LE BUONE DECISIONI SI PRENDONO SOLO SE SI DISPONE DI TUTTE LE INFORMAZIONI. ANCHE NO…

Siamo portati a credere che fornendo alle persone tutte le informazioni disponibili, queste saranno in grado di prendere buone decisioni.

Noi stessi pensiamo di prendere decisioni informate laddove disponiamo di tutti i dati.

Non è così. O molto meno di quanto si pensi.

1° punto: disporre di tutte le informazioni non è un indicatore poiché non è misurabile: non c’è modo di sapere quando si dispone di tutte le informazioni.

2° punto: la maggior parte delle volte le persone non prendono decisioni informate. Prendono decisioni emotive. Cercano informazioni a supporto della decisione verso cui sono orientati e screditano tutto ciò che è contro. E questo non le conduce a prendere una decisione informata. Solitamente neppure una buona.

3° punto: non tutte le informazioni sono utili e le persone non sono sempre brave a capire quali sono quelle inutili. Anche le più esperte e preparate sbagliano.

La chiave per prendere buone decisioni è essere in grado di filtrare le informazioni errate e concentrarsi su quelle giuste. La prima parte è molto più importante della seconda.

E’ difficile sapere se si hanno tutte le corrette informazioni che servono. Anzi, quasi mai disponiamo delle migliori informazioni.

E nemmeno dovrebbe essere questo l’obiettivo. Ciò che occorre fare è eliminare le informazioni errate, quelle che distraggono o, peggio, spingono verso la scelta errata.

L’obiettivo è impedire che le informazioni errate circolino, finendo con il condizionarci e confonderci.

4° punto: la maggior parte delle persone cerca solo le informazioni che rafforzano il loro pensiero. Ecco perché l’algoritmo di YouTube, Amazon, Facebook e via dicendo è efficientissimo: sa che il modo migliore per coinvolgere le persone non è fornire loro le informazioni migliori, ma piuttosto dare loro ciò che vogliono.

E solitamente, ciò che vogliono è sentirsi bene con la decisione che stanno per prendere. Senza nulla che dica loro che stanno sbagliando o le metta in una situazione di incertezza. Ma difficilmente questo conduce a buone decisioni.

COSA INDUCE UNA PERSONA AL FANATISMO? L’analisi, vent’anni dopo…

Sono trascorsi vent’anni ma, in certi giorni, è come se il tempo si fosse fermato ad allora. La memoria sa come far male e un sapore amaro torna alla bocca come un disagio cronico con il quale si può solo imparare a convivere.

Di quello che è materialmente successo, oggi sappiamo tutto. O quasi. Conosciamo la dinamica, il dirottamento di un primo Boeing 737 sul World Trade Center, lo schianto sulla facciata della torre nord alle 14.46 ora italiana, e di un secondo sulla torre sud. I crolli, meno di due ore dopo, delle Twin Tower, la morte di coloro che sono rimasti bloccati nei piani più alti dei due edifici. Un terzo aereo che precipita sulla facciata ovest del Pentagono, seguito da un ultimo Boeing che alcuni passeggeri riescono a far cadere in Pennsylvania, ma che i terroristi avrebbero voluto dirottare sul Campidoglio.

Quindi c’è il dopo, con tutto quello che ha comportato, una fitta nebbia di incongruenze e cose lasciate a metà. Quei fatti, però, restano lì, appesi al filo della memoria. E segnano un’epoca. Per molti c’è un prima e c’è un dopo l’11 settembre. Perché quel giorno fu uno spartiacque, un smacco tremendo, un’esperienza irreversibile e unica. Che non ha risparmiato nessuno, anche i più lontani. Per ideologia o semplicemente per geografia.

COSA INDUCE UNA PERSONA al FANATISMO?

Il terrorismo è una minaccia senza tempo, che obbliga ad affrontare paure e incertezze, figlie della natura imprevedibile e spesso non prevenibile degli attacchi dell’11 settembre. Ma non solo[1]. Madrid, Londra, Tolosa, Bruxelles, Parigi, Copenhagen, Nizza, Rouen, Berlino, Stoccolma, Manchester, Londra, Barcellona, Turku, Trèbes, Liegi, Schiedam, Flensburg, Strasburgo, per citare quelli in Europa, certa di averne dimenticati alcuni.

Cosa induce una persona al fanatismo? Perché persone cresciute in culture estranee a quella islamica e non, decidono di combattere per una causa, posta agli antipodi dei valori in nome dei quali la nostra società ci ha educati?

L’assunzione secondo cui soltanto una persona affetta da psicosi o sadismo sia disposta ad atti di eclatante violenza è errata o quanto meno non incontra pareri condivisi. Studi condotti tra gli anni ’60 e ‘70 hanno confermato che la maggior parte dei terroristi non possa considerarsi mentalmente instabile. Anzi sono essenzialmente razionali, perfettamente capaci di soppesare costi e benefici degli atti terroristici, giungendo alla conclusione della loro utilità e necessità.

L’INSEGNAMENTO DI MILGRAM E ZIMBARDO

Nel 1961, a seguito del processo per crimini di guerra a carico del nazista Adolf Eichmann, Stanley Milgram, professore di psicologia a Yale, condusse un controverso studio[2], il cui scopo era rispondere alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?“.

La ricerca ha dimostrato che i partecipanti erano disposti a somministrare scosse elettriche ad altre persone, anche di intensità letale, dietro semplice richiesta del ricercatore. I soggetti non erano costretti a partecipare, ma soltanto incalzati dal ricercatore che sosteneva la necessità di questa azione per il bene dello studio.

Una ricerca altrettanto controversa, nota come esperimento di Stanford, è quella condotta da Zimbardo[3]. La ricerca ha rivelato che gli studenti a cui era assegnato il “ruolo” di guardia carceraria, in una sorta di gioco simulazione, sono diventati in poco tempo molto inclini ad umiliare ed abusare gli altri studenti che invece recitavano la parte di prigionieri[4].

Questi esperimenti dimostrano che CHIUNQUE, TROVANDOSI IN SPECIFICHE CONDIZIONI, E’ CAPACE DI ATTI DI VIOLENZA.

Dal punto di vista psicologico la maggior parte dei terroristi, così come i partecipanti agli esperimenti di Milgram e Zimbardo, possono essere definiti normali. Ciò che trasforma una persona ordinaria in un fanatico non è da ricondurre a difetti di personalità (se ovviamente non ne è già affetta), ma alle dinamiche sociali e di gruppo in cui si trova.

Attenzione, ciò non accade automaticamente a tutti i partecipanti. Secondo gli autori, il comportamento deviante di una persona dipende da due fattori:

  • l’identificazione con gli altri elementi del gruppo
  • il distacco da chiunque non ne faccia parte, cessando di considerare ogni elemento esterno come importante e degno di riguardi e considerazioni etiche e morali.

