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Per ESSERE più ATTRAENTE agli OCCHI del CLIENTE, USA l’EFFETTO PRATFALL

Sul palco una persona autorevole e sciolta sta terminando magnificamente il suo speech. Ogni slide è ben strutturata, i video coinvolgenti. La platea è estasiata.

La presentatrice successiva sale sul palco, collega il laptop e mentre la prima slide viene proiettata, accade un imprevisto, lo schermo si oscura e il sistema va in blocco.

Il pubblico rimane in silenzio, fin troppo consapevole dell’orrore che l’oratrice deve provare. Passano una decina di secondi (che sembrano un’eternità), poi la speaker si rivolge al pubblico: “Mi dispiace, ovviamente speravo di attirare la vostra attenzione, ma non in questo modo! Immagino che sarà una presentazione senza PowerPoint. Chissà, potrebbe anche essere meglio“. Il pubblico ride e la relatrice inizia il suo discorso, continuando a parlare in modo coinvolgente per venticinque minuti, scrivendo di tanto in tanto qualcosa sulla lavagna a fogli mobili, per enfatizzare o illustrare ciò che sta dicendo. Mentre conclude, si scusa ancora una volta per il contrattempo, e lascia il palco sotto un’ovazione.

In qualche modo le sue parole sembrano aver fatto un’impressione migliore di quella del suo bravissimo predecessore.

Quello che ho appena raccontato è noto come effetto Pratfall , termine coniato dallo psicologo Eliot Aronson, nel 1966. I ricercatori hanno scoperto che l’attrattiva di una persona può essere migliorata commettendo un errore (ma attenzione: diminuisce l’attrattiva di una persona mediocre), in quanto la fa sembrare più umana.

Non finisce qui. Quando sei bravo, davvero bravo nel tuo lavoro, sempre, le persone tendono ad abituarsi a prestazioni di alto livello e arrivano a darle per scontate. Se ti trovi a gestire bene un imprevisto, cambi la loro prospettiva e scalfisci ciò che ormai inconsapevolmente danno per scontato di te.

PRATFALL IN AZIENDA

Esattamente lo stesso può applicarsi alle aziende e alle aspettative che hanno, di loro,  i clienti. Pensa alle tue utenze o al tuo provider Internet. È naturale che la luce si accenda quando si spinge l’interruttore e che l’acqua scorra dal rubinetto quando lo si apre. È naturale che ogni volta che controlli la posta elettronica, cerchi gli orari di apertura del negozio di abbigliamento o desideri guardare un determinato video su you tube e la tua connessione Internet eseguano i tuoi comandi.

È difficile per queste aziende offrire un’esperienza eccezionale quando i clienti si aspettano (e generalmente ricevono) livelli di servizio molto vicini al 100%.

Quando le aziende offrono regolarmente al consumatore un servizio esemplare, la differenziazione può venire solo dalle eccezioni: quando cioè accade qualcosa di imprevisto.

Ironia della sorte, più alte sono le aspettative, più importante è garantire che la risposta a un evento non di routine sia altrettanto buona. Se i clienti presumono di essere soddisfatti solo per l’85% delle volte, la delusione non è così insolita ed è più probabile che la accettino rispetto a quando la norma di soddisfazione è il 99,9%. Lo 0,1% delle volte in cui un cliente è insoddisfatto influenzerà in modo sproporzionato l’esperienza complessiva del cliente. Questo è il parametro in base al quale le persone ti giudicheranno davvero .

Molti rivenditori hanno spostato la loro attività online a causa del COVID-19. Se sei uno di loro, non limitarti a stabilire processi chiari, veloci e snelli, ma assicurati anche di gestire al meglio gli errori occasionali. Il benchmark è stato fissato dal più grande rivenditore online del mondo (che non ha bisogno di presentazioni).

Ma anche nei centri commerciali o nei negozi al dettaglio le cose possono andare storte: una camicia danneggiata, un componente mancante, un difetto di fabbricazione, un errore nella prenotazione di un biglietto aereo, una doccia gocciolante in hotel, una bistecca mal cotta, sono tutti eventi inaspettati in cui hai l’opportunità di brillare e mostrare ciò che il cliente significa per te.

Le persone tra il pubblico non hanno immediatamente sminuito la sfortunata oratrice: sapevano che sarebbero accaduti degli imprevisti. E’ il modo in cui ha risposto che ha rafforzato la sua competenza, più di quanto avrebbe fatto una performance impeccabile. Allo stesso modo, le aziende possono brillare quando qualcosa va storto, attraverso il modo in cui affrontano il problema.

