RACCONTARE STORIE CI RENDE UMANI

“Fino a che le gazzelle non sapranno raccontare le loro storie, i leoni saranno sempre protagonisti dei racconti di caccia”. Dice un proverbio africano. E mi piace aggiungere: e farsi leggenda.

Fra tante attività più proficue per l’evoluzione, come cacciare, costruire e combattere, l’uomo ha sempre dedicato tempo e energie a raccontare, e raccontarsi, storie. Perchè?

Banalmente possiamo dire che quando ascoltiamo una noiosa presentazione, si attivano alcune aree del nostro cervello. Quando invece ci raccontano una storia, il nostro cervello si attiva completamente. Ma la questione è un po’ più complessa di così, ed è anche la domanda centrale del saggio di Jonathan Gottschall (docente di Letteratura al Washington and Jefferson College, in Pennsylvania) ne L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani.

Dalle immagini sui muri delle caverne, ai racconti intorno al fuoco, dalle epiche avventure narrate da Virgilio e Omero, alle soap opera fino ai giochi interattivi, quale bisogno soddisfa la funzione narrativa?

QUALE BISOGNO SODDISFA LO STORYTELLING?

L’uomo è un essere fatto di storie e passa più tempo immerso in un mondo di finzione che nel mondo reale. La potenza delle storie risiede nella loro capacità di renderci vulnerabili, esposti. Dal cartellone pubblicitario davanti alla fermata dell’autobus al libro sul comodino, dalla canzone distrattamente canticchiata all’ultimo film che ci ha emozionati, ci crediamo sempre i fruitori delle miriadi di narrazioni che ci circondano quando in realtà ne siamo i creatori.

L’uomo passa la vita a costruire e modificare storie per imporre un ordine al caos che lo circonda ma la funzione più vera è che le storie con il loro essere “prove di volo”, esperimenti virtuali, ci servono ad affrontare emozioni e situazioni della vita reale.

Gli studi scientifici hanno ampiamente dimostrato che, immerso nelle storie, il nostro cervello reagisce attivamente, come se si trovasse realmente di fronte a un pericolo o in una situazione emotivamente coinvolgente. Continuiamo a lasciarci trascinare da tutto ciò, pur consapevoli che si tratta di finzione, perché fa parte della nostra natura: cominciamo sin da bambini con il gioco del “facciamo finta che” e continuiamo sempre, giorno dopo giorno.

E poi raccontiamo mentalmente delle storie per costruire un’immagine di noi stessi che migliori quella reale, alterando i ricordi. Cambiando ciò che non ci piace, trasformandoci in supereroi, almeno in quello spazio di tempo che chiamiamo sogno.

…La morale della storia, semplicemente, è che non sono state la scienza, la filosofia, la matematica, ma le storie – come recita il sottotitolo del libro elogiato anche dal grande biologo Edward O. Wilson – «a renderci umani». E a farci tollerare la realtà e al (con)viverci ogni giorno.

L’ARTE PUO’ FAR MALE…

“Notre Dame brucia e io non posso far altro che stare a guardare”.

“Notre Dame brucia ma non muore. L’arte ci aiuta a sopravvivere, a renderci immortali. Per questo non morirà mai”.

E’ di questa strada infernale lastricata di buone intenzioni che converso nel giardino appena sfiorato dalla primavera, con le voci dei miei interlocutori che tengono coraggiosamente testa al pianto che ci invade il cuore. Eppure Parigi è accartocciata su se stessa, mutilata nella sua bellezza che si è sempre creduta invincibile.

L’arte può far male, penso. Perché c’è una relazione organica tra i mattoni di una chiesa, un castello, un palazzo e la vita: quando distruggi una distruggi l’altra. Non a caso, un monumento si fa spesso simbolo di tutto ciò che una mente dittatoriale odia, e la prima cosa che fanno i regimi totalitari è distruggere il passato per legittimare il loro presente. Ma non è questo il caso.

E’ sempre impressionante vedere come possiamo commuoverci per qualcosa che possiamo, al tempo stesso, ignorare per gran parte della nostra vita. Notre Dame è sempre stata lì. L’abbiamo visitata, apprezzata e fors’anche amata. Ma solo stasera mentre brucia, ne comprendiamo il significato.

