PENSARE POSITIVO… Se fosse SOLO un MODO per VENDERCI QUALCOSA?

 

Se si digita “pensiero positivo” su un qualsiasi motore di ricerca, escono una grande quantità di articoli. La maggior parte con il chiaro intento di venderci la formula magica per una vita di successo, ricchezza e ovviamente salute. Ciò che tanti ignorano e a tanti fa comodo che non si sappia, è che pensare positivo non aiuta a raggiungere gli obiettivi, non ci rende persone di successo, non facilita la carriera e non ci rende nemmeno più simpatici.

Molto di ciò che si è detto e si dice sul pensiero positivo come panacea di tutti i mali e acceleratore di successo è falso. Così come è falso credere che sia sufficiente scrivere gli obiettivi su carta per renderli realizzarli.

Quest’ultima falsa credenza si deve a una ricerca che si fa ricondurre a Yale, nel 1953, dove a degli studenti sarebbe stato chiesto se avessero l’abitudine di scrivere gli obiettivi che intendevano raggiungere. Solo il 3% degli intervistati avrebbe risposto positivamente. Vent’anni dopo le stesse persone sarebbero state ricontattate, scoprendo che quel 3% rappresentava l’80% della ricchezza del paese. Questo studio viene citato ancora oggi per vendere alle persone il metodo infallibile per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se così fosse, saremmo tutti persone di successo. Ciò che però molti non sanno è che quello studio non è mai stato svolto: è un falso. A scoprirlo, nel 1996, è stato Lawrence Tabak, giornalista della rivista Fast Company, su cui scrisse anche un pezzo: “If your goal is success, don’t consult these gurus” (Se il tuo obiettivo è il successo, non consultare questi guru).

Per comprendere meglio il fenomeno occorre però andare ancora più indietro nel tempo.

KEEP CALM AND CARRY ON

Se siete stati in un qualsiasi souvenir shop di Londra, non avrete potuto non notare la scritta Keep calm and carry on, impressa ovunque, dalle tazze da the, alle magliette, a una marea di accessori di ogni genere.

Nel 1939il governo inglese commissionò al ministero dell’Informazione una serie di poster di propaganda, con l’obiettivo di rassicurare i cittadini preoccupati per l’imminente conflitto. Furono realizzati tre diversi modelli, utilizzando un font creato appositamente e la corona Tudor come “marchio di garanzia”.

La versione Keep calm and carry on – di cui furono stampate 2,5 milioni di copie – fu tenuta da parte, per essere utilizzata solo in casi di grave crisi o invasione. Per tutta la durata del conflitto il Ministero dell’Informazione non ritenne opportuno diffondere l’ultima versione del poster, che non fu quindi mai mostrata al pubblico.

Per oltre 50 anni le copie furono conservate in qualche remoto archivio del Regno Unito, fino a quando, nel 2000, i proprietari di una piccola libreria si aggiudicarono all’asta un baule contenente libri usati. All’interno scoprirono il manifesto, che diventò subito richiestissimo prima tra i clienti del negozio e poi in tutta Europa.

Testate come il Guardian, The Independent e il New York Times si interrogarono sul perché questo poster riscuotesse tale successo, collegandone la fama al clima politico depresso e alla crisi economica che nel 2009 ricordavano il periodo pre-bellico.

Nonostante il contesto sia cambiato, una marea di coach, formatori, fanatici del fitness, guru spirituali e quant’altro continua a proporre la propria visione del mondo, frasi e post motivazionali dove, dicono, tutto è raggiungibile, se vuoi, e se non riesci è solo perché hai pensieri negativi.

