Ho guardato in VOLTO la POVERTA’ e ho avuto PAURA

Ci ho pensato ieri mentre, quasi involontariamente, cercavo l’auricolare del telefono, uno dei tanti oggetti che dimentico ovunque, ogni giorno. E’ facile, pensavo, perdere oggetti nella civiltà delle migliaia di cose.

Negli States uno studio di qualche anno fa ha stabilito che in una casa ci sono mediamente 300 mila oggetti, dal pettine alla saliera. Nel Regno Unito, un bambino entra in contatto in media con poco meno di 250 giocattoli, anche se gioca con non più di una dozzina. E una ricerca di una compagnia di assicurazioni britannica sostiene, dati alla mano, che passiamo in media dieci minuti al giorno a cercare cose che perdiamo: in una vita possono essere persi 200 giorni alla ricerca di qualcosa. Quasi nulla, se paragonati ai duemila che passiamo comprando cose.

Abbiamo migliaia di cose, mentre miliardi di persone non hanno quasi nulla. E non è stato necessario andare troppo lontano da casa per scoprire che i tanti che non hanno migliaia di cose, sono anche qui.

Non mi sono mai resa bene conto di quanto sono fortunata. Una bella casa, un buona istruzione, un lavoro interessante, viaggi, hobby, amici. E tante cose non necessarie. Mi arrabbio quando il mio ristorante preferito non ha un posto libero nel momento in cui decido che cenerò lì, o nell’hotel pentastellato sbagliano a portarmi il latte. Rigorosamente di riso.

E poi c’è chi è disposto a qualunque cosa per poche centinaia di euro ogni mese. Barattare la salute, se non la vita stessa.

Storie tutte uguali che non si somigliano, direbbe qualcuno. O come scriveva Lev Tolstoj in Anna Karenina Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo. Eppure in quel disastroso compromesso di infelicità e fame, non ci avevo mai guardato. Lo avevo ignorato o forse avevo creduto non esistesse. La povertà mi ha sempre fatto paura. Ne sono diventata consapevole all’improvviso. La respiriamo mentre incuranti camminiamo per strada, sui mezzi pubblici, ne leggiamo sui giornali e ce lo sbattono in faccia i talk show. Eppure non la vediamo.

In una parola siamo diventati aporofobici, abbiamo cioè sviluppato una nuova avversione: la paura verso i poveri (dal greco aporos, colui che non ha risorse). A coniare questo termine la filosofa spagnola Adele Cortina, non a caso la parola dell’anno 2017. Curioso il contrasto con quella del 2014 che era selfie.

Aporofobia non indica nulla di nuovo, ma ridà fuoco a una paura atavica che si attiva ogni volta che entriamo in un periodo di crisi economica, quei periodi che possono tirare fuori il meglio e il il peggio dell’essere umano.

Ogni tanto chiamare le cose con il loro vero nome è liberatorio, necessario, vitale, anche se non è sufficiente a far scomparire ciò che non ci piace, qualcuno lo chiamerebbe sortilegio. Sapere che esiste l’aporofobia non eliminerà il rifiuto dei poveri, ma almeno è il primo passo per diventare consapevoli del problema. E il modo migliore per togliersi le maschere sociali. E dare il giusto valore alle cose che si hanno e ancor più a quelle che non si hanno ma non sono necessarie.

Abbiamo vissuto per millenni con poche cose davvero necessarie, ottenute a fatica, che conoscevamo e apprezzavamo. Adesso le cose non significano nulla: si possono buttare, sostituire, non vale la pena aggiustarle o ripararle perché è più facile e più economico comprarne altre. E niente ci piace più di comprare altre cose.

Il paradosso è che il sistema economico mondiale ha bisogno che noi abbiamo bisogno di sempre più cose, perché vive della loro produzione. E’ come un aereo: se non vola a ottocento chilometri all’ora si schianta. Se ci organizzassimo per fare un uso razionale delle risorse, milioni di persone avrebbero gravi problemi. O magari inventeremmo qualcosa che fa bene a tutti: a volte succede.

PENSAVO FOSSE un Amico invece è un BUGIARDO PATOLOGICO…

Stalin, Cagliostro, Iago e infine l’inconscio. Solo alcuni dei grandi bugiardi della storia. Di Stalin c’è poco da dire, se non che cancellò la definizione stessa di verità e condusse un intero popolo a mentire: per terrore, necessità, abitudine.

Più simpatico ci è Cagliostro, capace di usurpare titoli nobiliari, frodare monaci e poveri, nonché anticipare la figura del medico impostore.

Iago di bugia ne disse una soltanto, a proposito di un sogno di Desdemona che spinse Otello a interpretare in modo sbagliato fatti veri. Fu il prototipo del manipolatore, dimostrando che l’arte più raffinata della menzogna è lavorare sul contesto e spostare i pezzi dell’insieme, oppure ometterne qualcuno. Costruire insomma la bugia con il vero che si ha a disposizione.

Infine l’inconscio, il più diffuso fra i bugiardi. Coltiva stupidi rancori infantili. Secondo alcuni è un poveraccio, per altri una leggenda. Ciò che pensa lo fa dire al conscio senza trovare mai il coraggio di mostrarsi.

E poi ci sono tutti gli altri che come comparse appaiano e scompaiono sulla scena, talvolta incapaci di dire la verità. Spesso negandola con la spudoratezza della cecità: mentono sulla realtà che non vedono e/o da cui hanno bisogno di sottrarsi. Ne conosciamo tutti qualcuno, audaci, famelici, coerenti nella bugia. Purtroppo però li riconosciamo solo una volta che siamo caduti in trappola. Nella rete del ragno, subdola, tenace, affascinante nella sua trama sfaccettata come un diamante…

Ci sono caduta anch’io che di comportamenti dovrei intendermi… non a caso sono qui a scriverne.

BUGIE: COSA DICONO LE NEUROSCIENZE

Nature Neuroscience ha pubblicato uno studio che dimostra che dire continuamente bugie diminuisce i sensi di colpa e rende più facile dirne altre. Come riporta Smithsonian, Tali Sharot, psicologo sperimentale e tra gli autori dello studio: «Ci immaginavamo già che mentire potesse portare a un aumento sempre crescente di disonestà, ma non c’era stata ancora alcuna ricerca empirica che ne spiegasse il motivo e il processo».

Per capire come funziona, i ricercatori hanno ideato un gioco che incentivava le persone a mentire: in cambio di una bugia, infatti, avrebbero avuto un regalo in denaro. A più di 80 partecipanti è stato chiesto di indovinare quante monete fossero contenute in un barattolo, poi è stato detto di aiutare un altro partecipante – chiamato “stimatore” – a capire quante ne contenesse effettivamente. Chi doveva aiutare non sapeva che gli “stimatori” fossero in realtà attori. I ricercatori hanno creato sessanta diversi scenari per gruppo che avrebbero potuto incentivare i partecipanti a sovra o sottostimare il numero di monete: in alcuni casi mentire avrebbe fatto sì che chi suggeriva avrebbe vinto dei soldi.

