d’acquisto tanto da preferire il negozio di alimentari che dista 15 minuti di macchina, piuttosto che quello sulla nostra strada, se il primo sostiene di devolvere parte dei suoi guadagni a qualche società di beneficenza .

Se da un lato questo effetto ha i suoi pro, in quanto porta ad un aumento delle donazioni ea una maggiore attenzione ai fornitori, dall’altro può portare a errori di valutazione che non possono essere considerati insignificanti.

Effetto alone

L’effetto Noble Edge è strettamente legato all’effetto alone : il fenomeno permette alla prima impressione positiva di un singolo tratto di un individuo, oggetto o prodotto di influenzare in modo positivo la valutazione di altri tratti che non sono collegati a il tratto originariamente valutato. In altre parole, la valutazione di un singolo item influenza la valutazione di altri elementi, incidendo sul giudizio finale.

Come suggerito dai ricercatori Alexander Chernev e Sean Blair, tendiamo a percepire in modo più positivo i prodotti delle aziende che sono socialmente investite, rispetto a coloro che non adottano questa politica , e di conseguenza li acquistano più frequentemente, pagandoli di più : il 53% dei consumatori coinvolti nello studio ha affermato che pagherebbe il 10% in più per i prodotti di aziende socialmente responsabili.

Perché succede

Ciò si verifica perché tendiamo a basarci maggiormente su euristiche e pregiudizi quando ci troviamo in situazioni incerte .

Nello specifico, è più probabile che si cada vittima dell’effetto alone nella formulazione di giudizi sulla qualità dei prodotti venduti in un punto vendita quando non si ha dimestichezza con quel tipo di prodotto. Per fare un esempio che tutti possano capire, la nostra impressione di una concessionaria di auto che ha donato una grossa somma sarà influenzata solo se non sappiamo nulla di auto.

Al contrario, è improbabile che il nostro comportamento cambi nei confronti delle auto vendute da quella specifica concessionaria. Quando abbiamo a nostra disposizione le conoscenze e le informazioni necessarie per esprimere noi stessi giudizi sulla qualità di un prodotto, diventiamo più resistenti a molti pregiudizi.

Un altro fattore che influenza la pericolosità dell’effetto Noble Edge è legato all’autenticità e sincerità delle donazioni. Se pensiamo che un’azienda sia socialmente investita solo per aumentare i profitti o migliorare la propria reputazione , l’effetto alone e, per estensione, l’effetto Noble Edge non ci ingannerà, deviando le nostre scelte.

Dove tutto ha avuto inizio

Sebbene non abbiano usato il termine “effetto Noble Edge”, Chernev e Blair propongono una descrizione dettagliata del pregiudizio nel loro lavoro intitolato Fare bene facendo del bene: l’alone benevolo della responsabilità sociale delle imprese .

Il focus del loro studio era l’effetto alone e come ha generato l’effetto Noble Edge. Oltre alla presentazione della teoria alla base del loro concetto, hanno descritto alcuni studi sperimentali per mostrare l’evidenza empirica delle loro ipotesi.

Degustazione di vini

Uno degli esperimenti è stato progettato per mostrare come la filantropia di un’azienda ha indotto a sviluppare comportamenti più positivi nei confronti dei propri prodotti. Hanno chiesto ai partecipanti di questo studio di prendere parte a una sessione di degustazione di vini, durante la quale hanno servito loro vino rosso in bicchieri di plastica non contrassegnati, insieme a un foglio con i dettagli sull’enologo. Ogni partecipante ha ricevuto la stessa descrizione, ma i ricercatori hanno detto ad alcune persone, inoltre , che l’enologo ha donato il 10% delle sue entrate all’American Heart Association. Ai partecipanti è stato chiesto di leggere la descrizione, degustare il vino, valutandolo poi su una scala da 1 a 9. Successivamente è stato chiesto loro quanto ne sapevano del vino in generale, sempre su una scala da 1 a 9, dove 1 è “molto poco” e 9 significa “molto”.

I risultati di questo esperimento hanno mostrato coerenza con l’effetto Noble Edge: i partecipanti che hanno ricevuto informazioni sulle attività di beneficenza dell’enologo hanno valutato il vino che avevano assaggiato più alto di quelli che non avevano ricevuto tali dati.

