LILITH o EVA? La DONNA che SCEGLI di ESSERE

“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. L’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dentro di noi…”

Clarissa Pinkola Estès, psicanalista statunitense, sprona così la donna selvatica che c’è dentro ogni essere femminile. La donna libera, naturale e non controllata. E lo fa attraverso racconti, fiabe, narrazioni dense. Rileggerla mi riporta all’antica religione ebraica e alla leggenda di Lilith, la prima moglie di Adamo, precedente ad Eva, ripudiata e cacciata perché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.

“Non starò sotto di te”, dice Lilith. “E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra”, replicherà Adamo.

Lilith compare nell’insieme di credenze dell’Ebraismo come un demone notturno, capace di portare danno ai bambini di sesso maschile e caratterizzata dagli aspetti negativi della femminilità: adulterio, stregoneria e lussuria.

Lilith abbandona, dopo aver pronunciato infuriata il nome di Dio, il Giardino dell’Eden, per rifugiarsi sulle sponde del Mar Rosso, ma non avendo mangiato come Adamo ed Eva il frutto proibito, non verrà condannata alla mortalità.

Si accoppierà con Lucifero e altri demoni, dando alla luce esseri superiori detti “Jinn”, entità intermedie fra gli angeli e gli umani. Adamo chiederà a Dio di riportare indietro Lilith con l’aiuto di tre angeli, ma invano. Lilith viene così maledetta: i figli che lei concepirà moriranno sempre, perché a lei non è dato partorire vita. Solo morte. Lilith si trasforma dunque in un demone, madre di tutti i demoni, e abita l’oscurità.

Inevitabilmente a questo punto appare Eva, la donna creata dalla costola di Adamo, la donna che non mette in discussione l’autorità costituita.

Con Lilith siamo in un archetipo profondo, inabissato nel sotterraneo, potente e non comune. In lei convivono la sconfitta, il dolore della condanna, la frustrazione, impotenza e depressione, la rabbia dell’ingiustizia e della solitudine, l’esilio e l’invidia per il femminile sottomesso e fecondo, per il volto luminoso della Dea e della Madre, a lei negato.

La sua natura selvatica rifiutata, diventata peccato, scatena una forza distruttiva: la predilezione, a livello sociale, dell’immagine buona, accogliente e sottomessa della donna compagna, ha amplificato e scatenato in noi donne l’ambivalenza interiore, il senso di colpa e di mancanza, la perdita della femminilità erotica (creativa), della potenza dell’energia vitale istintuale: l’incubo di cui parlano le fiabe, intrise di matrigne e streghe cattive, arrabbiate per tutto ciò a cui hanno rinunciato.

Lilith, l’alter-ego di Eva, rappresenta la dignità della donna, la sua autorevolezza, quella forza insopprimibile che la porta a scegliere di essere se stessa, qualunque sia il prezzo da pagare. Quella donna che non si conforma alle leggi precostituite, agli obblighi sociali, ma che li mette in discussione, affrontando con coraggio la paura di essere giudicata, di rimanere sola. Quella donna irrazionale, selvaggia, che si affida alla sua capacità intuitiva, alla conoscenza delle viscere, del corpo, ed attinge alle sue doti naturali.

Censurare l’immagine archetipica di Lilith significa erodere la parte selvatica e intima di ogni donna. L’equilibrio più profondo richiede però di far abbracciare Lilith a Eva, che si fa grembo di attrazione, integrazione, conscia del suo potere e della sua autorevolezza nell’esercitarlo, capace di essere vulnerabile, di affidarsi, forte del proprio valore e che nell’ascolto e nella comprensione, si fa dea.

E per questo uomo e donna, quando si fanno coppia, sono liberi da litigi, sottomissioni, manipolazioni e possono affrontare insieme le differenze, integrandole.

ADDIO Mr ROTH

E’ stato lo scrittore più venerato dalla critica mondiale, l’eterno candidato a un Nobel che però non ha mai vinto. Philip Roth è morto ieri a 85 anni. A poche settimane dall’annuncio dell’Accademia di Svezia travolta dagli scandali, che il premio Nobel 2018 non verrà assegnato, l’ultima beffa a uno scrittore che a quel riconoscimento è stato candidato quasi ogni anno senza mai ottenerlo.

Se n’è andato lo scrittore influente, dissacrante e dannatamente complesso: voce affilata che sopra ogni altra ha saputo scavare con una sincerità spietata, umana ma mai pietosa, nelle inquietudini del nostro tempo, smascherando ogni pretesto e nello stesso tempo scardinando le regole del romanzo.

