UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DIO, UN PO’ MEFISTOFELE…

Un uomo, in un bar, ogni giorno. Seduto in un angolo, con gli occhi tristi e stanchi. Un uomo senza nome, senza casa e senza sonno.

Un’agenda e tante persone addolorate, piegate, sconsolate che lo cercano e lui è lì per aiutarle. Purchè portino a termine compiti spietati, malvagi, crudeli.

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DEUS EX MACHINA, UN PO’ MEFISTOFELE

L’uomo è seduto a quel tavolo, e attende. Attende che i suoi “clienti” gli chiedano aiuto, si riflettano nel suo volto che è anche uno specchio oltre che rappresentazione di uno spietato deus ex machina del gioco al massacro, in cui o si scende a patti con la propria coscienza, con se stessi, con gli altri o ci si ribella alla richiesta, percorrendo un’altra strada.

Il viso dell’uomo senza nome porta con sé tutto il dolore, la stanchezza del mondo e, nonostante questo, assegna compiti infliggendo terribili condanne. Dando forma alle paure, alle ansie, alle angosce e ai desideri di tutti coloro che vogliono migliorare la propria vita, uscire dalla crisi, dal buio, ritrovare la propria strada, e forse finalmente essere felici.

Si entra in un castello kafkiano scuro e oscuro, stando accanto a quell’uomo che dà possibilità di vite alternative, come farebbe Dio, o forse Mefistofele (“Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?“), in realtà però tutto e profondamente umano.

Così si accomodano a quel tavolo, per la “partita a scacchi” della vita, un poliziotto in lotta con se stesso e con il figlio; una suora che non sente più la voce di Dio e la ricerca con immensa sofferenza; un giovane cieco che ha un solo desiderio, vedere di nuovo; un padre che vuole salvare il proprio bimbo dal cancro; un meccanico che sogna di passare la notte con la donna da calendario. Il deus pagano ascolta e mostra a ciascuno la strada per raggiungere la propria felicità – che vuol dire danneggiare quella degli altri – e emerge chiaramente una domanda: cosa si è disposti a fare per avere ciò che si desidera?

The Place è tutto questo e molto di più. Un film che chiede allo spettatore di essere o dentro o fuori: se si sceglie la prima via si partecipa, scendendo in un inferno in terra, alle vite di questi uomini e donne afflitti e segnati, di essere partecipe della cognizione del dolore.

Non mostra mai tutto, fa immaginare, mette nella condizione di cercare le risposte (Cosa avremmo fatto noi al posto loro?), eviscerare il dentro per portarlo fuori, lega i personaggi del film in maniera sadica, spaventosa e machiavellicaQuesti uomini e queste donne incredibilmente si incrociano in maniera crudele senza sapere però gli uni delle altre e il corso della vita dei primi in qualche modo condiziona quello delle seconde.

Violentare una donna, far scoppiare una bomba, insabbiare una denuncia di violenza; un Dio buono e giusto non chiederebbe mai nulla di tutto ciò, ma qui colui che offre la felicità è il più disgraziato di tutti, il più dannato, il più errato tra gli errati. Un “dio” fuori dagli schemi che forse dio non è, la cameriera Angela, pura luce, rispetto al buio di The Place, gli chiede se fa lo psicologo…

Ma lui non può tutto (“non ho tutto sotto controllo, le cose non dipendono da me”), non può indicare l’alternativa giusta, non tira i fili né scioglie i nodi di giorni imperfetti, l’uomo ha ideato il meccanismo ma poi a ciascuno dei questuanti spetta l’ultima parola. Non ci sono obblighi, c’è la possibilità di “rescissione del contratto”.

The Place è un film sul libero arbitrio, arma potente nelle mani dell’uomo, ciò che lo rende “l’essere” che è, è un film sull’affermazione di sé.