Se ci fai caso, il relatore precedente, pur avendo fatto una presentazione precisa, divertente e attenta verrà presto dimenticato, perché superato nei ricordi dalla oratrice che è riusciuta a gestire una situazione tutt’altro che semplice. I clienti ricordano positivamente le aziende che li impressionano con la loro competenza quando devono affrontare un problema inaspettato, anche se la colpa del problema è attribuibile alla stessa azienda.

Perché l’esperienza del cliente è, in larga misura, uno storytelling di imprevisti.

E se gli INCENTIVI OSTACOLASSERO INNOVAZIONE e PROBLEM SOLVING? Mettiti alla prova con il problema della candela

Ti va di testare la tua capacità di problem solving?

Hai una candela, una scatola di fiammiferi e una di puntine, il tutto su un tavolo vicino a una parete. L’obiettivo è, usando solo gli oggetti indicati “fissare la candela alla parete in modo tale che la cera non cada nè sul tavolo né sul pavimento”.

Fai partire il cronometro e trova la soluzione, in meno di 7 minuti.

Il problema della candela” è l’esperimento condotto dallo psicologo tedesco Karl Duncker nel 1945. Non sembra un quesito complesso da risolvere… all’apparenza!

Eppure una parte di coloro che vengono messi alla prova tendono a iniziare cercando di inchiodare la candela alla parete, con scarsi risultati. Altri di sciogliere la candela per incollarla alla parete, ma nemmeno questa è una buona idea poiché la cera cade ugualmente sul tavolo. Dopo una media di 7 minuti, i partecipanti giungono alla miglior soluzione: utilizzare la scatola delle puntine come base per sostenere la candela e fissare la scatola alla parete utilizzando le puntine.

LA SCOPERTA DI DUNCKER

Duncker scoprì che i risultati dell’esperimento cambiavano se gli elementi venivano presentati in modo diverso. Per esempio, presentando una scatola contenente puntine (illustrazione A) o le puntine fuori dalla scatola (illustrazione B), nel secondo caso le persone tardavano meno nella risoluzione del problema.

La spiegazione è semplice: nel primo caso i partecipanti credono che la scatola possa unicamente contenere le puntine e, di conseguenza, non giungono a considerare la possibile soluzione. Questo fenomeno prende il nome di Fissità Funzionale e consiste nel fissarsi sulla funzione di un elemento, in questo caso la scatola delle puntine. Detta in altri termini ci rende in grado di vedere soltanto le soluzioni che implicano l’impiego di oggetti nel modo più consueto e mette in pericolo la nostra capacità di ideare soluzioni nuove per risolvere un problema.

La fissità non è di per sé totalmente negativa, ma potrebbe risultare limitante, poiché chiude la porta a molte possibilità che potrebbero renderci le cose più facili o persino aiutarci a risolvere problemi non così complicati.

IL POTERE DEGLI INCENTIVI

L’esperimento venne ritentato, con l’aggiunta di una ricompensa, anche da Sam Glucksberg professore a Princeton.

Glucksberg ha costituito due gruppi.  Al primo gruppo ha detto: “Vi cronometro per creare un riferimento, il tempo medio che richiede la soluzione di questo tipo di problema.”
Al secondo gruppo ha offerto premi: “Chi finisce nel 25% dei più veloci, avrà ( x ) dollari. Il più veloce avrà, invece ( y ) dollari”. Le persone del secondo gruppo hanno impiegato, in media, tre minuti e mezzo in più, del primo gruppo, di coloro cioè a cui non veniva dato alcun incentivo economico.

Controintuitivo…

Di solito, affinchè le persone rendano di più, le si premia. È così che funziona il mercato. Ma in questo caso non funziona. C’è un incentivo diretto ad affinare il pensiero e accelerare la creatività. E funziona esattamente all’opposto. Offusca il pensiero e blocca la creatività.

La cosa interessante di questo esperimento è che non è un caso anomalo. È stato ripetuto più e più volte, per 40 anni. Gli incentivi condizionati, ossia se tu fai questo ottieni quest’altro, funzionano solo in alcune circostanze. Ma, per molti incarichi o non funzionano, o sono controproducenti. Si tratta di una delle scoperte più solide delle scienze sociali. E anche di una delle più ignorate.

Glucksberg propose l’esperimento anche nella modalità B, con le puntine fuori della scatola: un gruppo veniva cronometrato e all’altro venivano dati incentivi.
Il gruppo con gli incentivi ha stracciato l’altro gruppo. Perché? Perché quando le puntine sono fuori dalla scatola è più facile arrivare alla soluzione e non è richiesto eccessivo ragionamento.