Gli scienziati si sono poi focalizzati sull’amigdala, cioè la regione del cervello associata alla paura, l’ansia ed altre emozioni: utilizzando un elettroencefalogramma nei partecipanti hanno scoperto che, più i suggeritori dicevano bugie, sempre meno l’amigdala veniva stimolata, il che suggerisce che le emozioni negative connesse al mentire svanivano col tempo.

Altri studi avevano già dimostrato che la disonestà aumenta quando è previsto un premio di vario genere, ad esempio quando dire una bugia potrebbe aiutarci a cogliere una buona opportunità. Stavolta, però, «è la prima occasione in un cui le persone hanno dimostrato una escalation di bugie in un ambiente di laboratorio», ha detto il ricercatore di Princeton Neil Garrett.

Secondo gli autori della ricerca, questo potrebbe risultare utile anche per vari policy makers: per Sharot se lo stato emotivo di una persona viene sollecitato mentre sta mentendo, allora si potrebbe invertire l’effetto, inducendola a dire la verità o a comportarsi correttamente. Un po’ come funziona con i cartelli che chiedono di non rubare nei camerini, o quelli per non copiare nelle classi: «Un avvertimento del genere potrebbe portare all’inizio a voler essere disonesti, ma allo stesso tempo indurrebbe un ripensamento», ha detto Garrett.

BUGIE E PSICOLOGIA

I motivi che spingono le persone a mentire compulsivamente sono vari, e spesso collegati a due disturbi di personalità: bordeline (BDP) e narcisistico. Nel primo caso, a causa di emozioni così intense da annebbiare il pensiero e il giudizio, le persone possono arrivare a interpretare tutto attraverso una lente emozionale capace di distorcere la realtà. Inoltre dire bugie aiuta a tollerare meglio la situazione, senza che l’individuo riesca a pensare alle conseguenze negative della bugia a lungo termine.

In un narcisista invece la bugia nasce come reazione alla sensazione di inadeguatezza, per costruire una maschera di superiorità nei confronti degli altri, per creare agli occhi di se stesso e degli altri una realtà speciale, non per forza migliore. Per questo un narcisista potrebbe arrivare a inventarsi un lavoro prestigioso, di essere andato a cena in un ristorante di lusso, postandolo sui social per colmare il suo profondo senso di inadeguatezza.

Diversa, e più estrema è la situazione del bugiardo patologico: mente allo scopo di manipolare l’altro e raggiungere il proprio tornaconto, a scopo totalmente utilitaristico, senza provare alcun rimorso o senso di colpa. La menzogna in questo caso non è automatica, ma è una vera e propria strategia: spesso i bugiardi patologici non riescono a conformarsi né alla legge (commettendo atti illegali come truffa, furto, etc), né alle norme sociali e i loro comportamenti sono spesso disonesti e manipolativi, ad esempio mentono o assumono false identità per trarne vantaggio o piacere.

Comprensibilmente, comportamenti analoghi possono far sorgere difficoltà all’interno di una relazione: partner, famiglia, amici spesso sono disorientati e arrabbiati alla scoperta di tanta finzione, e non riuscendo a capirne il motivo passano dalla colpevolizzazione di se stessi alla colpevolizzazione del bugiardo.

Ma una compulsione, per definizione, serve a far star meglio la persona—e come tale, se resta non scusabile, una volta compresa può essere decolpevolizzata: è infatti necessario comprendere il ruolo che assolvono le bugie per l’individuo (quale parte di sé sta disperatamente cercando di nascondere ai propri occhi e a quelli altrui? quale motivo di sofferenza sta cercando di gestire?).

Il bugiardo patologico è una persona che non può fare a meno della menzogna per vivere. E’ così concentrato ad evitare che gli altri lo conoscano esattamente per quello che è, che passa il suo tempo a costruire una rete di bugie per dare un’immagine immacolata di sè.

Molte persone che appartengono a questa categoria, possono sembrare sicure e con una grande autostima. In realtà, il bugiardo non è contento di com’è, vorrebbe essere diverso e non è soddisfatto della vita che ha. Per questo indossa una maschera, ed è spesso sfuggente.

Non accetterà mai di essere scoperto e, se ciò dovesse accadere, cambierà mille volte versione dei fatti e agirà anche in modo imprevedibile pur di confermare a se stesso e agli altri che è esattamente il tipo di persona che ha sempre fatto credere di essere.

COME RICONOSCERE UN BUGIARDO CRONICO

Vuole indorare la realtà. Presenta sempre se stesso come un vincente ed è attento a non essere smascherato. Non accetta di vivere una vita normale, teme la mediocrità e vuole sempre far apparire tutto più bello di quello che realmente è. Potresti scoprire che fa il lavoro più comune del mondo mentre, in realtà, ti ha raccontato di attività molto più belle e avventurose.

Non prova rimorso né senso di colpa. Non ha una morale tradizionale. Riesce a vivere senza problemi nel castello di carte che si è creato. Non si pone dubbi e interrogativi come invece farebbe ogni altra persona al suo posto. Il bugiardo cronico spesso è un individuo che pensa che tutto gli sia dovuto, che gli altri non facciano mai abbastanza per lui ed è sempre pronto a chiedere di più senza minimamente pensare che anche gli altri possano avere bisogno delle stesse attenzioni. Di solito è egocentrico e, prima di pensare a chiunque altro, deve essere innanzitutto soddisfatto lui. Naturalmente, pur di essere accontentato, racconta molte frottole.

Si crede più intelligente e furbo degli altri.Il fatto di riuscire ad abbellire la realtà lo fa sentire addirittura molto ricco di immaginazione e di intelligenza. Si vede superiore a tutti quei ‘sempliciotti’ che, invece, prendono la vita così com’è ed accettano anche le esperienze negative. Nella sua presunta intelligenza, spesso tratta gli altri dall’alto in basso e, tendenzialmente, predilige la compagnia di persone dolci e ben educate che possano assecondarlo nel suo gioco senza opporglisi.

Racconta i fatti in modo avvincente. Ingigantisce gli eventi e aggiunge particolari anche bizzarri alle sue storie pur di attirare l’attenzione altrui. Una bugia in più o una in meno per lui non fa differenza pur di risultare interessante. Spesso, il bugiardo cronico ama stare al centro dell’attenzione, è contento di avere un pubblico pronto ad ascoltare le sue storie e, magari, anche a restarne affascinato.

Cambia versione dei fatti in base alla convenienza. Pur di fare colpo sul proprio interlocutore, il bugiardo patologico è disposto a cambiare repentinamente idea (o a far credere di averla cambiata). Non appena si accorge che la persona con cui sta parlando non è più così attenta e rapita dai suoi discorsi, oppure non condivide la sua idea, è in grado di virare magistralmente anche sull’idea opposta, facendo passare per stupida la persona che sta parlando con lui. Spesso, infatti, succede che chi assiste a questo cambiamento repentino, si ritrovi completamente spiazzato e, per non mettere l’altra persona in imbarazzo, stia zitto e non sottolinei la stranezza dell’accaduto. Il bugiardo, però, in questo modo rinforzerà la propria idea di essere una persona di successo e superiore agli altri.