Un’altra importante informazione emersa dallo studio è stata determinata dal fattore esperienza . Nello specifico, i partecipanti che hanno valutato “pochissima” la conoscenza che avevano del vino hanno dato un punteggio più alto al gusto, rispetto a quelli che si sono descritti come grandi intenditori.

Scarpe di tela

Alcuni anni fa, le scarpe di tela sono diventate molto popolari, ma è difficile attribuire la loro notorietà solo al comfort e allo stile. Quando l’azienda Toms Shoes è stata lanciata sul mercato, hanno affermato che, per ogni paio venduto, un altro paio sarebbe stato donato a un bambino bisognoso . È possibile che la manifestazione di responsabilità sociale di Toms abbia contribuito al loro successo: il numero di scarpe donate è passato da 10mila nel primo anno a 200mila nel secondo anno. In effetti, Toms ha ispirato altre aziende ad adottare l’approccio ” compra uno, dona uno “.

Ma, a un certo punto, la reputazione di Toms è stata messa in discussione. In particolare quando la donazione era considerata dirompente dalle economie locali e poco utile per risolvere problemi più ampi affrontati da chi viveva in condizioni di estremo bisogno. L’azienda avrebbe potuto fare uno sforzo in altro modo per offrire un aiuto concreto.

Come evitare l’effetto Noble Edge

Il primo passo è riconoscere l’esistenza di pregiudizi e la nostra fallacia nel farci persuadere senza essere sufficientemente informati sulle campagne social che diversi brand pubblicizzano poco a poco verso gli utenti finali ingenui.

Possiamo allora adottare un approccio più razionale . Questo significa che, invece di acquistare in automatico, dobbiamo valutare preventivamente pregi e difetti del prodotto e dell’azienda/negozio, confrontandoli con la concorrenza. Il fatto che un marchio sia socialmente responsabile può essere un punto di forza, ma se crediamo che i loro prodotti o servizi lascino molto a desiderare, forse è il momento di iniziare a cercare alternative.

Ricordalo la prossima volta che una pubblicità toccherà il tuo buon cuore. Potrebbe non essere come sembra!

Fonti


[1] Asch, SE, Formare impressioni di personalità, Journal of anormal and social Psychology, Vol. 41, numero 3, luglio 1946, 258-290

[2] Chernev, A., & Blair, S. (2015). Fare bene facendo del bene: l’alone benevolo della responsabilità sociale delle imprese, Journal of Consumer Research , 41 (6), 1412–1425

[3] Montgomery, M. (2015), Cosa possono imparare gli imprenditori dalle lotte filantropiche delle scarpe TOMS. Forbes . https://www.forbes.com/sites/mikemontgomery/2015/04/28/how-entrepreneurs-can-avoid-the-philanthropy-pitfalls/#246802d51c38

[4] Lindström J., TOMS Shoes: effetti positivi e negativi nei paesi in via di sviluppo, Helsinki Metropolia University of Applied Sciences Bachelor of Business Administration European Management https://www.theseus.fi/bitstream/handle/10024/144020/Jasmin_Lindstrom. pdf?sequenza=1

Il LAVORO si PAGA. SEMPRE

“Non chiedermi di pagare per lavorare”.

E’ l’avviso che vorrei che tutti, sul proprio biglietto da visita, facessero imprimere. A scanso di equivoci e a protezione di chi più facilmente di altri, cade vittima di millantatori e manipolatori.

In poco più di due mesi, è il terzo cliente che mi chiama perché lo aiuti a prendere una decisione in merito ad una proposta di collaborazione “interessantissima e irrinunciabile”, alla quale però non solo non ci sarebbe remunerazione, ma addirittura viene chiesto del denaro (non poco) in cambio.

Detto in altri termini: “ti offro l’opportunità di lavorare con me, alla interessante cifra di $$$, che però mi versi tu che lavori”, senza contare gli altri “benefit” inclusi nell’offerta.

E’ indiscutibile la capacità manipolatoria di questi “venditori” di opportunità, ma ciò che più mi ha fatto pensare è che ben 3 (quindi non una coincidenza) manager di alto profilo, con un lavoro invidiabile e contenti di ciò che fanno, abbiano anche solo preso in considerazione simili proposte.