Gli incentivi funzionano benissimo per attività in cui ci sono regole semplici e un chiaro traguardo da raggiungere. Le ricompense, per loro stessa natura, concentrano l’attenzione, restringono il pensiero. Ecco perché funzionano in tanti casi. E così, in attività come questa, con l’attenzione concentrata e l’obiettivo ben chiaro, funzionano ottimamente.

Ma con il vero problema della candela, illustrazione A, non è così. La soluzione non ce l’abbiamo davanti. La soluzione è alla periferia. Occorre guardare il contesto e la ricompensa restringe l’attenzione e riduce le  possibilità.

Non convinti, gli scienziati hanno riproposto il test a Madurai, in India, dove la vita media costa meno. A Madurai, una ricompensa che per i nordamericani è modesta là è molto più significativa. Stesso schema. Un gruppo di giochi, tre gradi di ricompensa. Le persone a cui avevano offerto il premio medio non hanno fatto meglio di quelli a cui avevano offerto quello minore. Ma stavolta quelli a cui avevano offerto il premio più alto sono andati peggio di tutti. Otto volte su nove, incentivi maggiori hanno condotto a esiti peggiori.

A condurre esperimenti sono stati gli economisti del MIT, della Carnegie Mellon, dell’Università di Chicago e della London School of Economics.  Gli economisti della LSE hanno esaminato 51 studi di piani d’incentivazione aziendali per risultati, all’interno di società. Ecco cosa hanno detto:

Troviamo che gli incentivi economici possono produrre un impatto negativo sul risultato globale.

IL GAP FRA QUANTO LA SCIENZA SA E CIO’ CHE LE IMPRESE METTONO IN ATTO

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Molto più produttivo è un approccio basato sulla motivazione interna. Sul desiderio di fare cose perché hanno senso, perché ci piacciono, perché sono interessanti, perché fanno parte di qualcosa di importante.

Ricapitolando ciò che sa la scienza:

1) I premi tipici, questi motivatori che pensiamo siano la parte naturale del mercato funzionano, ma solo in casi sorprendentemente limitati.

2) Gli incentivi spesso distruggono la creatività.

3) Il segreto per risultati di alto livello non sta nei premi o nelle punizioni, ma nella pulsione interna che non si vede. La pulsione a fare le cose per il loro valore. La spinta a fare le cose perché hanno senso.

COLLEFERRO: è TUTTO più COMPLESSO, è TUTTO TRAGICAMENTE BANALE

Non seguo volentieri la cronaca nera, mi lascia sempre l’amaro in bocca. La ricerca compulsiva dello scoop e del sensazionalismo, camuffata in affannosa ricerca della verità, non solletica il mio interesse. Anche i recenti fatti accaduti a Colleferro, non sono da meno. Anche se, ancor più che in altri casi, è difficile sottrarsi alla lettura, non c’è Media o Social che non ne parli, mescolando le carte con la stessa bravura di un baro professionista.

Così sfoglio qualche pagina, non ritrovandomi in quasi nessun racconto. La violenza esplicitata, non è figlia del fascismo. Anzi ha ben poco a che fare con il credo politico. In questo caso. La violenza cieca e inutile, esercitata su Willy Monteiro Duarte è un atto estremo di teppismo e brutalità. La banale violenza, per parafrasare Anna Arendt, che sembra ancor più feroce, perché troppo semplice da comprendere.

Un conto è avversare, un altro è odiare – sostiene il teologo e uomo di grande cultura Vito Mancuso – L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Al di la della dotta filosofia, la scienza è meno corretta e poco si preoccupa di cercare consensi. Pochi sanno, infatti, che le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa, per eventuali negazionisti rimando allo studio: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

IL CERVELLO CHE ODIA

Nello studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati a osservare immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

E’ emerso che la vista della persona odiata attiva particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso sostiene che “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati. Forse.

Senza contare che al concetto di bene, ognuno può dare la connotazione che vuole, proprio come hanno fatto i ragazzi di Colleferro… Ecco perchè è altrettanto difficile aspettarsi il pentimento. Alla fine quindi la politica, di qualsiasi schieramento, ha ben poco a che fare… E’ tutto più complesso, è tutto (più) tragicamente banale!

Per CAMBIARE ABITUDINI, 21 GIORNI NON BASTANO!

“Vorrei che i miei dipendenti cambiassero atteggiamento” … “Vorrei che i miei collaboratori fossero più assertivi, collaborativi, puntuali, simpatici, performanti…” … “Ho bisogno che lei cambi il loro comportamento” …

Generare cambiamento è una delle richieste che più facilmente mi muovono le aziende. Purtroppo però, il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, anche se mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in una abitudine o per cambiarne una. Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno che occorra rimuovere le cattive abitudini.

