QUATTRO CONSIGLI per MEGLIO GESTIRE i CONFLITTI sul LAVORO

 

Noi, dobbiamo parlare…

Non è sempre facile mantenere la calma di fronte a un collega che con sguardo accigliato, le braccia incrociate e una richiesta perentoria, entra con violenza nel nostro ufficio. Eppure essere in grado di calmare la situazione e gestire il conflitto può fare la differenza. In termini di performance ma soprattutto di benessere.  Anche perchè un luogo di lavoro privo di conflitti non esiste. Per fortuna. Il confronto e talvolta anche lo scontro, se finalizzati, possono essere un modo per migliorare e crescere.

Occupandomi di emozioni, decisioni e comportamenti sono spesso chiamata a risolvere conflitti interni ai team e attraverso microinterventi aiuto le persone a gestire situazioni stressanti e complesse.

Ecco riassunte quattro strategie scientificamente supportate che possono tornare utili.

 

ASCOLTA

Chi è arrabbiato, di solito, ha un problema che deve risolvere. La cosa migliore da fare è ascoltare attentamente e cercare di comprendere la situazione, lasciando pregiudizi e giudizi al di fuori del contesto. Anche se ti rendi conto che non è un problema che si può risolvere sull’immediato, ascoltare è il modo migliore per andare avanti.

Le persone si sfogano perché vogliono sentirsi ascoltate o perché cercano empatia. In uno studio che ha analizzato la rabbia dei clienti nei confronti di alcuni prodotti, la semplice ricezione di una risposta da parte della azienda in questione, anche se non risolveva il problema, aumentava la fedeltà del cliente al brand[1]. Questo vale anche per te. Resisti alla tentazione di intervenire, alzare i toni o avviare un dibattito e fai del tuo meglio per essere presente. Nella maggior parte dei casi, il contenuto della tua risposta è meno importante del tuo semplice ascolto.

 

RICONOSCI COME SI SENTE L’ALTRA PERSONA

Per aiutare l’altro a sentirsi ascoltato, fai capire di aver compreso il suo punto di vista. Usa un linguaggio che rifletta ciò che ti è stato detto e fai attenzione a non minimizzare le emozioni. Sottovalutare i sentimenti è molto più costoso che sopravvalutarli[2].

Se il tuo collega è turbato, non dire: “Capisco che ti senti a disagio“. È meglio esagerare: “Capisco che sei devastato“.

Se anche tu sei contrariato per il problema in questione, riconosci apertamente i tuoi sentimenti: “Capisco perfettamente che sei arrabbiato. Sono ugualmente frustrato e condivido la tua preoccupazione“. Sopprimere le emozioni non aiuta: quando cerchiamo di nascondere come ci sentiamo, gli altri lo percepiscono e il rischio è che si sentiranno meno a loro agio con noi[3].

 

CONCENTRATI SUI FATTI

Anziché soccombere in pensieri negativi o sentirti in colpa (“Sono un collega orribile, ho commesso un errore enorme e questo ha fatto arrabbiare il collega”) prova a mappare i suoi sentimenti. Cerca di capire perché è frustato, adirato, ecc. C’è qualcosa che puoi fare per cambiare la situazione?

Focalizza quindi la tua attenzione sul bisogno che sta dietro le emozioni. Questo ti permetterà di essere più obiettivo e distaccato dalla situazione e proteggere[4] il tuo benessere emotivo.

Ciò che devi tenere a mente è di non prendere sul personale i commenti pungenti. È probabile che la persona si stia semplicemente sfogando e non pensi assolutamente ciò che sta dicendo preso dalla foga del momento.

 

IMPARA DALL’ESPERIENZA E POI VAI OLTRE

Una volta compreso il problema, pensa a come potresti risolverlo. O, se ti rendi conto che hai commesso un errore, chiedi scusa in modo semplice e diretto.

Quando sarai da solo, prenditi qualche minuto per scrivere ogni feedback ricevuto o le lezioni che hai imparato in quel contesto. Può essere difficile elaborare un feedback critico nel momento in cui le emozioni sono alle stelle, quindi impegnati a rivisitare gli appunti a distanza di qualche giorno[5].

Una volta che hai risolto il problema, volta pagina. Tornare sull’argomento e sulla lite può portarti a rimuginare e a nuovi scontri con quegli stessi colleghi proprio a causa delle parole che sono seguite nel momento di crisi.

 

FONTI

[1] https://hbr.org/2018/01/how-customer-service-can-turn-angry-customers-into-loyal-ones

[2] Klein N., Better to overestimate than to underestimate others’ feelings: Asymmetric cost of errors in affective perspective-taking, Organizational Behavior and Human Decision Processes, Vol 151, 2019: 1-15.