Crede alle sue stesse bugie. Il cervello ha la capacità di riorganizzare le informazioni e le impressioni che riceve. Infatti, cerca sempre di trovare una logica in quello che accade, a costo di forzare i collegamenti tra i fatti. Il cervello di un bugiardo cronico non sfugge a questa regola. Nella sua mente, il mondo immaginario che si è creato si struttura come se fosse vero. Sovente, per il bugiardo, sogno e realtà si confondono e lui stesso arriva al punto di non saperli più distinguere e si convince che le sue stesse menzogne siano invece la realtà.

Sfugge alle responsabilità. Un altro motivo per cui il bugiardo decide di mentire è sfuggire alle responsabilità. Per lui è difficile ammettere di avere sbagliato oppure doversi giustificare. Ma così finisce per mentire anche in situazioni quotidiane e di importanza irrilevante. Ad esempio, se il bugiardo cronico arriva in ritardo ad un appuntamento, potrebbe inventarsi scuse di ogni tipo. L’importante, per lui, è non ammettere di avere sbagliato per una propria mancanza o per disorganizzazione. Non è raro che si inventi incidenti, ingorghi, disavventure o qualsiasi altra cosa ben più strana per sfuggire al giudizio negativo che gli altri avrebbero su di lui se dicesse la verità.

Non tollera le bugie altrui. Nonostante i bugiardi patologici abbiano fatto della menzogna il loro stile di vita, non riescono a sopportare che qualcuno usi la loro stessa arma. In quel caso, appena il bugiardo scopre l’inganno altrui, si sente ferito nell’orgoglio. Sembrerà paradossale ma, a volte, proprio il bugiardo cronico si può trasformare, in alcune situazioni, in paladino della verità. In quei momenti, si sente investito di una grandiosa missione e, pur di portare avanti la sua improvvisa voglia di onestà, se la prende con il proprio interlocutore, lo attacca e non gli lascia via di scampo.

Non ammette di avere torto. Durante le discussioni, pur di avere ragione, il bugiardo cronico inizia ad inventare competenze che non ha. Oppure, fa riferimenti a dimostrazioni e studi scientifici (nemmeno di sicura esistenza) che avvalorano la sua tesi. E guai a metterlo in difficoltà. Se si sente minacciato nella sua sicurezza, potrebbe iniziare ad arrampicarsi sugli specchi e, alla fine comunque, non ti lascerà mai vincere.

Non so se queste indicazioni saranno utili per smascherare i bugiardi patologici prima che possano arrecarvi danno, nel caso ci ho provato!

PERCHE’ PROVIAMO VERGOGNA?

“A volte è una sequenza, altre un’immagine, un fotogramma qualsiasi, un movimento spezzato, una smorfia (debolezza, forse vergogna), un gesto piccolissimo che non possiamo raccontare a nessuno (e non perché non vogliamo ma perché non sapremmo neanche come cominciare, e se pure ne fossimo capaci preferiremmo non farlo)”.

Rubo a Diego De Silva, l’incipit di Mancarsi, perché sebbene tutti la conoscano fin nelle viscere, fanno fatica a parlarne. A descriverla. Vogliono, vogliamo tutti solo che si dissolva presto ai ricordi. Sto parlando della vergogna: la nemica di tutti, l’amica di pochi, quei pochi che sanno scaltramente maneggiarla, sebbene sia un gioco a perdere. E’ solo questione di consapevolezza.

Mentre litigo con il tempo sul volo che da Madrid mi riporta a casa, non posso non interrogarmi sul perché è dell’uomo la prerogativa di provare vergogna… Un’onta? Una spina nel fianco? O semplicemente una perversa forma di protezione?

LA VERGOGNA: PROBLEMA OD OPPORTUNITA’?

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Montreal e del Santa Barbara’s Center for Evolutionary Psychology (CEP) ha provato a dare una risposta ponendo il problema in chiave antropologica: per quale motivo la natura ha dotato l’uomo di una sensazione così maldestra?

Per svelare l’arcano sono stati costretti ad andare alle origini, ai tempi in cui l’uomo iniziava ad organizzarsi in comunità. Quando non c’erano organi istituzionali o addetti a controllare l’operato dei membri di un gruppo. Ecco che si può così intuire il significato della vergogna: limitare le azioni che potrebbero avere ripercussioni negative sulla socialità. L’uomo antico non rubava il cibo agli altri membri della sua stessa comunità.

E il cervello è in grado di prevedere le possibili conseguenze di un’azione negli altri. Quando capisce che il vantaggio che potrebbe derivare dalla riuscita delle intenzioni non vale quanto le ripercussioni che avrebbe un loro eventuale fallimento ecco che la volontà di agire viene inibita dal senso di vergogna.

L’uomo è attento a ciò che gli altri pensano di lui. La vergogna, come il dolore e la paura, avrebbe perciò una funzione protettiva. La vergogna è in grado di farci evitare i comportamenti che potrebbero ledere la nostra reputazione, tant’è che tali condotte sono quasi sempre mal viste dalla società. Difficilmente si ha vergogna di qualcosa che si sa essere comunemente accettato.

“La teoria che stiamo valutando è che l’intensità del sentimento di vergogna che si prova quando si considera se compiere una determinata azione non è solo una sensazione o una motivazione; comporta anche informazioni fondamentali che ti portano a compiere scelte valutando non solo costi e benefici personali dell’azione stessa ma anche costi e benefici sociali”, hanno spiegato gli antropologi coinvolti nello studio (per saperne di più https://www.news.ucsb.edu/2018/019174/universality-shame).

La vergogna non è, secondo i ricercatori, un sentimento indipendente dalla cultura e dalle credenze di un popolo, ma intrinseco dell’essere umano. Per dimostrarlo sono state indagate 15 differenti comunità di quattro continenti, appartenenti a differenti religioni e culture. La ricerca ha dimostrato che qualsiasi sia il modo di vivere, in tutti gli uomini è radicata la capacità di provare vergogna.

Non c’è dunque una motivazione culturale ma il perché proviamo vergogna va ricercato nell’evoluzione del cervello umano come proprio di un animale sociale. Quando pensiamo che un’azione (giusta o sbagliata che sia) verrà vista dagli altri come negativa, allora ecco che si innesca il meccanismo di vergogna.

A questo punto, la prossima volta che proviamo vergogna, sappiamo il perchè!

HARARI: l’UMANITA’ spiegata SEMPLICE

Circa 13,5 miliardi di anni fa, materia, energia, tempo e spazio scaturirono da quello che è noto come Big Bang. La storia di queste caratteristiche fondamentali del nostro universo si chiama Fisica.