Ripensando agli studi fatti negli anni, riconduco il tutto a due facce dello stesso fenomeno. La prima, di ordine socio-culturale, chiama in causa la svalutazione del lavoro intellettuale, e della persona in questione. La seconda è di ordine antropologico: il commercio a prezzo fisso nasce con i grandi magazzini nell’800, precedentemente vigeva la pratica della contrattazione, erede del baratto, che nella sua versione più estrema includeva anche l’eventualità dell’acquisizione a titolo gratuito o per baratto.

Diverso, invece, il percepito per chi formula la richiesta. Chiedere può essere sfrontato, ma non è un peccato, e l’imbarazzo si fa pari a zero se sostenuto dalla miracolosa frase “senza fini di lucro”.

Ma se occorre addirittura pagare per lavorare, un professionista muore. L’individuo muore.

Ai professionisti che seguo, rispondo a questo quesito così: accettare un lavoro gratis o addirittura a fronte di un pagamento, senza le dovute riflessioni, ma solo per ‘esserci’, corrisponde ad auto-svalutare il valore della propria professionalità e le proprie competenze.

Se però quella di pagare per lavorare è una scelta alla quale non puoi sottrarti ricorda: il tuo lavoro sarà quotato di conseguenza sia dalle persone con cui hai già collaborato (e che ti faranno nuove proposte basandosi su questo dato, sottintendendo cioè che tu questi progetti li segui gratis o addirittura paghi tu chi te li commissiona), sia dal network che gira attorno a queste persone e riposizionare il proprio valore economico sarà molto difficile!

Imparare a dire no o avanzare richieste non è sempre facile, intendiamoci, ma è una scelta che ti tutela e che come professionista devi imparare a fare.

Ho imparato che la serietà di una persona o di un progetto si misura anche da questi parametri.

Chi è il chirurgo? Come i bias influenzano decisioni e ragionamenti

Chi è il chirurgo? Come i bias influenzano decisioni e ragionamenti

Inizierò questo articolo, lanciando una sfida.

Si tratta di risolvere un indovinello. L’unica condizione che va rispettata è relativa alla tempistica. Una volta letta la domanda, la risposta deve arrivare entro 33 millesimi di secondo.

Padre e figlio vengono coinvolti in un terribile incidente automobilistico.

L’uomo muore sul colpo. Il ragazzo, ferito gravemente, viene portato in ospedale.

In sala operatoria, il chirurgo reperibile, appena vede il paziente afferma: «Non posso operare – questo è mio figlio».

Come è possibile?

Questo indovinello, noto come dilemma del chirurgo, è utile per (di)mostrare come funzionano i pregiudizi, gli stereotipi, le convinzioni e le credenze. Come e quanto, cioè, ci lasciamo influenzare da bias ed euristiche, o più comunemente trappole mentali, a riprova dell’irrazionalità di cui l’umanità è vittima.

Se, trascorsi i 33 millesimi di secondo, non si arriva a una soluzione, occorre rileggere il quesito e rianalizzare il contesto da una prospettiva differente, facendo attenzione al tempo che la risposta richiederà.

Perché 33 millesimi di secondo? È il tempo che impiega il nostro cervello emotivol’istinto, ad analizzare una situazione di incertezza e di rischio e a prepararsi a gestirla, prima cioè che diventiamo consapevoli di ciò che sta accadendo. In altre parole, la soluzione all’enigma più è veloce, più evidenzierà l’impermeabilità all’invadenza di bias, pregiudizi e convinzioni; viceversa, occorrerà riconsiderare il modo in cui vengono prese alcune decisioni.

Tornando al nostro indovinello, prima di dare la soluzione, voglio fare una rassicurazione: l’86% delle persone a cui è stato sottoposto il dilemma non è riuscita a svelare l’arcano. A causa della natura subdola dei pregiudizi inconsci: non siamo consapevoli di averli e questo di per sé rende più difficile identificarli e quindi prevenirli o quanto meno gestirli in modo funzionale.

Good Morning America

Il dilemma del chirurgo è stato proposto in diversi contesti, sia accademici sia pubblici, con risultati sovrapponibili.