L’esordio, nel 1959, con “Addio, Columbus”, storia d’amore tra due ventenni che serve da canovaccio per riflettere su quelli che saranno i suoi temi: sesso, amore, religione, ipocrisie che costituiscono lo zoccolo duro della società americana.

Nel 1969 il primo grande successo (e il primo vero scandalo) con “Il lamento di Portnoy” , in cui racconta in modo esplicito la storia di Alexander, figlio indisciplinato di una famiglia religiosa e borghese, che si accomoda sul divano dello psicanalista e racconta di un’esistenza trascorsa in gran parte a fare sesso (soprattutto da solo) e a fuggire dalla mamma impicciona. Insomma, Portnoy fa molto ridere, oltre che pensare.

Una delle numerose doti letterarie di Roth era la straordinaria capacità di giocare con l’illusione dell’autobiografia. Ossia il virtuosismo di raccontare tutto di sé senza lasciar capire al lettore quale fosse la linea di confine tra memoria e fantasia. Come se ogni volta l’autore reinventasse se stesso. Per buona parte della sua carriera, Roth coabiterà con il personaggio di Nathan Zuckerman, lo scrittore suo alter ego comparso in molte opere. Zuckerman scatenato è un abile gioco di specchi, fra citazioni coltissime e l’umorismo con cui Roth prende in giro il suo medesimo successo, i suoi libri e il mondo intero.

Gli anni passano ma il ribelle e irriverente autore di Portnoy è invecchiato bene, ora è un architetto della letteratura, capace di elevare costruzioni perfette per quattrocento pagine e passa. Attraverso una vicenda familiare descritta con forza espressiva ineguagliabile, “Pastorale americana” riproduce lo spietato affresco dell’America e delle società occidentali. Con questo libro Roth vince una caterva di premi, fra cui il Pulitzer 1998.

E infiniti altri romanzi, fra cui “la macchia umana”, dove Roth porta al culmine la guerra al moralismo puritano nella sua ultima deriva: il politicamente corretto

(«Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui…»).

Dopo aver smesso di scrivere Roth, convinto di aver scritto ormai le sue opere migliori e che qualunque altro libro non sarebbe stato abbastanza buono, ha dato disposizione che i suoi archivi venissero distrutti.

«Io non sono più molte cose che una volta ero, e non sono più capace di fare una quantità di cose che una volta facevo – ha detto in una delle ultime interviste. Alla mia età, smettere diventa un modo di vivere. Delle cose che non ho più, faccio a meno».

QUALI ABILI NEGOZIATORI sono i BAMBINI (soprattutto a NATALE)

Negoziare è un’arte che i bambini esercitano con implacabile e naturale maestria, come dimostrano gli innumerevoli regali che riescono, con facilità disarmante, ad accumulare sotto l’albero. Ogni Natale.

I bimbi sono negoziatori nati, abili a mettere inconsapevolmente in atto alcune tecniche negoziali estremamente efficaci e, allo stesso tempo, sorprendentemente semplici ma che tendiamo, da adulti, a complicare e rendere innocue.

a. I bimbi non smettono mai di fare domande
Una delle tattiche più utili in una negoziazione di successo è fare domande ogni volta che non si sa o non si capisce. Da “grandi” tendiamo a perdere questa abilità nel timore di sembrare impreparati o incompetenti. Spesso, di fronte a un termine che non conosciamo invece di chiedere delucidazioni, annuiamo, celando il nostro non sapere dietro un apparente sorriso di saggezza.

b. I bimbi non smettono mai di chiedere
Non si fanno molti problemi a palesare ciò che vogliono. Che si tratti di un gioco, attenzioni o la favola della buonanotte. Insomma, di fronte a necessità e desideri i bimbi semplicemente chiedono. Da adulti, perdiamo tale la capacità. In una trattativa negoziale (e così a casa, sul lavoro e con gli amici) anziché chiedere, ricorriamo a inutili sotterfugi, nascondendo le nostre necessità, non facilitando la comprensione alla controparte di ciò di cui realmente abbiamo bisogno. Crediamo, erroneamente, che l’altro possa leggerci nel pensiero.

c. I bimbi non amano il “no” come risposta
Trattano il “no” come l’inizio e non la fine di una trattativa. La loro tendenza è infatti insistere affinchè la risposta cambi a loro vantaggio e nel caso non ci riescano, lotteranno a suon di “perché no?” fino a che la spiegazione non sarà soddisfacente a sostenere il mancato soddisfacimento del bisogno. Attenti dunque a fornire una risposta più che esaustiva e solo così le vostre proposte massimizzeranno i vostri risultati (non solo con i figli).