[3] Butler E.A., Egloff B., Wilhelm F.H., Smith N.C., Erickson E.A., Gross J.J. The social consequences of expressive suppression. Emotion. 2003 Mar;3(1):48-67.

[4] Shiota M.N., Levenson R.W., Turn down the volume or change the channel? Emotional effects of detached versus positive reappraisal. J Pers Soc Psychol. 2012;103(3):416-429.

[5] Fredrickson B.L., Branigan C., Positive emotions broaden the scope of attention and thought-action repertoires. Cogn Emot. 2005;19(3):313-332.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

NON mi PIACE più questo LAVORO, ma LASCIARLO SAREBBE un FALLIMENTO. 5 MITI da SFATARE

 

“Sono infelice. Il lavoro ha smesso di entusiasmarmi e non trovo più il perché nella maggior parte delle attività che svolgo. Voglio andarmene ma ogni volta che ne parlo in famiglia, ottengo le stesse reazioni: sei sicuro che sia la cosa giusta da fare? Tanti invidiano la tua posizione, o guadagnano meno di te. Non puoi essere così sprovveduto”.

Talvolta, quando opero progetti di change management incontro manager che in quello specifico contesto lavorativo non stanno bene, ma hanno paura a guardarsi intorno: “dopo la fatica che ho fatto per ottenere quest’incarico, tutti questi anni nella stessa azienda, andarmene sarebbe fallimento”.

Lasciare un posto solido e ben retribuito ma che non motiva più, non è una decisione facile da prendere. Ci sono molte variabili che occorre analizzare e ponderare.  Spesso però a rendere la scelta più complessa, non sono tanto le incertezze legate al cambiamento, ma alcuni pregiudizi che ci incollano allo status quo.

Ecco 5 miti da cui guardarsi.

 

Mito N. 5. Lasciare = fallire

  • “Non mollare.”
  • “Non piace a nessuno chi si arrende”.
  • “I vincenti non mollano mai e chi molla è un perdente.”

Alcune di queste frasi ti suonano familiari? Come alcuni bias insegnano, una volta che hai iniziato qualcosa non dovresti mai smettere fino a che non lo hai concluso, e se lo fai è un chiaro segno di fallimento. Ma se quella cosa non potesse mai dirsi conclusa… magari fino alla pensione?

A volte cambiare è esattamente la cosa giusta da fare.

Da bambina Tina Kiberg era una violinista di belle speranze che passava il tempo libero a esercitarsi. Un giorno, partecipando a un concorso, si rese conto che non sarebbe mai stata più che una violista mediocre. Però le piaceva cantare. Così abbandonò il violino e iniziò a cantare. E’ diventata una cantante d’opera internazionale di altissimo livello.

Prova a indovinare cosa hanno in comune Larry Page, Sergey Brin, Tiger Woods, Reese Witherspoon, John McEnroe e John Steinbeck? Hanno tutte lasciato Stanford.

 

Mito n. 4. È l’opzione più facile

  • Hai lasciato il lavoro? 
  • Immagino che tu non abbia ciò che serve per avere successo. 
  • Peccato, hai scelto l’opzione più facile.

Alcune persone vedono il cambiamento come un segno di debolezza.

Cambiare richiede coraggio. Lasciare un posto di lavoro tossico o allontanarsi da un capo incompetente o da un’attività che non regala soddisfazioni, può essere una scelta dolorosa e con strascichi emotivi non indifferenti. Sicuramente è tutt’altro che facile e comodo.

 

Mito n. 3. È un comportamento egoista

  • Come puoi essere così egoista da lasciare il lavoro? 
  • Stai deludendo clienti, colleghi, amici e tutti coloro che credono in te. Inoltre, pensa alla tua famiglia: come se la caveranno se te ne andrai?
  • Cosa penseranno i tuoi figli…

Se non ti piace il lavoro, non stai facendo un favore a nessuno rimanendo. Quando si è infelici, si tende a contagiare tutti coloro che stanno intorno. Per quanto riguarda la famiglia, forse sarebbero più contenti se non tornassi a casa ogni giorno stanco e frustrato.

Se vai al lavoro giorno dopo giorno, anno dopo anno, e odi davvero il tuo lavoro e torni a casa arrabbiato, cosa stai insegnando ai tuoi figli?

 

Mito n. 2. È rischioso per la carriera

  • Se lasci il tuo lavoro, il tuo CV ne risentirà e la tua carriera subirà un duro colpo.

Mentre rimanere per anni in un luogo di lavoro che odi e che ti sta lentamente logorando sarà FANTASTICO per la tua carriera! Più a lungo rimani, più perdi energia, motivazione e fiducia in te stesso di cui hai bisogno per avanzare nella carriera.

