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AL CIBO NON SI COMANDA… Ma con i Nudge seguire una dieta non è mai stato così facile!

E’ fra le parole più cercate sul web. La (in)seguiamo di continuo, spesso senza grandi risultati. Eppure non ci arrendiamo, come dimostrano i ciclici tentativi che mettiamo in atto per mitigare il nostro senso di colpa. Soprattutto dopo aver esagerato con le calorie ingerite, dopo i falsi buoni propositi di andare in palestra, le taglie dei vestiti che si fanno sempre più strette e l’impietoso giudizio dello specchio.

Insomma al cibo non si comanda. Non a caso, tutto sembra metterci i bastoni fra le ruote quando vogliamo… vorremmo ridurre di qualche centimetro il nostro giro vita. Andiamo al ristorante e nonostante il nostro convincimento a ordinare insalata e riso integrale, alla fine divoriamo più di quanto facciamo quando non siamo sotto regime dietetico.

A venirci in aiuto, per fortuna, anche questa volta ci sono i Nudge, le spinge gentili. La strategia che ci insegna come prendere decisioni funzionali al nostro benessere senza sforzo e con il minimo sforzo.

ATTENTI ALLA TAGLIA DEI VOSTRI OSPITI

Lo sapevi che siamo influenzati sia dalla taglia degli altri commensali, sia da quella del cameriere, quando ci troviamo seduti allo stesso tavolo, menù alla mano? A seconda della corporatura del cameriere cambia il tipo e il numero di portate ordinate. Anche se può sembrare bizzarro, è provato scientificamente da uno studio congiunto condotto dai ricercatori dell’università tedesca di Jena e di Ithaca (Stato di New York) e pubblicato sulla rivista scientifica Environment & Behaviour: al variare dell’indice di massa corporea (IMC) del cameriere, cambia anche il quantitativo di cibo mangiato e di liquidi bevuti a tavola. E, in particolare, più il valore dell’IMC (che si ottiene dividendo il proprio peso corporeo in chilogrammi per il quadrato della propria altezza in metri) è alto, più chi siede al tavolo tende a ordinare cibi ipercalorici e dolce, vino, liquori e caffè zuccherato a fine pasto.

Detto in altri termini: la rotondità del cameriere induce a esagerare in fatto di calorie, a non sentirci in colpa se mangiamo oltremisura e a non sentirci giudicati.

Il 18% dei clienti serviti da camerieri sovrappeso consuma più alcolici, mentre la scelta di ordinare il dessert è quattro volte più frequente, sempre se l’indice di massa corporea dell’inserviente è superiore a 25 (il valore oltre il quale si parla di sovrappeso per l’uomo).

Altri studi hanno dimostrato come ci lasciamo condizionare dalle scelte dichiarate dei nostri commensali quando ordiniamo al ristorante. E tendiamo a omologarci, ordinando le stesse cose dei nostri amici. Ma a farci cambiare idea su cosa mangiare può contribuire anche la musica: il New York Times già nel 2012 dimostrò come i locali usavano l’artificio della musica alta per convincere i clienti a… bere di più.

Sapere queste cose non ci farà perdere peso, ma credetemi, la consapevolezza è il primo passo verso abitudini più salutari o più allineate ad obiettivi che talvolta si fanno ostici. Detto in altri termini, ci sono molti modi per scalare una vetta!

TAKE AWAY

A mettere a rischio il nostro giro vita è (anche) il cibo da asporto. Sempre più in voga e soprattutto comodo. Pensiamo a quante nuove società fanno servizio a domicilio… Fino a qualche anno fa, ti sentivi fortunato se la pizzeria di fiducia ti portava a casa la margherita, nei giorni di pioggia battente.

Dati alla mano, ad usufruire maggiormente dei take away sono le persone socialmente svantaggiate, quelle meno istruite o con redditi più bassi. Questo può essere spiegato dal fatto che queste persone tendono ad avere meno tempo per cucinare, meno conoscenze su un’alimentazione sana e meno soldi per alimenti sani. I livelli di consumo di cibo da asporto sono, differentemente da quanto si potrebbe pensare, maggiori nei gruppi svantaggiati e dove, fra i cibi più richiesti ci sono appunto quelli che raddoppiano le probabilità di obesità: le patatine fritte.

A condizionare le nostre abitudini alimentari sono poi i cibi che più facilmente troviamo nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo. Per chi vive o lavora in aree dove le opzioni di cibo sano e fresco latitano, le scelte non salutari sono probabilmente l’opzione più semplice, se non l’unica.

A boicottare le nostre buone intenzioni è anche come il cibo ci viene servito. Il team di iNudgeYou, per esempio, ha condotto alcuni studi proprio in questo senso. A una conferenza, durante la pausa, gli ospiti potevano scegliere tra una mela intera e pezzetti di torta. Quando le mele sono presentate intere, soltanto il 32,9% delle persone le ha mangiate, invece quando sono state presentate tagliate, a sceglierle è stato l’85,3%.

SALE E SALIERE

Abbondare con il sale, se da un lato rende più saporite le pietanze, dall’altro ha ricadute pesanti sulla salute. In Inghilterra, alcune indagini hanno rivelato che venivano consumate ingenti quantità di sale nei locali di fish and chips: in un solo pasto era contenuto quasi la metà dell’apporto quotidiano consigliato. Per ridurne la quantità, sono state realizzate delle saliere con soli cinque fori (quelle tradizionali ne contengono diciassette): l’obiettivo era correggere il gesto automatico di ogni consumatore.

Prima di decidere quale fosse la quantità ideale di fori, gli architetti delle scelte (coloro che progettano i nudge) hanno esaminato campioni di fish and chips dei vari ristoranti della zona, per determinare come il design delle saliere potesse risolvere il problema. Con questo nuovo tipo di contenitori si poteva diminuire l’apporto del 60% senza sacrificare le esigenze del consumatore.

SE FOSSE LA FORMA DEL BICCHIERE A FARCI UBRIACARE?

Un altro piccolo trucco è porre attenzione alla forma del bicchiere. I ricercatori dell’Università di Bristol ritengono che beviamo più velocemente da bicchieri dalla forma ricurva rispetto a quelli dritti. Nel corso di un esperimento, infatti, i soggetti impiegavano sette minuti a bere mezza pinta di birra contenuta in un bicchiere ricurvo, contro gli undici impiegati quando la stessa quantità era servita in bicchieri dritti.

Un’altra spintarella è non servire vino in cartone e prediligere le bottiglie. Perché le bottiglie, essendo in vetro, sono trasparenti e permettono di vedere la quantità consumata, e di fissare degli indicatori, cosa non possibile con i contenitori in cartone.

OGNI GIORNO PRENDIAMO 200 DECISIONI SUL CIBO

Se sei stato assalito dallo sconforto, devo comunicarti che in media ogni giorno prendiamo duecento decisioni che hanno a che fare con il cibo, la maggioranza delle quali inconsce.

Ecco perché gestirle tutte è impresa ardua, però possiamo guidarle.

Per esempio possiamo iniziare a usare piatti più piccoli, che contengono una porzione di cibo più piccola di quella usata di solito. Tanto non sentirai la fame. A dimostrarlo, un esperimento in cui i partecipanti, divisi in due gruppi, venivano invitati a consumare una zuppa.

Un gruppo mangiava da una scodella che impercettibilmente e a loro insaputa, continuava a riempirsi di minestra da un foro nascosto sul fondo. L’altro gruppo invece consumava il cibo da una tazza normale. Chi mangiava dalla tazza truccata ha consumato il 73% di zuppa in più senza saperlo. Ma soprattutto non si sentiva più sazio di chi aveva invece mangiato una dose normale di zuppa. Il calcolo calorico non era stato fatto dalla pancia ma dagli occhi.