Un mio professore prima di dettagliare astratti concetti filosofici, ci faceva passare di mano in mano un sasso. E’ quello che cerco di fare anch’io. E’ come se volessi dire ai miei discenti: sentite il sole o il vento sulla faccia, e ditemi cosa vedete. Molti non vedono. Non è facile percepire quanto sia bella la realtà, con tutte le sue imperfezioni. Se non ci è stato insegnato. Puoi essere circondato da tutta l’arte che vuoi, ma amarla non è scontato come è lecito immaginare.

Ritorno alle riflessioni silenziose che vivevo durante le mie soste in Notre Dame, dove cercavo di capire il mondo, in uno spazio che si faceva religioso e sacrilego allo stesso tempo. “L’unica cosa sacra nell’arte è il profano, diceva Salman Rushie -. Le opere, i monumenti, le costruzioni non sono qui per farti sentire a tuo agio, o darti consolazione spirituale”. Sono qui per farci sentire vivi, con tutte le loro contraddizioni. Peccato che spesso ce ne rendiamo conto quando qualcosa va distrutto.

Notre Dame brucia, forse, proprio per non morire.

Ciò che è NON SEMPRE è ciò che APPARE: ed è così che un giardiniere è quasi diventato presidente

C’era una volta un giardiniere analfabeta che per poco non divenne presidente.

Chance, questo il suo nome, è un personaggio triste e curioso, abile in due sole cose: la cura delle piante della villa nella quale è nato e cresciuto per molti anni senza mai uscirne e una spiccata conoscenza dei programmi tv, ai quali assiste con totale abnegazione. La vita di Chance è dominata dai ritmi naturali di una sorta di caos originario: tutto ciò che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano.

Costretto, dopo la morte del padrone, a introdursi in un mondo a lui totalmente sconosciuto, quello reale, Chance in una condizione di perenne straniamento, ha un riscontro inaspettato. Affascina uomini d’affari e politici, si impone all’attenzione dei Media, conquista l’alta società fino a venir proposto come candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America.

Un successo che si basa su un equivoco sistematico: in un universo comunicativo dominato da messaggi schizofrenici che finiscono per cancellare ogni reale informazione, il suo linguaggio perde la letteralità che lo contraddistinguono e viene interpretato in senso metaforico dai suoi interlocutori. Alla sua stupidità corrisponde la stupidità intelligente dei suoi interpreti, che sono costretti per capirlo a dare un senso, seppure improbabile, allegorico alle sue affermazioni.

Alla base di tutti i fraintendimenti che seguiranno, è il primo colloquio fra Chance e il suo ospite Ben, noto tycoon dell’epoca, che gli chiede quale sia la sua occupazione, a creare il precedente unico e inappellabile a cui tutti, inconsapevolmente, si affideranno:

Chance: “Non è facile trovare un posto adatto, un giardino, dove poter lavorare senza interferenze e crescere con le stagioni”. Ben: “un giardiniere! Non è la perfetta descrizione di quello che è un vero uomo d’affari? Chance, che metafora eccellente”.

Tutto quello che ha a che fare con il giardino verrà sistematicamente considerato una metafora del mondo degli affari, della finanza, dell’economia, della politica e delle strategie diplomatiche internazionali.

Chance, grazie a una serie illimitata di equivoci, ha successo, grazie ai suoi discorsi che possiedono, sebbene involontariamente, un forte potere retorico. La storia svela il meccanismo superficiale dell’inganno, in bilico fra genio, successo sociale da un lato e stupidità dall’altro, dove le parti spesso non si scambiano, piuttosto si fondono.

E’ un gioco comunicativo che svela i suoi abissi quello in cui ci porta Chance: dove due tipi di stupidità, quella onesta del giardiniere e quella ostinata degli suoi interlocutori, ci mostrano tutta la fragilità di cui pensiamo sia fatta la realtà. Chance non mente mai, semplicemente racconta l’unico mondo che conosce, quello delle piante. Chi ascolta, lo fa essendo vittima delle più comuni trappole mentali: quella di voler interpretare ciò che viene detto dal giardiniere, a totale proprio vantaggio. Lo spirito critico muore e chi ascolta, in realtà è sordo, se non a se stesso.