Se vogliamo fare un collegamento con le Neuroscienze cognitive, impattiamo in molti bias dall’outgroup, all’effetto gregge, all’overconfidence, solo per citarne alcuni.

Identificandosi con la causa a cui viene loro chiesto di aderire, e dis-identificandosi dalle loro vittime, i partecipanti degli esperimenti sono capaci di agire in modo oppressivo e violento.

TERRORISTI E RAZIONALITA’

Lo psichiatra Marc Sagemann[5] sostiene che i terroristi sono generalmente dei veri credenti che comprendono chiaramente il significato delle loro azioni. Senza mettere da parte l’importanza dei leader, come Bin Laden e Al-Baghdadi, suggerisce che questi servano più da ispirazione che da veri e propri orchestratori delle azioni terroristiche. Sono infatti scarse le prove che dimostrano che gli attentati siano condotti da un leader (eccezion fatta per l’11 settembre).

Com’è possibile allora che così tanti seguaci vengano radunati senza che i leader forniscano ordini diretti?

Proprio come negli esperimenti di Zimbardo e Milgram, infondono negli adepti un’identità comune dipendente da una causa ritenuta nobile (il progresso scientifico), allo stesso modo i leader di ISIS, Al Qaeda e altre organizzazioni simili, utilizzano una strategia affine, appellandosi alla necessità di promuovere il terrore in favore di una società migliore, improntata ai principi della religione islamica.

L’Università dell’Arizona ha condotto una ricerca sulla propaganda dell’ISIS, notando come soltanto il 5% dei messaggi promuovesse attivamente comportamenti violenti, mentre la maggior parte di essi includesse una visione di un “califfato ideale”[6].

La credibilità e il potere dell’ISIS sta però, purtroppo, non soltanto nelle azioni che promuove ma anche nel comportamento degli “avversari”.

Una ricerca della London School of Economics ha rilevato che le persone scelgono un leader bellicoso se il gruppo percepito come avversario, a sua volta, assume un atteggiamento bellicoso. Questa reazione aggressiva fornisce un appiglio che, agli occhi dei seguaci, giustifica i loro moventi e li idealizza maggiormente.

Un ricercatore del King’s College di Londra ha sottolineato come l’ISIS agisca per spingere i paesi occidentali a reazioni tali da portare i Musulmani a dis-identificarsi con queste comunità.

Dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, la rivista dello stato islamico Dabiq ha pubblicato un editoriale in cui inneggiava alla creazione di un mondo in cui la divisione tra Musulmani e non Musulmani fosse netta[7]. Spiegando che l’attentato alla sede della rivista francese è stato un primo passo in questa direzione.

Unirsi a un gruppo radicale fornisce un senso di potere, identità e appartenenza a persone che altrimenti vivrebbero nella solitudine, nel sentimento di impotenza e inutilità. Spesso entra in gioco il senso di rivendicazione di passate umiliazioni.

Studi sulle vite di alcuni terroristi indicano che traumi e violenze passate sono tra le cause più importanti che li ha condotti a unirsi a un movimento estremista.

Molti dei responsabili degli attentati però sono nati nelle nazioni contro cui si scagliano. Anche questi individui maturano quel senso di estraneità dalla società in cui sono nati e cresciuti e dalle persone che li circondano, come anche lo stesso sentimento di rivendicazione sentito da chi invece è nato in ambienti e circostanze ben meno favorevoli.

Alcuni ricercatori hanno intervistato diverse persone scozzesi, Musulmani e non, presso vari aeroporti. Tutti dichiaravano di “sentirsi a casa” dopo essere rientrati da un viaggio all’estero, ma gli scozzesi di religione Musulmana riportavano anche di sentirsi trattati con sospetto dalla Sicurezza rispetto ai propri connazionali dall’aspetto caucasico. Queste situazioni conducono al distaccamento dagli “altri”, e a lungo andare porta alla perdita di identità e a una maggiore predisposizione a cedere al richiamo dell’estremismo.

FRATELLI DI SANGUE

Un’ultima riflessione, dall’11 settembre, molti attentati del terrorismo islamico vedono spesso all’opera fratelli. Come si spiega?

Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che molti gruppi terroristici sono dotati di un “fratello maggiore” che converte gli altri e conduce il piano. Gli attentati di Bruxelles del 22 marzo, la strage del 13 novembre 2015 a Parigi, quella di Charlie Hebdo e prima ancora quella di Boston, durante la maratona nell’aprile del 2013, lo stesso attentato in Barcellona, hanno un macabro particolare in comune, oltre al marchio del terrorismo islamico: alcuni attentatori erano tra loro fratelli. E, secondo il rapporto della commissione 9/11, lo erano anche 6 dei 19 dirottatori che presero parte gli attacchi dell’11 settembre.

La partecipazione di un fratello minore a un atto terroristico troverebbe dunque le sue radici nell’emulazione e nel plagio. Ma non solo.

«C’è qualcosa che si chiama disturbo paranoide condiviso in cui una persona in un rapporto stretto ha manie e tira l’altro in questo sistema delirante»,

spiega Harold Bursztain, psichiatra e co-fondatore del programma di Psichiatria e Legge alla Harvard Medical School. Solitamente la persona più dominante nel rapporto sviluppa prima paranoia o deliri e poi influenza il più debole, portandolo ad avere gli stessi pensieri contorti. Il disturbo paranoide condiviso potrebbe anche spiegare perché i due attentatori di Boston non hanno inizialmente programmato una rapida fuga dopo la strage. Bursztajn è convinto che

avrebbero potuto fantasticare che Dio si prendesse cura di loro”.

La condizione psichiatrica, tuttavia e come già accennato in apertura, non accontenta tutti. Alcuni studiosi propendono piuttosto per l’ipotesi che i fratelli si incoraggino a vicenda nel compiere un atto così atroce. “Possono credere che l’omicidio sia sbagliato, ma il loro senso di fedeltà e lealtà reciproca (o al gruppo) prendono il sopravvento e sostituiscono il senso di giusto e sbagliato”, spiega James Alan Fox, professore di criminologia alla Northeastern University[8].

Terribili reati possono essere commessi solo per il gusto di una sorta di perverso legame. E penso che hanno portato fuori uno il peggio dell’altro”, continua Fox. “Non sono sicuro che da soli (riferendosi a Džochar e Tamerlan Carnaev, i due attentatori di Boston) avrebbero commesso un omicidio per conto proprio”.

Più che la parentela però conterebbero le affinità, che di solito sono maggiori tra fratelli o congiunti. Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che il punto più significativo non è che i terroristi spesso cospirano con i fratelli, piuttosto che essi tendano, nella maggior parte dei casi, a creare bande con un piccolo gruppo di coetanei, siano essi fratelli o amici o vicini di casa.