Ci sono molti modi per vivere una dieta. L’importante è scegliere un modo semplice e che nel possibile ci faccia anche divertire, giocando con le diverse opzioni che i Nudge ci mettono a disposizione. Se vuoi saperne di più ho racchiuso tanti altri consigli nel libro Nudge Revolution. La strategia che permette di rendere semplici scelte complesse.

Se accetti la spinta, potresti accorgerti che tante scelte possono essere davvero molto facili… anche seguire una dieta.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista DF Magazine: https://magazine.darioflaccovio.it/2020/02/06/come-fare-la-dieta-nudge-avere-forma-smagliante/

 

L’IMPAZIENZA NON PAGA. PIU’ CERCHI di SBRIGARTI, MENO TEMPO RISPARMI

In auto, costretto nel traffico, Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, nota che ai semafori rossi e agli stop, gli automobilisti tendono a fermarsi in estrema prossimità del veicolo che li precede. Motivo: pensano di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso, di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Convinzione errata.

Ricreando la scena del semaforo su una pista di prova Boreyko, ha scoperto che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettete immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente gli insegnamenti del prof. Nardone: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.

Le NEUROSCIENZE al SERVIZIO della NEGOZIAZIONE

E se la nostra irrazionalità ci aiutasse a migliorare la nostra capacità negoziale?

Proprio così. Conoscere bias ed euristiche, le più note trappole mentali, può darci un vantaggio nell’ottenere ciò che più ci interessa al tavolo di una trattativa. Come? Attraverso un modello che intreccia le tecniche negoziali con i principi dell’economia comportamentale.

Sviluppata e resa fruibile da Daniel Kahneman, lo psicologo premio Nobel e dal collega economista Amos Tversky, l’economia comportamentale ci mostra perché troppo spesso, rispondiamo emotivamente non solo alle provocazioni ma anche alle semplici domande poste dalla controparte, rivestendole però di razionalità. Inquadrando le domande e le affermazioni in modo da influenzare il sistema emotivo dell’interlocutore, possiamo governare la razionalità della controparte e modificarne le risposte in modo vincente per entrambi.

A spiegare qualche trucco, di come cioè le Neuroscienze si mettono al servizio della negoziazione, viene in aiuto Chris Voss, negoziatore internazionale per l’FBI, a cui non potevo non chiedere consigli vista la mia passione per tutto ciò che è mediazione e negoziazione.

 

1.  Conquista la fiducia in tre parole
Il trucco è semplice. Per creare vicinanza con la controparte, i negoziatori si concentrano sulle ultime tre parole pronunciate dall’interlocutore e le ripetono o ripetono la più importante delle tre. Si chiama effetto mirroring. “Il mirroring è l’arte di suscitare la somiglianza – spiega Voss -. Ripetendo le sue parole è come se segnalassi allo specchio inconscio dell’altro il messaggio: io e te siamo uguali”. Nel caso della negoziazione, l’effetto specchio è creato ad arte per promuovere un’empatia tattica e indurre fiducia. Dopo aver pronunciato le ultime tre parole, Voss invita a rimanere in silenzio per dare all’interlocutore la possibilità di ribattere. “A questo punto, l’altro finirà per approfondire inevitabilmente quanto ha detto, collaborando al processo di connessione e iniziando a rivelare informazioni preziose”.

2. Rallenta
In qualsiasi tipo di negoziazione una parte ha bisogno dell’altra. Quindi, anche se il tuo interlocutore avesse posto una scadenza, non sentirti in obbligo di rispettarla. “È evidente che la controparte ha bisogno di te, altrimenti non si sarebbe messa a trattare”. Lo stesso vale per il tono di voce, in particolare quella che chiama la “voce da dj di mezzanotte”. Quando moduliamo la voce assumendo un tono più grave, trasmettiamo il seguente messaggio: è tutto sotto controllo. A causa del tono acuto, invece, ogni frase pronunciata suona come una domanda. Dunque, rallenta: l’obiettivo è creare le condizioni giuste perché l’altro sveli le proprie carte e sia disposto a venirti incontro.

3. Chiedi come
Una delle più importanti parole che è utile utilizzare è “come”, perché permette di rigirare il problema all’interlocutore. Per esempio, se una parte dice: “Porta mille euro domani”, la risposta “Come faccio a procurare mille euro entro domani?” rispedisce il problema al mittente. Inoltre, siccome nessuno vuole sentirsi impotente, questa formula ha il vantaggio di mettere l’altro nella posizione di cercare una soluzione. Se una negoziazione non va come desiderate, prova a rilanciare con: “Sembra che non ci sia nulla che si possa fare” e vedrai la controparte fare il possibile per dimostrarti che ci sono cose che è in grado di fare per te. Chiedere come, inoltre, obbliga l’interlocutore a vedere le cose dalla tua prospettiva e a tenerne conto mentre propone un accordo. Se l’interlocutore non si mostrasse collaborativo, ripeti la domanda: per te, è un modo per dire no senza farti un nemico. Le domande che cominciano con Come o Cosa, inoltre, offrono il vantaggio di raccogliere più dati possibili.

4. Arriva a un no
Per quanto possa sembrare contro intuitivo arrivare a un no è un ottimo punto di partenza. “Se da un lato dire di no fa sentire l’interlocutore al sicuro, dall’altro crea una situazione in cui si inizia a intravedere un terreno comune”. Il modo in cui si pone la domanda è fondamentale per ottenere questo tipo di risposta. Per esempio, quando si tratta di chiedere qualcosa sul posto di lavoro, come più tempo o più risorse, Voss propone di formulare le domande in modo da permettere all’interlocutore di dire no: “Vuoi che non ce la faccia a completare questo progetto?”. Permettere al proprio capo di dire di no lo fa sentire più sicuro e più si sente sicuro,  più è disposto a trattare. In maniera speculare, trovarsi nella posizione di dire sì dà la sensazione di essere pressati e manipolati. “Il sì è un impegno, mentre il no protegge e rilassa e le persone tendono a essere molto più aperte e collaborative quando pensano di essere in controllo della situazione”. Lo stesso consiglio si applica quando volete parlare con una persona al telefono. Potete chiedere; “Hai qualche minuto per parlare?”, ma questo porta l’interlocutore a irrigidirsi, perché vorrebbe dire no, ma si sente spinto a dire sì con il rischio di rimanere bloccato al telefono. Le cose cambiano radicalmente formulando la domanda in modo diverso: “È un momento sbagliato per parlare?”.

5. Elenca le criticità
Per creare empatia con la controparte, elencare le variabili negative che ti riguardano è fruttuoso: “So che ti è difficile fidarti di me, so che hai avuto problemi analoghi in passato”. Dichiarare apertamente i propri limiti fa sentire l’altro sicuro e vi permette di cominciare a essere più espliciti con le vostre richieste. Essere onesti e diretti sono ottime qualità, ma non sono gli alleati ideali nel caso di una negoziazione perché aumentano le distanze, riducono l’empatia e sono la premessa per un conflitto, mentre si cerca un accordo. Questo consiglio non si applica solo alle negoziazioni dell’Fbi, ma anche alle relazioni interpersonali. Quando una discussione si sta trasformando in un disastro, è possibile che uno dei due avanzi delle accuse, tipo “non stai ascoltando” o “sei ingiusto”. La risposta più naturale è cominciare la frase negando questo fatto, ma attenzione, perché questo significa negare i sentimenti dell’altra persona. “Prendete atto delle vostre mancanze per favorire un’atmosfera collaborativa”.