Della storia di Chance è stato scritto un libro “Oltre il giardino” e tratto un film. Una vicenda che va seguita, almeno per interrogarsi. E chiedersi ma io so ascoltare davvero?

La BELLEZZA SALVERA’ il MONDO… ma se non sapessimo come riconoscerla, la bellezza?

Se uno dei più grandi musicisti al mondo vi intrattenesse alla fermata della metro, gratuitamente, suonando la miglior musica mai scritta, lo ignorereste?

Sì. Lo fareste. Allo stesso modo di migliaia di altre persone. Perché siamo molto bravi a ignorare la bellezza e altrettanto incapaci a riconoscere il talento in un contesto inaspettato.

E’ quanto accaduto nella stazione della metropolitana di Washington, una fredda mattina di gennaio all’ora di punta. Il musicista che si è prestato all’esperimento è Joshua Bell, capace di imparare a suonare all’età di cinque anni e a 15 ad apparire come solista con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti.

Su iniziativa dell’editorialista Weingarten del Washington Post, Bell in incognito, come un suonatore ambulante, suonò sei pezzi di Bach nell’atrio della stazione L’Enfant Plaza della metropolitana di Washington. L’esperimento venne videoregistrato da una telecamera nascosta; di 1.097 persone transitate, solo sette si fermarono brevemente ad ascoltarlo e solo una lo riconobbe. Per la sua performance di 45 minuti, Bell raccolse $32,17 da 27 passanti. Solo tre giorni prima aveva fatto il tutto esaurito con un repertorio simile alla Symphony Hall di Boston dove il prezzo per un posto in platea era di 100 dollari. Per l’articolo su questo esperimento, intitolato Pearls Before Breakfast, pubblicato l’8 aprile del 2007, Weingarten vinse il premio Pulitzer.

Si potrebbe fare l’errore di bollare questo esperimento come un difetto di percezione. Personalmente è molto di più. La bellezza, è stato detto, salverà il mondo, ma se non troviamo qualche minuto per ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo, se non sappiamo riconoscere la bellezza quando ci sbattiamo contro, quante altre cose ci stiamo perdendo?

 

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

Il POTERE LOGORA CHI non ce l’HA

A contendersi la frase due scaltri politici: il francese Talleyrand-Périgord, il “diavolo zoppo”, il “camaleonte”, lo “stregone della democrazia”, l’uomo a fianco di Metternich nel Congresso di Vienna, noto per le abili mosse politiche che, al di là dei giudizi morali, lo resero grande protagonista del suo tempo; e l’italiano Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 27 volte ministro e parlamentare in tutte le legislature della Repubblica dal 1948 fino alla sua morte, avvenuta il 6 maggio 2013.

Descritto dalla Fallaci con la sua indomita ruvidezza: «Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza. L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla».

Sull’intelligenza di questa frase, dicevamo, qualche dubbio c’è sempre stato. A far chiarezza, ci ha pensato la scienza, scomodando due delle università più prestigiose del mondo, Stanford e Harvard, incaricate di risolvere un antico dilemma: è più stressato chi comanda o chi è comandato?

E’ PIU’ STRESSATO CHI COMANDA O CHI E’ COMANDATO?

E’ il leader a passarsela meglio, secondo lo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. Quello del ‘capo’ non è un mestiere facile ma, contrariamente al luogo comune che lo vuole stressato fino al midollo, chi ha il potere è in realtà più rilassato di chi non ce l’ha.
Per lo studio i ricercatori americani hanno intervistato 231 ufficiali militari dell’Harvard executive leadership program, misurandone il livello di cortisolo, il principale ormone dello stress.

