Tag Archivio per: #cervello

CERVELLO: le DIMENSIONI non CONTANO!

Un cervello grande non significa maggiore intelligenza.

Avere un cervello di dimensioni maggiori rispetto lo standard non garantisce maggiore capacità cognitiva. L’intelligenza, la capacità di capire, apprendere, elaborare concetti non dipende dalla grandezza del cervello, ma da come questo è organizzato e da quanto estese sono le sue connessioni.

Non a caso, nonostante si creda che gli umani siano la razza più intelligente sul pianeta, il nostro cervello è in realtà piccolo rispetto a quello di molti animali. Quello dell’elefante pesa circa 4,5 chili, quello della balena può arrivare a 10, i topi hanno il nostro stesso rapporto tra volume del corpo e quello del cervello e alcune specie di uccelli, hanno il cervello, in proporzione al corpo, ancora più voluminoso. Gli scandenti, una razza di mammiferi simili agli scoiattoli che vive nelle foreste pluviali, hanno un cervello che costituisce il 10% della massa corporea, quello umano, arriva appena al 2 per cento.

Stando alle ricerche, sembra sia il coordinamento, più che il volume del cervello, a dettar legge. E, in particolare, la funzionalità e la complessità delle sue sinapsi che permettono ai neuroni di comunicare l’uno con l’altro. Sul fronte dell’intelligenza, insomma, il cervello appare più interessante se esplorato attraverso un microscopio, piuttosto che nel suo assetto globale.

L’ipotesi è supportata da risultati ottenuti mediante risonanza magnetica funzionale, tecnica che scansiona l’attività dell’encefalo in tempo reale. Ciò che è venuto alla luce è come l’efficienza e lo sviluppo delle vie neurali che collegano la corteccia prefrontale laterale sinistra al resto del cervello siano di fatto responsabili del 10% delle differenze di intelligenza individuali. L’ampiezza delle connessioni risulta in relazione proprio con l’efficienza con cui eseguiamo il nostro lavoro. Quasi come un direttore d’orchestra, questa porzione del cervello controlla e mette in relazione le altre aree (quelle che eseguono specifici compiti cognitivi) nel coordinamento dei processi, e porta inoltre con sé le istruzioni necessarie per portare a termine i compiti che ci prefissiamo. Analizzando le connessioni possiamo intuire quanto qualcuno sia intelligente.

O rendercene conto a posteriori: come nel caso di Einstein, che aveva un cervello nella media in fatto di dimensioni, ma superconnesso e con numerosissime circonvoluzioni della materia grigia prefrontale, che rendono conto della sua straordinaria intelligenza e delle sue doti matematiche eccezionali.

McDONALD’S si fa BUONO al PALATO, QUANDO non si sa che è McDONALD’S

Pur essendo di qualche anno fa, lo scherzetto organizzato da due olandesi ha ancora molto da insegnarci sulla percezione che abbiamo del cibo.

I due, dopo aver acquistato da McDonald’s dolci e pollo fritto, sono andati a offrirli in degustazione, privi del caratteristico logo, a una fiera gastronomica. Il cibo, presentato come bio, è stato apprezzato da molti visitatori e presunti esperti che, curiosi, si sono fermati ad assaggiare. Alcuni si sono addirittura sbilanciati in analisi gustative.

SE AVESSERO SAPUTO CHE IL CIBO ERA DI McDONALD’S AVREBBERO ESPRESSO LO STESSO CONSENSO?

Non è una novità che in molti paesi il cibo biologico venga considerato più saporito e gustoso del fratello convenzionale, figuriamoci del cibo spazzatura. Le prove scientifiche di questa superiorità gustativa generalizzata però latitano, ma non pochi esperimenti, gettano qualche spiraglio di luce sulla questione.

Sulla falsa riga dello scherzo olandese, ne è stato fatto uno anche a Milano, dove in pieno centro è stato aperto un locale di tendenza e servito ai clienti un nuovo Mc panino. Ma anziché su un anonimo vassoio di plastica il cibo è stato posizionato su un ripiano di ardesia. E anche in questo caso il panino è stato particolarmente apprezzato, benchè di gourmet o di bio avesse ben poco.