 

Mito n. 1. È l’ultima risorsa

  • Certo, puoi considerare di smettere, ma dovresti prima esaurire tutte le altre opzioni. 
  • Ti fermi solo quando non ce la fai più.

Per le persone che credono a questo mito, smettere è l’ultima opzione. È quello che fai una volta che sei distrutto ed esausto per continuare a svolgere il tuo lavoro attuale. Ciò lo rende il più pericoloso dei miti qui elencati, perché significa che le persone rimangono in lavori scadenti fino a (o oltre) i loro punti di rottura. Talvolta però è troppo tardi.

 

La tua opinione

Ci sono altri miti che ti vengono in mente? Hai incontrato qualcuno di questi nella tua vita lavorativa? Come reagisci quando qualcuno vicino a te valuta la possibilità di cambiare lavoro?

3 TIPI di RESISTENZA al CAMBIAMENTO (in azienda) e COME SUPERARLI

 

Solo il 30% dei progetti di change management va a buon fine, 1 su tre.

La causa? La resistenza al cambiamento. Non la mancanza di competenze o risorse tecniche, ma a causa di una reazione umana.

Cosa crea resistenza al cambiamento

La resistenza è negli occhi di chi guarda. Le persone che resistono non vedono quello che fanno, spesso è più un atto di sopravvivenza.

La resistenza al cambiamento è una reazione al modo in cui viene condotto un cambiamento.  Le persone resistono in risposta a qualcosa.

La resistenza serve a proteggere le persone. Se sono uno sciatore alle prime armi, è la resistenza a impedirmi di prendere la seggiovia per raggiungere la cima di una pista nera.

In un’organizzazione, la resistenza impedisce di dire “sì” a un incarico che penso metterà a rischio la mia carriera.

Quanto meglio riusciamo a vedere cosa causa resistenza, tanto più facile sarà creare le giuste condizioni per abbracciare il cambiamento. In altre parole, se comprendiamo la resistenza, comprendiamo anche l’altra faccia della medaglia: la spinta al cambiamento.

Tre sono i livelli di resistenza

1 – Non capisco

Riguarda le informazioni: fatti, cifre, idee. È il mondo del pensiero e dell’azione razionale. È il mondo delle presentazioni, dei diagrammi e degli argomenti logici.

Il livello 1 deriva da:

  • Mancanza di informazioni
  • Disaccordo con i dati
  • Mancanza di esposizione a informazioni critiche
  • Confusione su cosa significhi

Molti commettono l’errore di trattare tutte le resistenze come se fossero di Livello 1. I leader danno alle persone più informazioni – tengono più riunioni e fanno più presentazioni PowerPoint – quando, in realtà, sarebbe necessario qualcosa di completamente diverso. Ed è qui che entrano in gioco i livelli 2 e 3.

 

2 – Non mi piace

Il livello 2 è una reazione emotiva al cambiamento. La pressione sanguigna aumenta, l’adrenalina scorre, il cuore accelera. Si basa sulla paura: le persone hanno paura che questo cambiamento faccia perdere loro lo status, il controllo, forse anche il lavoro. Come ben esplicitato nel film Governance, che ha anche ispirato questo post.

Il livello 2 non è facile da gestire. Non basta dire “stai tranquillo” e aspettarti che il soggetto reagisca di conseguenza. Qui è in gioco la nostra stessa sopravvivenza.

Quando il Livello 2 è attivo, rende molto difficile comunicare il cambiamento. Quando l’adrenalina è in circolo, passiamo alla modalità di combattimento o fuga (o rimaniamo immobilizzati, come un cervo sotto i fari in mezzo a una strada la notte). E smettiamo di ascoltare. Quindi, non importa quanto sia eccezionale la tua presentazione, una volta che si è attivato il livello 2, la risposta è incontrollabile. A questo punto le persone non scelgono di ignorarti, è solo che hanno cose più importanti per la testa, come pensare alla loro sopravvivenza.

Le organizzazioni di solito non incoraggiano le persone a rispondere emotivamente; quindi, i dipendenti limitano domande e commenti ai problemi di Livello 1. Fanno domande educate su budget e tempistiche. Quindi può sembrare che siano con te, ma non lo sono. Fanno domande di livello 1 sperando che tu legga tra le righe e parli delle loro paure. E qui c’è una cosa difficile che va tenuta in considerazione: potrebbero non essere consapevoli di operare a un livello emotivo così elementare.

 

3 – Non mi piaci

Forse gli piaci, ma non si fidano di te o non hanno fiducia nella tua leadership.