Chi dispensa tali consigli non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

1) un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

2) un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

3) una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere. Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare. Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo infatti a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia. In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso. Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione. E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante “dimostrare” che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza. Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento.  Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

UTILIZZARE MALE il NEUROMARKETING fa PERDERE CLIENTI!

C’era una volta un pastorello, che annoiato di portare, ogni giorno, le pecore al pascolo, decise di fare uno scherzo agli abitanti del villaggio. “Al lupo! Al lupo!” prese a gridare. Accorsero tutti, con forconi e randelli, ma non videro niente. Il pastorello, ridendo a crepapelle, si beò dello scherzo riuscito. E così rifece il giorno dopo e quello dopo ancora. Fino a che, inaspettatamente, arrivò un branco di lupi. Il pastorello cominciò a gridare disperato: “Al lupo! Al lupo!”. I contadini, questa volta però, non accorsero. Così, i lupi poterono fare strage di pecore e agnelli indisturbati.

Questo è un po’ ciò che sta avvenendo in molte aziende, quelle che imperterrite applicano principi di Neuromarketing e scienze economiche comportamentali in modo rigido, senza preoccuparsi dell’imprevedibilità umana.

Una delle ultime ricerche, dimostra infatti che due fra le strategie di marketing più utilizzate e quindi più abusate, sono ormai inefficaci se reiterate in modo sistematico: il principio di scarsità (sono rimaste solo tre stanze) e di riprova sociale (altre 22 persone hanno visto questa stanza/prodotto).

Alcune aziende, più di altre, come quelle del mondo turistico-alberghiero, della moda e della vendita al dettaglio, applicano in modo così aggressivo alcuni tipi di strategie, tanto da diventare inutili. Per molti clienti, infatti:

questi sono solo stratagemmi di vendita, da non prendere sul serio.

A dimostrarlo uno studio condotto nel 2019, in Inghilterra. E’ stato chiesto, ai partecipanti, di ricercare all’interno di un portale, una camera di hotel in cui soggiornare. Nei diversi siti erano presenti 9 offerte di tipologia di camera dove veniva fatto uso dell’effetto di scarsità e di riprova sociale

Il 65% ha sentito la pressione derivata dall’utilizzo indiscriminato del messaggio commerciale. Il 49% ha affermato di diffidare dell’albergo. Solo uno su sei (16%) ha dichiarato di credere alle affermazioni.

I risultati hanno sorpreso i ricercatori. E dai commenti raccolti:

È quello che vedo spesso sui siti web degli hotel, è quello che fanno per tentarti. 

Ho visto molti siti adottare questa strategia, so come non farmi tentare.

Il 34% ha espresso una reazione emotiva negativa a questi messaggi, utilizzando parole come disprezzo e disgusto da un elenco precodificato. Fondamentalmente, questo perché attribuivano cattive intenzioni al sito web. I messaggi erano, a loro avviso, progettati per indurre ansia:

… messaggi falsi per farti prendere dall’ansia e farti acquistare senza pensare.

Ti spingono a prenotare per paura di perdere un’opportunità, quando in realtà non è vero che ci sono solo più poche camere disponibili.

PERCHE’ NON FUNZIONANO

Non solo queste strategie non funzionano ma hanno l’effetto contrario. Ciò che si attiva è la reattanza psicologica: diventiamo recalcitranti quando ci sentiamo obbligati. Il 40 per cento del pubblico ha concordato sul fatto che “quando qualcuno mi costringe a fare qualcosa, ho voglia di fare il contrario“.

Questo dato è ancora più pronunciato nel settore commerciale: sette su dieci concordano sul fatto che:

quando vedo una grande azienda dominare un mercato, voglio usare un concorrente.

Attenzione la prossima volta che usate il Neuromarketing senza un’attenta analisi e la dovuta conoscenza, perché qualsiasi intervento comportamentale può ritorcersi contro se il cliente pensa che sia uno stratagemma.

Inoltre solo perché un intervento ha avuto successo alcuni anni fa non significa che avrà successo oggi. Occorre prestare attenzione all’ecosistema in cui si opera e considerare le nostre responsabilità mentre usiamo le neuroscienze applicate. Il comportamento umano – dipendente dal contesto è guidato da una moltitudine di influenze interagenti – rimarrà imprevedibile.

PERCHE’ COMPRIAMO anche ciò che NON ci SERVE. L’effetto DIDEROT.

Compri più cose del necessario? Spendi più di quanto il tuo reddito lo consenta? Non sei il solo. Semplicemente sei anche tu vittima dell’effetto Diderot.