d. I bimbi sono sensibili alle punizioni
E sono abilissimi a influenzare i comportamenti degli adulti in modo da ottenere una dilazione o uno sconto. Immagino abbiate ben presente l’ultima volta che le urla apocalittiche di vostro figlio vi hanno spinto a sospendere una punizione pur di trovare un po’ di pace…
Ovviamente da adulti non possiamo buttarci a terra disperati di fronte al “no” del capo, ma spesso nelle negoziazioni di tipo commerciale, si ha più la tendenza a proporre la carota anzichè il bastone: ma il bastone rappresenta il costo, per entrambe le parti, del mancato accordo.

e. I bimbi sono esperti nello smascherare i bluff
Sono bravissimi a capire quando le minacce di un adulto non sono veritiere. “Se lo fai un’altra volta, non ti porto più al parco”. Se una minaccia è utilizzata regolarmente ed altrettanto regolarmente non viene eseguita, perde il suo potere, e voi perderete di credibilità e autorevolezza. Per lungo tempo.

Ecco perchè, mediando dal primo assioma della comunicazione, possiamo tranquillamente dire che non si può non negoziare.

SOLITUDINE: ANTICAMERA della CREATIVITA’ e della INNOVAZIONE

Se ne parla molto, di questi tempi. Di solitudine.
Affibbiandole i mali più diversi, dalle cardiopatie, all’insonnia, dalla depressione, all’obesità, fino alla morte prematura.

Eppure la sana solitudine è l’anticamera della creatività e dell’innovazione. Non a caso Schopenhauer scriveva: “i veri grandi spiriti costruiscono, come le aquile, i loro nidi a grandi altezze, nelle solitudine”.

Un tempo l’isolamento poteva risultare pericoloso, ma oggi senza amici, in città, non c’è il rischio di morire di fame o venir sbranati da animali feroci, come poteva invece accadere a un cacciatore, senza amici, nella preistoria.

“Hanno sempre detto che dovrei mostrami più aperta, ma ho capito che essere introversi non è cosa negativa – spiega Susan Cain, nel libro Quiet, the power of introverts in a world that can’t stop talking – Così per anni sono andata in bar affollati, come molti introversi fanno, con una perdita di creatività e di leadership che la nostra società non può permettersi. La solitudine è l’ingrediente fondamentale della creatività. Darwin faceva lunghe passeggiate nei boschi e decisamente respingeva gli inviti ai party. Steve Wozniak ha inventato il computer Apple bloccato nel suo Hewlett Packard. Le società occidentali hanno dimenticato la potenza della vita contemplativa. Fermiamo la follia della ricerca costante del lavoro di squadra. Andate nel deserto per avere intuizioni vincenti”.

La solitudine fa bene anche all’empatia. Studi condotti da Erin Cornwell, della Cornell University (New York) hanno dimostrato che le persone anziane che vivono da sole hanno una rete sociale molto ampia.

Le capacità che però hanno più giovamento dalla solitudine sono la creatività e l’innovazione. Gli esseri umani sono esseri sociali, ma dopo aver trascorso la giornata circondati da persone, passando da una riunione all’altra, attenti ai social, agli smartphone, iperattivi, la solitudine fornisce uno spazio per il riposo ristoratore.

Uno dei risultati più sorprendenti infatti è che la solitudine è alla base della creatività, dell’innovazione e della buona leadership. Uno studio condotto da Mihaly Csikszentmihalyi (lo psicologo della felicità) ha rilevato che gli adolescenti che non sopportano la solitudine non sono in grado di sviluppare talento creativo.

Ammettere di essere soli è una delle cose più difficili, ma oggi sapendo cosa ci guadagniamo accogliendola in modo sano, forse non le saremo più tanto ostili.

RAFFINATA STRATEGIA NEGOZIALE e INTELLIGENTE APPLICAZIONE di NUDGE (laddove meno te lo aspetteresti)…

Non sono mai stata attirata dai ristoranti che applicano la formula “all you can eat” perché la prima cosa che mi viene in mente quando mi vengono proposti, è l’immagine di materie prime scadenti, grassi in eccesso e igiene che lascia a desiderare. Oltre che essere la meta preferita di turisti e studenti voraci.

Così, quando sono stata costretta ad entrarci con colleghi, non essendoci altra scelta nei più ristretti dintorni, mi sono sentita in trappola.