THE PLACE: IL RACCONTO DEL MALE NASCOSTO DENTRO DI NOI

Camminano paralleli e convivono, il bene e il male. Declinabili in tutte le loro sfumature, spietatezza e amorevolezza, amore e morte. Come in un girone dantesco lo spettatore si trova in mezzo alla sofferenza che il protagonista tocca con mano, assorbendone la portata devastante.

The Place non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro, racconta di chi deve anche commettere uno sbaglio per vivere meglio. Si tratta quindi, fino ad un certo punto, di vedere e parlare con il proprio lato oscuro.

Alla fine l’uomo senza nome è stremato, parlano i segni d’espressione, le occhiaie profonde, i gesti limitati dalla mancanza di movimento – c’è un’unità di luogo talmente radicata da provocare un senso di claustrofobia.

Crolla per umanità e a farlo cadere è Angela, nomen omen; l’unica a domandare, insistere, vuole sapere chi è lui, vuole farlo sorridere, lo guarda da lontano, lo osserva come si fa con i misteri e solo alla fine arriva al suo intento. Lei riesce a entrare nel suo mondo, è la (sua) coscienza che gli permette di vivere un attimo di pace, lo rende “debole” e così lui esce dal suo “personaggio”, si apre a qualcuno e si alza dalla sedia.

Tanto il senza nome è misterioso tanto lo è Angela, delicata e calma, sicura e potente, affascinante e disarmante; il Titano infatti timidamente sorride e metaforicamente se ne va (l’indomani mattina il bar è vuoto) lasciando dietro di sé un portacenere in cui c’è l’ennesimo, forse l’ultimo, foglio di carta (testimonianza dei compiti portati a termine) bruciato.

The Place è un film sul malvagio che c’è in ciascuno di noi ma è anche un film sulla speranza, nascosta dietro a un incontro semplice e banale. Questo è un quadro doloroso, nero, claustrofobico, è un urlo silenzioso, lunghissimo e straziante, è il racconto di un uomo che non è un mostro ma che dà da mangiare a molti mostri.

Ed è assolutamente da vedere…

SI PUO’ IMPARARE AD AMARE?

“Le feci una proposta di matrimonio e 9 giorni dopo il nostro primo incontro, lei accettò. Ma c’è voluto molto di più per far durare il nostro amore, e farlo crescere, per 62 anni”. Raccontava così Zygmunt Bauman, il grande sociologo scomparso nel 2017, l’amore di una vita, soffermandosi sull’incapacità di conoscere la gioia delle cose durevoli. “Ogni relazione rimane unica: non si può imparare a voler bene”.

I suoi libri sono ricchi di considerazioni sul modo di vivere le relazioni: oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli non è scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo.

Amore liquido partiva dalla lacerazione tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico. “Il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L’amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame”.

“L’amore non è un oggetto preconfezionato. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. L’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente”.

Il tempo e il mercato hanno in qualche modo fiutato nel disperato bisogno di amore l’opportunità di enormi profitti e di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. “L’amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. 

L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana. L’amore esclusivo non è quasi mai esente da dolori e problemi, ma la gioia è nello sforzo comune per superarli.

“Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore e la stessa morte”. Ci si innamora una sola volta nella vita?

“Non esiste una regola. Il punto è che ogni singolo amore, come ogni morte, è unico. Per questa ragione, nessuno può imparare ad amare, come nessuno può imparare a morire. Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento”.

L’ARTE di DOMINARE le FOLLE

Quattro colleghi intorno a un tavolo, un caffè che si raffredda, qualche pasta e un collaudato brainstorming per trovare soluzioni laddove è difficile scovarne. E poi, lei, l’economista del gruppo, tutta calcoli e dati che mi guarda accigliata prima di chiedermi “come fanno certi personaggi a calamitare così tanto l’attenzione, pur non avendo poi così tanto da dire? Ad avere seguaci, più che sostenitori pensanti, a creare sette più che luoghi di confronto e scambio? Cosa spinge il singolo a perdere la propria identità?”.