La mancanza di attenzione a livello 3, è una delle ragioni principali per cui la resistenza aumenta e i cambiamenti falliscono. E se ne parla raramente. I libri sul cambiamento parlano di strategie e piani ma la maggior parte di questi consigli non riesce a riconoscere una delle ragioni principali per cui il cambiamento fallisce.

Nella resistenza di livello 3, le persone non stanno resistendo all’idea – in effetti, potrebbero amare il cambiamento che stai presentando – ti stanno resistendo. Forse sei tu che le rendi diffidenti, per decisioni prese in passato, magari.

O forse non sei tu a non piacergli. Le persone possono resistere a chi rappresenti. L’affermazione “Ciao, vengo da una riunione con il board, sono qui per aiutarvi”, spesso lascia le persone scettiche. Se ti capita di essere quella persona, avrai difficoltà a farti ascoltare.

Qualunque siano le ragioni di questa resistenza profondamente radicata, non puoi permetterti di ignorarla.

Le persone possono capire l’idea che stai suggerendo (Livello 1) e possono anche pensare che questo cambiamento possa essere utile (Livello 2), ma non diventeranno cooperative se non si fidano di te.

 

Come trasformare la resistenza in supporto

Ecco alcune idee per iniziare ad affrontare i vari livelli di resistenza. Ps. Tieni conto che tutti e tre i livelli potrebbero agire contemporaneamente.

 

Livello 1 – Crea il tuo caso

  • Assicurati che le persone sappiano perché è necessario un cambiamento. Prima di parlare di come vuoi fare le cose, spiega perché qualcosa deve essere fatto.
  • Presenta il cambiamento usando un linguaggio comprensibile a tutti. Se il tuo pubblico non è composto da specialisti finanziari, i grafici che mostrano analisi sofisticate, non avranno alcuna presa.
  • Trova modi diversi per sostenere il tuo caso. Le persone acquisiscono le informazioni in modi diversi. Ad alcuni piace ascoltare. Ad altri vedere. Qualcuno predilige le immagini, altri il testo.  Maggiore è la varietà dei canali di comunicazione a cui ricorri, maggiori sono le possibilità che le persone capiscano ciò che hai da dire.

 

Livello 2 – Sottolinea gli aspetti positivi

  • Sottolinea i lati positivi. Le persone devono credere che il cambiamento servirà loro: il lavoro sarà più semplice, le relazioni miglioreranno, si apriranno opportunità di carriera o aumenterà la sicurezza sul posto di lavoro…
  • Coinvolgili nel processo. Le persone tendono a proteggere e sostenere ciò che costruiscono.
  • Sii onesto. Se un cambiamento li danneggerà, ad esempio il ridimensionamento, allora dì loro la verità. È la cosa giusta da fare e impedisce che circolino storie su ciò che potrebbe accadere. Inoltre, l’onestà rafforza la loro fiducia in te (un problema di livello 3).

 

Livello 3 – Sii responsabile

  • Colpa mia. Assumiti la responsabilità delle cose che potrebbero aver portato alle attuali relazioni tese.
  • Mantieni gli impegni. Dimostra di essere affidabile.
  • Trova dei modi per trascorrere del tempo insieme in modo che conoscano te (e il tuo team). Ciò è particolarmente utile se la resistenza deriva da “chi rappresenti” e non solo dalla tua storia personale.
  • Lasciati influenzare dalle persone che ti resistono. Questo non significa che cedi a ogni richiesta, ma che puoi ammettere che potresti aver sbagliato e che potrebbero essere idee degne di considerazione.

Lo statista israeliano Abba Eban ha scritto:

Gli uomini e le nazioni si comportano saggiamente, una volta esaurite tutte le altre alternative“.

Quindi non demordere…

5 REGOLE per EVITARE DECISIONI SBAGLIATE ( a volte il successo consiste solo nel non fallire)

 

Una parte del mio lavoro consiste nell’aiutare le persone a prendere decisioni migliori.

Talvolta, per quanto non ci piaccia ammetterlo, il successo sta nell’evitare di prendere decisioni sbagliate.

Ecco cinque motivi per cui prendiamo decisioni sbagliate.

 

  1. Siamo involontariamente stupidi

Ci piace pensare di poter elaborare razionalmente le informazioni come computer, ma non siamo in grado di farlo. Almeno non nel lungo periodo e non in presenza di grandi quantità di dati. I bias cognitivi spiegano perché abbiamo preso una decisione sbagliata, ma raramente ci aiutano a evitarli o prevenirli.