Scherzi a parte, quando acquistiamo o mangiamo del cibo riceviamo tantissime informazioni: provenienza, etichetta, contenuto nutrizionale, prezzo, metodo di produzione, come viene presentato e così via. E tutto questo può avere una profonda influenza sulla nostra percezione sensoriale. Il punto cruciale è che quando acquistiamo un prodotto alimentare lo scegliamo solo in parte tenendo conto delle caratteristiche che possiamo sperimentare con i nostri sensi, come il colore o il sapore. Altre non sono verificabili con un semplice assaggio: il metodo di produzione, le proprietà salutistiche o la provenienza geografica. Vari esperimenti hanno mostrato come queste caratteristiche intangibili possano influenzare la percezione del gusto.

IL PECORINO BIO

Un gruppo di ricercatori italiani ha fatto assaggiare a 150 persone un formaggio pecorino biologico e uno convenzionale chiedendo di dare un voto da 1 a 9. Il primo assaggio si è svolto senza che nessuno sapesse quale dei due prodotti stesse gustando. E i due prodotti sono risultati essere equivalenti ed entrambi apprezzati, con 7 come punteggio medio.

Il giorno successivo a tutti i soggetti è stato fatto assaggiare solo il pecorino bio, con allegato un foglio che descriveva le caratteristiche del metodo di produzione biologica. La media dei punteggi è stata di 7.4. Il pecorino bio quindi è stato apprezzato di più laddove se assaggiato era identificato. In altre parole, il gusto è fortemente influenzato dall’aspettativa, e poiché molte persone si aspettano che il bio sia più gustoso, quando lo assaggiano lo trovano più gustoso di quello che è in realtà.

L’ANANAS

A cittadini britannici e olandesi è stato fatto assaggiare dell’ananas di tre varietà diverse coltivati in modo convenzionale, presentato però a volte come biologico, a volte come convenzionale o come prodotto del commercio equo e solidale. Le persone che avevano una aspettativa positiva rispetto al biologico hanno dato un voto più alto quando veniva proposto come bio, nonostante fosse sempre lo stesso ananas, e addirittura lo percepivano più dolce e succoso. L’influenza può anche essere negativa: chi aveva una aspettativa negativa nei confronti dai prodotti del commercio equo o dei prodotti bio li percepiva all’assaggio peggiori di quanto facessero senza l’informazione, falsa, della provenienza. Più precisamente la presenza dell’informazione “bio” migliorava la percezione del 55% dei soggetti, e la peggiorava nel 38% dei casi, mentre l’informazione “equo e solidale” migliorava i punteggi nel 43% dei casi e li peggiorava nel 45% dei casi.

La cosa interessante è che non cambiava solo il gradimento generale ma anche i punteggi di descrittori specifici, come “dolcezza” o “intensità del sapore”.

Studi che dicono moltissimo su come i nostri giudizi siano facilmente influenzabili. E non solo quando si tratta di cibo. Ciò che va tenuto presente in qualità di consumatori è che le informazioni che riceviamo sul cibo possono avere una profonda influenza su di noi, creando aspettative positive o negative, arrivando addirittura a modificare la percezione del gusto e le nostre reazioni. Facendoci percepire addirittura eccellente un cibo spazzatura.

DAMMI una RAGIONE e IO COMPRERO’…

Volete essere più persuasivi? Fornite una spiegazione.
A prescindere da quanto questa sia (in)sensata, sarete ben ricompensati.

A dimostrarlo è lo studio denominato “fotocopiatrice Xerox” condotto da Ellen Langer, psicologa ad Harvard. (http://www.ellenlanger.com/blog/141/mind-power): una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice. Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. 

Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta.” Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa.

Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie.” La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

Questa apparente semplice tecnica persuasiva, rientra nella sfera del Neuromarketing, la disciplina volta alla individuazione dei processi decisionali d’acquisto. Dammi una ragione e io comprerò. Non per niente, il Neuromarketing agisce traendo vantaggio dai numerosi punti ciechi della nostra consapevolezza.

Detto questo, non vi resta che dilettarvi.. nel trovare una ragione… E le code non saranno che un brutto ricordo…. accettate il consiglio, questa volta!

RACCONTARE STORIE CI RENDE UMANI

“Fino a che le gazzelle non sapranno raccontare le loro storie, i leoni saranno sempre protagonisti dei racconti di caccia”. Dice un proverbio africano. E mi piace aggiungere: e farsi leggenda.

Fra tante attività più proficue per l’evoluzione, come cacciare, costruire e combattere, l’uomo ha sempre dedicato tempo e energie a raccontare, e raccontarsi, storie. Perchè?

Banalmente possiamo dire che quando ascoltiamo una noiosa presentazione, si attivano alcune aree del nostro cervello. Quando invece ci raccontano una storia, il nostro cervello si attiva completamente. Ma la questione è un po’ più complessa di così, ed è anche la domanda centrale del saggio di Jonathan Gottschall (docente di Letteratura al Washington and Jefferson College, in Pennsylvania) ne L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani.

Dalle immagini sui muri delle caverne, ai racconti intorno al fuoco, dalle epiche avventure narrate da Virgilio e Omero, alle soap opera fino ai giochi interattivi, quale bisogno soddisfa la funzione narrativa?

QUALE BISOGNO SODDISFA LO STORYTELLING?

L’uomo è un essere fatto di storie e passa più tempo immerso in un mondo di finzione che nel mondo reale. La potenza delle storie risiede nella loro capacità di renderci vulnerabili, esposti. Dal cartellone pubblicitario davanti alla fermata dell’autobus al libro sul comodino, dalla canzone distrattamente canticchiata all’ultimo film che ci ha emozionati, ci crediamo sempre i fruitori delle miriadi di narrazioni che ci circondano quando in realtà ne siamo i creatori.

L’uomo passa la vita a costruire e modificare storie per imporre un ordine al caos che lo circonda ma la funzione più vera è che le storie con il loro essere “prove di volo”, esperimenti virtuali, ci servono ad affrontare emozioni e situazioni della vita reale.

Gli studi scientifici hanno ampiamente dimostrato che, immerso nelle storie, il nostro cervello reagisce attivamente, come se si trovasse realmente di fronte a un pericolo o in una situazione emotivamente coinvolgente. Continuiamo a lasciarci trascinare da tutto ciò, pur consapevoli che si tratta di finzione, perché fa parte della nostra natura: cominciamo sin da bambini con il gioco del “facciamo finta che” e continuiamo sempre, giorno dopo giorno.

E poi raccontiamo mentalmente delle storie per costruire un’immagine di noi stessi che migliori quella reale, alterando i ricordi. Cambiando ciò che non ci piace, trasformandoci in supereroi, almeno in quello spazio di tempo che chiamiamo sogno.

…La morale della storia, semplicemente, è che non sono state la scienza, la filosofia, la matematica, ma le storie – come recita il sottotitolo del libro elogiato anche dal grande biologo Edward O. Wilson – «a renderci umani». E a farci tollerare la realtà e al (con)viverci ogni giorno.

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…

L’ODIO, STUPIDA MALATTIA o l’altra FACCIA dell’AMORE?

“L’odio è una passione diabolica che andrebbe controllata ed eradicata”. Vito Mancuso, teologo e docente italiano dalla conoscenza infinita, in un articolo di qualche giorno fa sul Foglio, porta a riflettere su questo sentimento arrivando a dire che è una malattia.

“Un conto è avversare, un altro è odiare. L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Eppure le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa.

A dimostrarlo i ricercatori dell’University College di Londra: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

LA VISIONE DELLE NEUROSCIENZE

In questo studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti, ad esempio, di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati ad osservare le immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

I ricercatori hanno così notato che la vista della persona odiata attivava particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

“È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.”