Domanda complessa… mentre rimaneggio la pasta di meliga, cercando di srotolare i pensieri e trovare una risposta concreta, mi viene in aiuto un controverso scrittore francese, apprezzato dai grandi intellettuali del ‘900 e letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini che ne trassero utili informazioni… per conquistare le masse.

Scritto in uno stile semplice, chiaro, metaforico ma anche perentorio, assertivo e ripetitivo, l’opera di Gustave le Bon “Psicologia delle folle” sebbene datata, continua a essere fra i suoi libri più noti. Per propagandare le sue idee. Ma anche profondamente apprezzato, con i tutti i limiti del tempo, per la genialità intuitiva e per la sua funzionalità sul piano del consenso politico.

LA FOLLA: UN’ANIMA COLLETTIVA

La folla, per Le Bon, non è necessariamente un numero immenso di persone radunate nello stesso luogo, piuttosto uno stato d’animo comune, il momento in cui il singolo si libera della sua identità, per fare proprie caratteristiche nuove che lo rendono partecipe di un’anima collettiva.  Una psicologia comune, che lo fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.» E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folla composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori.

Insomma l’intelligenza individuale si perde immediatamente nella folla, abbassandosi ad un grado intellettivo minore. La folla, detto in parole semplici, è limitata.

LA FOLLA HA BISOGNO DI UN PADRONE

La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»

AFFERMAZIONE E RIPETIZIONE

Ma sia i grandi sia i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.»

L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.» Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»

Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo “consiste soprattutto nell’uso della parola”, perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.

«L’irreale predomina sul reale». Il capo può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché la folla non si preoccupa mai di sapere se la guida ha rispettato la proclamata professione di fede.

Nell’eloquio, la tazzina di caffè si è svuotata, le briciole delle paste disegnano strane ombre e senza timidezza i nostri pensieri fanno un balzo in avanti. Le Bon non è mai stato tanto attuale…

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!

RACCONTARE STORIE CI RENDE UMANI

“Fino a che le gazzelle non sapranno raccontare le loro storie, i leoni saranno sempre protagonisti dei racconti di caccia”. Dice un proverbio africano. E mi piace aggiungere: e farsi leggenda.

Fra tante attività più proficue per l’evoluzione, come cacciare, costruire e combattere, l’uomo ha sempre dedicato tempo e energie a raccontare, e raccontarsi, storie. Perchè?

Banalmente possiamo dire che quando ascoltiamo una noiosa presentazione, si attivano alcune aree del nostro cervello. Quando invece ci raccontano una storia, il nostro cervello si attiva completamente. Ma la questione è un po’ più complessa di così, ed è anche la domanda centrale del saggio di Jonathan Gottschall (docente di Letteratura al Washington and Jefferson College, in Pennsylvania) ne L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani.

Dalle immagini sui muri delle caverne, ai racconti intorno al fuoco, dalle epiche avventure narrate da Virgilio e Omero, alle soap opera fino ai giochi interattivi, quale bisogno soddisfa la funzione narrativa?

QUALE BISOGNO SODDISFA LO STORYTELLING?

L’uomo è un essere fatto di storie e passa più tempo immerso in un mondo di finzione che nel mondo reale. La potenza delle storie risiede nella loro capacità di renderci vulnerabili, esposti. Dal cartellone pubblicitario davanti alla fermata dell’autobus al libro sul comodino, dalla canzone distrattamente canticchiata all’ultimo film che ci ha emozionati, ci crediamo sempre i fruitori delle miriadi di narrazioni che ci circondano quando in realtà ne siamo i creatori.

L’uomo passa la vita a costruire e modificare storie per imporre un ordine al caos che lo circonda ma la funzione più vera è che le storie con il loro essere “prove di volo”, esperimenti virtuali, ci servono ad affrontare emozioni e situazioni della vita reale.