Circa 300 mila anni dopo la loro comparsa, materia ed energia cominciarono a fondersi in complesse strutture chiamate atomi, che poi si combinarono a formare le molecole. La storia degli atomi, delle molecole e delle loro interazioni si chiama Chimica.

Circa 3 miliardi e 800 milioni di anni fa, su un pianeta chiamato Terra, certe molecole si combinarono venendo a formare strutture particolarmente articolate e complesse chiamate organismi. La storia degli organismi si chiama Biologia.

Inizia così Sapiens. Da animali a dèi, il best seller del filosofo più influente al mondo, Yuval Harari, il pensatore più importante del XXI secolo, capace di farci fare un tuffo nel passato dell’umanità. Qualcuno la definisce la moda intellettuale del momento, potrà anche essere. però si dimostra capace di conquistare le università occidentali, da Parigi a Berlino, da Toronto a Tel Aviv.

La popolarità di Harari è dovuta alla capacità di ricondurre la grande matassa di eventi e fatti della nostra Storia a poche, grandi questioni. Il nostro mondo può apparire come un meccanismo senza scopo, ma Harari è bravo a fissare ogni vicenda che ha interessato l’umanità in un disegno più grande.

Distinguere tra finzione e realtà è uno dei principi massimi del suo lavoro. L’uomo vive di storie, ragiona e impara attraverso di esse, ma questo non significa perdere la lucidità di riconoscere la realtà e di guardarla per quella che è.

Insomma, come dice Bill Gates “un viaggio divertente e curioso nella storia dell’umanità, una lettura che vi terrà incollati fino all’ultima pagina”.

L’INDIA in AFRICA, GIOTTO e la GIOCONDA e il TEOREMA di PETRARCA. Maturità: i capolavori di studenti e professori…

Immaginate un mondo dove D’Annunzio è un estetista ma anche un water, i lupini sono i cuccioli del lupo, Berlino è la capitale dell’Inghilterra, l’India in Africa e Kant diventa il filosofo dell’aperitivo categorico…

Non è l’inizio di una commedia dell’assurdo, più semplicemente sono alcune delle creative risposte date da studenti e professori all’esame di maturità in corso in queste settimane.

I CAPOLAVORI DEGLI STUDENTI

D’Annunzio e il suo salone di bellezza

“Gabriele D’Annunzio è un estetista”. C’è una sorta di avversione alla parola esteta… Sempre meglio di chi trasforma il vate in water… sì, è accaduto anche questo…

Romeo e Lucia o Renzo e Giulietta?

La letteratura è piena di storie d’amore dal finale tragico. Ma, almeno ne I Promessi Sposi, il lieto fine è garantito. Peccato che per un maturando anche il romanzo di Alessandro Manzoni si concluda con la morte di uno tra Renzo e Lucia (chi, non è dato saperlo). Non è che si è confuso con Romeo e Giulietta?

Non da meno è il pessimismo comico di Leopardi, mentre Il fu Mattia Pascal viene attribuito al poeta Pittarello.

La ola però si raggiunge quando l’ideale dell’ostrica di Verga diventa la storia della cozza. E che dire di Dante nato a Milano…

Neanche la letteratura straniera è immune da tanto sfacelo: qualcuno ha sostenuto che Gente di Dublino è ambientato a Londra (c’è anche chi dice non l’abbia scritto Joyce, bensì Orwell).

Non c’è Germania senza Hitler

Alla domanda di cosa parla la Germania di Tacito? è stato risposto: di Hitler. C’è un problema: ciò vorrebbe dire che sia lo storico romano del I secolo sia il dittatore del XX secolo sono riusciti a campare per quasi duemila anni. Affascinante…

E ancora il libro scritto da Hitler è diventato il Mein Kraft (anziché il Mein Kampf), come la marca dei formaggini.

Hiroshima…o Fukushima?

A Hiroshima nel 1945 ci fu un grande terremoto che provocò il crollo di un’importante centrale nucleare, con conseguenti rischi per le persone e l’ambiente. Ma non era successo a Fukushima? Peraltro nel 2011? Hiroshima non era una delle due città colpite dal lancio della bomba atomica alla fine della II guerra mondiale? Dettagli.

Torino? È il capoluogo della Toscana. L’Umbria? È una città vicina ad Assisi (sì ma, a questo punto, è lecito chiedersi: “in che regione si trova?”).

Orrori storici

La Francia è stata invasa dalla Germania nel 1940, nonostante le due nazioni fossero alleate. Sotto il governo Giolitti c’è stata la conquista dell’Etiopia (e non della Libia). Tra i protagonisti della II guerra mondiale c’è stato anche Napoleone. Il Rinascimento è esploso con cinque secoli di ritardo (non nel XV secolo ma nel dopoguerra).

L’arte… di sbagliare risposta

Uno studente attribuisce a Van Gogh L’urlo di Munch. Per un altro Magritte è uno scrittore…

Errori scientifici

“I muscoli sotto sforzo producono latte” (e non acido lattico). Il Vello d’oro non è il mitologico manto di Crisomallo ma un muscolo del nostro corpo. Nell’elenco non poteva mancare la geografia: se non avesse fatto l’esame, un ragazzo sarebbe ancor convinto che la capitale dell’Inghilterra fosse Berlino.

«Cos’è la tassa sul macinato”: carne tritata». Ricordi indelebili.

Ma che storia è?

Uno studente fa sterminare a Hitler non gli ebrei, ma la razza ariana, aggiungendo che con quella inizia nel 1945 la II Guerra Mondiale.

Poco prima del proprio turno, uno studente chiede a un altro…  “Sai dirmi chi ha scritto il diario di Anna Frank?” (che avesse un ghostwriter rimasto nell’ombra fino a oggi?).

La Gioconda è stata dipinta da Giotto” (e non da Leonardo Da Vinci).

Alla domanda “Come si chiama la pratica con cui ci si autoinfliggono delle ferite?”. La risposta? Semplice: “Autoerotismo”.

L’attuale Presidente della Repubblica è il fantomatico Matteozzi. Mentre la Guerra Fredda: fu combattuta in Siberia, la III Guerra Mondiale è scoppiata in India; il quadro Guernica: dipinto da Pablo Escobar (noto narco-trafficante e protagonista di una fortunata serie tv), anche se è opera di Pablo Picasso

Per qualcuno Will Smith è il protagonista del famoso romanzo 1984 di George Orwell (il vero nome del personaggio è  Winston Smith), Dante è diventato un celebre italiano ebreo (per altri invece ha scritto la poesia X Agosto, che è tra le più famose di  Pascoli). Neanche Giovanni Verga sembra passarsela bene: il suo capolavoro I Malavoglia è attribuito a Italo Svevo (che invece ha scritto La coscienza di Zeno). Se la passa meglio il grande storico latino Tito Livio. Scambiato per un imperatore romano…

Uno  studente ha stabilito che “la rivoluzione francese è scoppiata in Germania”. Un giovane cultore della contaminazione tra letteratura e musica disse che “il più noto romanzo di Pirandello è Il fu Mattia Bazar”.