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza esistente tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.”

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso conclude “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati.

LEGGERE NELLA MENTE I PENSIERI DEGLI ALTRI… IL DESIDERIO PROIBITO CHE SI FA (QUASI) REALTA’.

 

Tutti abbiamo desiderato, almeno una volta, di poter conoscere i pensieri degli altri. Per  fare bella impressione, conquistare una bella ragazza o superare un esame particolarmente problematico. Con questo esperimento, le neuroscienze assottigliano la distanza fra utopia e realtà.

Tre persone, in tre diverse stanze, connesse fra loro solo telepaticamente, hanno giocato riuscendoci a un videogioco simile a Tetris.

E’ l’esperimento realizzato dai ricercatori dell’università di Washington e di cui fa parte anche l’italiano Andrea Stocco, creando una sorta di primo social network di cervelli al mondo.

LO STUDIO

Per l’esperimento il team di studiosi si è avvalso di due apparecchi usualmente utilizzati in medicina: una macchina che registra l’elettroencefalogramma (o EEG), cioè un tracciato dell’attività elettrica del cervello; e un dispositivo per la stimolazione magnetica transcranica, che permette di attivare specifiche porzioni del cervello dall’esterno della scatola cranica attraverso un impulso elettromagnetico.

L’ESPERIMENTO

Con il primo apparecchio sono stati registrati i cambiamenti nell’attività elettrica del cervello, e inviare le informazioni a una seconda persona.

Concentrandosi su una luce che lampeggia con una frequenza di 15 hertz è possibile modificare con facilità l’attività del cervello. Con la stimolazione magnetica, invece, è possibile trasmettere messaggi al cervello, in particolare sotto forma di lampi di luce che appaiono nel campo visivo quando si concentra l’impulso elettromagnetico dell’apparecchio nella zona occipitale.

LAMPI E AZIONI

Con questi apparecchi, i ricercatori hanno inventato un modo per mettere in contatto due cervelli. Un primo volontario concentra l’attenzione su una delle due luci dell’esempio precedente (a 15 o 17 hertz), l’EEG viene decodificato e l’informazione trasmessa a una seconda persona, il ricevente. A questo punto l’informazione è tradotta in un impulso magnetico, che produce un numero variabile di lampi nel suo campo visivo, e permette di trasmettere brevi messaggi stabilendo per convenzione una sorta di alfabeto morse rudimentale: un lampo sì, due lampi no.

DUE TRASMETTITORI E UN RICEVENTE

Questo il sistema utilizzato anche in passato, ma nel nuovo studio Stocco e colleghi sono andati ben oltre, mettendo in comunicazione non due ma tre cervelli contemporaneamente.

Nello studio, due persone hanno svolto il ruolo di trasmettitori, e una quello del ricevente. L’esperimento prevedeva di giocare a un videogioco simile a tetris, in cui un pezzo di forma variabile cade dall’alto dello schermo, e il giocatore deve decidere se e come farlo ruotare per incastrarsi nei pezzi già presenti nel campo di gioco.

UN TETRIS PER TRE

I due trasmettitori avevano a disposizione una visuale dell’intero campo da gioco, e potevano quindi prevedere la mossa giusta per far incastrare ogni pezzo a dovere. Mentre il ricevente, incaricato di muovere i pezzi, vedeva solamente la parte alta dello schermo, e non poteva quindi sapere quale fosse la mossa giusta.

Tutti i partecipanti, posti in stanze diverse, non potevano comunicare in alcun modo, se non attraverso l’interfaccia cervello-cervello. Guardando un led con frequenza 15 hertz inviavano al ricevente l’informazione “non ruotare il pezzo”, che a lui appariva come assenza di lampi e luci, mentre guardando quello da 17 hertz lo invitavano a “ruotare il pezzo”, attraverso la comparsa di un singolo lampo. Dopo aver ricevuto le indicazioni di entrambi i due trasmettitori, il ricevitore doveva scegliere come muovere il pezzo, utilizzando a sua volta l’Eeg per effettuare la mossa (concentrandosi cioè su uno tra due led a frequenze differenti).

LA MOSSA GIUSTA

I ricercatori hanno dimostrato che in questo modo i tre partecipanti riuscivano a effettuare la mossa giusta con una precisione dell’81%. Ma soprattutto, anche manomettendo il segnale il ricevente è risultato in grado di effettuare la mossa giusta dopo poche mani di allenamento, imparando a riconoscere i messaggi affidabili basandosi unicamente sulle informazioni che raggiungevano il suo cervello attraverso la stimolazione magnetica.

I SEGRETI DEL CERVELLO UMANO

I ricercatori assicurano che nulla vieta di replicare i risultati a distanze maggiori, fino a creare una sorta di social network cerebrale in cui un numero qualsiasi di partecipanti collabora per risolvere un dato task. “Realizzare una simile interfaccia cervello-cervello permetterebbe non soltanto di aprire nuove frontiere nella comunicazione e collaborazione tra esseri umani, ma ci fornirebbe anche una comprensione molto più profonda del funzionamento del cervello umano”.

 

NATALE senza COMPITI: EPPURE lo STUDIO RIDUCE il RISCHIO di INFARTO e le MALATTIE NEUROLOGICHE

Vorrei tranquillizzare il ministro dell’Istruzione Bussetti informandolo che di studio è mai morto nessuno e anzi fa bene al cervello, rallenta l’Alzheimer e riduce le probabilità di avere un infarto cardiaco.

E’ di questi giorni la circolare ufficiale firmata da Bussetti e mandata ai docenti al fine di sensibilizzarli ad avere la mano leggera nell’assegnare i compiti, essendo le imminenti vacanze “giorni di festa da passare in famiglia e non sui libri”. Forse il ministro non sa che gli adolescenti italiani, secondo i dati Ocse non  vantano un livello di alfabetizzazione di primo piano se confrontato  con gli altri paesi del mondo. Mi astengo da giudizi personali e rispondo appellandomi alla scienza…

Le ricerche

La ricerca svolta dall’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma ha dimostrato l’effetto positivo dello studio sull’integrità del cervello, sia dal punto di vista strutturale sia funzionale, in particolare dell’ippocampo, l’area del cervello che svolge un ruolo di primissimo piano nei processi di memoria a lungo  termine. L’indagine sperimentale, tutta italiana, si è guadagnata la copertina della rivista internazionale “Human Brain Mapping” che ha pubblicato i risultati del lavoro.

Da tempo le teorie sostengono che un individuo maggiormente scolarizzato e con un più alto livello di istruzione, quindi più impegnato mentalmente, è in grado di creare una sorta di riserva cognitiva che protegge il cervello dai danni causati dai processi legati all’invecchiamento, come accade nella malattia di Alzheimer.

In altri termini, l’allenamento allo studio e il livello culturale permetterebbero di accumulare un “patrimonio” mentale più ingente che poi viene eroso più lentamente dai fenomeni legati all’invecchiamento cerebrale fisiologico e patologico.

Studiare non fa bene solo alla mente, m anche al cuore: riduce infatti il rischio di infarto. A darci questa notizia i ricercatori di varie università europee, dalla Oxford al Centro Ricerche in Epidemiologia e Medicina Preventiva (Epimed) dell’Universita’ dell’Insubria, che ha coordinato lo studio: “Education and coronary heart disease: mendelian randomisation study” e pubblicato sul British Medical Journal.

Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato 162 varianti genetiche già collegate in passato con gli anni di studio e raccolte da 543.733 uomini e donne di origine europea.

I risultati

Dai dati raccolti è emerso che 3,6 anni aggiuntivi di scolarità causano il 33% in meno di eventi coronarici, insomma, le persone che studiano di più rischiano di meno di avere un infarto. Incrementare il numero di anni a studiare riduce il conseguente rischio di sviluppare malattie coronariche. Insomma, se la cultura non dovesse essere un sufficiente motivo per studiare, a stimolarci potrebbero essere i rischi per il nostro cuore.