6. Trova l’aggancio
Ascoltare è anche un modo per raccogliere informazioni che ti aiuteranno anche quando credi di non avere un appiglio nella trattativa. Voss, assicura che c’è sempre un appiglio e va trovato. A un certo punto, le esigenze della controparte appariranno chiare e capirete perché sta resistendo. È come se l’altro avesse un’informazione che cambierà tutta la situazione. Nel conto entrano anche variabili che non sono importanti per l’altro, ma possono fare la differenza per voi. Tipo: meno soldi e più tempo libero, meno tempo libero e più formazione. Ricorda di porre le domande in modo aperto: le persone amano questo tipo di domande, perché li fanno sentire come se stessero decidendo e dunque abbassano la guardia. Quando avete conquistato la fiducia della controparte e fatto in modo che le emozioni lavorino a vostro vantaggio, fate attenzione alla parola magica: “Quando il vostro interlocutore arriva a un “ok”, significa che avete segnato un punto. Adesso, non siete più due nemici che si confrontano, ma due collaboratori che cercano di risolvere un problema a beneficio di entrambi.

I consigli di Voss sono appena iniziati, ora non mi resta che entrare man mano nei dettagli della tua tecnica. Buona negoziazione a tutti!
 

RISPARMIARE con i NUDGE, facendo del BENE al PIANETA

«E sempre, invariabilmente, negli anni di siccità la gente dimenticava quelli piovosi, e negli anni piovosi si scordava completamente di quelli di siccità. Era sempre così…». Ci sono molti modi per parlare di ambiente e di temi green, questo è quello che scelse John Steinbeck, uno dei più grandi scrittori americani del XX secolo.
 
A trentasette anni Steinbeck pubblicava Furore. Ci mise cinque mesi a scriverlo: centocinquanta giorni di solo lavoro, al ritmo di duemila parole al giorno. Lo iniziò nel maggio del 1939 e lo terminò, esausto, in ottobre. Divenne subito un caso politico e di denuncia sociale, più che letterario; fu il libro più venduto negli Stati Uniti in quell’anno, in quello successivo vinse il premio Pulitzer e contribuì all’assegnazione del Nobel per la letteratura al suo autore nel 1962.
 
Steinbeck raccontò di aver fatto del suo meglio «per far saltare i nervi al lettore» a ogni pagina: ci riuscì e Furore divenne il romanzo di denuncia della Grande Depressione degli anni Trenta, raccontando il viaggio della speranza dei contadini affamati del Midwest (dove la siccità e il dust bowl, le tempeste di sabbia, avevano distrutto i raccolti) verso la più prospera California, dove Steinbeck era nato. Venne bandito in alcune librerie, bruciato, accusato di mistificazione, usato come baluardo da operai e socialisti e difeso dalla First Lady Eleanor Roosevelt.

UN MODO INSOLITO PERE PARLARE DI AMBIENTE

Un modo insolito di raccontare i patimenti della siccità, la fame e la morte che l’uomo regala a se stesso. Eppure è proprio dai libri che sono partiti i grandi cambiamenti, da lì sono state raccolte le scoperte che hanno sconvolto il modo di guardare alla realtà. Uno per tutti: Primavera silenziosa, pietra miliare dell’ambientalismo, dove l’autrice Rachel Carson previde con forte anticipo sui suoi tempi gli effetti in agricoltura dell’uso dei pesticidi chimici e di sostanze velenose, inquinanti, cancerogene o letali, sull’uomo e sulla natura. Ecco perché ricorrere a Steinbeck mi è parso il miglior modo per riflettere sulle conseguenze dei nostri comportamenti, nei confronti del pianeta.

UMORALMENTE UMANI 

Come ci sono molti modi per parlare di ambiente, ce ne sono altrettanti per promuovere soluzioni e comportamenti sostenibili: uno di questi sono i Nudge, la strategia della spinta gentile, anche lei “promossa” con il Nobel, che si fonda sulle teorie delle scienze economiche e comportamentali. 

 Benchè consapevoli dei problemi ambientali che affliggono la Terra, noi umani adottiamo solo flebili azioni concrete per porvi rimedio. O non agiamo affatto. Ci piace pensarci razionali, pronti all’impegno e coerenti fra il nostro dire e il nostro fare, dimenticando però di quanto siamo vittime seriali della nostra umoralità.

I nudge tornano così utili anche nel contesto green in quanto strumenti, spinte gentili in grado di cambiare l’azione del singolo nell’ambito della pratica sociale, senza i diktat del dato economico o della punibilità dettata dall’infrazione delle leggi. Sembra difficile, ma non lo è, perché è in linea con la filosofia del papà dei nudge, Richard Thaler «se vuoi che le persone facciano qualcosa, rendi questa cosa semplice».  

COME I NUDGE CI AIUTANO A RISPARMIARE SULLE BOLLETTE

Si è scoperto che per frenare il consumo del numero di asciugamani puliti nelle stanze d’albergo, si ha un’efficacia maggiore quando anzichè scrivere il semplice divieto «Aiutaci a salvare il pianeta. Puoi dimostrare il tuo rispetto per la natura e per l’ambiente riutilizzando i teli durante il tuo soggiorno», si scrive «Unisciti agli altri ospiti nella salvaguardia del pianeta. Il 75% degli ospiti che sono stati invitati ad aderire al nostro programma ha contribuito utilizzando i suoi teli più di una volta».

Le personetendono a fare ciòche fa la maggioranza.Insomma per frenare il consumo degli asciugamani puliti nelle stanze d’albergo,anziché porre in bella vista un cartellino di ammonimento, è più efficace scrivere che la maggior parte delle persone che frequentano quell’albergo non butta gli asciugamani per terra. Il trucco è fare leva sulla norma sociale, invece che sulclassico e meno rigido appello al risparmio energetico.

Per gli hotel, incoraggiare gli ospiti a riutilizzare gli asciugamani è una strategia particolarmente interessante, in quanto consente loro di risparmiare in modo sostanziale sui costi di manodopera, acqua ed elettricità, in nome dell’essere verdi. Uno studio ha stimato che una semplice riduzione del 10% dell’energia utilizzata porterebbe l’industria alberghiera a risparmiare 750 milioni di dollari all’anno solo negli Stati Uniti. Non c’è da stupirsi, quindi, che ora stia diventando pratica comune. Dopotutto a casa nostra cambiamo la biancheria quotidianamente?

ZONE 30 

Un altro esempio arriva dalle zone 30. Nelle quali è permesso andarci in macchina, ovvero non è proibito (cosa che invece avviene in pratiche forti come la pedonalizzazione), bisogna però percorrerle a bassa velocità. Non è un divieto, piuttosto un incentivo verso un comportamento più sostenibile per il cittadino e la viabilità. Questi e molti altri esempi sono esplicitati nel libro Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, nel capitolo dedicato proprio alle scelte green.

NUDGE E INQUINAMENTO 

Un altro modo per essere green è ben rappresentato dalla frase Prima di stampare, pensa all’ambiente. È la dicitura che accompagna la maggior parte delle email di lavoro ed è così visibile che spesso non la vediamo. Per la cronaca, noi italiani stampiamo, in media, 32 pagine di documenti ogni giorno, nei Paesi del Nord Europa, l’utilizzo della carta è decisamente più basso e non si arriva a 20 pagine.
 
Quanto ai danni ambientali di questa cattiva abitudine, spesso generata solo dall’indifferenza, sono di due tipi. Innanzitutto la carta arriva dagli alberi, ed è stato calcolato che un albero di medie dimensioni vale circa 12.000 fogli. Dunque: risparmiare carta, significa automaticamente salvare più alberi. In secondo luogo le montagne di carta consumate negli uffici italiani alimentano quattro milioni di tonnellate di anidride carbonica; basterebbe quindi eliminare la stampa di un foglio su cinque per ridurre di circa 900 milioni le emissioni inquinanti. Senza dimenticare che la fibra di cellulosa è un materiale molto resistente: si può riciclare fino a sette volte.
 
Per incoraggiare le persone a fare un consumo consapevole della carta si possono attuare molte azioni; la più semplice rimane quella di impostare la stampante in modalità “fronte-retro” e, quando possibile, servirsi di carta riciclata. Banale? Sì, ma sono convinta che se in questo momento ti chiedessi di verificare le impostazioni di default della stampante che usi abitualmente, potresti rimanere sorpreso di quante cose all’apparenza banali dimentichiamo. Quando la Rutgers University adottò, ormai qualche anno fa, il default di stampa fronte-retro, nei tre anni successivi il consumo di carta si ridusse del 44%, vennero cioè risparmiati oltre 55 milioni di fogli e salvati 4650 alberi.

GRATIS IL BIGLIETTO DELLA METRO  

A Pechino il biglietto della metro lo puoi pagare in denaro o in bottiglie vuote. Reverse vending è il modello applicato al riciclo approdato nelle stazioni della metropolitana ad alto traffico o turistiche della capitale cinese, dove il numero di persone che vi transitano arriva a 60.000 al giorno. A fianco delle tradizionali biglietterie automatiche, cassonetti “intelligenti” ricaricano la tessera magnetica da usare sui mezzi pubblici. Ogni bottiglia in PET restituisce fra i 5 e i 15 centesimi di yuan di credito a chi la inserisce nel cassonetto. A conti fatti, ai pendolari della metropolitana cinese servono circa 15 bottiglie per ogni biglietto.
 
Partendo dallo stesso concetto, in Australia sono stati posizionati raccoglitori automatici di contenitori di bevande: ogni anno ne finiscono in discarica (nel solo Nuovo Galles del Sud), più di 160 milioni, quasi la metà del volume totale di rifiuti. Cassonetti che funzionano nel modo opposto rispetto i distributori tradizionali: depositando una bottiglia di plastica, una lattina di alluminio o cartoni per bevande, si riceve un credito di 10 centesimi. Come ricompensa, gli utenti possono scegliere tra vari benefit, fra cui i biglietti dell’autobus. Il progetto, denominato Return and Earn, ha l’obiettivo, in un periodo di vent’anni, di ridurre di 1,6 miliardi il numero dei contenitori di bevande abbandonati in ogni dove e di 11 miliardi i contenitori di bevande che altrimenti finiscono in discarica.

Iniziativa approdata anche in Italia, dove in stazioni di conferimento che riconoscono i rifiuti correttamente differenziati, vengono rilasciati ecopunti del valore di 8 centesimi, cumulabili e spendibili negli esercizi commerciali convenzionati.

Cool biz è la campagna promossa in Giappone, dove è stato suggerito ai lavoratori – al fine di ridurre i consumi derivanti dall’uso dell’aria condizionata – di recarsi in ufficio con indumenti leggeri e comodi, invece dei più classici giacca e cravatta. Questa apparentemente piccola spinta ha ridotto le emissioni di anidride carbonica di 1.56 milioni di tonnellate.

Oppure come indicato da un rapporto dell’Istituto ecologico di Berlino, il nudge compare quando per esempio si decida di sostituire il parametro del contachilometri in auto, con un dispositivo automatico che contenga il calcolo automatico dei costi del carburante per ogni spostamento effettuato.

E non finisce qui… Gli interventi di green nudge sono tantissimi, e per scoprirli e quindi applicarli a costo zero e senza fatica, non rimane che leggere il libro Nudge Revolution.

L’articolo è stato pubblicato anche sulla rivista DF magazine: https://magazine.darioflaccovio.it/2020/01/07/risparmia-sulle-bollette-con-i-nudge/

PERFETTI NEGOZIATORI con le TECNICHE dell’FBI

Vuoi convincere tuo marito a fare le pulizie in casa? Tuo figlio ad andare a letto presto? Il capo a darti un aumento? L’inquilina del piano di sopra a non riempirti il balcone di briciole? Il collega a fare gli straordinari (almeno alcuni) al posto tuo?

Il successo dipende in gran parte dalla nostra capacità di negoziare. Apprendere e poi applicarne le tecniche però non è cosa immediata. Quest’oggi voglio introdurti qualche segreto utilizzata dalla stessa FBI: Federal Bureau of Investigation, l’agenzia governativa di polizia federale degli Stati Uniti d’America che ha competenza per alcuni reati tra cui l’antiterrorismo e l’intelligence interna (https://www.fbi.gov/).

A dare il primo consiglio è Chriss Voss, agente dell’FBI già responsabile dei negoziatori per i rapimenti internazionali, docente ad Harvard, e CEO di Black Swan Group: “Il segreto è tenere sempre in conto le emozioni“. Spesso per trattare si è soliti “separare il problema dalle persone“, non prendere in considerazione i sentimenti dei nostri interlocutori.

Come si può separare la persona dal problema quando proprio le sue emozioni sono il problema?Prendiamo il caso di chi ha una pistola in mano ed è spaventatissimo: in quel caso le emozioni sono l’elemento principale in grado di deragliare la comunicazione. Ecco perché i bravi negoziatori invece di ignorarle o negarle, le riconoscono e cercano di influenzarle. I sentimenti non sono gli ostacoli ad una trattativa di successo: sono proprio loro a determinarla”.

Immaginate che il direttore del personale davanti a voi sia un rapinatore di banca. Con una pistola in mano e dieci ostaggi sdraiati per terra; invece di chiedere milioni e un jet privato, custodisce gelosamente il budget delle risorse umane. Con lui, capo del personale o scassinatore di caveau, bisogna usare la stessa tecnica, pur essendo le due figure naturalmente diverse. Come? Ascoltando molto e facendo parlare il più possibile la controparte. Nel caso di una rapina in banca, questo serve per capire carattere e debolezze del sequestratore. In un colloquio con il responsabile del personale o il capo ufficio, invece, la strategia è un invito all’«avversario» a prendere una posizione, che magari va nella direzione desiderata.

Entriamo nel dettaglio: vi viene proposta una assunzione con uno stipendio di 40 mila euro. Una volta che la società ha messo sul piatto la sua offerta, non è utile dire né sì né no, ma qualcosa come «così lo stipendio per una posizione come questa è quello». Quasi a mettere nell’aria il dubbio che forse, sul mercato, c’è qualcuno che potrebbe offrirvi di più. E – tra l’altro – lasciando la parola all’«avversario», che ora deve – lui – confermare o rilanciare.

Importante è non trasformate l’incontro – che sia nella stanza del capo o davanti a una filale di banca circondata dalla polizia – in un testa a testa fra due opinioni personali. Ma mettete sul campo dati, informazioni oggettive per sostenere i vostri argomenti.
Come dire: quello che voglio (l’aumento di stipendio o la resa del sequestratore) non è il frutto di un capriccio, ma un’evidenza. Perché, per esempio, il rapinatore non ha vie di fuga o – nel vostro caso – i dati di mercato parlano di una retribuzione media più alta per la posizione che ora ricoprite. Mettete quindi la controparte non di fronte a voi, ma al mondo circostante.

Naturalmente non mancheranno le contro-obiezioni. Ma se avete ragione, se la vostra richiesta è sensata, se l’azienda ha soldi in cassa e tiene a voi, forse il vostro obiettivo non è poi così lontano. L’importante, come consiglia l’Fbi ai negoziatori, è non perdere la calma mandando tutto all’aria. Se il direttore del personale o il vostro capo tentennano, abbozzano un «ni» che è più un «no» che un «sì», non arrabbiatevi subito e non perdete il controllo della situazione. Dimostrerete quel sangue freddo che non guasta e, soprattutto, lascerete aperta la porta a un prossimo aumento di stipendio.

TRUCCHI PRATICI

1. Ripetete alcune parole
Ripetere l’ultima delle tre parole che la controparte ha detto. È uno dei modi più veloci per stabilire un rapporto e far sentire l’altro sicuro abbastanza da rivelare se stesso. La bellezza di tutto questo è la sua semplicità. Le persone l’adorano; tattiche come questa rallenteranno il ritmo della conversazione a vostro favore e vi lasceranno più tempo per pensare“.

2. Praticate l’empatia “tattica”
E’ importante far capire alla controparte che comprendete le sue emozioni. Frasi come ‘sembra come se tu sia spaventato da…’ o ‘sembri preoccupato…’ avranno l’effetto di disarmarli”. Un’altra tecnica consiste nel cercare di immedesimarsi nell’altro a tal punto da anticipare quello che dirà a breve, e cercare di dirlo prima.

3. Cercate il “no”
Non bisognerebbe mai mettere la controparte all’angolo e costringerla a dire “sì”. Anzi è meglio fare una serie di domande che hanno come probabile risposta un “no”: “è un momento scomodo per parlare?”. In questo modo, l’interlocutore si sentirà più al sicuro e avrà l’illusione di avere in mano la situazione.

4. Ottenete un “va bene”
C’è un momento cruciale per una negoziazione: è l’attimo in cui la controparte si convince che chi parla ha capito i suoi sentimenti. Prima di ottenere un “ok”, è consigliato ripetere all’interlocutore come stanno andando le cose, riaffermare quali sono i suoi voleri e le sue emozioni. Fare, insomma, una sorta di riassunto.

5. Date all’altro l’illusione del controllo
Il secreto del successo di una negoziazione è dare all’altro l’illusione del controllo, fargli credere di avere in mano la situazione. Per questo, non ha senso forzare la controparte ad ammettere che avete ragione: “Meglio fare domande che inizino con ‘Come?’ o ‘Cosa?’ in modo che usino la loro energia mentale per trovare la risposta”. Che, spesso, scoprirete, coinciderà con la vostra.

Gli ALTRI sono COME ME… E se non fosse cosi?

Se da adolescenti vi avessero chiesto, dietro compenso, di vestirvi da sandwich e girare per 30 minuti in pieno centro, in orario di punta, con un cartello pubblicitario appeso al collo, avreste accettato? E quanti dei vostri amici, avrebbe seguito il vostro esempio?

Questo è un esperimento messo in atto per capire come le persone utilizzano le opinioni per prevedere il comportamento di chi sta loro intorno: il 62% degli studenti coinvolti rispose affermativamente, contro il 38% che rifiutò. Ma a sorprendere furono le percentuali che venne chiesto loro di stimare su quanti dei loro amici avrebbero accettato e rifiutato quel tipo di lavoro.

• Chi accettò il lavoro, rispose che la maggior parte degli altri studenti (il 68%) sarebbe stata disposta a fare il cartellone vivente;

• Chi rifiutò rispose, in maniera speculare, che la maggior parte degli altri studenti (il 67%) NON sarebbe stata disposta a fare il cartellone vivente.

Due studenti su 3 immaginano che il comportamento degli altri studenti rispecchi il loro, qualunque esso sia!!!

FALSO CONSENSO

La tendenza a sovrastimare la misura in cui i propri comportamenti, credenze, qualità e atteggiamenti siano diffusi nella popolazione e condivisi da altre persone prende il nome di fenomeno del falso consenso.

In altre parole siamo convinti che gli altri, quando si trovano nelle nostre stesse situazioni, abbiano i nostri stessi pensieri e comportamenti.
In generale più un comportamento devia dalla norma più l’effetto del falso consenso è potente. Il problema è che spesso la norma la creiamo noi, senza alcuna ragione apparente.

Si dice che il giorno dopo la vittoria presidenziale di Nixon nel 1972, la critica cinematografica del New Yorker Pauline Kael commentasse: non ci posso credere, non conosco nessuno che abbia votato per lui. La Kael non conosceva nemmeno un elettore repubblicano e tanto le bastava. Quella per lei era diventata la norma degli americani.
La cosa importante è rendersi conto che il mondo reale non è fatto a nostra sola e totale somiglianza, e che ciò che si tende a fare è proiettare il nostro modo di pensare, e delle persone a noi affini, su tutti gli altri, finendo intrappolati negli effetti deformanti del falso consenso.

MOTIVAZIONE, LEADERSHIP e TANTE PICCOLE SPINTE GENTILI

La parola leadership è, in questi ultimi anni, fra le più usate/abusate nel business (e non solo). Non a caso, le aziende spendono un bel po’ di soldi, per aiutare i propri uomini di punta, a svilupparla al meglio: circa 3,4 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime, ma nulla o poco cambia.
 
Perché?

Non è mancanza di talento o pigrizia. O di cattiva programmazione o inefficienza. E’ ciò che viene chiamato in gergo “gap conoscitivo”, il grande abisso fra ciò che sappiamo e ciò che effettivamente applichiamo sul lavoro.
 
Esistono molte cause: sistemi di ricompensa fallaci, competizione all’ultimo sangue, stremanti obiettivi a breve termine, motivazione vacillante, carichi di lavoro disumani, riunioni fiume, spesso anche inconcludenti, e via dicendo. In pratica il manager sa cosa deve fare ma non ha modo di farlo. 
 
Prendiamo ad esempio Mario, un manager che si sta impegnando per essere un grande leader: si preoccupa dell’engagement del proprio team, perché sa bene che è il riconoscere il valore dell’altro che dà benzina all’impegno. Poi però Mario comincia pian piano a correre da una riunione all’altra, focalizzandosi sulle singole attività, sui fogli di Excel, su cose non strettamente importanti o spettanti al suo ruolo, dimenticandosi di coinvolgere la squadra, motivarla, congratularsi anche quando fa un ottimo lavoro… vorrebbe farlo, ma qualcosa di sempre più impellente, reclama il suo tempo e la sua attenzione.
 
In fondo Mario ha seguito corsi su corsi su come impiegare al meglio le sue skills ma nessuno gli ha insegnato cosa realmente motiva le persone. Lui medesimo.
 
In questi casi basterebbe ci fosse appollaiato sulla spalla di Mario, una sorta di consigliere pronto a sussurrargli: “Mario, alla prossima riunione, prova a elogiare chi della tua squadra si è distinto per aver portato un risultato eccellente. Per qualcosa di positivo che ha fatto e per cui si è distinto. Qualcuno che ha dato il buon esempio”. Già, perché alle volte bastano due righe di e-mail per fare miracoli, per incoraggiare, ad esempio, anche le persone più introverse, prima di una riunione, a parlare e migliorarne il senso di inclusione.
 
Questo suggerimento è di fatto un promemoria, o meglio una spinta, un nudge. E i nudge possono fare una enorme differenza sui comportamenti che mettiamo in atto e possono sostanzialmente colmare la differenza fra ciò che sappiamo e ciò che applichiamo effettivamente sul lavoro. Molto più di standardizzati corsi di formazione.

COSA SONO I NUDGE?

Ufficialmente, il termine nudge è stato definito e reso popolare da due grandi professori di economia, Richard Thaler e Cass Sunstein: «Un nudge è qualsiasi aspetto della presentazione delle scelte che condizioni il comportamento degli individui, senza vietare però alcuna possibilità». In altre parole i nudge sono interventi che guidano le persone nella scelta verso decisioni più efficienti, preservando la libertà di scelta individuale. Alle spinte ognuno di noi può sempre e deliberatamente opporsi in quanto non sono vincolate da alcuna legge, se non da comune buonsenso. Un avvertimento è un esempio di nudge, l’allarme che si attiva quando dimentichiamo di allacciarci le cinture di sicurezza in auto, così come le indicazioni del GPS oppure un’impostazione predefinita.

Per qualificarsi come nudge, un intervento non deve prevedere incentivi materiali, tanto quanto i disincentivi. Multe e condanne in prigione non sono spinte gentili.

PIU’ FORMAZIONE NON E’ SEMPRE LA MIGLIORE SOLUZIONE 

Il potere dei nudge di influenzare positivamente il comportamento umano si è rivelato così impattante che le grandi aziende, i militari e persino i paesi hanno formato delle “nudge unit” ufficiali, una sorta di task force per elaborare strategie per raggiungere con meno sforzo e più successo gli obiettivi organizzativi, rendere i luoghi di lavoro più funzionali al benessere individuale e collettivo, motivare i propri dipendenti e via dicendo.
 