Lo psicologo di Stanford James Gross, che ha condotto lo studio con la collega Jennifer Lerner e Gary Sherman di Harvard, spiega che la percezione comune secondo la quale chi comanda è più stressato (cosa che giustificherebbe, tra l’altro, il compenso più alto) è in realtà stata più volte smentita dalla letteratura scientifica, che ha dimostrato che avere il controllo delle vite altrui riduce il livello di ansia.
Il livello di cortisolo nei militari con posizioni di comando, registrò un livello del 27 per  cento più basso rispetto a quello dei non-leader.

CHI HA POTERE E’ ANCHE PIU’ FELICE?

Chi ha potere non solo è meno stressato ma è anche più felice. A questa conclusione sono invece arrivati gli scienziati  israeliani della Tel Aviv University, con uno studio pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’.

La ricerca dà un colpo di spugna al mito del potente solo e logorato sul tetto del mondo che per secoli ha alimentato l’immaginario collettivo.

A sostegno ci sono diversi esperimenti. In uno di questi hanno sondato più di 350 persone per stabilire se la sensazione di potere fosse da loro associata al benessere personale in diversi contesti, come il lavoro o il rapporto di coppia. Risultato? Chi si sente più potente tende a essere più contento. E più in alto si trovano gli intervistati maggiormente si sentono soddisfatti, in percentuale il 16% in più rispetto a chi si trova in basso. Questo ‘effetto scettro’ è molto più evidente per i potenti nel mondo del lavoro. Gli impiegati ai vertici sono il 26% più soddisfatti dei colleghi meno autoritari.

Dunque il potere non logora, rende felici ma può comunque dare alla testa. Insomma… chi ha potere deve comunque fare i conti con umani effetti collaterali…

TUTTO ciò che ABBIAMO REALIZZATO ARRIVA dalla LETTURA


Tutto ciò che apprezziamo nel mondo moderno ha le sue radici nella scrittura. Tutto ciò che abbiamo realizzato è venuto dalla lettura.

Dalla logica di Aristotele, all’astronomia di Keplero, passando attraverso la fisica di Newton, la biologia di Darwin e la filosofia di Kant: nessuno di loro è più in vita eppure, delle loro idee parliamo ancora. Allo stesso modo dei grandi della letteratura: non abbiamo più modo di dibattere con loro, ma i loro pensieri si sono fatti immortali e andiamo a ricercarli di tanto in tanto. Quando abbiamo bisogno di confrontarci con un maestro, un mentore. Un amico.

Senza libri, non saremmo mai sfuggiti ai confini dello spazio e del tempo. Uno dei modi più efficaci per conoscere il mondo è quello di immergersi nella saggezza del passato. Siamo – si dice – come spendiamo il tempo e diventiamo ciò che consumiamo.

NON SEMPRE SAPPIAMO LEGGERE NEL MODO GIUSTO

Spesso ci hanno insegnato a leggere solo per imparare a memoria una certa nozione. Ricordo ancora le tante frasi dei Promessi Sposi che la professoressa di italiano alle Medie ci costringeva a memorizzare. Una tortura sterile e poco utile a sviluppare il senso critico e la capacità di analisi di noi studenti. E così le ore passavano pesanti mentre ripetevo parti di un romanzo che difficilmente potrò mai apprezzare. Insomma quell’insegnante ci insegnava a memorizzare non per farci comprendere, ma per farci recitare e l’unico nostro obiettivo era quello di superare indenni “la recita” di turno. Qualunque cosa al di fuori di quell’obiettivo contava pochissimo per il risultato finale.

Per fortuna l’amore per la lettura (e la scrittura) ha superato questi maltrattamenti e sono andata oltre ma molti da quel metodo cieco, ne sono stati sedotti, e ogni qual volta che avvertono di non riuscire a ricordare o memorizzare tutto ciò che leggono, convinti di star perdendo tempo, si scoraggiano da ulteriori letture. E i libri che hanno comprato rimangono a prendere polvere su qualche tavolino.

LEGGERE SIGNIFICA SCOPRIRE NUOVE PROSPETTIVE

Leggere non significa passare al setaccio ogni parola, ma scoprire nuove prospettive, nuovi punti di vista. E per farlo al meglio occorre chiedersi il motivo per cui si legge… Che tu stia litigando con un classico russo, o una commedia, un volume di psicologia o il diario di un imperatore romano, in ogni caso stai cercando di guardare la realtà da una angolatura diversa. Per scoprire l’ignoto, anche in ciò che già credi di sapere.