TOXIC POSITIVITY

L’estremizzazione del pensiero positivo è stato chiamato in diversi modi: “Toxic positivity”, “Oppressive positivity”, “Fake positivity”, tutti termini che si riferiscono sia alla cultura dell’ottimismo tout court sia alla rigogliosa industria che la sostiene: il problema non è condividere la scritta “Stay positive” o frasi motivazionali, ma il fatto che chi le posta sta cercando di venderci qualcosa, con la promessa di cambiare le nostre vite in meglio. E poco conta se tanto ardore positivo abbia ben poca presa sulla sua…

Ciò che è utile sottolineare è che l’approccio, promosso da Martin Seligman ex presidente della American Psychology Association, divenuto famoso per i suoi studi sulla psicologia positiva, si concentrava sull’aspetto patologico della salute mentale, e non sull’ottimismo e la felicità. Questi concetti introdotti vent’anni fa, vengono spesso svuotati e semplificati per un consumo immediato diventando, come dice Nicholas Gilmore sul Saturday Evening Post, materiale “da workshop motivazionali e meeting aziendali”. Il marketing ha sempre sfruttato la felicità per venderci di tutto, ma ora sembra che si sia creata una “meta-industria” che usa questi valori non per proporci un prodotto, ma la felicità in sé.

Il sistema si autoalimenta in modo sapiente ma lascia poco spazio al pensiero critico: la falsa positività ci induce a nascondere le emozioni negative e riduce la complessità dei nostri sentimenti portandoci a valutare tutto in modo binario: buoni e cattivi, felici e tristi… che a lungo andare si rivela nocivo. La repressione genera frustrazione, e di conseguenza nuove emozioni negative: non basta fare pensieri felici per essere felici, anzi, questa convinzione può rivelarsi controproducente. Secondo due studi pubblicati dalla rivista scientifica Motivation and Emotion, le persone che credono che le proprie emozioni possano essere cambiate con la forza di volontà e la positività sono più inclini a incolparsi per le proprie emozioni negative.

L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o tristi: la falsa positività è una forma di gaslighting, che invalida emozioni che tutti proviamo, con l’aggravante di farlo spesso nel nome del profitto.

LA CHIAVE è NELLA AGILITA’ EMOZIONALE

Essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale”, ha spiegato la psicologa della Harvard Medical School Susan David in un Ted Talk, “Alle persone col cancro viene detto che basta pensare positivo. Alle donne viene detto di non essere così arrabbiate. E la lista va avanti. È una tirannia. È la tirannia della positività, ed è crudele, ingiusta e inefficace”. La cosa fondamentale per sottrarsi a questo dominio dell’ottimismo è interpretare le emozioni non come un’imposizione, ma come dati da cui partire per analizzare la propria condizione. Secondo la studiosa, la chiave è nella ‘agilità emozionale’. Uno strumento che consentirebbe di silenziare il giudizio sulle proprie emozioni, fino al punto di smettere di chiedersi se esse siano giuste o sbagliate. Per raggiungere questo obbiettivo può essere utile chiamare le emozioni con il loro nome. Rabbia con rabbia, odio con odio e non un generico ‘sono stressato’.

A sfatare l’idea che il pensiero positivo sia la soluzione ci hanno pensato anche Gabriele Oettingen e Thomas Walden dell’Università della Pennsylvania, i quali hanno seguito, per un intero anno, delle donne in sovrappeso iscritte a un programma di dimagrimento.

A inizio dieta, i ricercatori hanno sottoposto le donne a una serie di domande su come avrebbero affrontato l’anno, classificando le risposte sulla base della loro positività o negatività: quelle che davano importanza agli aspetti negativi della motivazione (“Non voglio mai più vedermi grassa”) e quelle che prestavano attenzione agli aspetti positivi (“Non vedo l’ora di poter indossare quei vestiti”).

Terminato l’anno, i ricercatori hanno scoperto che le donne motivate dal pensiero positivo erano dimagrite 12 kg in meno rispetto alle altre. Oettingen ha poi ripetuto questi studi anche in altri contesti, ottenendo risultati simili.

Non dimentichiamo quindi che il Keep calm and carry on serviva a nascondere agli inglesi che sarebbe arrivata l’invasione nazista.