Sull’immediato è più utile concentrarsi su alcuni segnali che ci stanno avvertendo che stiamo per fare, involontariamente, qualcosa di stupido:

  • Sei stanco, di fretta, distratto o emotivamente coinvolto.
  • Stai decidendo in gruppo o stai seguendo le indicazioni di una figura eccessivamente autoritaria.

La regola: non prendere mai decisioni importanti quando sei stanco, emotivo, distratto o di fretta.

 

  1. Risolviamo il problema sbagliato

Chi butta sul lavoro un problema, raramente ha chiaro il problema. Eppure il modo in cui lo pone può condizionare la capacità di problem solving del gruppo, senza contare che sovente dimentica di chiedere se si sta risolvendo il problema giusto.

Segnali di avvertimento che si sta risolvendo il problema sbagliato:

  • Hai lasciato che qualcun altro definisse il problema per te.
  • Sei lontano dal problema.
  • Stai pensando al problema senza considerare il contesto

La regola: non permettere mai a nessuno di definire il problema per te.

 

  1. Usiamo informazioni errate o insufficienti

Ci piace credere che le persone dicano la verità. Ci piace credere che le persone con cui parliamo capiscano di cosa stanno parlando. Ci piace credere di avere le informazioni utili per contestualizzare e gestire il problema.

Segnali di avvertimento che hai informazioni errate o insufficienti:

  • Stai parlando con qualcuno che ha parlato con qualcuno che ha parlato con qualcuno…

La regola: cerca informazioni da qualcuno il più vicino possibile alla fonte. Quando le informazioni vengono filtrate (e spesso accade), prima si considerano gli incentivi e solo dopo si pensa alla correttezza delle informazioni acquisite.

 

  1. Non impariamo

Hai presente il collega con vent’anni di esperienza che continua a ripetere sempre gli stessi errori? Non ha vent’anni di esperienza, ha un anno di esperienza ripetuto venti volte. Se non puoi imparare, non puoi migliorare.

La maggior parte di noi può osservare e reagire di conseguenza. Ma per imparare dall’esperienza, dobbiamo riflettere sulle nostre reazioni. La riflessione deve essere parte del tuo processo, non qualcosa che potresti fare se hai tempo.  In breve, non possiamo imparare dall’esperienza senza riflettere. Solo la riflessione ci permette di distillare l’esperienza in qualcosa da cui possiamo imparare per prendere decisioni migliori in futuro.

Segnali di avvertimento che non stai imparando:

  • Sei troppo occupato per riflettere.
  • Non tieni traccia delle tue decisioni.
  • Non puoi calibrare il tuo processo decisionale.

La regola: essere meno occupati. Tieni un diario di apprendimento. Rifletti ogni giorno.

 

  1. Ci concentriamo poco sui risultati

Siamo portati a fare ciò che è facile rispetto a ciò che è giusto. Dopotutto, è più facile dire di essere virtuosi che esserlo.

Segnali di avvertimento:

  • Stai pensando a come difenderai la tua decisione.
  • Stai scegliendo consapevolmente ciò che è difendibile rispetto a ciò che è giusto.
  • Prenderesti una decisione diversa se fossi il proprietario dell’azienda.
  • Ti sorprendi a dire che questo è ciò che il tuo capo vorrebbe.

La regola: agisci come vorresti che un dipendente agisse se fossi il proprietario dell’azienda.

 

Evitare decisioni sbagliate è importante quanto prenderne di buone. Conoscere i segnali di pericolo e avere una serie di regole limita la quantità di fortuna di cui hai bisogno per ottenere buoni risultati.

 

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

BIKESHEDDING: la TENDENZA a CONCENTRARSI su cose BANALI (a scapito di quelle IMPORTANTI)

Di fronte a due decisioni, una importante e una irrilevante, abbiamo la tendenza a dare la precedenza a quella banale credendo che ci vorrà meno tempo a processarla.

Sbagliando…

BIKESHEDDING

La tendenza a dedicare troppo tempo a questioni banali, spesso sorvolando su quelle importanti, ha un nome insolito: bikeshedding.

Il bikeshedding ci rende miopi nella allocazione del tempo, portandoci a dedicarci prima ai compiti semplici pensando che ci vorrà meno tempo per espletarli.

Se l’odg di una riunione include decidere se aprire a nuovo mercato oltreoceano e l’acquisto di nuove scrivanie, la tendenza è spesso quella di dedicarsi prima agli arredi, poiché ritenuta una decisione più semplice e veloce ma così facendo quando si arriva a analizzare i dati per una eventuale espansione si avrà a malapena il tempo sufficiente per aprire il confronto.

PERCHE’ SUCCEDE

A spiegarlo è lo storico navale Cyril Northcote Parkinson:

La quantità di tempo trascorso a discutere un problema, in una organizzazione, è inversamente correlata alla sua effettiva importanza nello schema delle cose”.