Nel 2010 quando il programma televisivo Good Morning America, ha proposto l’enigma, in modo randomico, per le strade di Manhattan (New York), la maggioranza delle persone coinvolte non è stata in grado di dare la soluzione. Quando invece i produttori del programma hanno posto il medesimo quesito a ragazzi di quinta elementare, la maggior parte ha risposto in modo corretto, senza nemmeno doverci pensare troppo.

Le soluzioni via via tentate sono piuttosto creative, come attribuire alla madre una relazione extraconiugale o classificare la coppia come omosessuale. In realtà è tutto molto più semplice di così: il chirurgo è la madre del ragazzo.

Di fronte a un problema si tende a cercare la spiegazione più articolata, ignorando volutamente quella più elementare, proprio perché troppo elementare, anche se nella stragrande maggioranza dei casi è quella giusta. Si tratta di un chiaro riferimento al rasoio di Occam: “Se senti gli zoccoli pensi al cavallo, non alla zebra”. A meno che non tu viva in Africa.

In altre parole: a parità di elementi, la soluzione di un problema è quella più ragionevole. Inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non servono ad arrivare alla soluzione o a rendere edificante qualcosa.

Gender Bias

Adolescenti e bambini, a differenza degli adulti, non hanno idee preformate sul genere che dovrebbe avere un chirurgo. Non danno per scontato che un chirurgo debba essere solo maschio, ecco perché faticano molto meno ad arrivare alla naturale conclusione.

Nello specifico, quello in cui si cade è il gender bias, l’errore che ci fa incasellare e classificare, senza che neanche ce ne accorgiamo, professioni e lavori in base al sesso.

Il dato ancor più interessante è che in quell’86% che ha dato la risposta sbagliata, o non l’ha data affatto, la metà sono donne, molte delle quali medici di professione. Il gender bias, insomma, non risparmia nessuno!

A questo punto si potrebbe obiettare che il dilemma del chirurgo è datato e che nel frattempo le cose potrebbero essere cambiate. Purtroppo, 9 persone su 10, secondo una ricerca del 2020, ad opera dello United Nations Development Program che elabora i dati raccolti in 75 Paesi nel mondo, rappresentativi dell’81% della popolazione globale, ha pregiudizi nei confronti delle donne.

La ricerca è basata su un indice che misura come l’uguaglianza di genere in politica, nel lavoro e nell’istruzione sia ostacolata da credenze sociali profondamente radicate. Gli uomini sembrerebbero avere pregiudizi più forti rispetto alle donne, ma la differenza è minore di quanto si possa pensare: l’86% delle donne e il 91% degli uomini ha almeno un pregiudizio nei confronti dell’universo femminile.

8 persone su 10 ritengono che gli uomini siano leader politici migliori, 4 su 10 pensano che siano più adatti a ricoprire ruoli di leadership nelle aziende e che i posti di lavoro debbano essere assegnati prioritariamente agli uomini in condizioni in cui il lavoro scarseggia. Questi dati risultano ancora più “scioccanti” se si pensa che circa 3 persone su 10 (il 28% degli intervistati) ritengono accettabile che un uomo possa essere violento con la propria moglie.

Tutta questione di statura

Se la situazione non è edificante per le donne, nemmeno gli uomini escono indenni dai pregiudizi di genere. L’altezza può, a seconda del colore della pelle, essere un acceleratore di carriera o un indicatore di pericolosità.

I leader di sesso maschile con un’altezza superiore al metro e 80 hanno maggiori opportunità di fare carriera, avere promozioni e vantano stipendi più alti del 15% dei loro colleghi di altezza inferiore.

L’altezza è considerata un tratto distintivo molto importante, benché rappresenti lui stesso, un bias. Quando ci si sente importanti, tendiamo a percepirci più alti di quanto realmente siamo e la stessa cosa la proiettiamo sulle persone che ci stanno intorno: più sono influenti e più le vediamo alte.

Questa trappola insidiosa è la stessa che porta molte persone ad attuare éscamotage di ogni tipo per sembrare più alte, come inserire solette nelle scarpe, gonfiare il volume dei capelli, senza contare il nuovo approccio della chirurgia estetica: c’è chi si fa spezzare le ossa per far inserire barre e guadagnare così qualche centimetro in altezza.