Intanto vent’anni sono passati e le ferite non si sono ancora fatte cicatrici.

 

Fonti

[1] https://ednh.news/it/cronologia-degli-attacchi-terroristici-in-europa-dal-2004-al-2017/

[2] Milgram S. (1974).Obedience to Authority: An Experimental View. New York: Harper and Row. An excellent presentation of Milgram’s work is also found in Brown, R. (1986). Social Forces in Obedience and Rebellion. Social Psychology: The Second Edition. New York: The Free Press

[3] Zimbardo P. G. (1971). The power and pathology of imprisonment, Congressional Record (Serial No. 15, 1971-10-25). Hearings before Subcommittee No. 3, of the United States House Committee on the Judiciary, Ninety-Second Congress, First Session on Corrections, Part II, Prisons, Prison Reform and Prisoner’s Rights: California. Washington, DC: US Government Printing Office.

[4] https://www.prisonexp.org/

[5] Sagemann M., Understanding Terror Networks, E-book

[6] https://global.oup.com/academic/product/isis-propaganda-9780190932459?q=katharine%20boyd&lang=en&cc=us#%C2%A0

[7] Campanini M., Il discorso politico dell’islamismo radicale. Tra modernità e post-modernità, Teoria politica. Nuova serie Annali, 6-2016, 65-77

[8] https://news.northeastern.edu/2019/08/13/the-story-behind-the-data-on-mass-murder-in-the-united-states/

C’E’ IL PECCATO E C’E’ IL PERDONO. NON C’E’ NIENT’ALTRO. PANICO – L’ULTIMA CICATRICE DI ELLROY

Credo sia la maestria crudele, la capacità di raccontare il reale senza fronzoli, e proporre argomenti feroci a legarmi a scrittori quali Ellroy, Roth e Amis.

E Panico, l’ultima fatica di James Ellroy, non è da meno: ex tossico, ex alcolista, ex topo di appartamento ossessionato dalla morte della madre, assassinata quando lui aveva dieci anni, nel 1958. Tutto per il romanziere è fermo a quel giorno: tutte le vittime sono sua madre, l’America degli anni ‘50 è la scena del delitto.

Ho trascorso ventotto anni in questo buco infernale. Ora mi dicono che scrivendo le memorie delle mie disavventure potrei uscirne”.

A parlare è Freddy Otash, poliziotto corrotto, poi investigatore privato esperto in estorsione, che tiene in pugno mezza Hollywood. Freddy è un uomo morto. Morto nel ’92.

Faccio di tutto tranne l’omicidio. Lavoro per chiunque tranne i comunisti.”

Ellroy non è diverso da Philip Roth, capace di sbattere in faccia tragedia e speranza, attesa e dolore. Orrore e mostruosità. Niente di meno di ciò che accade, parole non edulcorate, non tramutate, non castigate per qualche pseudo sorta di moralismo o ignoranza. Non sopra o sotto, ma dentro la storia è dove Roth, parola dopo parola, conduce. Un orizzonte ristretto e dove paura e dramma dei protagonisti si fa cronaca semplice e diretta.

Ellroy non ha pc, non ha internet e neppure un cellulare e racconta i suoi personaggi con una vecchia macchina da scrivere: killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Ogni personaggio ha uno scopo preciso. Molti ritornano in un tempo che si perde fra il prima e il dopo. Se si ha pazienza di aspettare. E labile si fa il confine fra realtà e fantasia. Ed Ellroy ben sa che la gente è avida di notizie, segreti e vizi di politici, star del cinema, poliziotti e giornalisti.

L’America non è mai stata innocente

Otash spia, ricatta e spiffera tutto a Confidential. Nel tritacarne finiscono tra gli altri John Kennedy, Marlon Brando, Rock Hudson, James Dean.

C’è il Peccato e il Perdono. Non c’è nient’altro”,

è una delle mille frasi da ricordare.

Leggere Ellroy è complesso, faticoso: ritmo vertiginoso, frasi brevissime, molti punti, qualche virgola, innumerevoli personaggi che entrano ed escono dalla storia. Ancor più quest’ultima cicatrice, molto distante dal resto dei suoi libri, per lingua – oscena e tagliente, ma più colta, ricca di allitterazioni – e per ironia. E’ un viaggio nel purgatorio, dove il protagonista è un peccatore alla ricerca di redenzione.

E poi arriva il mio preferito Martin Amis, bocca alla Mick Jagger e fascino da vendere e l’inarrivabile incipit de L’informazione:

Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere”.

Panico non si dimentica. Anche se lo si capisce e accetta solo per metà. Come l’Informazione o Nemesi o il teatro di Sabbath. Forse è anche questo che unisce i tre scrittori.

«Sono cresciuto ignorato e inquieto. E ho sempre desiderato che la gente mi guardasse. Dopo la morte di mia madre attiravo l’attenzione degli amici ebrei gridando “Heil Hitler”: pura provocazione. Poi ho capito che sapevo far bene solo due cose nella vita: scrivere e parlare in pubblico. Far ridere, piangere, sospirare. Per iscritto o a parole. E allora vai! Ho sognato di diventare uno scrittore famoso da quando avevo otto anni. Perché leggere era ciò che amavo di più: mi consentiva di evadere da quell’infanzia di merda. Genitori che si odiavano, la casetta lercia di una madre alcolizzata, i weekend con un padre smidollato. Perfino quando dormivo in strada divoravo i libri della biblioteca pubblica. Ho smesso di bere e inghiottire anfetamine anche per quella fissa di scrivere. Per svettare. Per dare ad altri la possibilità di sfuggire alla realtà. Con libri che non finiscono mai”.

Gli occhi feroci e la parlata sciolta è quella di Ellroy, capace di esprimere tutte le emozioni possibili tranne il sorriso.

 

SOLDI, PREMI E POLPETTE… NON SONO SPINTE GENTILI. RIFLESSIONI ESTIVE ANALIZZANDO SOLUZIONI POCO STRATEGICHE

Ci stanno provando in tutti i modi a convincere gli indecisi a vaccinarsi. Ma nonostante in tanti nominino le spinte gentili, soldi, premi e polpette hanno ben poco a che fare con i Nudge.

IN GIRO PER IL MONDO

In Serbia ogni cittadino che si vaccina riceve in cambio 25 euro. Negli Stati Uniti, Joe Biden ha chiesto agli Stati di offrire 100 dollari per ogni nuovo vaccinato, e rimborsare tutte le imprese che hanno concesso permessi retribuiti ai loro dipendenti per vaccinarsi.

Lo stato dell’Ohio ha offerto a ogni vaccinato la possibilità di partecipare a un’estrazione con in premio un milione di dollari. Il governatore della California ha lanciato la lotteria in denaro Vax for the Win, con un premio finale di un milione e mezzo a 10 fortunati nuovi vaccinati.