Ciò significa che meno un problema è importante, più tempo viene dedicato ad esso. O per dirla in un altro modo, se assegni un’ora a un compito che richiede solo 30 minuti, psicologicamente, il compito finisce per acquisire la complessità di un compito della durata di un’ora.

Per illustrare l’assunto, lo storico chiese di immaginare una riunione del comitato finanziario con un ordine del giorno in tre punti:

  1. Una proposta per una centrale nucleare da 10 milioni di sterline
  2. Una proposta per un capanno per biciclette da £ 350
  3. Una proposta per un budget annuale di £ 21 per il caffè

Cosa accadde?

Il comitato finì per esaminare il primo punto in un tempo non sufficiente a prendere una decisione informata. La decisione era, per la maggior parte dei membri, eccessivamente complessa e poco sapevano sull’argomento e chi era preparato, non sapendo come spiegare i dettagli al resto del gruppo, ha finito con il complicare ulteriormente la decisione.

La discussione si sposta così sul secondo punto. Qui, i membri del comitato si sentono più a loro agio nell’esprimere opinioni. Sanno tutti cos’è un capanno per biciclette e che aspetto ha. Molti avviano così un dibattito sul miglior materiale possibile da utilizzarsi, valutando le opzioni che potrebbero consentire risparmi modesti. E finiscono con il discutere del capanno delle biciclette molto più a lungo della centrale nucleare.

Infine, la commissione passa al punto tre: il budget del caffè. Improvvisamente, tutti sono esperti. Prima che qualcuno si renda conto di cosa sta succedendo, trascorrono più tempo a discutere del budget di £ 21 per il caffè rispetto alla centrale nucleare e al capanno delle biciclette messi insieme! Alla fine, terminando il tempo a disposizione, il comitato decise di riunirsi di nuovo per completare la analisi. Tutti se ne andarono soddisfatti, avendo contribuito alla conversazione.

LA SFERA DI COMPETENZA

Parlare di biciclette è semplice, tutti hanno un’opinione al riguardo e quindi più cose da dire. Quando qualcosa è al di fuori della nostra sfera di competenza, come una centrale nucleare, non proviamo nemmeno ad articolare un’opinione. Ma quando qualcosa è appena comprensibile, anche se non abbiamo nulla di valore da aggiungere, ci sentiamo obbligati a dire qualcosa per non sembrare stupidi. Chi non ha niente da dire su una rimessa per biciclette? Tutti vogliono dimostrare di conoscere l’argomento in questione.

Qualunque sia la decisione, non dovremmo dare uguale importanza a ogni opinione. Vanno enfatizzati gli input di coloro che hanno esperienza in merito. E se siamo noi a voler intervenire, dovremmo chiederci se ciò che vogliamo dire è davvero utile e prezioso ai fini della decisione.

STRATEGIE ANTI-BIKESHEDDING

Avere uno scopo e un obiettivo chiaro impedisce di cadere vittime del bikeshedding.

La specificità è un ingrediente cruciale. Così facendo sarà facile rendersi conto che non è una grande idea discutere la costruzione di una centrale nucleare e di un capanno per biciclette nella stessa riunione. Non c’è abbastanza specificità.

Le opinioni più informate sono le più rilevanti. Questo è uno dei motivi per cui non è strategico invitare alle riunioni un numero eccessivo di persone presenti, se non portano valore aggiunto alla discussione. Tutti vogliono partecipare, ma non tutti hanno qualcosa di significativo da contribuire. Evita di invitare coloro che difficilmente hanno conoscenze ed esperienza pertinenti. Ottenere il risultato desiderato, una discussione ponderata e informata sulla centrale elettrica, dipende dall’avere le persone giuste nella stanza.

Utile è organizzare riunioni specifiche per tipologia di decisione da prendere. Se un problema complesso viene portato in una riunione con un lungo ordine del giorno, può perdersi tra questioni banali. Se è l’unico punto all’odg,  sarà difficile evitare di parlarne.

Esempio – Zoom come soluzione

A causa del COVID-19, le riunioni Zoom sono diventate la nuova normalità e potrebbero essere di supporto nel contrastare il bikeshedding.

Zoom versione base infatti consente riunioni gratis di 45 minuti: questo è un antidoto perfetto. Sapere che si ha solo 45 minuti per la riunione può aiutarci a rimanere concentrati sulle questioni importanti. Zoom ci dà anche promemoria di quanto tempo è rimasto, il che significa che se la discussione è andata fuori strada, questi promemoria possono aiutare a riportare il gruppo sulla questione importante.