Tutti, anche i manager più navigati e motivati, cadono facilmente nelle vecchie abitudini, concentrandosi su compiti che invece dovrebbero delegare, o si dimenticano di fornire feedback efficaci, dare apprezzamenti, sbagliano stile comunicativo e rimangono incastrati nella routine.
 
Anche se non esiste un proiettile d’argento, un antidoto universale, sappiamo che più formazione è raramente la risposta. Dovremmo forse dedicare meno tempo e denaro a nuovi programmi di formazione manageriale e un po’ di più all’applicazione delle conoscenze che già si possiedono. Con le odierne tecnologie digitali, dall’e-mail alla messaggistica ai messaggi audio, è più facile che mai ricorrere od organizzare  campagne di nudging per promuovere i comportamenti virtuosi desiderati.

NUDGE E MOTIVAZIONE 
 
Fra i compiti che spettano al leader, c’è indubbiamente quello di saper motivare collaboratori e dipendenti. Detto così sembra semplice, ma non lo è. Probabilmente molti di noi, senza usare i nudge, se dovessero, di punto in bianco, pensare a strategie per motivare i colleghi, a costo zero, brancolerebbero un bel po’ nel buio.
 
Come possono aiutare i nudge?
 
La motivazione non viene attivata dal denaro, ecco sfatato un primo mito. I soldi contano, ma nella scala gerarchica occupano un ruolo marginale.  Il primo posto è occupato dall’individuazione di uno scopo, un purpose nell’attività che si sta svolgendo, come ben si evince già nella prefazione del libro Nudge Revolution. La strategia che rende semplici scelte complesse.

A dimostrare la portata dello scopo sono anche gli studi e le ricerche di Dan Ariely, professore di psicologia ed economia comportamentale alla Duke University. In un esperimento ha chiesto alle “cavie di turno” di montare dei Lego Bionicle per soldi. I partecipanti sapevano già che una volta realizzati, questi sarebbero stati “distrutti”, per poi essere ricostruiti da altri. Se in un primo momento, i volontari hanno accettano di buon grado di stare al gioco dietro compenso, man mano che l’esperimento procedeva le cose si sono fatte via via più incerte. Dopo non più di una decina di prove i volontari hanno dato forfait
 
Il motivo: hanno perso motivazioneNon vedevano le loro azioni ricompensate da uno scopo reale: «Distruggendo i Lego davanti ai loro occhi – ha spiegato Ariely – hanno anche sostanzialmente distrutto la felicità che traevano da quest’attività».
 
Ciò che ci motiva è essenzialmente avere ben chiaro lo scopo, la ragione delle nostre azioni. Il  perché facciamo una determinata cosa.

Se si è annoiati o si pensa che la propria motivazione stia venendo meno, Ariely consiglia di dare risposta a due domande. “Quale significato possiamo trovare in quello che facciamo? E  in che modo il lavoro che svolgiamo contribuisce ad aiutare gli altri?».
 
E’ la definizione di uno scopo a motivarci e di conseguenza a renderci più felici e soddisfattiA farci fare meglio le cose, a non farci mollare o a farci mollare in un tempo più dilatato, a rendere le decisioni meno faticose e insidiose. A far sembrare anche il compito più ingrato, utile, necessario e importante
 
Un bonus in busta paga non sempre migliora la produttività di un lavoratore, anzi spesso ha l’effetto opposto. Come dimostra un esperimento sociale condotto in uno stabilimento Intel: i responsabili della fabbrica avevano stanziato dei bonus di produttività per motivare i dipendenti nella produzione di chip, in particolare nella loro prima giornata del ciclo lavorativo.

Cosa sarebbe successo se, invece di una ricompensa economica, fosse stata consegnata direttamente a casa una deliziosa pizza formato famiglia? Cosa sarebbe successo se al posto di una ricompensa tangibile, i dipendenti avessero ricevuto un messaggio dal proprio capo con su scritto “ottimo lavoro”?
 
Nel primo giorno di produzione, coerentemente con le intuizioni dei responsabili, fu riscontrato che il denaro, la pizza e l’elogio avevano tutti dato risultati migliori della condizione di controllo (né messaggi né promesse di bonus). Tutti e tre gli approcci accrescevano la motivazione in modo simile. Ma ecco la sorpresa: il coupon per la pizza incrementava la produttività del 6,7%, quasi a pari merito con il 6,6% di incremento ottenuto dal riconoscimento scritto. Dei tre incentivi, il denaro aveva la resa peggiore, attestandosi leggermente più in basso al 4,9%.
 
Paradossalmente quando il nostro lavoro viene riconosciuto ed apprezzato siamo disposti a lavorare di più per una paga inferiore. Come dimostra la metafora dei tre operai, la motivazione è un elemento imprescindibile.Tre persone erano al lavoro in un cantiere edile. Avevano il medesimo compito, ma quando fu loro chiesto quale fosse il loro lavoro, le risposte furono diverse. “Spacco pietre” rispose il primo. “Mi guadagno da vivere” rispose il secondo. “Partecipo alla costruzione di una cattedrale” disse il terzo.” 
 
Più un’azienda sa offrire ai dipendenti opportunità che creano significato e legame, maggiori sono le probabilità che quei dipendenti si impegnino di più e che la loro fedeltà sia più duratura. 
 
Se avete ancora qualche dubbio circa il potere del denaro nella motivazione, pensate se nel ricevere un regalo alla vostra festa di compleanno, un amico palesasse quanto gli è costato in termini economici. Quante probabilità ci sono che lo invitereste anche l’anno successivo?
 
Qualsiasi cambiamento si voglia generare, prima occorre comprendere quale sia il comportamento che si desidera modificare, tenendo conto dei valori, bisogni, desideri e priorità che muovono l’individuo. Riconoscerli è cruciale, dato il complesso ambiente nel quale le persone prendono decisioni. Più conosciamo a fondo gli individui di cui vogliamo modificare i comportamenti e più riusciremo a creare architetture delle scelte efficaci. E i nudge permettono tutto questo!

Questo articolo è anche stato pubblicato sul Magazine DF: https://magazine.darioflaccovio.it/2019/12/17/motivazione-leadership-e-tante-piccole-spinte-gentili/

PERCHE’ RIMANDIAMO A DOMANI, CIO’ CHE DOVREMMO FARE OGGI? Pigrizia e scarsa volontà non sono le risposte giuste!

Come al solito non hai voglia di studiare… di allenarti… di lavorare… Frasi trite e ritrite che ci siamo sentiti dire e che abbiamo rivolto un numero indefinito di volte…

Gli altri si aspettano tante cose da noi e noi di riflesso facciamo lo stesso con chi ci circonda, con chi veniamo in contatto, con chi viviamo e lavoriamo giorno dopo giorno. Spinti da quella orrenda frase che ci rincorre fin da bambini puoi fare di più.

In azienda, persone di tutti i ruoli procrastinano la consegna di progetti, mancano appuntamenti importanti e arrivano tardi laddove è considerato sacrilego. E così in università: raramente gli studenti consegnano elaborati rispettando la scadenza. Una volta ho avuto una studentessa che ha perso due anni per consegnare la tesi.

Pigrizia, scarsa volontà? No. Assolutamente no. O meglio fino a non troppo tempo fa pensavo anch’io fosse così…

Sono una comportamentista, quindi sono interessata (ossessionata è più corretto) a ciò che guida i comportamenti e le scelte umane. Quando si cerca di anticipare le azioni di un soggetto guardare il contesto è più predittivo che rifarsi all’intelligenza o ad altri tratti della personalità (https://psycnet.apa.org/record/1979-28632-001)

Così quando qualcuno non riesce a stare nei tempi, ho imparato a chiedermi: Quale situazione lo ha rallentato o bloccato? Cosa gli è mancato? Quali ostacoli che non vedo gli impediscono di agire?