A Detroit sono stati regalati 50 dollari a chi portava una persona a farsi vaccinare e in West Virginia ogni vaccinato, ha ricevuto un buono risparmio da 100 dollari. A New York sono stati regalati biglietti per concerti, partite di basket, corse gratuite in metro e in treno per i pendolari. Nel New Jersey vengono regalate pinte di birra, nello stato di Washington spinelli.

In Russia, le autorità hanno distribuito cinque auto a settimana in un’estrazione a premi a cui ha partecipato solo chi poteva dimostrare di aver fatto almeno una dose di vaccino.

In Libano, Uber ha offerto due corse gratuite fino a 40.000 LBP (poco meno di 50 euro) ciascuna, per viaggiare da e verso i centri vaccinali.

In Romania, il governo ha consegnato ai nuovi vaccinati panini con salsiccia.

Ai londinesi, oltre a usufruire dei trasposti gratuiti per recarsi nelle sedi vaccinali, è stata data la possibilità di vincere biglietti per la finale degli Europei di calcio.

In Asia sono stati distribuiti premi in cibo. In Indonesia, una gallina viva, nelle Filippine sono state messe in palio mucche e riso.  Nella periferia di Pechino vengono regalate uova agli ultra sessantenni che hanno completato il ciclo vaccinale.

A Hong Kong, ci sono in palio lingotti d’oro, Rolex di diamanti, un buono spesa di centomila dollari e una casa da oltre un milione e quattrocentomila dollari.

In Grecia viene invece offerto un buono da 150 euro ai giovani fra i 18 e i 25 anni che si vaccina. A Praga per i dipendenti statali che si vaccinano ci sono due giorni di ferie retribuite in più.

C’E’ CHI PREMIA E CHI PUNISCE

C’è chi invece ha scelto punizioni anziché premi. A Giacarta ci sono multe fino a cinque milioni di rupie (300 euro) per le persone che non si immunizzano.  In alcune zone dell’India non si servono liquori a chi non dimostra di essere vaccinato.

Gli Emirati Arabi limitano le partecipazioni a eventi live, attività sportive artistiche e culturali. In Arabia Saudita non si può entrare nei centri commerciali, in Kazakistan niente bar, cinema e aeroporti. Nelle Filippine i cittadini possono optare tra: Il vaccino o il carcere[1].

Il Cremlino ha affermato che le persone non vaccinate potrebbero non accedere al posto di lavoro, non escludendo discriminazioni.

E L’ITALIA?

Anche da noi le proposte si differenziano.

Nel Lazio ci si può spostare gratuitamente con Uber che mette a disposizione due corse verso e da i centri vaccinali. Nel Messinese, la Coldiretti regala una bottiglia di Siccagno di Valledolmo (passata di pomodoro).

In Piemonte ci sono incentivi per i medici di base che riescono a convincere i propri utenti. Se il 90% di questi risulterà vaccinato entro il 15 settembre, riceveranno un compenso di 2 euro in più per assistito e di 1 euro e mezzo se la percentuale si fermerà tra l’87 e l’89,99%. La Ausl di Bologna riconoscerà un premio ai pediatri che convinceranno il 70% dei loro giovani pazienti a vaccinarsi.

UN PO’ PIU’ COMPLICATO DI COSI’…

Perfetto.

Anche no!

Distribuire soldi come se piovesse, non è un nudge (i nudge per essere tali non prevedono né incentivi economici né disincentivi). Come è già accaduto nel 2005, in Perù, quando si è voluto affrontare il problema delle diseguaglianze e frenare la povertà. E il governo ha lanciato i conditional cash transfer (cct), la versione nazionale degli Juntos: sussidi monetari condizionati che prevedevano pagamenti mensili di 100 soles in favore di genitori poveri, perlopiù madri. Per non perdere il sussidio, le donne dovevano assicurarsi che i figli frequentassero l’85% delle lezioni scolastiche in un anno e che si sottoponessero regolarmente a controlli medici e nutrizionali.

«In paesi come il Brasile, i cct sono stati importanti nell’accesso all’istruzione e nella conseguente riduzione delle disuguaglianze», spiegò la scelta Branko Milanovic, a lungo capo economista alla Banca mondiale[2]. Eppure i cct non sono la panacea, come dimostrano le voci critiche, tra cui quella del premio Nobel per l’economia Angus Deaton che ha evidenziato la loro incapacità di ridurre la povertà in via permanente[3]. Tuttavia questi programmi, complessivamente poco costosi per le finanze pubbliche (cifre tra lo 0,04 e lo 0,8% del Pil), continuano a essere molto popolari: nella sola America Latina si contano 129 milioni di beneficiari.

Al di là della loro presunta o reale efficacia, che lasciamo misurare agli economisti di mestiere, i cct sono incentivi economici e per questo ben lontani dalle politiche di nudging.

Un sussidio non può essere un nudge, come non lo è una multa e neppure una condanna alla prigione. Senza contare che gli incentivi economici distribuiti con questa leggerezza, sollevano un interrogativo etico e discriminatorio: i benestanti non saranno di certo spinti a vaccinarsi per soldi mentre gli svantaggiati subiranno una pressione non indifferente. Senza contare che nel medio – lungo termine diventano demotivanti. E quindi inefficaci.

Senza voler aprire una diatriba neuroetica, è impossibile non guardare ai dubbi che il denaro inevitabilmente solleva: l’incentivo economico non può che alimentare la cultura del sospetto. Non dimentichiamoci che è il bene comune e la protezione ai più fragili che dovrebbe spingere verso la vaccinazione.

Ecco perché più che gli incentivi, ci sono altre strategie a cui si potrebbe e dovrebbe ricorrere. La moral-suasion: incentrata su argomenti attrattivi, anzichè costrittivi e la spinta gentile, capace di rendere facili scelte complesse. Non obbligando, ma creando contesti che, senza togliere la libertà, rendono le decisioni più agevoli e funzionali.

CONTESTO

Non ovunque e non sempre è facile vaccinarsi. Spesso è più un percorso a ostacoli che una via di uscita: comunicazione confusa e contraddittoria, difficoltà a prenotarsi o impossibilità a scegliere quando farlo, o a spostare l’appuntamento, luoghi spesso scomodi o difficilmente raggiungibili se non si è automuniti, mancanza di chiare informazioni su possibili effetti collaterali e un’assistenza post vaccinazione latitante. Lo dico per esperienza diretta.

Senza contare che chi si occupa delle campagne di sensibilizzazione, poco o nulla sa di spinte gentili ed economia comportamentale. E nemmeno ci pensa a consultare gli esperti del settore.