La statura può rappresentare un fattore potenziante nella carriera di un uomo. Ma solo se è bianco. Ed ecco che torniamo al gender bias.

Per gli uomini di colore, essere troppo alti favorisce invece l’idea di pericolosità. Le ricerche hanno mostrato che, negli Stati Uniti, gli uomini di colore alti sopra i 190 cm, sono fermati e perquisiti dalle forze dell’ordine 6,2 volte in più dei bianchi di medesima altezza. Oltre a essere considerati meno intelligenti.

Difficile, a questo punto, guardare ancora alla forza dei bias con occhi distratti.

Laura Mondino

Fonti:

Barlow, R. (2014) BU Research: A Riddle Reveals Depth of Gender Bias.

http://www.bu.edu/today/2014/bu-research-riddle-reveals-the-depth-of-gender-bias/

http://hdr.undp.org/sites/default/files/hd_perspectives_gsni.pdf

Rosenberg I.B., Height Discrimination in Employment (Feb 16, 2009). Utah Law Review, No. 3, p. 907, 2009: https://ssrn.com/abstract=1344817 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1344817

Lenzmeier T., Study: being talli s a positive trait for white men; for black men, not so much, UNC Media Hub, April 10, 2018

Hester N., Gray K., For black men, being tall increases threat stereotyping and police stops, Proceedings of the National Academy of Science of the USA, vol. 115, No. 11, p. 2711-2715, March 13, 2018

SANPA: DOVE ci si può SPINGERE per SALVARE una VITA?

Ho appena terminato di guardare su NetFlix, la docuserie SanPa.

Nonostante abbia l’innegabile merito di essere un prodotto italiano unico nel suo genere, e che nulla ha da invidiare a Going Clear – Scientology e la prigione della fede (HBO) o Wild Wild Country (Netflix), riesce a districarsi elegantemente dalla questione etica/morale lasciando al pubblico la scelta più difficile e controversa: scendere a patti con la propria coscienza e decidere in libertà se assolvere o condannare Vincenzo Muccioli. L’enigmatico fondatore della comunità terapeutica per tossicodipendenti più grande d’Europa.

Non mi sono mai dovuta confrontare con il tema della droga, non ho neppure mai fumato una sigaretta, ancor meno uno spinello e non mi sono mai nemmeno ubriacata, riconosco quindi una lacuna esperienziale personale che mi toglie, probabilmente, qualsiasi velleità di giudizio per quanto riguarda le dipendenze.

Eppure, pur immersa nella mia ignoranza esperienziale, mi è difficile pensare che il fine giustifichi i mezzi. Sempre. Almeno a San Patrignano.

Dove, in quel salvatore, spesso elevato a dio, mi è difficile non intravedere una smania scellerata e incontrollata di onnipotenza, dove il rispetto delle regole, sue incontestabili regole, è la conditio sine qua non, per stare in una casa dove è semplice entrare, ma da cui è impossibile uscire.

Una dinamica settaria, dunque, come dimostrano le critiche che SanPa ha riversato contro la serie, commentate dall’ex portavoce Fabio Anibaldi su La Stampa

Non mi sorprende la reazione. Loro non accettano critiche, è la logica dell’ ‘o con noi o contro di noi’, non c’è dissenso all’interno e tanto meno è concepibile quello al di fuori. Accettano solo l’ammirazione incondizionata per la loro opera, che è logica tipica di certi regimi totalitari”.

Nelle 5 ore di filmati e interviste, emerge incontrastato il rapporto di dipendenza fra i giovani tossicodipendenti e il padre-padrone Muccioli. Banalmente potremmo azzardare che una dipendenza sostituisce un’altra dipendenza. Ma guarire è un’altra cosa.

E’ innegabile l’opera del fondatore verso i migliaia di ragazzi strappati alla droga, non lo metto in dubbio. Ma le punizioni, le privazioni ai danni dei ragazzi tossicodipendenti, quando incatenati e nudi, al gelo, nel canile, nella piccionaia o in vere e proprie celle di fortuna e a volte picchiati, in una occasione fino alla morte come dimostra l’omicidio del povero Roberto Maranzano, sono difficili da ignorare.

