Il FASCINO della SUPERFICIALITA’ e la NUOVA IGNORANZA

Il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943, confondendolo con il 25 aprile 1945: data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando invece fu una catastrofe storica; Di Maio non solo ha spostato Matera dalla Basilicata alla Puglia ma ha anche audacemente dichiarato che il corpo umano è fatto al 90% di acqua.

E mi fermo qui.

Fino a non troppi anni fa, di fronte a tali affermazioni, ci si scandalizzava, additando l’autore di ignoranza. Oggi invece l’ignoranza è considerata orgoglio da establishment e chiunque provi a rimettere le cose in ordine, attribuendo fatti e numeri a chi davvero ne ha proprietà, viene tacciato di complottismo.

REALTA’ VS CONSENSO

Insomma la verità non consiste più nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale (adaequatio rei et intellectus), ma fra la realtà e il consenso. E questo mi riporta immediatamente al totalitarismo, regime capace di mobilitare le masse nel nome di una ideologia o di una nazione.

TOTALITARISMO

Un modo gentile, totalitarismo, per definire il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, per citarne i più recenti, dove il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, imponendo l’assimilazione di una ideologia era la norma. Il partito che controlla lo Stato non si limita cioè a imporre direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere della società stessa. Ed ecco che il collegamento ad alcuni movimenti politici e guru che si ergono a motivatori diventa automatico.

In fondo la base del totalitarismo recente, non è il prodotto di élite culturali, di conoscenza e sapere ma di grande masse, come ben scriveva Elias Canetti in “massa e potere”, quasi 60 anni fa.

Insomma l’irruzione di internet ha agevolato un fenomeno che ha sostituito la conoscenza e il ragionamento critico con l’informazione di massa, vorace e poco controllabile, capace di manipolare e di rallentare la riflessione. Meglio cercare il consenso piuttosto che la verità.

NUOVA IGNORANZA

Non per nulla si parla di Nuova ignoranza, un fenomeno che premia la performance e dove la trasmissione del sapere diventa occasionale e deformata.  Il presunto pubblico colto si fa padrone della conoscenza, grazie al dilagare di libri di massa dai contenuti incerti e di indubbio valore e alle prediche che si ergono da palchi dove le star di turno accendono gli animi attraverso tecniche manipolatorie. Scambiate per sapere.

Essere conosciuti da chi non si conosce è la nuova definizione di fama.

SO DI NON SAPERE

Il rimedio è semplice: partire dal presupposto di non sapere, e di farsi spiegare le cose che da chi le vive, le conosce per davvero e poi procedere con approfondimenti e interpretazioni. Credere di sapere più degli altri (e quali altri…), la nuova ignoranza appunto è “una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo”, dice Maurizio Bettini, sapiente filologo, latinista e antropologo italiano che consiglio a tutti di seguire. Attenzione: non è un guru, è “solo” un professore, colto e saggio… non imbonisce, non motiva, ma appassiona. E genera Cultura. Quella vera, di una volta. Priva di effetti collaterali dannosi.

HANDWRITING IS GOOD FOR YOUR CREATIVITY AND MEMORY

Writing down information and appointments by hand (instead of using the keyboard) helps you to remember concepts and notions better.
In adults, because handwriting is slower than typing, it gives you more time  to reflect; whereas in children, it also facilitates the learning process: allowing them to  not only learn to read quicker, once having learned to write by hand, but also to  make them more capable of generating ideas and of conserving data.
In other words, it is not only what we write that counts, but how we do it.
SUPPORTING EVIDENCE
Several studies support this theory, including the one carried out on children by the psychologist of the University of  Washington, Virginia Berninger. The researcher demonstrated that when children write freehand , they not only produce more words more quickly than they do with a keyboard, but also express more ideas, showing greater fluidity of language and information (and neural activation in the areas associated to the work memory and to the networks of reading and writing of the brain), than similar aged children who do their writing with a keyboard.
THE BENEFITS OF HANDWRITING
The benefits of handwriting extend beyond childhood. Two psychologists, Pam Mueller of Princeton and Daniel Oppenheimer of the University of California, Los Angeles, have found that both under laboratory conditions and in the class, students learn better when taking handwritten notes. “Handwriting  – explain the researchers – allows the student to process the content and reformulate it: a process of reflection and handling that may lead to a better understanding and codification in the mind”
Put more simply writing things down on paper “teaches” us to read better, contributes to reinforcing the areas of the  brain where the shape of the letters is recognised or where the sounds are associated to words.
Further confirmation comes from China, where the “pinyin” transcription system of Chinese on QWERTY keyboards is increasingly used: abandoning the handwritten Chinese characters, diagnoses of dyslexia and other reading difficulties are undergoing continual growth. “Typing a letter does not let you really understand the shape and the possible variations that do not change its meaning, like what does actually happen when you learn to write it by hand”, explains Karin James of the University of Bloomington, in Indiana.
Basically: when writing something by hand or with a digital pen, several more parts of the brain “light up” than when we use the keyboard. And using the pen activates deeper areas of the brain and this has positive effects on both memory and on learning in children and in adults.

Annotare informazioni e appuntamenti a mano (anzichè con la tastiera) aiuta a fissare e memorizzare meglio concetti e nozioni.

Negli adulti la scrittura a mano permette, in quanto più lenta rispetto a quella su tastiera, un tempo di riflessione maggiore; mentre nei bambini facilita anche il percorso di apprendimento: permettendo loro non solo di imparare a leggere più velocemente una volta appresa la scrittura a mano, ma anche di renderli più capaci nel generare idee e conservare dati.
In altre parole, non è solo quello che scriviamo che conta, ma come lo facciamo.

EVIDENZE A SOSTEGNO

A sostegno numerosi studi, fra cui quello condotto, sui bambini, dalla psicologa dell’Università di Washington Virginia Berninger. La ricercatrice ha dimostrato che quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee, mostrando maggiore fluidità di linguaggio e informazioni (e di attivazione neurale nelle aree associate alla memoria di lavoro e alle reti di lettura e scrittura del cervello), rispetto ai coetanei che affidano il contenuto dei loro scritti alla tastiera.

I BENEFICI DELLA SCRITTURA A MANO

I benefici della scrittura a mano si estendono oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam Mueller di Princeton e Daniel Oppenheimer dell’University of California, Los Angeles, hanno riferito che sia nella condizione di laboratorio sia in classe, gli studenti imparano meglio quando prendono appunti a mano. “La scrittura a mano – spiegano i ricercatori – permette allo studente di elaborare i contenuti e riformularli: un processo di riflessione e di manipolazione che può portare a una migliore comprensione e codifica in memoria”
In parole semplici la scrittura su foglio “insegna” a leggere meglio, contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
Conferma ulteriore arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
In sintesi: quando scriviamo a mano o con la penna digitale si “accendono” più parti del cervello rispetto a quando utilizziamo la tastiera. E l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde e questo ha effetti positivi sia sulla memoria sia sull’apprendimento nei bambini e negli adulti.

Addio Amos… scrittore della speranza

“Non c’è una felicità che assomiglia all’altra”, scriveva nel romanzo epistolare “La scatola nera”. Vivere nonostante la disperazione era forse la sua massima espressione di felicità.

Amos Oz, il grande scrittore israeliano, che nelle parole ha sempre cercato il senso del vivere e l’umanità delle cose, ha perso la sua ultima battaglia a 79 anni, dopo lunga malattia.

“Imparai a leggere praticamente da solo, ero ancora molto piccolo. Che altro avevamo da fare? Alle sette di sera eravamo già chiusi in casa per via del coprifuoco imposto dagli inglesi a tutta la città. Spesso saltava la corrente elettrica, negli anni Quaranta del secolo scorso a Gerusalemme, ma anche quando non saltava si viveva comunque dentro una luce vaga, perché era immorale usare una lampadina da quaranta watt quando si poteva leggere, cavandosi gli occhi, con una da venticinque (“che cosa avrebbero detto i vicini, vedendo un’illuminazione da gala?”.

L’ultimo libro tradotto in italiano “Finchè morte non sopraggiunga”, si fa oggi premonitore, nonostante sia stato pubblicato nel 1971.

Con ironia e passione, ha raccontato nei suoi libri l’amore e la morte, i sensi di colpa e la nostalgia. Di qualcosa che è stato ma poteva essere molto diverso. Il suicidio della madre, e lo spasmodico bisogno di trovarne un senso, la ribellione alle leggi famigliari entrando in un kibbutz e abbandonando il cognome originario, il racconto della storia di Israele. La lotta al fanatismo perché combattere «un pugno di fanatici su per le montagne dell’Afghanistan» è una cosa, ma «essere» contro il fanatismo significa essere aperti al pluralismo e alla tolleranza. Perché il fanatismo, prima di qualsiasi integralismo, è questione antichissima e radicata nella natura umana: «un gene del male».

«Lo scenario non è solo un ritratto di Israele dal giorno in cui fu fondato nel 1948 fino a oggi. È altresì una rappresentazione della stessa condizione umana. Noi tutti, ovunque, viviamo davvero alle pendici di un vulcano attivo. Forse il vulcano mediorientale è più attivo di quello europeo, ma ogni essere umano, in ogni luogo ed epoca, vive a stretto contatto con la disperazione, la paura, la catastrofe».

Lo ricordo con una frase che mi ha fatto molto pensare:  “Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”

Addio Amos, che tu possa continuare a lottare anche là, dove forse la penna da arma, può farsi abbraccio.

 

 

Le TRAPPOLE della (MALA) SCRITTURA

Non è facile far percepire il valore dello scrittore (professionista). Che si tratti di scrivere un articolo, un libro, una Newsletter o post per blog e social. Tutti sanno costruire frasi, ecco perché è facile improvvisarsi copy, ghostwriter e scrittori e millantare capacità letterarie poi non coerenti con i risultati portati a casa e sostenibili nel tempo.

Scrivere male è infatti assai più facile e più frequente dello scrivere bene. Per appropriarti dell’arte della scrittura l’unico modo è leggere tanto e scrivere di più. Migliorarsi è possibile ma non è nè facile nè rapido.

Inoltre ogni volta che ci si cimenta nella stesura di un libro o di un articolo alcune trappole mentali si materializzano come d’incanto per rendere l’impresa ancor più ardua. Quali?

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

E’ la credenza di avere la verità in tasca, di pensarsi migliori di tutti. E questo porta a una scrittura pessima, autoreferenziale, cieca ai bisogni di chi legge e di chi cerca risposte e soluzioni. Questo stile può funzionare quando si tratta di tomi universitari o di temi complessi, in tutti gli altri casi è un suicidio. La scrittura è ben altro: è la capacità di aprirsi agli altri, di confrontarsi e ascoltare le idee del mondo. Non c’è peggior scrittore di chi crede di essere Tim Roth, Martin Amis o Umberto Eco e di poter dire la sua senza ascoltare nessuno. In questi casi è meglio limitarsi a scrivere un diario da tenersi rigorosamente in un cassetto.

LA TRAPPOLA DELL’INSICUREZZA

Chi è insicuro o costellato di dubbi tende a scrivere male in quanto non vuole esporsi, vuole rimanere al sicuro nella propria zona di comfort. E finisce con trattare tematiche in modo superficiale e asettico, facendo di tutto per nascondere il proprio tratto distintivo, la propria firma, il proprio stile. Senza emozioni non c’è storia che vale la pena essere vissuta.

LA TRAPPOLA DELLA MONOTONIA

Come nella vita di tutti i giorni, anche nella scrittura tendiamo a proporre i soliti schemi, le nostre rassicuranti ed automatiche routine.

Nel caso della scrittura il rischio è di appiattire la trama, risultando noiosi e poco emozionali. Scontati. Confrontarsi con altri stili e leggere molto è sempre il miglior consiglio per appropriarsi di più stili e di una leggerezza narrativa raramente innata.

SCRIVERE E’ UN LAVORO PER POCHI

Scrivere è dunque un lavoro per pochi. Coloro che si mettono in gioco. Che conoscono la grammatica, la sintassi, le regole della leggibilità. Scrivere in modo errato “qual è” o “anch’io” sono errori che si possono correggere, più difficile è il rapporto con se stessi e il proprio pubblico. Non per nulla molti abbandonano o continuano a scrivere male, schermandosi dietro scuse e l’arroganza di chiamare stile personale, una schizofrenia di parole buttate a caso come tessere di un puzzle su un foglio bianco.

Scrivere è un lavoro. E come tale non può essere improvvisato.

LEGGO per LEGITTIMA DIFESA

Leggiamo poco, quasi nulla. E scriviamo tanto. Con le conseguenze che ognuno può immaginare.

Secondo il rapporto dell’Istat 23 milioni di persone dichiarano di aver letto appena un libro in 12 mesi: il che vuol dire che 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Inoltre queste statistiche si basano sulla quantità, non sulla qualità della lettura. Per quanto possa essere soggettivo il valore di un libro, è giusto ricordare che in tali dati il libro di ricette di Benedetta Parodi e Guerra e Pace di Tolstoj hanno la stessa incidenza.

Se si vuole fare un confronto con gli altri paesi europei: la percentuale dei lettori è superiore al 75 per cento nella maggior parte dei paesi del centro e del nord dell’Europa occidentale: Svezia (89 per cento, il dato più alto), Danimarca, Finlandia, Estonia, Olanda, Lussemburgo, Germania, Regno Unito. Mentre è inferiore al 60 per cento in Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Grecia. E Italia.

IL DISPREGIO DELLA CULTURA

Un soggetto competente viene definito un “professorone”, con tono dispregiativo; un uomo di cultura viene additato come nemico del popolo perché non vive sulla propria pelle la difficoltà di arrivare a fine del mese. Come se uno come Pier Paolo Pasolini non avesse avuto diritto di parlare dei “ragazzi di vita”, solo perché era benestante.

Nel 2018, ai politici italiani non conviene mostrare un alto lignaggio culturale: è preferibile immedesimarsi con “la gente”, sbagliare qualche congiuntivo e riallacciarsi a una certa cultura popolare che preferisce citare Massimo Boldi piuttosto che Petrarca.
Nel 1987, durante il discorso per il premio Nobel, Iosif Brodskij commentò: “Per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe meno sofferenza sulla Terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal”. Più di 30 anni sono passati da quel discorso, eppure è ancora attuale.

La lettura da molti viene ancora vista come un mero esercizio cerebrale o un passatempo per coloro che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti o necessarie, e invece, bisognerebbe leggere per “legittima difesa”, per ampliare i propri orizzonti e formare uno spirito critico in grado di permetterci di comprendere il mondo e agire con cognizione di causa, seguendo i nostri valori, non imposti da altri.

LA STORIA INSEGNA

La storia ci insegna che i libri hanno sempre rappresentato un pericolo per le dittature. Il popolo doveva restare ignorante per essere controllabile e gestibile, e la cultura veniva proposta come il nemico unico e assoluto. Pensiamo ai Bücherverbrennungen durante il nazismo: i roghi nei quali venivano bruciati tutti i libri distanti dall’ideologia totalitaria, oppure ai libri bruciati in Cile sotto Pinochet, o ancora a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Senza dimenticare la Santa Inquisizione. La stessa letteratura distopica ha creato allegorie che si riallacciano a questo contesto. Tra queste spicca Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, con i pompieri che bruciano i libri in una società dove leggere è reato. Adesso, per lo meno in Italia, non è più necessario bruciare i libri però, semplicemente perché nessuno li compra e tanto meno li legge.

SAPPIAMO LEGGERE SOLO i LIBRI di CALCIATORI e CHEF…

Ho sempre cercato di scrivere cose che avessero un significato, capaci di regalare esperienze, anche quando forse avrei fatto meglio a non scrivere affatto.

Ogni tanto penso di aver scritto cose importanti. Altre molto meno. Eppure, sento di dover continuare, per nutrire quella famelica necessità così ben radicata in me, che detta le regole del gioco, il gioco dell’esprimere chi sono, attraverso la scrittura.

La scrittura mi fa credere di poter persuadere il mondo. Decidere le parole, la punteggiatura, la trama narrativa, l’intreccio, i protagonisti, mi ha fatto credere di esser a mia volta protagonista di qualcosa.