Gli studi scientifici hanno ampiamente dimostrato che, immerso nelle storie, il nostro cervello reagisce attivamente, come se si trovasse realmente di fronte a un pericolo o in una situazione emotivamente coinvolgente. Continuiamo a lasciarci trascinare da tutto ciò, pur consapevoli che si tratta di finzione, perché fa parte della nostra natura: cominciamo sin da bambini con il gioco del “facciamo finta che” e continuiamo sempre, giorno dopo giorno.

E poi raccontiamo mentalmente delle storie per costruire un’immagine di noi stessi che migliori quella reale, alterando i ricordi. Cambiando ciò che non ci piace, trasformandoci in supereroi, almeno in quello spazio di tempo che chiamiamo sogno.

…La morale della storia, semplicemente, è che non sono state la scienza, la filosofia, la matematica, ma le storie – come recita il sottotitolo del libro elogiato anche dal grande biologo Edward O. Wilson – «a renderci umani». E a farci tollerare la realtà e al (con)viverci ogni giorno.

L’ARTE PUO’ FAR MALE…

“Notre Dame brucia e io non posso far altro che stare a guardare”.

“Notre Dame brucia ma non muore. L’arte ci aiuta a sopravvivere, a renderci immortali. Per questo non morirà mai”.

E’ di questa strada infernale lastricata di buone intenzioni che converso nel giardino appena sfiorato dalla primavera, con le voci dei miei interlocutori che tengono coraggiosamente testa al pianto che ci invade il cuore. Eppure Parigi è accartocciata su se stessa, mutilata nella sua bellezza che si è sempre creduta invincibile.

L’arte può far male, penso. Perché c’è una relazione organica tra i mattoni di una chiesa, un castello, un palazzo e la vita: quando distruggi una distruggi l’altra. Non a caso, un monumento si fa spesso simbolo di tutto ciò che una mente dittatoriale odia, e la prima cosa che fanno i regimi totalitari è distruggere il passato per legittimare il loro presente. Ma non è questo il caso.

E’ sempre impressionante vedere come possiamo commuoverci per qualcosa che possiamo, al tempo stesso, ignorare per gran parte della nostra vita. Notre Dame è sempre stata lì. L’abbiamo visitata, apprezzata e fors’anche amata. Ma solo stasera mentre brucia, ne comprendiamo il significato.

Un mio professore prima di dettagliare astratti concetti filosofici, ci faceva passare di mano in mano un sasso. E’ quello che cerco di fare anch’io. E’ come se volessi dire ai miei discenti: sentite il sole o il vento sulla faccia, e ditemi cosa vedete. Molti non vedono. Non è facile percepire quanto sia bella la realtà, con tutte le sue imperfezioni. Se non ci è stato insegnato. Puoi essere circondato da tutta l’arte che vuoi, ma amarla non è scontato come è lecito immaginare.

Ritorno alle riflessioni silenziose che vivevo durante le mie soste in Notre Dame, dove cercavo di capire il mondo, in uno spazio che si faceva religioso e sacrilego allo stesso tempo. “L’unica cosa sacra nell’arte è il profano, diceva Salman Rushie -. Le opere, i monumenti, le costruzioni non sono qui per farti sentire a tuo agio, o darti consolazione spirituale”. Sono qui per farci sentire vivi, con tutte le loro contraddizioni. Peccato che spesso ce ne rendiamo conto quando qualcosa va distrutto.

Notre Dame brucia, forse, proprio per non morire.

Ciò che è NON SEMPRE è ciò che APPARE: ed è così che un giardiniere è quasi diventato presidente

C’era una volta un giardiniere analfabeta che per poco non divenne presidente.

Chance, questo il suo nome, è un personaggio triste e curioso, abile in due sole cose: la cura delle piante della villa nella quale è nato e cresciuto per molti anni senza mai uscirne e una spiccata conoscenza dei programmi tv, ai quali assiste con totale abnegazione. La vita di Chance è dominata dai ritmi naturali di una sorta di caos originario: tutto ciò che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano.