Con il tempo ho imparato che ci sono sempre degli ostacoli che ci limitano, ecco perchè è sbagliato gridare alla cattiva volontà o alla pigrizia, se prima non si è analizzato il contesto.

Di fronte a un comportamento di una persona che non rispetta le nostre aspettative, possiamo comportarci in due modi: giudicare o cercare di capire. Fra le due è molto più semplice giudicare e additare i procrastinatori per il loro cattivo comportamento. Rinviare un progetto riporta facilmente all’idea di pigrizia, almeno a una analisi superficiale. Spesso lo pensano così anche coloro che procrastinano… devi fare qualcosa, sei un fallimento, un pigro…

Da decenni gli studi psicologici spiegano la procrastinazione non come un effetto collaterale della pigrizia, come dimostrano tra l’altro anche molte persone di successo che hanno raggiunto risultati sopra la media procrastinando: (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0092656686901273).

La procrastinazione è un processo esistenziale più profondo e complesso di quanto appare. E di come ci piace bollare. Un articolo di Charlotte Lieberman bene inquadra l’attitudine seriale a rimandare, ovvero la relazione complicata tra noi e le nostre emozioni.

PERCHE’ PROCRASTINIAMO?

 

Ci spiace spiegare pigrizia, negligenza e scarso senso del dovere (“Ce la potrebbe fare… ma non si applica!”), quale risposta a una cattiva gestione del tempo, a una scarsa pianificazione delle attività, a una insufficiente efficacia nella risoluzione dei problemi (“Ce la potrebbe fare… prova ad applicarsi… ma lo fa male!”).

Eppure ciò che caratterizza la procrastinazione non è solo l’atto di rimandare un’attività… ma anche la disturbante percezione emotiva che ne consegue: la sensazione che stiamo andando contro ciò che ci suggerisce il buon senso. Di fatto è un “auto-sabotaggio”. Inizialmente ci solleva dall’ansia, poi non ci fa sentire a posto con noi stessi.

Procrastinare è un comportamento irrazionale. Secondo Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di Ricerca sulla Procrastinazione dell’Università di Carleton di Ottawa, la procrastinazione non è causa di pigrizia, ma una reazione a stati emotivi dolenti che si faticano a gestire: ansia, timore di critica, inadeguatezza, senso di colpa. E’ il prevalere dell’urgenza di gestire immediatamente un’emozione dolorosa, rispetto al vantaggio a lungo termine di portare avanti un’attività.

A cui vanno aggiunti i personali stati d’animo: Sarò in grado di portare a termine il progetto?; Cosa penseranno gli altri di me se dovessi fallire?

Davanti a questi pensieri possiamo allarmarci e cercare una via di fuga: questo non elimina gli stati dolorosi associati all’impegno rimandato, ma semplicemente li posticipa spesso in maniera non indulgente, ma sotto forma di dialogo interiore severo e inflessibile (“Buono a nulla! Incapace! Non sei in grado!”) che aumenta la sofferenza e che paradossalmente proviamo a gestire… procrastinando ancora!

TORNIAMO A NOI…

L’intolleranza alla procrastinazione non deve farci dimenticare che spesso è determinata da ragioni più profonde che la scarsa volontà, come invece accade.

Conosco colleghi dell’università che non si sono mai chiesti cosa bloccasse uno studente. Una collega si rifiutava di lasciar entrare in classe  qualunque studente in ritardo. Non si interessava del perché; partiva dall’idea che nulla è impossibile se lo vuoi ottenere, figuriamoci arrivare in orario alle lezioni. Ricordo di un ragazzo sordomuto che poi si è laureato con il massimo dei voti a ingegneria, venire sottoposto a esame orale anziché scritto e venir bacchettato dal docente perché non capiva la domanda. Quando sarebbe bastato guardarlo in volto affinchè lui leggesse il labiale. Lui non è diventato un procrastinatore ma avrebbe potuto diventarlo e non per scarsa volontà.

O la studentessa che arrivava sovente in ritardo la prima ora di lezione perché passava le notti al capezzale della madre morente. Provava vergogna per la ruvidezza del docente, e nemmeno trovava la forza per esplicitare la sua situazione.

Al di là delle catalogazioni scientifiche, talvolta sarebbe sufficiente chiedersi il perché di un comportamento, prima di giudicarlo senza ascoltarne la risposta.

So che non è facile,  non siamo stati educati a riflettere su ciò che blocca i nostri collaboratori, i nostri studenti, i nostri amici. Tanti sono coloro che orgogliosamente rifiutano di condividere spazio e tempo con chi è meno fortunato, più lento, apparentemente meno elitario. E più rivestiamo ruoli importanti più mettiamo distanza, benchè diventiamo vittime di altre problematiche rispetto alla pigrizia. Eppure proprio come sappiamo che la pigrizia non è sempre una scelta attiva, anche i comportamenti elitari e giudiziari sono determinati dall’ignoranza situazionale.

Il segreto è chiedersi contro cosa lottano gli altri, e ricordare che probabilmente non se lo sono scelto. Ci stanno provando a fare bene, ma non sempre è facile. Alcune barriere sono difficili da abbattere, anche per i più forti e i più tenaci. Spesso, è sufficiente adottare un approccio curioso ed empatico nei confronti di individui che inizialmente vogliamo giudicare “pigri” o irresponsabili. E qui, mi domanderei perchè abbiamo questa esigenza da soddisfare, prima ancora di capire le ragioni della pigrizia altrui.

Le persone non scelgono deliberatamente di fallire o di deludere. Nessuno vuole sentirsi incapace, inefficace o inutile. Se guardando l’azione (o la non azione) di una persona, vedi solo pigrizia, probabilmente ti sei perso i dettagli chiave. C’è sempre una spiegazione. Ci sono sempre barriere. Solo perché non puoi vederle o non le vedi come legittime, non significa che non ci siano.

Forse devi solo imparare a guardare meglio.

29 Gennaio ’20 – Nudge Revolution – Open Milano

Presentazione del libro “Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse”, Open Milano – Flaccovio Editore

  • Mercoledì 29 Gennaio 2020 dalle ore 18,30

OBIETTIVI, CREDENZE e LIBERO ARBITRIO… Il nuovo anno è alle porte!

Life is what happens to you while you’re busy making other plans” cantava John Lennon, in Beautiful boy, il brano dedicato al figlio. La vita è proprio ciò che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti…

Progetti è, guarda caso, la parola chiave di ogni fine e inizio anno, periodo durante il quale si rimugina sui fallimenti e/o si pianifica il futuro. Se ci pensiamo bene però, la nostra vita non si svolge secondo i nostri desiderata. Difficilmente riusciamo a prevedere ciò che ci renderà felici, poiché perdiamo molto di quello che ci accade sequestrati dalle attese che facciamo su ciò che deve accadere e su noi stessi. Molto di ciò che viviamo e sentiamo si colloca al di fuori della portata della coscienza.

Molti dei proposti, così come i bilanci, sono pieni di giudizi. Si soffermano su ciò che non è andato o mancato. Ecco perché alcuni studi dicono che i buoni propositi per il nuovo anno hanno in genere vita breve. Sono perfettamente inutili.

Al di là della bontà della pianificazione degli obiettivi, che sinceramente mi hanno un po’ stancato, non posso non pensare al libero arbitrio e a quanto sosteneva il biologo molecolare britannico, Francis Crick secondo cui “le neuroscienze contraddicono la nozione di libero arbitrio”. Anche il semplice atto di prendere un foglio dalla scrivania, è sostenuto e preceduto da complessi processi biochimici che avvengono al di sotto del livello di coscienza.