Immediata è la comparazione a ciò che succede in qualsiasi setta: all’adepto che vuol andare via viene resa impossibile la vita, con la forza, e poi punito per evitare che fugga ancora, o si lamenti o possa anche solo manifestare dissenso. Insieme all’esigenza di costruire un nemico esterno per compattare il gruppo all’interno ed evitare defezioni.

SanPa è dunque da assolvere o condannare?

Macchiavelli parteggerebbe per Muccioli, i fautori dello stato di diritto e della rule of law, assolutamente no. Ma anche volendo stare in nessuno dei due schieramenti, la domanda rimane senza risposta: dove ci si può spingere per salvare una vita umana?

CARO PRESIDENTE CONTE, TI SCRIVO…

Non si crea compliance, adesione alle norme sociali, usando la leva della paura e/o del divieto così come viene.  Lo sanno anche i muri. Gli unici ancora a non saperlo, mi viene da pensare (ma vorrei essere contraddetta) sono i nostri decisori…

E’ a questo che penso da mesi, stupita che nelle varie task force non ci siano esperti e profondi conoscitori anche delle Scienze comportamentali e/o dell’economia comportamentale o di Neuroscienze applicate alla Comunicazione. Non so se i nostri governanti ignorino l’importanza di queste discipline o preferiscano starci volutamente lontani per le ragioni che si possono ben immaginare.

Su questo rifletto mentre ascolto il video discorso di Emmanuel Macron, il presidente francese, risultato positivo al coronavirus giovedì

Sto bene, ho gli stessi sintomi di ieri: affaticamento, mal di testa, tosse secca come le centinaia di migliaia di persone che hanno convissuto o convivono con il virus. Continuerò a seguire gli affari ricorrenti anche se con un’attività un po’ rallentata. (…) Fate attenzione, tutti possiamo contrarre il virus”.

In una parola: rassicurante. Avvolgente. Empatico. Un messaggio non autoreferenziale, puntuale e descrittivo e al tempo stesso ingaggiante. Per chi mastica di bias… un buon uso del principio di riprova sociale. A tutti piace sentirsi parte di un gruppo, essere accettati e condividere preoccupazioni e speranze.

Difficile non fare un paragone, con il nostro Presidente del Consiglio e non della Repubblica (come freudianamente si lasciò sfuggire nel discorso dell’8 settembre) Conte che, quando si tratta di fare annunci, sembra ignorare le normali regole non solo delle Neuroscienze, ma della comunicazione base.

Stile dittatoriale, in un Paese democratico… la contraddizione è già evidente  così… forse quel lapsus è molto più predittivo, di quanto vorremmo credere!

Entrando nel merito, difficile dimenticare le sue frasi cult:

  • non cadremo nel baratro”, quando voleva, in pieno lockdown, tranquillizzare gli italiani, fa già tristezza così senza dover aggiungere altro…
  • il governo non lavora con il favore delle tenebre”,
  • meno libertà per tutelare la salute

In realtà, nei momenti di incertezza (che non piacciono a nessuno) servono regole chiare, indicazioni precise, coerenza e autorevolezza. Mi sembra che questi ingredienti siano mancati tutti o quasi. Chi si farebbe operare da un chirurgo che in sala operatoria prima di mettere mano ai ferri ci dicesse

“speriamo di non sbagliare approccio chirurgico, mi auspico che i miei colleghi seguano le procedure”.

Chi decide e guida, deve esprimere autorevolezza e direzione, non ulteriore incertezza.. o paure e preoccupazioni… Sperare e auspicare sono verbi che non fanno troppo bene alla nostra amigdala.

Ancor più i continui e non programmati divieti che ci vengono offerti come si fa con le caramella ai bambini ad Halloween. Non sapendo che altro fare, vieto… Non funziona neanche questo approccio: quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.

Quando ci si sente eccessivamente costretti in una direzione che non si condivide, l’unico risultato che si ottiene è il comportamento opposto.

Caro Conte, la prossima volta che le verrà voglia di creare un’altra task force, non ignori (per usare il suo stile comunicativo) le Neuroscienze, so che possono sembrare noiose, ma il Nobel è ancora un sigillo di sapere e autorevolezza, che piaccia o meno. Io, persone come Thaler e Kahneman le starei a sentire. E poi non dica che non l’avevo avvisata!