Costretto, dopo la morte del padrone, a introdursi in un mondo a lui totalmente sconosciuto, quello reale, Chance in una condizione di perenne straniamento, ha un riscontro inaspettato. Affascina uomini d’affari e politici, si impone all’attenzione dei Media, conquista l’alta società fino a venir proposto come candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America.

Un successo che si basa su un equivoco sistematico: in un universo comunicativo dominato da messaggi schizofrenici che finiscono per cancellare ogni reale informazione, il suo linguaggio perde la letteralità che lo contraddistinguono e viene interpretato in senso metaforico dai suoi interlocutori. Alla sua stupidità corrisponde la stupidità intelligente dei suoi interpreti, che sono costretti per capirlo a dare un senso, seppure improbabile, allegorico alle sue affermazioni.

Alla base di tutti i fraintendimenti che seguiranno, è il primo colloquio fra Chance e il suo ospite Ben, noto tycoon dell’epoca, che gli chiede quale sia la sua occupazione, a creare il precedente unico e inappellabile a cui tutti, inconsapevolmente, si affideranno:

Chance: “Non è facile trovare un posto adatto, un giardino, dove poter lavorare senza interferenze e crescere con le stagioni”. Ben: “un giardiniere! Non è la perfetta descrizione di quello che è un vero uomo d’affari? Chance, che metafora eccellente”.

Tutto quello che ha a che fare con il giardino verrà sistematicamente considerato una metafora del mondo degli affari, della finanza, dell’economia, della politica e delle strategie diplomatiche internazionali.

Chance, grazie a una serie illimitata di equivoci, ha successo, grazie ai suoi discorsi che possiedono, sebbene involontariamente, un forte potere retorico. La storia svela il meccanismo superficiale dell’inganno, in bilico fra genio, successo sociale da un lato e stupidità dall’altro, dove le parti spesso non si scambiano, piuttosto si fondono.

E’ un gioco comunicativo che svela i suoi abissi quello in cui ci porta Chance: dove due tipi di stupidità, quella onesta del giardiniere e quella ostinata degli suoi interlocutori, ci mostrano tutta la fragilità di cui pensiamo sia fatta la realtà. Chance non mente mai, semplicemente racconta l’unico mondo che conosce, quello delle piante. Chi ascolta, lo fa essendo vittima delle più comuni trappole mentali: quella di voler interpretare ciò che viene detto dal giardiniere, a totale proprio vantaggio. Lo spirito critico muore e chi ascolta, in realtà è sordo, se non a se stesso.

Della storia di Chance è stato scritto un libro “Oltre il giardino” e tratto un film. Una vicenda che va seguita, almeno per interrogarsi. E chiedersi ma io so ascoltare davvero?

La BELLEZZA SALVERA’ il MONDO… ma se non sapessimo come riconoscerla, la bellezza?

Se uno dei più grandi musicisti al mondo vi intrattenesse alla fermata della metro, gratuitamente, suonando la miglior musica mai scritta, lo ignorereste?

Sì. Lo fareste. Allo stesso modo di migliaia di altre persone. Perché siamo molto bravi a ignorare la bellezza e altrettanto incapaci a riconoscere il talento in un contesto inaspettato.

E’ quanto accaduto nella stazione della metropolitana di Washington, una fredda mattina di gennaio all’ora di punta. Il musicista che si è prestato all’esperimento è Joshua Bell, capace di imparare a suonare all’età di cinque anni e a 15 ad apparire come solista con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti.

Su iniziativa dell’editorialista Weingarten del Washington Post, Bell in incognito, come un suonatore ambulante, suonò sei pezzi di Bach nell’atrio della stazione L’Enfant Plaza della metropolitana di Washington. L’esperimento venne videoregistrato da una telecamera nascosta; di 1.097 persone transitate, solo sette si fermarono brevemente ad ascoltarlo e solo una lo riconobbe. Per la sua performance di 45 minuti, Bell raccolse $32,17 da 27 passanti. Solo tre giorni prima aveva fatto il tutto esaurito con un repertorio simile alla Symphony Hall di Boston dove il prezzo per un posto in platea era di 100 dollari. Per l’articolo su questo esperimento, intitolato Pearls Before Breakfast, pubblicato l’8 aprile del 2007, Weingarten vinse il premio Pulitzer.