Dovete sapere che io adoro il pesce fresco e i ristoranti dove nulla è lasciato al caso e ti senti così coccolato da non poterci non ritornare ogni volta che puoi. Così aperto il menù e ritrovata la parola sushi in mille diverse forme, a fianco di immagini tutt’altro che appaganti, mi sono spazientita. La scelta più salutare era buttarsi sul riso al vapore e aspettare che gli altri commensali, meno pretenziosi, finissero di fare incetta di qualsiasi sorta di alimento comprensivo nel menu. Eppure una domanda continuava a tormentarmi… come poteva quella offerta a soli 18 euro tutto compreso, essere commercialmente redditizia per il ristorante? Come potevano contenere la bulimia nervosa dei clienti golosi di pesce senza essere danneggiati economicamente? Dove stava il guadagno?

Così ho iniziato ad osservare, a raccogliere informazioni, come in una vera e propria analisi negoziale. Nella giungla della ristorazione, questo locale che probabilmente prima di questa scelta soffriva di scarso appeal, proporre un menù “all you can eat” a un giusto prezzo, poteva risollevarne le sorti. Come in una negoziazione efficace, il trucco è dare ai clienti ciò che vogliono, ma alle nostre condizioni.

Così ho iniziato a studiare il menù e capire i termini che quel ristorante dettava non erano pochi. Bastava leggere fra le righe. L’offerta di 18 euro era limitata a un’ora e mezza (dalle 12 alle 13.30), i bambini sino agli 8 anni, potevano godere di un menù a metà prezzo solo se accompagnati da due adulti. Inoltre c’era un numero limitato di portate (8) che si poteva consumare e alcune richiedevano un fee aggiuntivo. E, soprattutto, a tuttociò che si avanzava nel piatto, veniva applicata la tariffa normale.

Quel ristorante cominciava a piacermi. Perché proponeva sì un menù a prezzi moderati, ma alle loro condizioni. Ottima strategia negoziale e un intelligente applicazione di nugde. Insomma, c’è sempre da imparare se si è sufficientemente curiosi…

IL PIACERE DELLA PAURA

“L’ultimo uomo rimasto sulla Terra siede da solo in una stanza. Qualcuno bussa alla porta”.

Spaventati ? 
o
Divertiti ?

La paura è una emozione interessante e non del tutto spiacevole. Ricordate il gelido brivido lungo la schiena durante la visione di un film dell’orrore o la lettura di un incipit come quello che proposto qui, in apertura (erroneamente attribuito a Stephen King, anzichè a Fredric Brown): un brillante esempio di come usare la suspense nello spazio di un respiro.

Quel brivido è paura e l’essere umano adora essere spaventato.

Per quanto appaia illogico, c’è la biologia alla base della attrazione verso la paura. La paura stimola la secrezione di adrenalina, scatenando il riflesso primordiale del “combatti o fuggi”. Riflesso che a sua volta produce epinefrina, un altro ormone, responsabile della sensazione di piacere estremo.

Il sangue affluisce ad arti e muscoli, privandone il cervello e rendendoci incapaci di pensare lucidamente: la paura è un persuasore molto efficace. Un esempio? L’abuso di psicofarmaci, medicine, detergenti antibatterici e via dicendo. Spesso l’acquisto del prodotto (antidoto) è per il nostro cervello l’unico e veloce modo di liberarsi di quell’emozione.

Pensiamo a ciò che ci spaventa: perdere il lavoro, non riuscire a pagare il mutuo, essere lasciati, la solitudine, non avere amici, non essere all’altezza, ammalarci di cancro, guidare, volare, l’effetto serra, il buio, il virus della mucca pazza, ingrassare, perdere i capelli, il mercurio nel pesce, gli ormoni nella carne, il terremoto, non essere al sicuro, che i nostri figli vengano rapiti, non essere alla moda, non essere sufficientemente intelligenti, essere noiosi, venir dimenticati e chi più ne ha più ne metta…

Molti brand sfruttano (generando e amplificando) queste ed altre innumerevoli paure, quelle che gli antropologi chiamano “paure panoramiche”, spingendoci a comprare ogni sorta di “antidoti”. Avete presente il gel igienizzante per le mani (i cui slogan assicurano di proteggerci dal contagio di qualsiasi germe)?

La spinta all’acquisto l’hanno data la paura di contrarre la SARS (la sindrome respiratoria acuta grave) e l’influenza suina (causata dal virus H1N1), eppure i gel antibatterici non prevengono nè la suina nè la SARS. Entrambi i virus infatti si propagano per via orale (tramite starnuti e tosse delle persone già infette), nonostante questo l’idea di un contagio invisibile e potenzialmente mortale ha scatenato una vera e propria mania per gli antibatterici…

Ben venga dunque la paura e anche se da un lato è utile perchè ci coalizza contro un nemico comune, non dimentichiamo che è allo stesso tempo capace di creare legami in modo perverso quanto piacevole (l’acquisto libera, ricordate, l’ormone della gratificazione…).

Buon spavento a tutti