La scrittura, dicevo, è fondamentale per un essere scrivente. Vitale. Anacronistica, a volte: se si scrive, non si vive. Almeno parafrasando Pavese.

L’ITALIA CHE NON LEGGE

Oggi l’Italia è un paese saturo di scrittori e non di lettori: 6 italiani su 10 non legge nemmeno un libro l’anno. Tanti scrittori per pochi lettori.

Se l’editoria sta annegando inesorabilmente in una crisi senza fine, la contrazione delle vendite non avviene quando, ad essere pubblicati e letti, sono i libri di calciatori e chef (famosi).

IMPOVERIMENTO CULTURALE DELLE MASSE

Un perverso amore verso un’icona, un simbolo, rimane. Sintomo di un vuoto oceanico, fra il mondo culturale e la quotidianità. Gap che con gli anni sta prendendo dimensioni atroci.

L’impoverimento culturale delle masse, autoindotto o manipolato ad arte, screpola la consapevolezza da parte di queste ultime, sottraendo loro l’aspetto ludico e arricchente che può derivare da una ecologica vita culturale. E questo, conduce i singoli a cercare ciò che è stato loro negato in contesti inconsistenti e molto, troppo distanti dalla realtà, dove peraltro la dimensione sociale viene meno o quasi. Mentre l’emarginazione di chi ama la sophia, assume contorni kafkiani.

La cultura italiana resiste, fra baionette linguistiche, calamaio e carta per difendersi dagli assalti nemici, in attesa di un pubblico al momento solo impegnato a fare le file sbagliate.

Le PAROLE SCRITTE sulla PELLE

Un taglio. Un altro ancora. Non c’è via d’uscita da quel dolore accecante e inespresso se non una lametta che tormenta la carne.

E poi le maniche lunghe, i pantaloni anche d’estate, a nascondere il corpo martoriato e parole tracciate come stigmatiche sulla pelle: sesso, verginità, perversione…

Non parla molto, fuma e beve vodka nascosta in bottiglie d’acqua Camille, reporter di un giornale di Saint Louis, reduce dal ricovero in un ospedale psichiatrico per abuso di alcol.

Camille che quando nella sua città natale, vengono ritrovati dei cadaveri di bambine, decide di partire per trovare una storia da raccontare.

Tempeste emotive che evocano ricordi, e i tagli si sommano. Necessari.

Nella casa di famiglia, ritrova la sorellastra, incarcerata in uno stretto dualismo fra il tentare di essere adulta e il rimanere bambina; la madre, instabile marionetta emotiva e tutti quei fantasmi infantili che si materializzano, come tessere scombinate di un misterioso puzzle. Traumi irrisolti che annegano nel sangue.

Camille è la protagonista di Sharp Objects, la miniserie tv, tratta dal romanzo Sulla pelle” di Gillian Flynn. Una storia di femminicidio da cui è esclusa la presenza maschile. Una storia originale, quello della violenza delle donne sulle donne.

Un libro da leggere e una serie da guardare….

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.

 

LEGGERE per SAPERE… LEGGERE per AVERE

11 libri in tre settimane, poco meno di 5 mila pagine. Questo è il piacere che mi sono regalata nelle vacanze estive, decisamente controcorrente rispetto i dati Istat, secondo cui il 53% degli italiani non ha letto neppure un libro in 12 mesi e il 15% ne ha letti una dozzina.

Eppure, esempi alla mano, chi ha un lavoro appagante e una vita di successo è mediamente un avido lettore.

Steve Jobs aveva un’ossessione per i poeti inglesi, in particolare per William Blake.

Phil Knight, fondatore della Nike, venera a tal punto la sua libreria, che gli ospiti sono costretti a visitarla scalzi.

David Rubenstein, co-fondatore di The Carlyle Group, un private equity che gestisce oltre 150 miliardi di dollari, ha l’abitudine di leggere una dozzina di libri… a settimana!

Winston Churchill, primo ministro inglese durante la II guerra mondiale, vinse il premio Nobel per la letteratura.