Più che regalare bibite, biglietti della lotteria e qualche banconota, sarebbe più utile investire il denaro nel prelevare a domicilio persone con problemi di mobilità o affette da fragilità, predisporre équipe che portino la vaccinazione a domicilio, un’assistenza post vaccino quando necessaria, numeri verdi dove gli operatori rispondono in modo diretto e non costringano ad attese infinite senza nessuno che si faccia carico del problema.  O ancora, facilitare la vaccinazione di quei lavoratori saltuari e che hanno paura di perdere giorni di lavoro in caso di avventi avversi o problematiche post vaccino[4].

Insomma ci sono molti modi per usare il denaro. E a parità di budget, ricorrere ai Nudge (non come azione estemporanea ma come policy) porterebbe maggiori benefici rispetto ai compensi economici, mitigando o eliminando i sospetti e rafforzando la fiducia nel sistema sanitario pubblico.

FIDUCIA

La fiducia, ricordo, non si può comprare e gli incentivi possono alimentare dubbi sulle reali intenzioni delle istituzioni scientifiche. Un studio del 2020, condotto in 19 paesi utile a determinare i tassi di accettazione e i fattori che influenzano la propensione a vaccinarsi, ha mostrato come in realtà il 71,5% dei partecipanti sarebbe propenso al vaccino e il 48,1% ha riferito che accetterebbe la raccomandazione del datore di lavoro nel farlo. Le differenze nei tassi di accettazione variavano da quasi il 90% (in Cina) a meno del 55% (in Russia). Gli intervistati, a prescindere dalla nazionalità, che segnalano livelli più elevati di fiducia verso il proprio governo, hanno maggiori probabilità di ì vaccinarsi[5].

Tenendo conto di questi dati, gli incentivi difficilmente sono la soluzione. Se non per ridurre la procrastinazione, secondo gli studi dei premi Nobel per l’economia Duflo e Banerjee, e aumentare la percentuale dei vaccini dal 18 al 39%[6]. Un costo che è sicuramente giustificato.

Non c’è dunque una soluzione univoca. E ciò che realmente funzionerà lo si vedrà nel tempo. Intanto, non dimentichiamoci che i Nudge per quanto allettanti andrebbero applicati da chi li conosce per davvero. Non è una moda. E’ una strategia. Da Nobel. I soldi, e la letteratura scientifica lo dimostra, non sono così efficaci come ci piace pensare, benchè sia una soluzione sicuramente semplice e rapida…

FONTI

[1] https://www.reuters.com/world/asia-pacific/philippines-duterte-threatens-those-who-refuse-covid-19-vaccine-with-jail-2021-06-21/

[2] Fiszbein A., Schady N., et al., Conditional Cash Transfers reducing present and future poverty, The World Bank report, 2009.

[3] Deaton A., Instruments, Randomization, and Learning about Development, Journal of Economic Literature, Vol. 48, N. 2, June 2010, pp. 424-55.

[4] https://www.nytimes.com/2021/07/09/nyregion/free-doughnuts-arent-going-to-boost-vaccination-rates.html

[5] Lazarus, J.V., Ratzan, S.C., Palayew, A. et al. A global survey of potential acceptance of a COVID-19 vaccine. Nat Med 27, 225–228 (2021).

[6] https://www.nber.org/system/files/working_papers/w28726/w28726.pdf

Le neuroscienze dietro le quinte del Cirque du Soleil

Vi è mai capitato, assistendo a uno spettacolo, di emozionarvi fino alle lacrime, senza però essere poi capaci di spiegare il vissuto emotivo?

Questo è ciò si prefigge il Cirque du Soleil (CdS), probabilmente lo spettacolo teatrale, dal vivo, di maggior successo nell’evocare risposte emotive nel pubblico.

Per fare questo il CdS ha assunto neuroscienziati, artisti e tecnologi del Lab of Misfits, un laboratorio di ricerca, per capire cosa succede nella testa degli spettatori quando assistono a un loro spettacolo, quale necessità umana soddisfa e come questa scoperta può essere usata a vantaggio di comportamenti più funzionali nel quotidiano.

Lo studio si è concentrato, per cinque sere consecutive e un totale di dieci spettacoli, su 282 persone del pubblico.

Le metriche

Un gruppo di partecipanti è stato monitorato con elettroencefalogramma e nel momento in cui la popolazione presa in esame riferiva di provare stupore e soggezione, si è scoperto che l’attività cerebrale nelle loro cortecce prefrontali (la parte del cervello che decide le intenzioni e poi le agisce) diminuiva. Ad aumentare era invece l’attività nella parte del cervello associata al pensiero creativo, quando si sogna a occhi aperti o si immagina.

A un secondo gruppo, invece, sono stati consegnati questionari di valutazione delle sensazioni vissute.

Coloro che hanno provato stupore e soggezione hanno riferito di:

  • Sentirsi più vicini al resto del mondo (test: Identification With All Humanity, una scala sviluppata dagli psicologi nel 2012)
  • Essere più disposti a correre rischi (test: Balloon Analogue Risk Task – un test sviluppato dagli psicologi nel 2002)
  • Essere più a loro agio con l’incertezza, una situazione che solitamente non piace al nostro cervello.

Lo studio

L’obiettivo dell’esperimento era capire se fosse possibile, anche grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale, prevedere le condizioni che generano soggezione, stupore e timore e come servirsene per stimolare creatività, problem solving, spirito di gruppo e consapevolezza.

Se ci pensiamo bene stupore e soggezione sono le stesse sensazioni che si provano durante una parata militare o guardando simboli partitici: le persone si sentono una cosa sola unitamente a quelle di altri gruppi, purché facciano tutti parte di un gruppo più grande con una potente figura di autorità al comando.

Tali sensazioni possono aiutarci molto di più di quanto abbiamo pensato finora.

Cosa fare per trasformare lo stupore

Ciò che le neuroscienze hanno dimostrato è che provare stupore porta a una maggiore consapevolezza delle cose che non conosciamo, il che a sua volta ci rende più propensi a cercare nuove esperienze per colmare queste lacune e a temere meno l’incertezza.

Lo stupore è quindi il preambolo della curiosità e della creatività e un’arma formidabile contro l’incertezza.

Questo avviene, perché:

  • Allentando il bisogno di controllo cognitivo, aumenta il bisogno di assunzione di rischi, un’apertura all’incertezza.
  • Sperimentare livelli elevati di stupore abbassa i livelli delle citochine, messaggeri chimici che svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione e nell’attivazione dei meccanismi difensivi e nei processi infiammatori.
  • La creatività può essere positivamente influenzata da esperienze di realtà virtuale che inducono stupore e soggezione.
  • Lo stupore incoraggia collaborazione e cooperazione e induce a preoccuparci per gli altri.