I CAPOLAVORI DEI PROFESSORI

Non sono da meno i professori… Parlando di matematica, un commissario, forse appassionato di letteratura italiana, ha chiesto a un alunno di spiegare il famoso “Teorema di Petrarca”. Povero Pitagora, è stato rimpiazzato da Petrarca.

Che dire del campione di ciclismo Gino Bartali? Per un commissario si trattava di uno sportivo degli anni ’80. Peccato che la stessa traccia d’esame facesse riferimento proprio all’impegno di Bartali durante il nazismo nella difesa degli ebrei.

Un caso particolare riguarda il poeta Giuseppe Ungaretti: un professore di Scienze ha insistito per attribuirgli Ossi di seppia di Eugenio Montale, mentre una professoressa di italiano ha voluto accreditargli la stesura del Mastro Don Gesualdo di Verga. A far sobbalzare tutti sulla sedia, però, è stata una docente che gli ha attribuito addirittura l’Infinito. Peccato che sia una delle opere più celebri, se non la più celebre, di Leopardi…

Per Storia e Geografia le cose non sono andate meglio: L’America si trova a est del mondo ha spiegato un professore, mentre un altro ha assicurato che Il Venezuela è uno degli Stati dell’Asia. Per una docente la sconfitta di Caporetto è avvenuta durante la II Guerra Mondiale che, a sua volta, sarebbe scoppiata perché Hitler ha invaso Pearl Harbor.

Brutte prestazioni anche per Fisica con una docente secondo cui la forza di gravità è uguale a 10, mentre un professore di Matematica, dopo aver dato un esercizio da svolgere a un candidato, si sarebbe rivolto vero il collega di Scienze ammettendo con candore: «Controlla tu, io con i numeri mi confondo».

Un tempo c’erano Gino e Michele, con le loro formiche a farci ridere… oggi la realtà. Peccato che in alcuni casi, più che ridere ci sia da piangere!

 

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DIO, UN PO’ MEFISTOFELE…

Un uomo, in un bar, ogni giorno. Seduto in un angolo, con gli occhi tristi e stanchi. Un uomo senza nome, senza casa e senza sonno.

Un’agenda e tante persone addolorate, piegate, sconsolate che lo cercano e lui è lì per aiutarle. Purchè portino a termine compiti spietati, malvagi, crudeli.

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DEUS EX MACHINA, UN PO’ MEFISTOFELE

L’uomo è seduto a quel tavolo, e attende. Attende che i suoi “clienti” gli chiedano aiuto, si riflettano nel suo volto che è anche uno specchio oltre che rappresentazione di uno spietato deus ex machina del gioco al massacro, in cui o si scende a patti con la propria coscienza, con se stessi, con gli altri o ci si ribella alla richiesta, percorrendo un’altra strada.

Il viso dell’uomo senza nome porta con sé tutto il dolore, la stanchezza del mondo e, nonostante questo, assegna compiti infliggendo terribili condanne. Dando forma alle paure, alle ansie, alle angosce e ai desideri di tutti coloro che vogliono migliorare la propria vita, uscire dalla crisi, dal buio, ritrovare la propria strada, e forse finalmente essere felici.

Si entra in un castello kafkiano scuro e oscuro, stando accanto a quell’uomo che dà possibilità di vite alternative, come farebbe Dio, o forse Mefistofele (“Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?“), in realtà però tutto e profondamente umano.

Così si accomodano a quel tavolo, per la “partita a scacchi” della vita, un poliziotto in lotta con se stesso e con il figlio; una suora che non sente più la voce di Dio e la ricerca con immensa sofferenza; un giovane cieco che ha un solo desiderio, vedere di nuovo; un padre che vuole salvare il proprio bimbo dal cancro; un meccanico che sogna di passare la notte con la donna da calendario. Il deus pagano ascolta e mostra a ciascuno la strada per raggiungere la propria felicità – che vuol dire danneggiare quella degli altri – e emerge chiaramente una domanda: cosa si è disposti a fare per avere ciò che si desidera?

The Place è tutto questo e molto di più. Un film che chiede allo spettatore di essere o dentro o fuori: se si sceglie la prima via si partecipa, scendendo in un inferno in terra, alle vite di questi uomini e donne afflitti e segnati, di essere partecipe della cognizione del dolore.

Non mostra mai tutto, fa immaginare, mette nella condizione di cercare le risposte (Cosa avremmo fatto noi al posto loro?), eviscerare il dentro per portarlo fuori, lega i personaggi del film in maniera sadica, spaventosa e machiavellicaQuesti uomini e queste donne incredibilmente si incrociano in maniera crudele senza sapere però gli uni delle altre e il corso della vita dei primi in qualche modo condiziona quello delle seconde.

Violentare una donna, far scoppiare una bomba, insabbiare una denuncia di violenza; un Dio buono e giusto non chiederebbe mai nulla di tutto ciò, ma qui colui che offre la felicità è il più disgraziato di tutti, il più dannato, il più errato tra gli errati. Un “dio” fuori dagli schemi che forse dio non è, la cameriera Angela, pura luce, rispetto al buio di The Place, gli chiede se fa lo psicologo…

Ma lui non può tutto (“non ho tutto sotto controllo, le cose non dipendono da me”), non può indicare l’alternativa giusta, non tira i fili né scioglie i nodi di giorni imperfetti, l’uomo ha ideato il meccanismo ma poi a ciascuno dei questuanti spetta l’ultima parola. Non ci sono obblighi, c’è la possibilità di “rescissione del contratto”.

The Place è un film sul libero arbitrio, arma potente nelle mani dell’uomo, ciò che lo rende “l’essere” che è, è un film sull’affermazione di sé.

THE PLACE: IL RACCONTO DEL MALE NASCOSTO DENTRO DI NOI

Camminano paralleli e convivono, il bene e il male. Declinabili in tutte le loro sfumature, spietatezza e amorevolezza, amore e morte. Come in un girone dantesco lo spettatore si trova in mezzo alla sofferenza che il protagonista tocca con mano, assorbendone la portata devastante.

The Place non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro, racconta di chi deve anche commettere uno sbaglio per vivere meglio. Si tratta quindi, fino ad un certo punto, di vedere e parlare con il proprio lato oscuro.

Alla fine l’uomo senza nome è stremato, parlano i segni d’espressione, le occhiaie profonde, i gesti limitati dalla mancanza di movimento – c’è un’unità di luogo talmente radicata da provocare un senso di claustrofobia.