Leggere non è solo un hobby, è soprattutto una virtù. Ogni parola, ogni frase e ogni paragrafo scritto bene hanno il potere di insegnare qualcosa. Anche chi sei, se sei pronto ad accettarlo.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…

Il LIBRO di TALBOTT che GIOCA con le OSSESSIONI dell’OCCIDENTE

Un misterioso libro nero-blu dalle direttive rivoluzionarie circola fra i prescelti, uomini comuni che presto passeranno all’azione mentre una fantomatica lista su internet “I meno amati d’America” identifica i bersagli da uccidere: classe dirigente, docenti universitari, politici e giornalisti.

E’ la trama dissacrante, ingegnosa, politicamente scorretta, ma quanto mai attuale (in un’epoca dove chi ha cultura e successo è sottoposto ad ostracismo) del romanzo fresco di stampa di Chuck Palahniuk, “il libro di Talbott”. Una tragedia annunciata, ma noi esseri umani, fatichiamo a imparare dalla storia. O con le affilate parole di Chuck “Dio non voglia che qualcuno impari qualcosa dai miei libri. Il mio mestiere non è insegnare. Quello era il lavoro di Stalin”.

A quattro anni dal suo ultimo romanzo, l’autore dell’acclamato Fight Club torna con un’opera in cui fa esattamente quello che gli riesce meglio: mettere alla berlina le assurdità della società contemporanea, le ossessioni, il razzismo, l’omofobia, il mito della sicurezza, il sovranismo per smascherare le teorie complottiste che giacciono latenti nella psiche degli americani. E aggiungo, non solo quelle americane. Insomma… ogni mio riferimento ai nostrani fatti politici e di cronaca non è per nulla casuale.

Il passaparola scatta solo tra persone fidate: “Il Giorno dell’Aggiustamento sta arrivando.” La gente fa circolare un misterioso libro nero-blu, una sorta di pamphlet profetico, memorizzandone le direttive rivoluzionarie. Messaggi radiofonici e televisivi, cartelloni pubblicitari e il web ripetono ossessivamente gli slogan di Talbott Reynolds: si avvicina il giorno della resa dei conti per la classe dirigente e le élite culturali. Il popolo non sarà più sacrificato alla nazione, il surplus di giovani maschi non verrà mandato al macello nell’ennesima guerra in Medio Oriente, ma a cadere saranno le teste di politici e giornalisti, professori e notabili – anzi, per la precisione, le loro orecchie. Sinistre.

Con la Dichiarazione di Interdipendenza, gli ex Stati Uniti vengono ridefiniti secondo criteri razziali, e la popolazione ridistribuita in base al colore della pelle e alle preferenze sessuali. Il simile con il simile, nei tre nuovi stati-nazione di Caucasia, Blacktopia e Gaysia.

Ma neanche in questo nuovo mondo, come è facile prevedere, tutto fila liscio…

Un libro che costringe a pensare, a ridefinire le identità e i valori. Uno scrigno dentro il quale occorre guardare per trovare se stessi, chiunque siamo. Oltre i paradossi e le paure.

L’ODIO, STUPIDA MALATTIA o l’altra FACCIA dell’AMORE?

“L’odio è una passione diabolica che andrebbe controllata ed eradicata”. Vito Mancuso, teologo e docente italiano dalla conoscenza infinita, in un articolo di qualche giorno fa sul Foglio, porta a riflettere su questo sentimento arrivando a dire che è una malattia.

“Un conto è avversare, un altro è odiare. L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Eppure le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa.

A dimostrarlo i ricercatori dell’University College di Londra: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

LA VISIONE DELLE NEUROSCIENZE

In questo studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti, ad esempio, di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati ad osservare le immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

I ricercatori hanno così notato che la vista della persona odiata attivava particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

“È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.”

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza esistente tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.”

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso conclude “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati.