PERCHE’ ci AFFIDIAMO alle FAKE NEWS?
Immancabilmente come i tormentoni musicali da spiaggia, allo stesso modo anche le fake news sono diventate la compagnia fissa delle nostre giornate. Impossibile non accendere radio e tv o sfogliare un giornale senza incapparci, nonostante tutte le tattiche che mettiamo in atto per seminarle (e non diventarne vittime inconsapevoli).
Eppure la disinformazione è sempre esistita, la differenza è che oggi ha la strada spianata, grazie a internet che si sta rivelando una piattaforma ideale per la diffusione, la moltiplicazione e l’acritico consumo di fatti infondati.
Una cosa che va tenuta a mente, quando si tratta di abbattere la diffusione delle fake news, è che i fatti non ci fanno cambiare idea, nemmeno se suffragati da dati e documenti. Neanche se sono veri e corretti. A dirlo numerosi studi, fra cui quello del 2010 di Nyhan e Reifler: “chi è disinformato non solo rimane ancorato alle proprie opinioni, anche se confutate, ma tende a radicalizzarle fino all’estremizzazione, entrando di fatto in una sorta di stato di difesa dei propri pregiudizi”.
Questo comportamento detto in gergo backfire effect (ritorno di fiamma) porta a rifiutare a priori e a reagire aggressivamente di fronte a tutto ciò che mette in crisi le nostre opinioni: in pratica, combattere la disinformazione con i fatti è come cercare di spegnere con l’acqua un fuoco originato da olio: può sembrare efficace, invece peggiora le cose.
Per confutare la disinformazione, la soluzione si chiama debunking, ma il processo è tutt’altro che automatico in quanto i giudizi errati continuano a condizionare il pensiero, anche una volta corretti.
Fra i maggiori studiosi dei meccanismi di diffusione di disinformazione su internet, Walter Quattrociocchi dell’IMT di Lucca che ha analizzato migliaia di post e interazioni fra utenti su FB, dividendoli in due categorie: quelli a contenuto scientifico e quelli cospirazionisti.
I risultati mostrano l’esistenza di “echo chambers”, comunità polarizzate di utenti che selezionano e condividono contenuti relativi ad un tema specifico, ignorando il resto. La conclusione a cui è arrivato è che i confirmation bias riforniscono queste echo chambre (community) che a loro volta promuovono la diffusione dei contenuti sul social. Ma se le notizie scientifiche tendono a diffondersi all’inizio della loro vita, le dicerie cospirazioniste hanno durata estesa su FB.
Quattrociocchi ha poi esplorato l’apprendimento di notizie analizzando 920 nuovi canali di informazione e 376 milioni di utenti: le persone che prendono informazioni da FB limitano la propria ricerca a pochi siti, nonostante il grande numero di nuove fonti disponibili.
Se alla segregazione nelle community, a cui gli utenti rimangono morbosamente fedeli (a causa di una pseudo sindrome che associa l’herd – gregge -, l’ingroup e il band wagon effect quest’ultimo ci porta a fare nostra un’opinione quando è condivisa da tante persone) si associa l’estrema semplificazione dei contenuti volta a massimizzare il numero di like, ecco che i social diventano il luogo ideale nel quale la disinformazione si può diffondere. Su questo l’università di Harvard mette in guardia perché è ciò che può seriamente danneggiare la deliberazione democratica.
D’ora in avanti quando vi incaponite a difendere una notizia o uno studio scientifico che non avete elaborato o condotto voi, chiedevi la ragione di tanto fervore perchè è probabile che qualche effetto dal nome improbabile si sia attaccato al vostro ragionamento come una fake news ai titoli dei giornali…