Crolla per umanità e a farlo cadere è Angela, nomen omen; l’unica a domandare, insistere, vuole sapere chi è lui, vuole farlo sorridere, lo guarda da lontano, lo osserva come si fa con i misteri e solo alla fine arriva al suo intento. Lei riesce a entrare nel suo mondo, è la (sua) coscienza che gli permette di vivere un attimo di pace, lo rende “debole” e così lui esce dal suo “personaggio”, si apre a qualcuno e si alza dalla sedia.

Tanto il senza nome è misterioso tanto lo è Angela, delicata e calma, sicura e potente, affascinante e disarmante; il Titano infatti timidamente sorride e metaforicamente se ne va (l’indomani mattina il bar è vuoto) lasciando dietro di sé un portacenere in cui c’è l’ennesimo, forse l’ultimo, foglio di carta (testimonianza dei compiti portati a termine) bruciato.

The Place è un film sul malvagio che c’è in ciascuno di noi ma è anche un film sulla speranza, nascosta dietro a un incontro semplice e banale. Questo è un quadro doloroso, nero, claustrofobico, è un urlo silenzioso, lunghissimo e straziante, è il racconto di un uomo che non è un mostro ma che dà da mangiare a molti mostri.

Ed è assolutamente da vedere…

VITTIMA, PERSECUTORE O SALVATORE? Quale ruolo interpreti durante liti e discussioni?

C’è Roberto che rimprovera spesso Sonia di essere poco collaborativa, di non pensare per la squadra e c’è Giorgio che interviene in difesa di Sonia, dando spiegazioni e cercando di placare Roberto, ma viene a sua volta accusato da entrambi di intromettersi dove non richiesto. Così irritato e frustrato si alza e lascia la riunione.

Chi non si è mai trovato in una situazione simile? Chi non ha avuto la tentazione di trincerarsi nel ruolo di vittima, impotente e innocente e poi di colpo ritrovarsi ad accusare in tono rabbioso l’altro, delle proprie difficoltà?

Forse non ne siete consapevoli ma diatribe e conflitti che animano luoghi di lavoro e ambienti famigliari, sono sempre gli stessi e identico è lo schema di accuse e alleanze nonchè i ruoli che si rivestono all’interno di queste situazioni. Proprio come avviene a teatro. Non a caso questa dinamica viene considerata da Eric Berne, il padre dell’analisi transazionale un gioco psicologico ossia “una serie di transazioni ripetitive a cui fa seguito un colpo di scena con uno scambio di ruoli, un senso di confusione accompagnato da uno stato d’animo spiacevole come tornaconto”.

E ogni qualvolta giochiamo dei “giochi”, discutiamo, litighiamo, entriamo in uno di questi tre ruoli di copione: vittima, persecutore, salvatore.

Tutti tendiamo ad affrontare la vita scegliendo di giocare da una posizione di forza. Non è sempre chiaro, a chi lo interpreta, quale sia il suo ruolo preferito: non è raro, ad esempio, che una persona che si sente vittima perseguiti in realtà chi gli sta attorno (e che quindi sia in realtà un persecutore). Ruoli che sono tipici nelle favole: Cenerentola, per esempio, è la classica Vittima, che subisce le angherie di matrigna e sorellastre, ma riceve un aiuto addirittura da tre Salvatori: fatina, topini, principe. Vittima (del lupo) è anche Cappuccetto rosso, salvata dal cacciatore.

Stephen Karpman nel 1968 ha ideato uno strumento semplice e potente per analizzare i giochi, o meglio gli stili di interazione: il triangolo drammatico. In questo schema, ad ogni vertice della figura geometrica, corrisponde un ruolo: vittima, persecutore, salvatore. Ognuno di questi ruoli permette a chi lo gioca di soddisfare alcuni bisogni egoistici, di volta in volta mascherati dietro a comportamenti apparentemente di segno opposto, tutti legati da una unica emozione di fondo: il senso di colpa.

I tre ruoli si alternano tra i personaggi e ogni ruolo è negativo perché si alimenta di debolezze, manipolazioni e svalutazioni. Da qualunque ruolo si inizi, si va inevitabilmente a finire in quello della vittima. Infatti il comportamento del salvatore o del carnefice crea dentro di noi paura, sensi di colpa e inferiorità. Il che genera umiliazione, rabbia, e si sfocia nel vittimismo.

IL PERSECUTORE

Il persecutore (è tutta colpa tua!) è critico, oppressivo e giudicante. Si sente superiore e bullizza la vittima. In questo modo evita i propri sentimenti e le proprie paure. Assume potere sugli altri attraverso la forza, la minaccia e l’aggressività. Usando l’intimidazione e l’inquisizione, gioca un gioco manipolativo che serve a creare una corte di persone sottomesse da dominare ed usare. L’aggressività non sempre è fisica, anzi spesso è verbale, morale e psicologica. Sarcasmo, critica, giudizi forti e taglienti, atteggiamento supponente, sono le sue armi. L’effetto che queste sortiscono è la confusione e la paura, in questo modo la vittima finisce per fare ciò che il persecutore ordina. Il persecutore nel momento in cui critica o diviene aggressivo, mette in atto proprio i comportamenti che rimprovera agli altri e dai quali dice di difendersi. Dietro un’immagine di forza e aggressività nasconde paura e debolezza.

LA VITTIMA

La vittima (povero me!) è la persona che ottiene attenzione: sia persecutore sia salvatore si concentrano su di lei. Il ruolo di vittima permette di evitare l’assunzione di responsabilità e soddisfa il bisogno di dipendenza della persona; la vittima cerca un capro espiatorio da incolpare dei propri errori. I suoi sentimenti hanno a che fare con il sentirsi oppressa, accusata, senza speranza. Questa persona appare incapace di prendere decisioni, di risolvere problemi e trovare soluzioni. In realtà, la vittima non è sempre realmente vittima, ma agisce come tale; dietro un atteggiamento addolorato e debole nasconde una grande forza e una notevole attitudine manipolatoria. Non si lamenta e non chiede direttamente. È in continua posizione d’attesa e di pretesa dagli altri. Rimane stupita e offesa quando gli altri non comprendono i suoi bisogni e i suoi desideri inespressi. La vittima è ipersensibile nell’interpretare gli avvenimenti come congiure della sorte contro di sé, come ingiustizie che “tutti” fanno nei suoi confronti. Da questa posizione di grande disagio passa facilmente al ruolo di persecutore attaccando e accusando persone e avvenimenti per mettere ordine di fronte a tanta ingiustizia.

IL SALVATORE

Il salvatore (ti aiuto io!) accorre in aiuto della vittima quindi apparentemente si preoccupa dei bisogni altrui.  Aiuta la vittima e le permette di restare vittima, sollevandola da ogni responsabilità e allo stesso tempo consente al persecutore di continuare ad attaccare. Si aspetta dagli altri gratitudine e riconoscenza e il non riceverle, potrebbe trasformarlo in persecutore.  Accorrendo in aiuto della vittima si sentirà moralmente superiore  e allo stesso tempo sollevato dall’affrontare le proprie difficoltà. Nel giocare il ruolo del salvatore la persona trova un apparente momentaneo sollievo alla propria solitudine, al proprio isolamento creando l’illusione di vivere una relazione affettiva. Il salvatore esprime bontà e interesse, ma in realtà nasconde bisogni personali e solitudine. Si crea così il paradosso di un aiuto dato per il proprio bisogno, in cui l’aiuto non richiesto può essere colto come un’invasione, una prevaricazione soffocante. La paura di non valere, di non avere diritto ad esistere, di non essere riconosciuto scatena una rabbia focalizzata verso il proprio interlocutore: il salvatore finisce per assumere il ruolo del persecutore.