Riepilogo

Il bikeshedding descrive la nostra tendenza a passare troppo tempo a discutere di questioni banali e, di conseguenza, troppo poco tempo a discutere di questioni importanti. Descrive la relazione inversa tra il tempo trascorso e l’importanza di un problema.

Si verifica perché è molto più facile discutere questioni semplici che comprendiamo adeguatamente. Nei contesti di gruppo, spesso cerchiamo di esprimere le nostre opinioni come un segno di partecipazione e abbiamo maggiori probabilità di parlare di un problema relativamente semplice perché è scoraggiante discutere di un argomento complicato, anche se è più importante.

Il bikeshedding può essere evitato cercando di rimanere in tema. Per rimanere concentrati su questioni importanti, possiamo optare per riunioni con un unico punto all’odg; questo rende meno probabile che si vada fuori strada, o ancora, assegnare una persona specifica che tenga conto del tempo a disposizione. Un altro modo è limitare la partecipazione alla riunione alle persone strettamente necessarie.

 

Fonti
  1. https://effectiviology.com/bikeshedding-law-of-triviality/
  2. https://www.lifehack.org/articles/featured/how-to-use-parkinsons-law-to-your-advantage.html
  3. https://fs.blog/2020/04/bikeshed-effect/
  4. https://www.safaribooksonline.com/library/view/perspectives-on-data/9780128042618/
  5. Schachter, H. (2020, July 18). Explaining ‘bikeshedding’: When trivial things waste meeting time: Bikeshedding, or the law of triviality, can often eat up precious minutes in meetings as attendees get caught up with trivial topics. The Globe and Mail

LE PERSONE NON RESISTONO AL CAMBIAMENTO. RESISTONO A ESSERE CAMBIATE

Uno degli errori più ricorrenti quando si applicano interventi di change management è concentrarsi unicamente sul cambiamento che si vuole ottenere trascurando l’impatto che questo ha sulle persone che lo subiranno.

Se si è troppo concentrati sul piano di azione e poco sulle persone, ci sono buone possibilità che il progetto fallisca.

Uno dei modelli più utili allo scopo è quello di William Bridges.

 

Che cos’è il modello di transizione Bridges?

 Creato dal consulente organizzativo William Bridges, questo modello ha la peculiarità di fare una distinzione tra cambiamento e transizione.

Bridges ha descritto il cambiamento come “un evento esterno che si verifica“. Ad esempio, l’adozione di un nuovo software o il lancio di un nuovo prodotto.

Ciò che le persone attraversano durante questo cambiamento esterno è una “transizione” interna. Il modello di transizione di Bridges si concentra sul processo psicologico che vivono le persone durante il cambiamento e consta di tre fasi.

Se gli step di transizione non vengono affrontati e gestiti, la resistenza al cambiamento può far deragliare il progetto o non produrre il risultato finale desiderato.

Un aspetto chiave è dato dal fatto che l’obiettivo di un progetto di change management di successo non dovrebbe essere il risultato del cambiamento, ma la fine del vecchio processo che le persone devono affrontare all’inizio di quel cambiamento .

Pur essendo simile al modello Lewin, il modello di Bridges è più incentrato sull’individuo e sulle tante emozioni (sia negative sia positive) che possono accompagnare un cambiamento organizzativo.

L’obiettivo è che coloro che facilitano il cambiamento comprendano e affrontino eventuali emozioni negative in modo che possano rimuovere le barriere al cambiamento.

Le fasi della transizione

 

  • Ending: gestire la transizione durante il cambiamento significa capire che inizia con una fine o una perdita. Le persone stanno dicendo addio al modo in cui le cose venivano fatte, il che può comportare sentimenti di rabbia, rifiuto, confusione e frustrazione.
  • Zona neutrale: subentra nel momento in cui le persone, superata la fase di rifiuto, elaborano le nuove informazioni. Questo è un momento di flusso e può includere sentimenti di eccitazione, ansia, resistenza, creatività e innovazione.
  • Nuovi inizi: significa cementare nuovi modi di fare le cose e incorporarli come nuova norma. I sentimenti in questa fase possono comportare sollievo, confusione, incertezza, impegno ed esplorazione.

 

Come si usa il modello di transizione di Bridges per facilitare il cambiamento?

Una volta che sai cosa stanno attraversando le persone, come puoi utilizzare il modello Bridges per facilitare il cambiamento?

COMUNICAZIONE

E’ importante che le persone sappiano quale ruolo svolgono nel cambiamento, in modo che si sentano incluse e apprezzate. Comunicaglielo.