Effetto Dunning-Kruger

Lo stupore è anche un attivatore di conoscenze: una volta che diventiamo consapevoli di una particolare lacuna cognitiva, questa consapevolezza produce in noi un maggiore interesse e la necessità di saperne di più.

In uno studio i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di guardare un video inerente la scienza che induceva soggezione e stupore. Poi hanno offerto loro biglietti gratuiti per visitare un museo delle scienze o un museo d’arte. I partecipanti hanno scelto il museo della scienza nel 68% dei casi, rispetto al museo d’arte (32%).

“La maggior parte della gente non sa quello che non sa”, dice McPhetres (il primo ricercatore a testare empiricamente la relazione tra stupore e conoscenza) riferendosi a ciò che gli psicologi chiamano l’effetto Dunning-Kruger.

Questo tipo di esperienza fa sì che la gente faccia domande, ricerchi, si informi, legga, cerchi risposte in modo metodologico e sistematico.

Qual è l’utilità di queste informazioni?

L’esperimento di McPhetres si può applicare trasversalmente su molti ambiti e non solo quello scientifico. Ci dice che se riusciamo a rendere stimolanti e interessanti i temi che vogliamo divulgare, quegli stessi temi diverranno automaticamente più stimolanti e interessanti agli occhi dei nostri osservatori, chiunque essi siano.

CdS lo ha fatto con uno spettacolo, ma pensiamo a quante informazioni potremmo veicolare e quanti dibattiti potremmo incoraggiare, quanti studenti potremmo catturare se sapessimo spingere (nell’accezione proposta dal termine nudge) le persone a usare lo stupore come tramite della conoscenza.

Come ha affermato McPhetres “Una cosa è chiara. Mostra ciò che vuoi proporre/divulgare/ vendere, in tutta la sua reale bellezza e stai certo che verrà percepita come magnifica e misteriosa. Mostra agli studenti alcuni usi reali e applicabili delle minuzie teoriche che stai per condividere loro e vedrai lievitare il loro interesse”.

Obiezione

Alcuni lettori potrebbero obiettare l’ovvietà di quanto ho scritto sullo stupore. Vero. Ciò che non lo è, è il fatto che spesso (troppo) si usa “l’effetto wow” in modo manipolatorio, per vendere corsi/prodotti che hanno poco o nulla di sorprendente.

Se invece usassimo lo stupore per creare coinvolgimento, consapevolezza e conoscenza, potremmo ottenere gli stessi risultati, o forse non molti di più, e raggiungere i medesimi obiettivi in modo più gentile e duraturo nel tempo e con meno sforzo di quanto si pensi.

Datemi pure della visionaria…

Fonti:

https://greatergood.berkeley.edu/article/item/awe_boosts_health?fbclid=IwAR27sTxS76_wih1sOMt4IzLYyL5tQ_L0m4geGdXU8xZk127RQcGaQahdthc

– https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/10400419.2018.1446491?journalCode=hcrj20&fbclid=IwAR27sTxS76_wih1sOMt4IzLYyL5tQ_L0m4geGdXU8xZk127RQcGaQahdthc

https://greatergood.berkeley.edu/dacherkeltner/docs/shiota.2007.pdf?fbclid=IwAR3Ln0B68-is9cbVHPCAJfoLBQrArOlEg0wHPyzBMwozDg7rLzpOqjucf8k

Il LAVORO si PAGA. SEMPRE

“Non chiedermi di pagare per lavorare”.

E’ l’avviso che vorrei che tutti, sul proprio biglietto da visita, facessero imprimere. A scanso di equivoci e a protezione di chi più facilmente di altri, cade vittima di millantatori e manipolatori.

In poco più di due mesi, è il terzo cliente che mi chiama perché lo aiuti a prendere una decisione in merito ad una proposta di collaborazione “interessantissima e irrinunciabile”, alla quale però non solo non ci sarebbe remunerazione, ma addirittura viene chiesto del denaro (non poco) in cambio.

Detto in altri termini: “ti offro l’opportunità di lavorare con me, alla interessante cifra di $$$, che però mi versi tu che lavori”, senza contare gli altri “benefit” inclusi nell’offerta.

E’ indiscutibile la capacità manipolatoria di questi “venditori” di opportunità, ma ciò che più mi ha fatto pensare è che ben 3 (quindi non una coincidenza) manager di alto profilo, con un lavoro invidiabile e contenti di ciò che fanno, abbiano anche solo preso in considerazione simili proposte.

Ripensando agli studi fatti negli anni, riconduco il tutto a due facce dello stesso fenomeno. La prima, di ordine socio-culturale, chiama in causa la svalutazione del lavoro intellettuale, e della persona in questione. La seconda è di ordine antropologico: il commercio a prezzo fisso nasce con i grandi magazzini nell’800, precedentemente vigeva la pratica della contrattazione, erede del baratto, che nella sua versione più estrema includeva anche l’eventualità dell’acquisizione a titolo gratuito o per baratto.

Diverso, invece, il percepito per chi formula la richiesta. Chiedere può essere sfrontato, ma non è un peccato, e l’imbarazzo si fa pari a zero se sostenuto dalla miracolosa frase “senza fini di lucro”.

Ma se occorre addirittura pagare per lavorare, un professionista muore. L’individuo muore.

Ai professionisti che seguo, rispondo a questo quesito così: accettare un lavoro gratis o addirittura a fronte di un pagamento, senza le dovute riflessioni, ma solo per ‘esserci’, corrisponde ad auto-svalutare il valore della propria professionalità e le proprie competenze.

Se però quella di pagare per lavorare è una scelta alla quale non puoi sottrarti ricorda: il tuo lavoro sarà quotato di conseguenza sia dalle persone con cui hai già collaborato (e che ti faranno nuove proposte basandosi su questo dato, sottintendendo cioè che tu questi progetti li segui gratis o addirittura paghi tu chi te li commissiona), sia dal network che gira attorno a queste persone e riposizionare il proprio valore economico sarà molto difficile!

Imparare a dire no o avanzare richieste non è sempre facile, intendiamoci, ma è una scelta che ti tutela e che come professionista devi imparare a fare.

Ho imparato che la serietà di una persona o di un progetto si misura anche da questi parametri.

Un ladro gentiluomo, un rasoio e il bias dell’ovvietà

Ci sono storie che diventano bias e per questo non si possono ignorare. Come quella di un rapinatore sofisticato e coltissimo, più romantico di Bonnie e Clyde e con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin.

Per comprendere il contesto, occorre tornare nella New York di inizio secolo scorso, quando un uomo elegante, armato di una Colt calibro 9, era solito entrare nelle banche che avrebbe svaligiato, chiedendo a tutti in modo garbato, gentile e sorridendo, di alzare le mani.

Acuto e curioso (leggeva Dante, Shakespeare, Proust e Platone), riuscì ad accumulare in quarant’anni di rapine, tutte in pieno giorno e senza mai sparare un colpo, due milioni di dollari. Non pochi per quei tempi.