Dal nome del filosofo francese, questo effetto è ciò che spinge ad acquistare il superfluo. Diderot giunse, già nel 18° secolo, alla conclusione che l’acquisto di un solo oggetto, poteva portare ad acquistarne molti altri e così preoccupato di questa sua esosa abitudine si mise a studiare il fenomeno.

A finalizzare nel dettaglio l’effetto fu poi, a fine del XX secolo, l’antropologo McCracken che scoprì che gli oggetti che possediamo sono in stretta relazione con la nostra identità. Dicono chi siamo e ci rappresentano.

Inoltre la tendenza è comprare oggetti simili a quelli che già possediamo, per evitare di provare disagio, come accadde al filosofo francese a seguito di una vestaglia.

Nell’opera Rimpianti sopra la mia vecchia vestaglia, racconta come un regalo innocente, una preziosa vestaglia scarlatta per l’appunto, lo abbia portato alla rovina. Inizialmente, il filosofo era entusiasta. Tuttavia, ben presto si accorse che il resto dei suoi averi era troppo lontano dal concetto di eleganza.

Così, iniziò a rimpiazzare i vecchi averi: sostituì la vecchia sedia di legno con una comoda poltrona in pelle; i dipinti di casa con altri più costosi. Poco alla vota, iniziò a spendere sempre di più per acquistare oggetti eleganti che si abbinassero alla vestaglia. E quasi inconsapevolmente, finì per spendere tutti i soldi in beni che nemmeno voleva. Questo è l’esempio di ciò che l’effetto Diderot può produrre se lasciamo che controlli le nostre scelte.

CONSIGLI SU COME CONTRASTARE L’EFFETTO DIDEROT

  • Prima di effettuare un acquisto costoso, fermati a pensare se è un bisogno o un capriccio.
  • Analizza i costi dei futuri acquisti. È probabile che un oggetto da solo non comporti grandi spese. Ma quanto spenderesti se acquistassi tutto quello che desideri? Invece di lasciarti prendere la mano ogni volta, è molto più utile calcolare in anticipo quanto puoi spendere e per cosa.
  • Scegli i beni da acquistare in base alla loro utilità. Il criterio più importante nell’effettuare un nuovo acquisto è stabilire se sarà utile. Acquistare beni solo per apparire può creare dipendenza. In ogni caso, a meno che tu non abbia molti soldi da spendere, non ha molto senso.

Per concludere, frenare l’effetto Diderot può essere piuttosto complicato. Tuttavia, se sei consapevole di quello che fai e tieni sotto controllo l’impulso di comprare per impressionare gli altri, ti accorgerai facilmente di non aver bisogno di acquistare nuovi status symbol o di stare al passo con gli altri, per essere.

IMMAGINARE il FUTURO per LENIRE LA TRISTEZZA del PRESENTE: il rammarico di perdere (per 5 minuti) un aereo…

Mario e Andrea devono prendere due diversi voli che partono dallo stesso aeroporto e alla stessa ora.

Per raggiungere l’aeroporto stanno viaggiando sullo stesso taxi ma a causa del traffico arriveranno in aeroporto 30 minuti dopo l’orario di partenza dei loro voli.

Il volo di Mario partirà in orario; quello di Andrea partirà con 25 minuti di ritardo.

Chi è due è più contrariato? Chi è il più triste?

Di fronte a situazioni di questo tipo tendiamo a immaginare scenari alternativi che sarebbero potuti accadere ma non sono accaduti. Smontando di fatto il nostro passato per ricostruire il futuro che si sarebbe potuto realizzare.

Quasi tutti rispondono Andrea: perdendo per 5 minuti l’aereo, si immagina che si sarebbe potuto prendere se solo una piccola azione fosse stata diversa, magari partendo leggermente prima…
Le Neuroscienze hanno monitorato le espressioni facciali dei II e III classificati alle olimpiadi del 1992 per valutare quanto il pensiero influenzasse i loro stati d’animo.

Hanno osservato che i II classificati con la medaglia d’argento erano meno sorridenti dei bronzi, III classificati. Questo effetto è dovuto al fatto che gli argenti erano arrivati più vicini alla vittoria, e quindi risultava molto più facile pensare e immaginare variabili della loro gara che li avrebbero portati al primo posto, facendo quindi crescere il rammarico. I bronzi, più sorridenti dei secondi classificati, erano arrivati più vicini alla loro non vittoria, quindi per loro era molto più semplice pensare agli accadimenti possibili che li avrebbero portati fuori dal podio, motivo per cui sono più sorridenti.