COME USCIRE DAL TRIANGOLO DRAMMATICO

Non è facile interrompere questo tipo di relazione. Ognuno è inconsapevole di cosa sta accadendo, prova sensazioni molto sgradevoli ed è confuso dall’intercambiabilità dei ruoli. 

Cerchiamo di capire meglio con un esempio. Due pesci rossi si incontrano e uno chiede all’altro: “Com’è da te l’acqua?”, l’altro gli risponde “Che cos’è l’acqua?”. È proprio questo il centro del problema: non sapere di non sapere. Se non siamo consapevoli di questi ruoli, degli schemi e dei copioni che recitiamo, questi continueranno a esercitare una forza gravitazionale troppo forte, non riusciremo a sfuggirne e continueranno a condizionarci negativamente. 

  • Fermati e osserva, focalizzandoti su di te, sui tuoi sentimenti. Smetti di scappare e comincia, gradualmente, a familiarizzare con il tuo mondo interno.
  • Lascia agli altri la responsabilità della propria vita. Per quanto tu conosca bene colleghi e familiari, evita di “leggere nel pensiero” e di giudicarli. Ti fa rabbia vederli assumere certi atteggiamenti? Sono loro a decidere della propria vita, non tu.
  • Quando in una lite ti senti ingabbiato, prova a guardare con distacco alla situazione per capire quale ruolo stai interpretando e quali emozioni ti portano ad agire in tal senso
  • Allenati, guardando gli altri, a individuare la triade. Ogni soluzione parte dalla presa di consapevolezza!

 

NON sono TURBATO PERCHE’ mi hai TRADITO, ma PERCHE’ NON potrò più FIDARMI di TE!

Il pomeriggio è iniziato da poco, il telefono squilla e ci ritroviamo a confrontarci sulla fiducia. Un valore imponente per tanti, nullo per altrettanti. Per me è molto di più. Per la mia amica e collega è molto di più. E’ quel valore che ci porta irrimediabilmente a fare scelte altruiste che altrimenti non faremmo.

“Quanto inganna la fiducia?”, mi chiede diretta. Così decisa che sull’immediato non ho risposta.

E’ un circolo vizioso la fiducia e talvolta siamo portati a pensare che una volta data e guadagnata sia incorruttibile. In realtà è una finzione. Ci comportiamo come se esistesse veramente, come se fosse un bene tangibile, in realtà è una narrazione e la difficoltà sta nel convincere chi abbiamo davanti a crederla vera. Lo facciamo di continuo, anche inconsciamente.

“Gran parte della Storia dell’uomo gira intorno alla domanda: come convincere milioni di persone a credere agli dei o alle nazioni – mi viene in aiuto Yuval Harari – Quando ci riusciamo ciò ci conferisce un enorme potere, poiché fa sì che un numero rilevante di persone cooperino e agiscano in direzione di obiettivi comuni”. Non necessariamente per il bene comune, però.

C’è sempre un gusto acre difficile da mandare via, quando la fiducia viene meno. In amore, nel business, nell’amicizia. Fidarsi è una necessità dell’uomo, ma non ne siamo padroni, come crediamo.

ORMONI, FIDUCIA E NEUROSCIENZE

Studiando un gruppo di volontari impegnati in un gioco d’azzardo in cui era indispensabile fidarsi delle buone intenzioni degli altri giocatori, Thomas Baumgartner e colleghi dell’università di Zurigo hanno rilevato come l’attività cerebrale dell’amigdala, responsabile dell’attivazione delle più ancestrali reazioni di diffidenza e paura, si riduceva notevolmente quando ai partecipanti venivano somministrate per via nasale molecole di ossitocina.

Ormone che avrebbe un effetto diretto nelle reazioni di dubbio e diffidenza, tanto che, nel corso dell’esperimento, i soggetti che l’avevano assunta finivano con il fidarsi “troppo”, anche quando era palese che gli altri concorrenti stavano tentando intenzionalmente di approfittarsi di loro.

L’ossitocina è l’ormone che il nostro cervello produce quando percepiamo un clima di fiducia. La fiducia, a propria volta, si correla con l’impegno profuso, che si correla con la produttività che, infine, chiudendo il cerchio, si connette con la creazione di valore economico.

Fino a pochi anni fa si pensava che circolasse solo tra le neomamme e che ha per effetto quell’amorevole senso di protezione che la mamma offre alla piccola prole. Oggi si sa che l’ossitocina si può produrre nel cervello di tutti e sempre (con qualche eccezione) nelle situazioni in cui si respira fiducia, connessione, sintonia, quando si ritiene di poter fare affidamento sugli altri e che permette di diventare a propria volta più affidabili.

Le ricerche dell’implicazione dell’ossitocina nel campo economico si devono invece al Prof. Zak, docente di Neuroeconomia.

Il Professor Zak, facendo inalare e inalando lui stesso ossitocina, che dal naso finisce direttamente nel cervello, ha rilevato che, una volta giunta a destinazione, ha effetti diretti sul comportamento prosociale e che, con il suo aumento, le persone sono più generose, più pronte a condividere e ad assumere un comportamento morale. Alti livelli di stress, invece, la bruciano.

OSSITOCINA E AMBIENTE DI LAVORO

Zak ha poi esteso le sue ricerche agli ambienti di lavoro. Quali politiche i manager possono adottare per favorire ambienti ossitocina-centered? Poiché la teoria scientifica conferma che la prestazione delle persone è strettamente connessa al livello di fiducia respirato nel proprio contesto e che quest’ultimo determina impegno e quindi prestazione, è stato coniato l’acronimo OXYTOCIN che offre alcune precise indicazioni a manager, leader, capi di ogni livello e misura:

Ovation: elogiare spesso, visibilmente e anche inaspettatamente
eXpectation: definire obiettivi chiari
Yield: consentire ai collaboratori di scegliere come svolgere un lavoro
Transfer: lasciare che chi fa il lavoro gestisca se stesso
Openness: praticare la trasparenza
Caring: dimostrare interesse per la persona nella sua interezza
Invest: valorizzare i colleghi/collaboratori
Natural: essere autentici

La formula in sintesi del neuroeconomista è la seguente: Fiducia x obiettivo = contentezza. Cioè, oltre ad un ambiente in cui si alimenta la fiducia, il fatto che gli obiettivi siano chiari consente di raggiungere contentezza e motivazione.