La storia di William Francis Sutton, Willie per gli amici, non è però una storia a lieto fine, condannato all’ergastolo, verrà alla fine liberato per buona condotta e per un cancro ai polmoni che un decennio dopo se lo porterà via. Colpa di quelle sigarette fatte in casa che fumava continuamente. L’unico suo vizio insieme a quello di rapinare banche.

La Legge di Sutton

L’intera vita di Willie, per arrivare al punto, si può riassumere parafrasandolo: «Se mi avessero chiesto perché rapinavo banche, avrei risposto semplicemente “perché mi piaceva” e “perché è lì che ci sono i soldi».

Questa citazione “perché è lì che ci sono i soldi”, si è evoluta fino a diventare la legge di Sutton (Sutton’s slips bias): il limite, la fallacia, per fare un esempio in campo medico, di enfatizzare l’ovvio, ossia la diagnosi più probabile, scartando a priori ogni altra alternativa (sintomo, dato, fattore). In altri termini è il bias che porta a non voler prendere in considerare elementi e dati al di fuori dello standard, nel timore di sprecare inutilmente tempo, denaro e risorse più efficaci se collocate altrove.

Ci sono storie che diventano bias e per questo non si possono ignorare. Come quella di un rapinatore sofisticato e coltissimo, più romantico di Bonnie e Clyde e con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin.

Il rasoio di Occam

La contrapposizione con il rasoio di Occam, a questo punto, è obbligata: «Se senti gli zoccoli pensi al cavallo, non alla zebra. A meno che non vivi in Africa». Non sempre, di fronte a un problema, cerchiamo la spiegazione più semplice, eppure nella stragrande maggioranza è quella giusta. In altre parole: a parità di elementi la soluzione di un problema è quella più ragionevole.

Se la legge di Sutton – che giustifica il fatto di rapinare banche perché è lì che si trova il denaro – incoraggia il medico, l’analista, il ricercatore (per fare qualche esempio) a concentrarsi sui dati che possono fornire i massimi risultati, e non a stimare le probabilità in base alla rapidità o la facilità con cui può ricordare esempi analoghi, il rasoio di Occam induce invece a non perdersi in voli pindarici alla ricerca di chissà quali evidenze, se non ci sono le condizioni che li giustifichino.

Aver trattato di recente una data patologia può talora indurre a ritenerla più comune di quanto non sia in realtà. Aver curato un paziente colpito da un raro effetto collaterale di un farmaco, può spingere il medico a evitare quel farmaco, e farsi quindi vittima di un altro insidioso effetto, il bias dell’ancoraggio.

Complicare le cose semplici

Ciò che suggerisce la ragione, è trovare l’equilibrio, destreggiandosi fra Sutton e Occam, ricordandosi che è inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non serve per arrivare alla soluzione o per rendere edificante qualcosa. Ma nemmeno trascurare elementi che appaiono del tutto incongruenti e che non possono spiegare secondo logici criteri, un dato contesto.

Per traslare il concetto in tutt’altro campo, non è ancora del tutto chiaro come gli antichi Egizi riuscirono a costruire le Piramidi: è possibile ipotizzare che lo abbiano fatto grazie a tecnologie avanzate fornite loro da civiltà aliene, ma seguendo quanto detto finora è preferibile supporre che ci siano riusciti da soli sfruttando in modo ingegnoso le conoscenze dell’epoca.

In questo modo non siamo obbligati a ipotizzare una serie di condizioni particolari – che gli alieni esistano, che siano riusciti ad arrivare sulla Terra, a comunicare con gli Egizi e poi a scomparire senza lasciare tracce – e possiamo spiegare lo stesso fenomeno, le Piramidi, facendo ricorso a meno ipotesi più concrete.

Ciò che non ci piace non è necessariamente sbagliato

L’importanza dei due effetti sta nel costringerci a distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, nel vietarci di andare oltre la più semplice descrizione possibile e contemporaneamente di arrenderci all’ovvio, così da aiutarci a stare alla larga dalle conoscenze presunte e capire dove le nostre teorie sono incomplete e hanno bisogno di essere migliorate.

Questo però non vuol dire che possiamo usare tali effetti come armi improprie (che qualcuno chiama ironicamente “la motosega di Ockham”) per fare a pezzi le teorie che non apprezziamo, magari perché non rispondono a una definizione arbitraria di semplicità o non condividono i nostri presupposti.

Qualche volta, specialmente in temi complessi come la politica o l’economia, si assiste a usi spericolati del rasoio di Occam e del Sutton Effect che fanno accapponare la pelle, ma in questi casi si tratta di propaganda e non di buona pratica scientifica.

SANPA: DOVE ci si può SPINGERE per SALVARE una VITA?

Ho appena terminato di guardare su NetFlix, la docuserie SanPa.

Nonostante abbia l’innegabile merito di essere un prodotto italiano unico nel suo genere, e che nulla ha da invidiare a Going Clear – Scientology e la prigione della fede (HBO) o Wild Wild Country (Netflix), riesce a districarsi elegantemente dalla questione etica/morale lasciando al pubblico la scelta più difficile e controversa: scendere a patti con la propria coscienza e decidere in libertà se assolvere o condannare Vincenzo Muccioli. L’enigmatico fondatore della comunità terapeutica per tossicodipendenti più grande d’Europa.

Non mi sono mai dovuta confrontare con il tema della droga, non ho neppure mai fumato una sigaretta, ancor meno uno spinello e non mi sono mai nemmeno ubriacata, riconosco quindi una lacuna esperienziale personale che mi toglie, probabilmente, qualsiasi velleità di giudizio per quanto riguarda le dipendenze.

Eppure, pur immersa nella mia ignoranza esperienziale, mi è difficile pensare che il fine giustifichi i mezzi. Sempre. Almeno a San Patrignano.

Dove, in quel salvatore, spesso elevato a dio, mi è difficile non intravedere una smania scellerata e incontrollata di onnipotenza, dove il rispetto delle regole, sue incontestabili regole, è la conditio sine qua non, per stare in una casa dove è semplice entrare, ma da cui è impossibile uscire.

Una dinamica settaria, dunque, come dimostrano le critiche che SanPa ha riversato contro la serie, commentate dall’ex portavoce Fabio Anibaldi su La Stampa

Non mi sorprende la reazione. Loro non accettano critiche, è la logica dell’ ‘o con noi o contro di noi’, non c’è dissenso all’interno e tanto meno è concepibile quello al di fuori. Accettano solo l’ammirazione incondizionata per la loro opera, che è logica tipica di certi regimi totalitari”.