L’euristica della simulazione è capace di influenzare la comprensione degli eventi, degli altri e dei loro stati d’animo ma in modo disequilibrato. Nel caso dei voli persi gli scontenti dovrebbero essere entrambi i passeggeri in egual misura.

La prossima volta che perdete un treno, un aereo o qualche competizione… ricordatevi di questa trappola del pensiero per usarla a vostro vantaggio e lenire così il dolore della perdita… o della sconfitta…

Il CLIENTE è SODDISFATTO, MA la RECENSIONE è NEGATIVA: il ruolo del Bottom Dollar Effect

Il denaro non regala la felicità, ma il modo in cui scegliamo di spenderlo sì. Mi spiego meglio: quando acquistiamo qualcosa, la soddisfazione che ne trarremo, sarà minore se avremo dovuto dare fondo ai nostri risparmi. Cioè sarà più facile rimanere insoddisfatti o lasciare una recensione negativa se, per accaparrarsi quel bene, avremo dovuto sforare il budget a nostra disposizione.

Se mi già mi segui, sai che mi occupo di processi decisionali, cioè del modo in cui il cervello si comporta e degli errori di cui cade vittima durante l’analisi delle diverse alternative a disposizione. E considerato che ogni giorno prendiamo fra le 20 mila e le 30 mila decisioni… è facile quantificare i possibili sbagli a cui possiamo andare incontro.

E in questo caso l’errore, noto come Bottom Dollar Effect, torna particolarmente utile per coloro i quali si occupano di vendita al dettaglio.

Indipendentemente dal prezzo, ognuno di noi prova emozioni negative quando deve separarsi dai propri soldi, soprattutto se si va in rosso o si svuota il conto corrente. Questo fa sì che poi sia più facile trasferire questi sentimenti negativi anche sul bene acquistato, ed essere più negativi di quanto saremmo normalmente nel giudizio, se invece avessimo risparmiato qualcosa.

Questo significa che chi vende deve essere consapevole del budget a disposizione del cliente o almeno di quanto pesa emozionalmente su di lui quell’acquisto.

LA DIMOSTRAZIONE SCIENTIFICA

A dimostrare la pericolosità di questo effetto, sei esperimenti pubblicati sul Journal of Consumer research, dove i ricercatori hanno misurato il legame tra spesa e felicità.

Ai partecipanti è stato chiesto di acquistare 3 film online usando dei crediti a loro assegnati: ogni film costava 10 crediti. Al primo gruppo sono stati assegnati 30 crediti, al secondo 50. In sostanza, coloro i quali avevano a disposizione un budget di 30 crediti, lo avrebbero esaurito con i tre acquisti; coloro i quali disponevano di 50 crediti, avrebbero potuto ancora contare sui 20 rimanenti.

Cosa è accaduto?

Dopo  aver acquistato e visto ogni film, a entrambi i gruppi è stata chiesta una recensione. E’ emerso che le persone che avevano esaurito il budget (primo gruppo) erano meno soddisfatte rispetto a quelle del secondo gruppo. In un follow-up successivo si è poi scoperto che questo effetto era ancora più pronunciato tra le persone che avevano difficoltà finanziarie: in loro l’effetto aumentava ulteriormente.

Acquistare qualcosa quando i fondi a nostra disposizione sono relativamente scarsi è più doloroso di quando si dispone di un gruzzolo più sostanzioso, ovviamente. Come dimostra l’effetto Bottom Dollar, questo elemento può influenzare notevolmente la soddisfazione e la valutazione degli acquisti da parte dei consumatori e quindi avere ricadute di reputazione ed economiche su commercianti e venditori.

BOTTOM DOLLAR EFFECT IN PRATICA

Come si traduce tutto questo in un comportamento? Quando decidiamo di destinare, ad esempio, 100 euro/mese al divertimento, se ne spendiamo 90 per assistere a una partita di calcio all’inizio del mese e 10 euro per un biglietto per il cinema due settimane dopo, sentiremo maggiori emozioni negative quando ci separiamo dagli ultimi  10  euro rispetto ai primi 90 e quindi avremo meno probabilità di goderci il film di quanto sarebbe stato se lo avessimo acquistato per primo.