Conclusioni

I ricercatori spiegano: “Il legame tra bassa educazione e incremento di rischio coronarico è noto da tempo, ma è sempre stato attribuito ad altri fattori, quali fumo, dieta ed attività fisica. I risultati devono stimolare il dialogo tra la comunità medico-scientifica, la classe politica e gli operatori di salute pubblica per pianificare strategie volte a incoraggiare i giovani a migliorare sempre il proprio livello di educazione. Infatti, interventi come la riduzione delle tasse scolastiche, o il contrasto dell’abbandono scolastico precoce, potrebbero diventare misure con riflessi positivi in termini di salute pubblica, con forte impatto sulla prevenzione delle malattie coronariche”.

Di studio dunque non solo si muore ma anzi se ne esce più forti. Forse qualcuno dovrebbe avvisare il Ministro dell’Istruzione…

COME il BLACK FRIDAY SEDUCE il nostro CERVELLO

Il prezzo seduce e si fa ancora più manipolatorio nella settimana del Black Friday. Fenomeno dilagante anche in Italia e che non si accontenta più di rimanere contenuto in un solo giorno, il venerdì appunto.

Settimana in cui ci ritroviamo a comprare un po’ di tutto, da ciò che ci sembra conveniente, a ciò che ci è utile fino a ciò che, a prezzo pieno, non compreremmo mai.

Ed ecco che mettiamo in borsa quei jeans troppo stretti per la nostra taglia, ma irrinunciabili a un prezzo così conveniente e soprattutto non vogliamo correre il rischio che li compri qualcun altro.

Il problema è proprio questo: percepiamo i capi in saldo come il treno che passa una volta sola, e pentirci per aver perso l’occasione del momento, fa troppo male al nostro cervello. Ed ecco che andare oltre è quasi sacrilego.

E poi quei jeans possono sempre essere la “spinta gentile” per motivarci a perdere peso. Infatti tendiamo a usare gli sconti per trovare uno scopo, un motivo per fare qualcosa che procrastiniamo da tempo, pur sapendo che quell’intento svanirà appena usciti dal negozio.

Senza contare l’effetto gregge che il “Venerdì Nero” si fa ancora più prepotente: il cervello umano tende ad imitare e imitare è il miglior modo per funzionare in un gruppo. Dunque se tutti comprano per il Black Friday, comprerò anch’io, così mi sentirò parte della società.

Il consiglio? Prendete tempo per compiere verifiche e valutare e confrontare le opzioni, solo così capirete se quella spesa, seppur scontata, vale davvero la pena o se non finireste addirittura per pagare di più (non indossando mai quei jeans).

Insomma gli acquisti fatti in occasione del “Venerdì Nero” non sono frutto di un ragionamento razionale. Compriamo non per risparmiare ma per rimpianto, piacere ed imitazione. Questo è ciò che più di altri fattori decreta il grande successo del Black Friday in ogni parte del mondo.

La (DIS)UTILITA’ dell’EFFETTO GREGGE a cui NON SAPPIAMO SOTTRARCI

Provate a immaginarvi soli, all’interno di un aeroporto internazionale di una qualsivoglia metropoli dove, appena varcata l’uscita, ad attendervi c’è… nessuno.

Siete stanchi e disorientati dalle indicazioni scritte in una lingua che se anche conosceste, non è la vostra; dalla folla e dalle luci: quale criterio adottate per decidere la direzione verso la quale dirigervi?

Probabilmente, vi lascerete guidare dall’istinto e seguirete la strada intrapresa dal gruppo più nutrito di persone. Sarete, cioè, vittime inconsapevoli dell’“effetto gregge”, l’istinto innato che ci porta a seguire la massa. Questo effetto prende tecnicamente il nome di principio di riprova sociale: fare qualcosa di riconosciuto come socialmente accettabile soltanto perché la massa, la collettività lo ritiene tale.