Nelle 5 ore di filmati e interviste, emerge incontrastato il rapporto di dipendenza fra i giovani tossicodipendenti e il padre-padrone Muccioli. Banalmente potremmo azzardare che una dipendenza sostituisce un’altra dipendenza. Ma guarire è un’altra cosa.

E’ innegabile l’opera del fondatore verso i migliaia di ragazzi strappati alla droga, non lo metto in dubbio. Ma le punizioni, le privazioni ai danni dei ragazzi tossicodipendenti, quando incatenati e nudi, al gelo, nel canile, nella piccionaia o in vere e proprie celle di fortuna e a volte picchiati, in una occasione fino alla morte come dimostra l’omicidio del povero Roberto Maranzano, sono difficili da ignorare.

Immediata è la comparazione a ciò che succede in qualsiasi setta: all’adepto che vuol andare via viene resa impossibile la vita, con la forza, e poi punito per evitare che fugga ancora, o si lamenti o possa anche solo manifestare dissenso. Insieme all’esigenza di costruire un nemico esterno per compattare il gruppo all’interno ed evitare defezioni.

SanPa è dunque da assolvere o condannare?

Macchiavelli parteggerebbe per Muccioli, i fautori dello stato di diritto e della rule of law, assolutamente no. Ma anche volendo stare in nessuno dei due schieramenti, la domanda rimane senza risposta: dove ci si può spingere per salvare una vita umana?

CARO PRESIDENTE CONTE, TI SCRIVO…

Non si crea compliance, adesione alle norme sociali, usando la leva della paura e/o del divieto così come viene.  Lo sanno anche i muri. Gli unici ancora a non saperlo, mi viene da pensare (ma vorrei essere contraddetta) sono i nostri decisori…

E’ a questo che penso da mesi, stupita che nelle varie task force non ci siano esperti e profondi conoscitori anche delle Scienze comportamentali e/o dell’economia comportamentale o di Neuroscienze applicate alla Comunicazione. Non so se i nostri governanti ignorino l’importanza di queste discipline o preferiscano starci volutamente lontani per le ragioni che si possono ben immaginare.

Su questo rifletto mentre ascolto il video discorso di Emmanuel Macron, il presidente francese, risultato positivo al coronavirus giovedì

Sto bene, ho gli stessi sintomi di ieri: affaticamento, mal di testa, tosse secca come le centinaia di migliaia di persone che hanno convissuto o convivono con il virus. Continuerò a seguire gli affari ricorrenti anche se con un’attività un po’ rallentata. (…) Fate attenzione, tutti possiamo contrarre il virus”.

In una parola: rassicurante. Avvolgente. Empatico. Un messaggio non autoreferenziale, puntuale e descrittivo e al tempo stesso ingaggiante. Per chi mastica di bias… un buon uso del principio di riprova sociale. A tutti piace sentirsi parte di un gruppo, essere accettati e condividere preoccupazioni e speranze.

Difficile non fare un paragone, con il nostro Presidente del Consiglio e non della Repubblica (come freudianamente si lasciò sfuggire nel discorso dell’8 settembre) Conte che, quando si tratta di fare annunci, sembra ignorare le normali regole non solo delle Neuroscienze, ma della comunicazione base.

Stile dittatoriale, in un Paese democratico… la contraddizione è già evidente  così… forse quel lapsus è molto più predittivo, di quanto vorremmo credere!

Entrando nel merito, difficile dimenticare le sue frasi cult:

  • non cadremo nel baratro”, quando voleva, in pieno lockdown, tranquillizzare gli italiani, fa già tristezza così senza dover aggiungere altro…
  • il governo non lavora con il favore delle tenebre”,
  • meno libertà per tutelare la salute

In realtà, nei momenti di incertezza (che non piacciono a nessuno) servono regole chiare, indicazioni precise, coerenza e autorevolezza. Mi sembra che questi ingredienti siano mancati tutti o quasi. Chi si farebbe operare da un chirurgo che in sala operatoria prima di mettere mano ai ferri ci dicesse

“speriamo di non sbagliare approccio chirurgico, mi auspico che i miei colleghi seguano le procedure”.

Chi decide e guida, deve esprimere autorevolezza e direzione, non ulteriore incertezza.. o paure e preoccupazioni… Sperare e auspicare sono verbi che non fanno troppo bene alla nostra amigdala.

Ancor più i continui e non programmati divieti che ci vengono offerti come si fa con le caramella ai bambini ad Halloween. Non sapendo che altro fare, vieto… Non funziona neanche questo approccio: quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.

Quando ci si sente eccessivamente costretti in una direzione che non si condivide, l’unico risultato che si ottiene è il comportamento opposto.

Caro Conte, la prossima volta che le verrà voglia di creare un’altra task force, non ignori (per usare il suo stile comunicativo) le Neuroscienze, so che possono sembrare noiose, ma il Nobel è ancora un sigillo di sapere e autorevolezza, che piaccia o meno. Io, persone come Thaler e Kahneman le starei a sentire. E poi non dica che non l’avevo avvisata!

COLLEFERRO: è TUTTO più COMPLESSO, è TUTTO TRAGICAMENTE BANALE

Non seguo volentieri la cronaca nera, mi lascia sempre l’amaro in bocca. La ricerca compulsiva dello scoop e del sensazionalismo, camuffata in affannosa ricerca della verità, non solletica il mio interesse. Anche i recenti fatti accaduti a Colleferro, non sono da meno. Anche se, ancor più che in altri casi, è difficile sottrarsi alla lettura, non c’è Media o Social che non ne parli, mescolando le carte con la stessa bravura di un baro professionista.

Così sfoglio qualche pagina, non ritrovandomi in quasi nessun racconto. La violenza esplicitata, non è figlia del fascismo. Anzi ha ben poco a che fare con il credo politico. In questo caso. La violenza cieca e inutile, esercitata su Willy Monteiro Duarte è un atto estremo di teppismo e brutalità. La banale violenza, per parafrasare Anna Arendt, che sembra ancor più feroce, perché troppo semplice da comprendere.

Un conto è avversare, un altro è odiare – sostiene il teologo e uomo di grande cultura Vito Mancuso – L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Al di la della dotta filosofia, la scienza è meno corretta e poco si preoccupa di cercare consensi. Pochi sanno, infatti, che le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa, per eventuali negazionisti rimando allo studio: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

IL CERVELLO CHE ODIA

Nello studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati a osservare immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

E’ emerso che la vista della persona odiata attiva particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso sostiene che “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati. Forse.

Senza contare che al concetto di bene, ognuno può dare la connotazione che vuole, proprio come hanno fatto i ragazzi di Colleferro… Ecco perchè è altrettanto difficile aspettarsi il pentimento. Alla fine quindi la politica, di qualsiasi schieramento, ha ben poco a che fare… E’ tutto più complesso, è tutto (più) tragicamente banale!