5 PRATICI SUGGERIMENTI

Quindi come possono aiutarti queste informazioni e la consulenza di chi si occupa di questi temi? Ecco 5 pratici suggerimenti:

  1. La tempistica è fondamentale. La commercializzazione di un prodotto può essere più efficace se temporizzata in un periodo in cui i budget dei consumatori hanno meno probabilità di essere esauriti.
  2. Le offerte promozionali e gli sconti sono invece più efficaci quando è probabile che i clienti stiano esaurendo il budget a disposizione (Soster, Gershoff & Bearden, 2014).
  3. Cerca di capire i comportamenti dei tuoi clienti abituali. La chiave è identificare il tuo cliente target e fare una stima dell’andamento del suo budget.
  4. Fai attenzione a chiedere un feedback. Se un cliente ha speso fino all’ultimo euro nel tuo negozio, attendi a chiedere una recensione fino a quando sai o supponi sia rientrato economicamente della spesa, in questo modo eviti che rigetti attraverso il feedback/recensione il possibile rammarico per la spesa folle sostenuta e di cui ancora non è rientrato.
  5. Siamo tutti consumatori. Sapere come prendi una decisione, ti può essere di aiuto anche quando sei tu ad acquistare (e non solo vendere) qualcosa. E di conseguenza come una spesa eccessiva può influenzare la valutazione e renderti meno soddisfatto dei tuoi acquisti. Quindi come meglio distribuire i tuoi acquisti nel tempo e goderne nel modo migliore, senza rimpianti.

 

 

NON può SUCCEDERE a ME! NON PERCEPIRE il RISCHIO, NON SIGNIFICA essere al SICURO

C’è chi, rinchiuso in casa, è investito dall’angoscia ogni volta che è costretto a mettere il piede fuori, e chi, invece, dichiara convinto “io non mi ammalerò mai”. E chi ancora più impavido (per non dire stupido), aderisce alla sfida di leccare oggetti pubblici in barba al Covid-19 (uno di questi ragazzi ha poi contratto il virus dopo aver leccato il water di un bagno pubblico e ora è ricoverato in ospedale).

Storie di ordinaria follia, storie di ordinaria quotidianità che le Neuroscienze sanno spiegare, aiutando a dare un senso all’irrazionalità che, ancor più nei momenti di crisi, veste noi esseri umani.

In tutto il mondo, sebbene il numero di persone positive al coronavirus continui inesorabilmente a crescere, molti sembrano guardare con distacco alla pandemia, forti di poter essere immuni non solo dal virus, ma da qualsiasi avvento avverso capiti loro.

La spiegazione a questo apparente disinteresse, che non è coraggio, prende il nome di bias dell’ottimismo: la sensazione che le cose positive che ci possono accadere, siano più probabili di quelle negative. La convinzione cioè di essere meno a rischio degli altri, tutti gli altri.

E’ questa, una distorsione, una trappola in cui cade la nostra mente, per rendere più sopportabili notizie ed eventi, per mitigare paura e angoscia. E’ un modo per vivere la vita, senza temere eccessivamente la morte.

COSA SONO I BIAS

I bias sono pregiudizi, giudizi che diamo in automatico su qualsiasi questione affrontiamo e che, tendenzialmente, non corrispondono alla realtà; pertanto ci portano a interpretare in modo sbagliato gli eventi e a fare grossolani errori di valutazione. Detto in altri termini, i bias ci portano a distorcere la realtà e attuare, di conseguenza, comportamenti e scelte sbagliate.

Che il bias dell’ottimismo sia fenomeno diffuso è cosa nota ma a dimostrarlo ulteriormente sono due recenti studi: uno europeo e uno americano. Il primo ha coinvolto oltre 4 mila persone fra Francia, Italia, Regno Unito e Svizzera: la metà dei partecipanti riteneva di avere meno probabilità di contrarre il Covid-19 rispetto agli altri. Solo il 5% degli intervistati riteneva probabile un’infezione. Il secondo è stato condotto su 1.600 americani e ha mostrato che le persone pensavano che il loro rischio personale stesse aumentando ma in percentuale minore rispetto alle persone degli altri Stati.

OTTIMISMO ESASPERATO

Ma perché alcuni hanno forte questa tendenza all’ottimismo esasperato? A spiegarlo è il neuroscienziato cognitivo, professore di psicologia all’Università di Londra, Tali Sharot, che sul pregiudizio all’ottimismo ha addirittura scritto un libro. Sharot ha dimostrato che guardare al futuro ci mette di buon umore, Il puro atto di anticipare gli eventi, ci rende felici.

Senza il pregiudizio all’ottimismo, saremmo infatti tutti più tristi, senza contare che pensare positivo ci permette di credere di poter controllare il futuro e si sa che l’illusione del controllo è un’altra trappola di cui l’essere umano ha bisogno. Il cervello non ama l’incertezza, l’incognito. E colorare di rosa il domani, è un modo per allentare il peso dell’imprevedibilità.