Warren Buffett, il più grande investitore di tutti i tempi, legge 500 pagine ogni giorno. Inizia la giornata leggendo dozzine di quotidiani e dedica un’ampia parte della sua giornata al suo consumo vorace di libri.

Il miliardario Mark Cuban trascorre fino a 3 ore delle sue giornate a leggere libri

Bill Gates, si sa, legge 50 libri all’anno.

E quando è stato chiesto come avesse imparato a costruire razzi, Elon Musk ha risposto semplicemente: “Leggo libri”.

1.200 DELLE PERSONE PIU’ RICCHE AL MONDO LEGGONO TUTTE MOLTISSIMO. MA COSA LEGGONO?

Secondo Thomas Corley, autore di Rich habits: The daily success habits of wealthy individuals, le persone con un reddito annuo superiore ai 160.000 dollari e un patrimonio netto liquido superiore ai 3 milioni di dollari leggono testi che parlano di auto-miglioramento, istruzione e successo. Le persone con un reddito annuo non superiore ai 35.000 dollari e un patrimonio netto liquido di 5.000 dollari leggono principalmente per essere intrattenute.

Se non siete dei lettori voraci, non dove iniziare con Roth, Musil o Proust a colpi di 500 pagine al giorno. Sono sufficienti una ventina di pagine purchè siano una ventina tutti i giorni.

Se per caso pensaste di non riuscire a trovare il tempo, considerate che per leggere 200 libri in un anno ci vogliono 417 ore. A fare il calcolo lo scrittore Charles Chu, che per 2 anni ha provato a tenere la media di Buffet: “Sembrano tante, ma se consideriamo che ne usiamo 608 sui social media e 1642 davanti alla tv capiamo bene che quelle ore ce le abbiamo”.

DIRE STRONZATE è SOCIALMENTE più ACCETTATO del MENTIRE

Dire stronzate è socialmente più accettato del mentire. Perdonate il francesismo, ma ogni tanto chiamare le cose con il loro nome, senza nascondersi nel politically correct è doveroso. Soprattutto quando a farlo è la scienza.

Proprio così.

C’è addirittura un libro, edito da Rizzoli, che si intitola Stronzate (On bullshit), scritto dal filosofo morale e di solida reputazione Harry Frankfurt, professore emerito a Princeton.

Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che è pervasa da una gran quantità di stronzate. Tutti lo sanno. Ognuno di noi contribuisce con la propria quota. Eppure tendiamo a dare questa situazione per scontata. La maggior parte delle persone si fida della propria capacità di riconoscere una stronzata, quando la sente, e quindi evitare di crederci. Ragion per cui il fenomeno non solleva gran preoccupazione, né è stato finora oggetto di un serio approfondimento“.

John Petrocelli, psicologo alla Wake Forest University ha invece condotto uno studio per capire in quali condizioni le persone si sentono più incoraggiate o autorizzate a dire stupidaggini. Stupidaggini, non bugie. Chi mente nasconde la verità, chi dice stronzate non necessariamente sa qual è la verità e può accadere che stia solo ripetendo cose sentite in giro o idee presentate da altri che sembravano credibili.

COSA DICE LA SCIENZA

E’ emerso che il dire stupidaggini è più accettato che mentire. Probabilmente perchè a volte chi le dice lo fa per favorire il senso di appartenenza al gruppo (cadendo nell’effetto gregge) e poco importa se questa idea è basata sui fatti.

La pericolosità della stronzata è che è impossibile sapere come stanno veramente le cose. Ne consegue che qualunque forma di argomentazione politica o analisi intellettuale è legittima, e vera, se è persuasiva. Tutto questo, secondo il filosofo di Princeton, è effetto di una forma di vita pubblica in cui le persone «sono sovente chiamate a parlare di argomenti di cui sanno poco o nulla».

Il «bullshit artist», l’artista della stronzata, infatti se ne infischia tanto della verità che della menzogna: «Gli sta a cuore solo farla franca con ciò che dice». Un politico, un pubblicitario o un conduttore di talk show che elargiscono «stronzate» non rifiutano l’autorità della verità come fa il bugiardo, che vi si oppone. «Semplicemente non vi badano».