FEEDBACK

Dai alle persone la possibilità di esprimere ciò che sentono riguardo al cambiamento. Entrare in contatto con gli stakeholder, durante il progetto di cambiamento, può aiutarti a essere consapevole in quale fase del modello Bridges si trovano. Ciò ti consentirà di affrontare i sentimenti negativi che potrebbero impedir loro di abbracciare il cambiamento.

MONITORAGGIO

Segui le persone mentre attraversano le tre fasi del modello Bridges in modo da sapere quali piani d’azione potrebbero dover essere messi in atto per gestire la resistenza al cambiamento.

 

E ricorda, le persone non resistono al cambiamento. Resistono a essere cambiate.

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

QUANDO LA PAURA DISTRUGGE IL LAVORO DI SQUADRA (di un’organizzazione)

Quanto ti condiziona la paura al lavoro?

Forse è il lieve, impercettibile timore di non essere in grado di raggiungere, in tempo, il prossimo obiettivo.

Forse è il timore più cosciente che il progetto che stai portando avanti mancherà una scadenza.

Forse è la paura che la soluzione che hai suggerito, potrebbe essere sbagliata.

Le Neuroscienze ci insegnano che la paura attiva l’amigdala in 0,07 secondi. Più forte è l’innesco, meno siamo in grado di accedere alla corteccia prefrontale, la sede del processo decisionale ragionato, dell’innovazione, dell’empatia e di altri aspetti del pensiero che apportano il massimo valore a ciò che stiamo facendo.

Quando il nostro pensiero è guidato dalla paura, consapevole o meno, non diamo il meglio di noi stessi non perché non lo vogliamo, ma perché il nostro cervello ce lo impedisce.

La sicurezza psicologica è l’antidoto alle strutture organizzative tossiche e basate sulla paura, oggi ancora così prevalenti, sostiene Amy Edmondson, professoressa alla Harvard Business School:

La sicurezza psicologica è la convinzione che posso portare me stesso al lavoro. È il sapere che la mia voce sarà accolta, che non sarò umiliato o fatto sentire in difetto se pongo domande, anticipo preoccupazioni e sottolineo errori rilevanti per il lavoro[1].

La ragione per cui questo è così importante oggi, afferma Edmondson, è perché viviamo in un mondo in cui la conoscenza, l’intuizione e l’esperienza sono la valuta e la fonte della creazione di valore. Se ho conoscenza ma non posso usare quella conoscenza o esprimere quella conoscenza perché mi sto trattenendo per qualche motivo, allora il valore è perso.

La paura è costosa poiché si perdono talento, conoscenza e competenza.

Un altro professore della Harvard Business School, James L. Heskett, ha affermato che:

La paura inibisce l’apprendimento e la cooperazione e favorisce un’epidemia di silenzio. La sicurezza psicologica, d’altra parte, porta a maggiore apprendimento, prestazioni e mortalità ancora più bassa.

 

Costruire sicurezza psicologica nella tua organizzazione

Ecco alcune strategie per contrastare la paura sul posto di lavoro

  • “De-stigmatizzare” il fallimento e riformularlo come un’opportunità per aumentare apprendimento e crescita.
  • Sottolineare perché esprimere il proprio pensiero e le proprie idee è importante e ricordare alle persone perché ciò che fanno è importante.
  • Diventare non conoscitori che praticano l’ascolto umile e invitare gli altri a partecipare sondando intenzionalmente per scoprire ciò che vedono e pensano.
  • Esprimere sinceramente apprezzamento per i contributi degli altri.
  • Accettare l’idea che la paura non appartiene al posto di lavoro. Se necessario, sanzionare le azioni dei membri dell’organizzazione che aumentano, invece di ridurre, la paura.

 

Consigli non richiesti

Un parte del successo di una organizzazione sta nell’avere un clima aziendale che non ridicolizza, zittisce o intimidisce le nuove idee (per quanto cattive possano essere), non limita la sperimentazione, l’espressione del pensiero critico, ma consente a queste cose di essere una parte fondamentale del processo di lavoro.

Se hai un ruolo di responsabilità, inizia a lavorare per eliminare la paura nella tua squadra e nella tua azienda.

Se dai consigli a chi ricopre ruoli di leadership e di gestione, insegna loro come eliminare la paura in coloro di cui sovrintendono il lavoro e aiutali a capire perché è importante farlo.

E se ti ritrovi a vivere in uno stato costante di paura sul posto di lavoro, esamina se è il momento di trovare un’opportunità professionale diversa, o il rischio è che quella paura finisca per essere con te, anche in molti altri contesti non lavorativi.

 

Fonti

[1] Work and life with Stew Friedman (podcast)

[2]Edmondson A.C., The Fearless Organization, Wiley, 2021