LIBERO ARBITRIO

Per quanto dibattuta e ambigua, la nozione di libero arbitrio è incentrata sul valore della libertà di scelta e sull’idea che chiunque, attraverso l’impegno e il sacrificio, possa raggiungere i propri obiettivi a prescindere dalle condizioni iniziali. Ma fin dalle teorie sull’evoluzione elaborate da Charles Darwin, è noto almeno dalla seconda metà del diciannovesimo secolo che le stesse facoltà intellettive alla base delle nostre scelte razionali siano almeno in parte un’eredità biologica e che, allo stesso tempo, il loro sviluppo sia condizionato da molteplici fattori ambientali. A seconda di quale dei due aspetti si consideri prioritario rispetto all’altro, la discussione tra addetti – neuroscienziati, filosofi, neurofisiologi e psichiatri – tende a oscillare tra due poli opposti rappresentati dal concetto di “natura” (l’eredità biologica) e da quello di “cultura” (i condizionamenti ambientali).

Tornando a Crick “Sei consapevole di una decisione, ma non sei consapevole di ciò che ti fa prendere la decisione. Ti sembra ovvio, ma è il risultato di cose di cui non sei a conoscenza”. Sapendo che sono in molti a negare il libero arbitrio, Crick studiò con attenzione gli esperimenti condotti dallo psicologo Benjamin Libet. Libet aveva chiesto alle sue cavie di premere un pulsante in un momento a loro scelta, segnando il momento della decisione su un orologio. Le loro onde cerebrali, monitorate da elettroencefalogramma (EEG), mostravano un picco di attività quasi un secondo prima che i soggetti decidessero di premere il pulsante. Questo e altri risultati mostrano, secondo Crick, che le nostre decisioni coscienti sono letteralmente ri-pensamenti.

Grazie a ulteriori esperimenti che non vi tedierò illustrandoli, due scienziati cognitivi Daniela Schiller e David Carmel scoprirono che “nel cervello ci sono neuroni che sanno che stai per fare un movimento un secondo prima che lo sappia tu stesso (Scientific American). Si potrebbe essere tentati di concludere che il libero arbitrio è un’illusione”.

Ovviamente questi esperimenti sono insufficienti per sondare il libero arbitrio, poiché le cavie avevano già preso la decisione di premere il pulsante; hanno solo scelto quando farlo. Ci sarebbe da sorprendersi se i sensori EEG non avessero trovato un’anticipazione neurale di quella scelta.

Diversi sono gli studi con elettrodi impiantati nel cervello che rivelano come inganniamo noi stessi nel pensare di avere il controllo quando non lo abbiamo. Gli scienziati, per esempio, possono far alzare il braccio di un paziente stimolando elettricamente un punto nella corteccia motoria. Spesso il paziente sostiene che intendeva sollevare il braccio e addirittura inventa un motivo. Nel libro The Illusion of Conscious Will, lo psicologo Daniel Wegner chiama confabulazioni queste spiegazioni deliranti successive all’evento.

Noi tutti confabuliamo. Facciamo passivamente ciò che ci è stato detto di fare e crediamo a quello che ci è stato detto di credere da genitori, formatori, sacerdoti e leader politici, e ci convinciamo che è una nostra scelta. Sovvertiamo la nostra volontà per arrivare in modo insincero a una conclusione scontata, fallendo nell’agire sulla base delle nostre risoluzioni. A volte agiamo seguendo un impulso – paura o rabbia – senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni. Ma non significa che la volontà non esista.

Il filosofo Daniel Dennett nel libro L’evoluzione della libertà osserva che il libero arbitrio non è “quello che la tradizione afferma che sia: un potere quasi divino di astrarsi dal tessuto causale del mondo fisico”. Il libero arbitrio è la capacità di percepire, riflettere e mettere in atto delle scelte; infatti, scelta, o addirittura libertà, sono sinonimi ragionevoli di libero arbitrio.

Dennett chiama il libero arbitrio “una creazione evoluta delle attività e delle credenze umane”, che l’umanità ha acquisito recentemente come conseguenza del linguaggio e della cultura. Il libero arbitrio è una proprietà variabile che può crescere e diminuire sia negli individui sia nelle società: più scelte possiamo percepire e fare, più libertà avremo.

Noi, a nostra volta, siamo dipendenti dal libero arbitrio. Il concetto di libero arbitrio è alla base di tutta la nostra etica e morale: ci costringe ad assumerci le nostre responsabilità invece di consegnare il nostro destino ai nostri geni o a un piano divino. Le scelte, fatte liberamente, sono ciò che dà significato alla vita. Provate a dire ai prigionieri di Guantanamo o ai civili afgani, siriani e via dicendo in fuga da bombe e proiettili che le scelte sono illusorie. “Scambiamoci i ruoli”, potrebbero rispondere, “visto che non avete nulla da perdere.”

Alcuni studi inoltre dimostrano che “Le persone portate a credere meno al libero arbitrio hanno maggiore probabilità di comportarsi immoralmente”. E’ come se le persone private della convinzione della propria autodeterminazione smettessero allo stesso tempo di sentirsi responsabili delle proprie azioni.

ILLUSIONE O REALTA’?

Pur essendo ragionevolmente convinto che il libero arbitrio sia un concetto infondato, Saul Smilansky, docente di filosofia all’Università di Haifa, in Israele, sostiene che sia meglio vivere con l’“illusione” che esista qualcosa di simile, piuttosto che favorire la diffusione del determinismo. Secondo Smilansky, l’idea che ciascun individuo non abbia possibilità di autodeterminarsi non soltanto potrebbe creare i presupposti di una tendenza alla deresponsabilizzazione, ma annullerebbe automaticamente anche qualsiasi idea di merito individuale.

Se un uomo rischiasse la vita paracadutandosi in territorio nemico per portare a termine una coraggiosa missione. In seguito la gente dirà che non ha avuto scelta, che l’impresa, per dirla come Smilansky, è stata soltanto “il dispiegamento di un dato di fatto”, e perciò difficilmente encomiabile. E così come l’eliminazione delle responsabilità eliminerebbe un ostacolo ad agire in modo malvagio, l’eliminazione degli elogi eliminerebbe un incentivo a fare le cose bene.

Secondo i sostenitori di questa forma di “illusionismo” filosofico, la fiducia nel libero arbitrio potrebbe spronarci a tirare fuori il meglio da noi stessi. E Smilansky, che ritiene questa fiducia del tutto connaturata nell’essere umano, crede che le istituzioni fondate sul presupposto stesso del libero arbitrio – tutte quelle che amministrano la giustizia, per esempio – siano assolutamente necessarie per evitare di finire nell’estrema barbarie.

MEGLIO SENZA?

Altri studiosi, non credono che abbandonare il concetto di libero arbitrio possa avere effetti nocivi sul grado di civiltà di una società. Il neuroscienziato Sam Harris, crede che sarebbe molto meglio farne a meno, e che le nostre credenze debbano sempre seguire ciò che si dimostra essere vero. “Come società, dovremmo conoscere quali sono le leve da azionare per incoraggiare le persone a essere le migliori versioni di sé che possono essere”. Secondo lui, se accettassimo che “il comportamento umano emerge dalla neurofisiologia” potremmo più facilmente comprendere cosa davvero spinge le persone a compiere azioni dannose e provare a impedire che questo accada, piuttosto che usare punizioni come il carcere come deterrente.

Per comprenderne i benefici, prosegue Harris, basta confrontare due catastrofi di scala simile: le reazioni alle morti causate dall’uragano Katrina furono molto diverse dalle reazioni alle morti causate l’11 settembre. Nel primo caso, nessuno se la prese con le tempeste tropicali o dichiarò una Guerra al Clima, e la risposta collettiva all’uragano poté concentrarsi sulla ricostruzione e sulla prevenzione. Nel secondo caso, l’ottenebramento generato dal desiderio di vendetta portò a un’ulteriore, non necessaria, perdita di innumerevoli vite.

A voi, in un tempo di bilanci e costruzione di nuove aspettative, lascio l’ultima parola, la possibilità di credere o meno alle mie tante confabulazioni e delineare ciò che è scienza e ciò che è mal riposta credenza.

Buon anno!