La telefonata volge al termine, in realtà l’amaro in bocca rimane. Forse bisognerebbe inventare una sorta di radar preventivo che indichi chi della nostra di fiducia può fare tranquillamente a meno. Forse così non prenderemmo fastidiose cantonate. L’equilibrio è sottile, gli umani sono egoisti, ma ogni tanto ci fa bene dimenticarlo.

Ora vado a cercare uno spray all’ossitocina, chissà che così non mi prenda un’altra sonora fregatura…

Si può ESSERE un OTTIMO TEAM anche senza aver NUOTATO fra gli SQUALI…

Qualche giorno fa, una multinazionale mi ha chiesto se fossi stata disponibile a gestire un team building in cui i top manager avrebbero dovuto nuotare fra gli squali in una esotica località di mare. Pur facendo immersioni ed essendo una nuotatrice che in giovane età ha vissuto l’esperienza nazionale, la richiesta mi ha a dir poco sconcertata. Che utilità aveva far vivere quell’esperienza estrema ai poveri manager prescelti?

L’engagement, il riallineamento, la motivazione all’interno di un gruppo possono essere migliorati in diversi modi, ma quale fattore critico di successo poteva mai avere buttarli in pasto ai pesci?

 TEAM BUILDING: QUESTO SCONOSCIUTO

Il termine team building indica un insieme di metodologie e di attività utili a formare un team orientato a migliorare le proprie capacità di lavorare in gruppo. Fra i primi a interessarsi al concetto di gruppo, gli psicologi sociali Lewin e Tuckeman: il gruppo è più della somma delle singole parti (Lewin, 1948). L’idea di base era che il gruppo è una totalità dinamica in cui i membri sono in interdipendenza e al cambiamento dello stato di uno degli elementi mutano anche tutti gli altri componenti e il gruppo stesso come totalità. Tuckeman propose il modello in 5 fasi, particolarmente utile nei luoghi di lavoro: Forming, Storming, Norming, Performing e Adjourning. Step inevitabili per far crescere il team, affrontare le sfide e raggiungere gli obiettivi.

In altre parole un team non può essere considerato come un mero numero di persone che lavorano insieme: un gruppo ha una dinamica ben precisa che si evolve in fasi e comportamenti diversi.

UNA MODA DEL MOMENTO?

Ragionando sulla richiesta dell’azienda di portare i manager in acque profonde e pericolose, ho dovuto accettare l’idea che questa fosse solo una delle tante mode del momento. Il responsabile delle risorse umane, era infatti a conoscenza delle attività più bizzarre, come camminare sui carboni ardenti, surviving in zone remote dell’Asia, love management, volare con le frecce tricolore e via dicendo. Oltre a mostrarmi un articolo di un noto quotidiano che narrava le gesta di una ventina di manager della Silicon Valley persuasi (o manipolati…) a nuotare tra gli squali dell’acquario di Monterey in California.

Perché un gruppo di persone diventi anche un team di lavoro, occorre che i membri sperimentino un senso di interdipendenza e di coesione, che prendano coscienza delle rispettive personalità, aspettative e delle potenzialità dei propri colleghi. L’idea portante è che attraverso queste attività costruttive e non familiari si affrontino situazioni diverse da quelle tipiche del luogo di lavoro, sfide, difficoltà concrete che permettono di far conoscere le persone in modo approfondito, costruire e potenziare relazioni interpersonali, sviluppare maggiormente l’ascolto, la collaborazione e la fiducia reciproca.

COSA C’E’ DOPO?

Perché ci sia coesione le attività devono dunque essere “divertenti e il divertimento educativo”, per parafrasare il sociologo Marshall McLuhan, ecco perché è opportuno chiedersi se tutte siano davvero utili, efficaci e necessarie allo scopo prefissato. Spesso purtroppo, una volta completato il team building, le persone tornano in aziende dove tutto è rimasto immutato e di innovazione non c’è nemmeno l’ombra.

Al di là del tipo di esperienza che si vuol far vivere ai propri dipendenti ciò che fa davvero la differenza non è tramortirli e stupirli per il tempo di una settimana, ma ripensare nuove competenze, condividere know-how ed esperienze per attivare in un continuum, reali processi di trasformazione umana e reale culture change. Ecco che allora l’intrattenimento, il team building possono farsi precise metafore di apprendimento facili da portare nel contesto organizzativo per accelerare trasformazioni in atto e raggiungere insieme nuovi orizzonti.

L’ARTE di DOMINARE le FOLLE

Quattro colleghi intorno a un tavolo, un caffè che si raffredda, qualche pasta e un collaudato brainstorming per trovare soluzioni laddove è difficile scovarne. E poi, lei, l’economista del gruppo, tutta calcoli e dati che mi guarda accigliata prima di chiedermi “come fanno certi personaggi a calamitare così tanto l’attenzione, pur non avendo poi così tanto da dire? Ad avere seguaci, più che sostenitori pensanti, a creare sette più che luoghi di confronto e scambio? Cosa spinge il singolo a perdere la propria identità?”.

Domanda complessa… mentre rimaneggio la pasta di meliga, cercando di srotolare i pensieri e trovare una risposta concreta, mi viene in aiuto un controverso scrittore francese, apprezzato dai grandi intellettuali del ‘900 e letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini che ne trassero utili informazioni… per conquistare le masse.

Scritto in uno stile semplice, chiaro, metaforico ma anche perentorio, assertivo e ripetitivo, l’opera di Gustave le Bon “Psicologia delle folle” sebbene datata, continua a essere fra i suoi libri più noti. Per propagandare le sue idee. Ma anche profondamente apprezzato, con i tutti i limiti del tempo, per la genialità intuitiva e per la sua funzionalità sul piano del consenso politico.

LA FOLLA: UN’ANIMA COLLETTIVA

La folla, per Le Bon, non è necessariamente un numero immenso di persone radunate nello stesso luogo, piuttosto uno stato d’animo comune, il momento in cui il singolo si libera della sua identità, per fare proprie caratteristiche nuove che lo rendono partecipe di un’anima collettiva.  Una psicologia comune, che lo fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.» E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folla composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori.

Insomma l’intelligenza individuale si perde immediatamente nella folla, abbassandosi ad un grado intellettivo minore. La folla, detto in parole semplici, è limitata.

LA FOLLA HA BISOGNO DI UN PADRONE

La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»

AFFERMAZIONE E RIPETIZIONE

Ma sia i grandi sia i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.»

L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.» Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»

Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo “consiste soprattutto nell’uso della parola”, perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.

«L’irreale predomina sul reale». Il capo può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché la folla non si preoccupa mai di sapere se la guida ha rispettato la proclamata professione di fede.

Nell’eloquio, la tazzina di caffè si è svuotata, le briciole delle paste disegnano strane ombre e senza timidezza i nostri pensieri fanno un balzo in avanti. Le Bon non è mai stato tanto attuale…