La sua validità è ulteriormente confermata da un recente studio condotto dall’Istituto per le Applicazioni del Calcolo alla Sapienza di Roma: a due gruppi di 40 persone è stato chiesto di uscire da un’aula per recarsi in una destinazione sconosciuta a tutti, ad eccezione di una persona all’interno di un gruppo e di cinque persone all’interno dell’altro: dopo alcuni momenti di titubanza iniziale, durante i quali alcuni individui si sono diretti verso i Dipartimenti loro più familiari, l’intera compagine si è accodata agli “infiltrati”, ovvero alle persone che avevano l’aria di sapere esattamente dove si dovesse andare, raggiungendo rapidamente la destinazione finale.

Attraverso l’esperimento è stato possibile dimostrare che nelle situazioni di dubbio e incertezza gli esseri umani tendono a comportarsi come un gregge (da qui la denominazione effetto gregge dell’istinto gregario), ovvero come un grande gruppo di “agenti” che seguono regole elementari e le cui condotte individuali sono influenzate da quelle degli agenti più vicini. In altre parole, quando non si è certi di cosa sia meglio fare, si è spinti ad agire nella stessa maniera in cui ha agito chi è più prossimo.

L’effetto gregge è tanto più probabile quanto più è forte la convinzione individuale di ciascun singolo che il proprio comportamento, seppur omologato, sia il frutto di una libera scelta individuale. “L’unione fa la forza”, insomma, ma a patto che si sia convinti che quella di aggregarsi sia una scelta autodeterminata in assoluta libertà.

ESEMPI QUOTIDIANI

Il meccanismo esiste anche nel mondo animale, è sufficiente guardare come agiscono quando si trovano in una situazione incerta come attraversare un fiume: si mettono in gruppo e lo attraversano insieme e in questo modo hanno maggiore probabilità di sopravvivere. La stessa cosa vale per i pesci quando si raggruppano in modo da formare una grande palla da sembrare un unico pesce gigante in grado di spaventare gli aggressori. Insomma ogni qualvolta si fiuta il pericolo, muoversi in massa garantisce maggior probabilità di sopravvivenza. Questo meccanismo risiede anche nella psiche dell’uomo: se vediamo un gruppo di persone guardare verso l’alto, dentro di noi sentiamo una forza che ci spinge a fare la stessa cosa.

Altri esempi? Cadiamo nella stessa trappola ogni volta che prenotiamo un ristorante o un hotel o compriamo qualcosa on line. La tendenza è acquistare da venditori che hanno un certo numero di vendite alle spalle e diversi feedback positivi: insomma, tutto quello che vogliamo è essere rassicurati. Ecco il motivo per cui i siti aziendali riportano nelle landing page le testimonianze dei clienti. Questa tecnica gioca su due fattori: spinge all’acquisto e parallelamente punta a far sentire il potenziale acquirente intento alla lettura, l’unica persona a non aver ancora provato il nuovo prodotto o servizio, facendo scattare in lui una sorta di senso di inadeguatezza. In sostanza si sfrutta il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una community e il gap si può colmare con un semplice (e impulsivo) click.

VANTAGGI DELL’EFFETTO GREGGE

Agire come pecore presenta dei vantaggi? Assolutamente sì. Per quanto riguarda l’aspetto sociale l’istinto gregario, quando correttamente “sfruttato”, consente una migliore gestione delle masse in situazioni di emergenza e di forte afflusso (è sufficiente inserire all’interno dei grandi gruppi dei leader nascosti che sappiano esattamente come comportarsi per far sì che tutti li seguano); per quanto concerne, invece, l’aspetto psicologico individuale, a fare come fan tutti non si sbaglia mai poiché, nel caso in cui le cose dovessero andar bene, si penserà di essere stati intelligenti a uniformarsi (autonomamente, s’intende) e nel caso in cui le cose andassero male, ci si consolerà pensando che non si è stati i soli ad aver sbagliato.