Nella vita di tutti i giorni essere positivi rende scelte e decisioni meno pesanti, facilita la nostra quotidianità, non a caso è dimostrato che gli ottimisti hanno più successo, rispetto ai pessimisti di default. Se ogni volta che saliamo in macchina pensassimo di morire in un incidente stradale, sarebbe un incubo. Tuttavia, non si può sottovalutare l’importanza di indossare le cinture di sicurezza. I fumatori, pur conoscendo i rischi, li sottovalutano o non imputano loro la dovuta pericolosità e quindi reiterano in una abitudine tutt’altro che sana.

E’ PERICOLOSO CREDERSI IMMUNI

Avere la certezza di non contrarre il Covid-19, potrebbe impedirci però di prendere le dovute precauzioni. Non percepire il rischio, non significa non essere a rischio. Eppure molte persone non riescono a fare questo collegamento logico. Credersi immuni, potrebbe indurre a non cambiare i comportamenti. Percepire in modo corretto il rischio è il miglior mezzo di prevenzione.

La percezione del rischio però può essere difficile da modificare, ma una strategia efficace è considerare il rimanere a casa, una scelta morale, etica. Causare danni agli altri è considerato immorale e poco etico (oltre che illegale), specialmente se le vittime sono vulnerabili e bisognose di protezione, come gli anziani.

Ciò che è difficile con tutti i rischi – incluso il coronavirus – è che il potenziale danno recato dal nostro comportamento verso altre persone è poco visibile. Se pensiamo di non essere infetti, potremmo essere indotti ad avvicinarci a parenti, vicini di casa anche solo involontariamente o fare cose che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza altrui. Gli asintomatici, coloro che non sanno di aver contratto il virus, potrebbero minimizzare il rischio e mettere, loro malgrado, in pericolo gli altri.

Fare leva sull’etica personale, favorisce l’attuazione di comportamenti preventivi. E che si tratti di Covid-19, così come di altri patogeni, malattie e scelte, la prevenzione è la miglior cura. Sempre.

L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano La voce di Alba: http://www.lavocedialba.it/2020/03/30/amp/argomenti/attualita-14/articolo/coronavirus-non-puo-succedere-a-me-non-percepire-il-rischio-non-significa-essere-al-sicuro.html

NON C’E’ DUE SENZA TRE… SCOMMETTIAMO?

Tiro. Canestro
Tiro. Canestro
Tiro. Canestro

Ha la mano calda il cestista oggi: 3 su 3

Tiro….
Chi scommette sul quarto?

Prima che tu perda la scommessa, mi tocca dirti che le probabilità che il cestista continui a centrare il canestro non sono condizionate dai precedenti tiri. Questo vale anche per calciatori, meteore del mondo dello sport e campioni dagli incomprensibili momenti bui.

L’espressione mano calda è molto usata anche nel mondo delle banche da quando gli studiosi di finanza comportamentale l’hanno presa a prestito dal gergo sportivo per definire l’abitudine diffusa di presupporre che una sequenza particolare di eventi possa condizionare l’evento successivo, cioè che si formino in maniera non casuale sequenze fortunate e sfortunate di speculazioni.

Per accorgersene è sufficiente considerare le statistiche dei giocatori su più stagioni, piuttosto che su una singola partita e diventa lapalissiano che la spiegazione della prestazione di un giocatore non dipende dalla temperatura della sua mano (o del suo piede), quanto dalle sue percentuali al tiro rilevate in molte partite. E per lo stesso motivo non ha molto senso estrapolare una tendenza su come si comporterà un titolo o l’intero mercato nei prossimi mesi riferendosi all’andamento degli ultimi 5 o 6. Eppure siamo tutti tentati di farlo.

La mano calda è una variante della credenza nella Legge dei piccoli numeri: la convinzione istintiva di poter trarre conclusioni a partire da poche osservazioni. Appartiene alla stessa categoria della gambler fallacy, l’illusione del giocatore di roulette, convinto che dopo 6 neri ci sia maggiore possibilità di un rosso al tiro successivo.

Mentre la fallacia del giocatore pretende che una sequenza casuale di numeri esibisca una persistenza negativa (dopo 6 neri un rosso), nella mano calda la persistenza è positiva (dopo 3 canestri, un quarto). Vale a dire che il nostro cervello, in modo curioso, si aspetterebbe una tendenza alla alternanza e al disordine in caso di eventi naturali, alla ripetizione e all’ordine nel caso di eventi umani.

Le estrazioni del lotto o la roulette non si ricordano però dei numeri o dei colori appena usciti. Le previsioni sul futuro dicono poco sul futuro, ma tanto di chi le fa, sostiene Warren Buffet. Il significato o la previsione non risiedono infatti nelle poche informazioni a disposizione, ma nella nostra mente portata a generalizzare, anche quando il campione statistico non lo consentirebbe. Se lo dice lui…..