Si potrebbe fare l’errore di bollare questo esperimento come un difetto di percezione. Personalmente è molto di più. La bellezza, è stato detto, salverà il mondo, ma se non troviamo qualche minuto per ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo, se non sappiamo riconoscere la bellezza quando ci sbattiamo contro, quante altre cose ci stiamo perdendo?

 

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

Il POTERE LOGORA CHI non ce l’HA

A contendersi la frase due scaltri politici: il francese Talleyrand-Périgord, il “diavolo zoppo”, il “camaleonte”, lo “stregone della democrazia”, l’uomo a fianco di Metternich nel Congresso di Vienna, noto per le abili mosse politiche che, al di là dei giudizi morali, lo resero grande protagonista del suo tempo; e l’italiano Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 27 volte ministro e parlamentare in tutte le legislature della Repubblica dal 1948 fino alla sua morte, avvenuta il 6 maggio 2013.

Descritto dalla Fallaci con la sua indomita ruvidezza: «Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza. L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla».

Sull’intelligenza di questa frase, dicevamo, qualche dubbio c’è sempre stato. A far chiarezza, ci ha pensato la scienza, scomodando due delle università più prestigiose del mondo, Stanford e Harvard, incaricate di risolvere un antico dilemma: è più stressato chi comanda o chi è comandato?

E’ PIU’ STRESSATO CHI COMANDA O CHI E’ COMANDATO?

E’ il leader a passarsela meglio, secondo lo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. Quello del ‘capo’ non è un mestiere facile ma, contrariamente al luogo comune che lo vuole stressato fino al midollo, chi ha il potere è in realtà più rilassato di chi non ce l’ha.
Per lo studio i ricercatori americani hanno intervistato 231 ufficiali militari dell’Harvard executive leadership program, misurandone il livello di cortisolo, il principale ormone dello stress.

Lo psicologo di Stanford James Gross, che ha condotto lo studio con la collega Jennifer Lerner e Gary Sherman di Harvard, spiega che la percezione comune secondo la quale chi comanda è più stressato (cosa che giustificherebbe, tra l’altro, il compenso più alto) è in realtà stata più volte smentita dalla letteratura scientifica, che ha dimostrato che avere il controllo delle vite altrui riduce il livello di ansia.
Il livello di cortisolo nei militari con posizioni di comando, registrò un livello del 27 per  cento più basso rispetto a quello dei non-leader.

CHI HA POTERE E’ ANCHE PIU’ FELICE?

Chi ha potere non solo è meno stressato ma è anche più felice. A questa conclusione sono invece arrivati gli scienziati  israeliani della Tel Aviv University, con uno studio pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’.

La ricerca dà un colpo di spugna al mito del potente solo e logorato sul tetto del mondo che per secoli ha alimentato l’immaginario collettivo.

A sostegno ci sono diversi esperimenti. In uno di questi hanno sondato più di 350 persone per stabilire se la sensazione di potere fosse da loro associata al benessere personale in diversi contesti, come il lavoro o il rapporto di coppia. Risultato? Chi si sente più potente tende a essere più contento. E più in alto si trovano gli intervistati maggiormente si sentono soddisfatti, in percentuale il 16% in più rispetto a chi si trova in basso. Questo ‘effetto scettro’ è molto più evidente per i potenti nel mondo del lavoro. Gli impiegati ai vertici sono il 26% più soddisfatti dei colleghi meno autoritari.

Dunque il potere non logora, rende felici ma può comunque dare alla testa. Insomma… chi ha potere deve comunque fare i conti con umani effetti collaterali…