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COSA fai QUANDO TROVI un PORTAFOGLIO?

Ho una buona notizia: siamo altruisti più di quanto pensiamo.

Mi spiego meglio: se perdete il portafoglio avete, in Italia, il 50 per cento di possibilità che vi venga restituito. Soprattutto se è pieno di soldi.

In pratica, più il portafoglio è ricco, più i cittadini di molti Paesi del mondo si sentono in dovere di restituirlo al legittimo proprietario. La percentuale è variabile e cresce in funzione della quantità di denaro presente all’interno. A dirlo una ricerca pubblicata su Science: condotta dalle Università di Zurigo, Michigan e Utah, che ha preso in esame 355 città di 40 nazioni in tutto il mondo, Italia compresa.

Camuffati da anonimi passanti, i ricercatori sono entrati in banche, teatri, musei, uffici postali, hotel e stazioni di polizia, per consegnare un portafoglio, dicendo di averlo trovato casualmente per strada e chiedendo di restituirlo al proprietario di cui erano presenti alcuni documenti personali, una lista della spesa e a volte dei contanti di valore variabile.

Contro ogni previsione, è emerso che le persone interpellate provavano a rintracciare il proprietario del borsellino soprattutto se conteneva denaro: la probabilità era tanto più alta quanto maggiore era il valore economico in esso contenuto. In media, su scala globale, è stato restituito il 40% dei portafogli vuoti, il 51% di quelli che contenevano pochi spiccioli e il 72% di quelli più gonfi di denaro.

Un risultato assolutamente controintuitivo, perché l’etica in questo caso va a confliggere con l’interesse economico personale. Secondo ulteriori indagini, la maggior parte delle persone si comporta onestamente, soprattutto davanti a grandi cifre, non per altruismo, ma perché teme di essere considerata al pari di un ladro, distruggendo l’immagine auto percepita di sé come di una persona onesta.

Lo studio è illuminante insomma, perché mostra che sebbene la violazione di una regola comporti un vantaggio economico, come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina anche un costo personale che non tutti e non sempre siamo disposti a pagare: la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste.

Il nostro comportamento è tanto più etico quanto più è integerrima l’immagine che ci siamo costruiti e questo dipende dal posto e dal modo in cui siamo cresciuti e dagli insegnamenti che abbiamo ricevuto. E’ un fatto culturale.

Dallo studio emerge poi una vera e propria classifica dei Paesi più onesti: in Svizzera è stato restituito l’80% dei portafogli con soldi; in Cina poco più del 20%, l’Italia è a metà strada, intorno al 50%, insieme a Grecia e Cile.

Le ABITUDINI si POSSONO MODIFICARE ma… NON nel MODO in cui PENSI. Dai retta, per una volta, alle Neuroscienze

Da tempo pseudo guru, formatori improvvisati e coach della domenica ci tormentano, cercando di farci credere sostanzialmente due cose: 1) la formazione è la panacea di tutti i mali 2) se si vuol avere successo bisogna uscire dalla propria zona di confort.

Mi dispiace, soluzione sbagliata.

A dirlo ovviamente non sono io, ma la scienza, le Neuroscienze. Vi spiego in cosa, guru, formatori e coach improvvisati sbagliano. Possiamo seguire i migliori corsi di formazione sul mercato, modellare i leader che riteniamo di riferimento alla nostra crescita, ma rimanere con le stesse abitudini di sempre.

PERCHE’ ACCADE QUESTO?

Il cervello è neofobico, non ama le novità. Non a caso le attività cerebrali rispondono a due necessità basilari: assicurare la sopravvivenza e contenere il dolore. E per farlo si avvalgono di due strategie: ripetizione e velocità. La velocità si ottiene con la spontaneità e l’automatizzazione nel percepire ciò che ci accade secondo dopo secondo, senza metterlo in discussione. La ripetizione si ottiene con l’avversione (emotiva e cognitiva) verso ciò che è sconosciuto e nuovo.

Questo è possibile perché il 95% delle strutture neurali operano in modo automatico, in assenza di valutazione e calibrazione di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo e pensiamo. Altrimenti sarebbe impossibile decodificare ogni informazione con cui entriamo in relazione e processare le circa 15 mila decisioni a cui quotidianamente siamo chiamati.

Inoltre il cervello non è disponibile a cambiare in modo incondizionato. Accetta sì abbastanza di buon grado quei cambiamenti che sono allineati alle esperienze e alle credenze a cui già è abituato, e impara nuovi modi di pensare e di agire solo quando questi non richiedono di andare contro le abitudini cognitive ed emotive già strutturate.

Quando gli si chiede o impone di cambiare comportamenti per andare verso altre abitudini di cui non ha esperienza, il cervello erge muri difensivi belli spessi, chiudendosi, per usare una metafora, in una sorta di castello super fortificato e quasi inespugnabile.

In parole semplici: tutta la motivazione del mondo nel modificare un comportamento avrà presa come neve al sole se va in conflitto con le abitudini consolidate e cristallizzate nei circuiti sinaptici.

DUBBIO E AUTOCONTROLLO

Una soluzione per fortuna c’è. Grazie alla presenza nella corteccia pre-frontale di un circuito che mette a disposizione due risorse: il dubbio e l’autocontrollo.

Il dubbio ci permette di dare vita a nuove idee e a percepire la realtà in modo diverso da come l’abbiamo sempre vista. Da solo però, non è sufficiente per contrastare i circuiti sinaptici cristallizzati. Occorre anche l’autocontrollo, la forza di volontà, importante nel rallentare le abitudini.

L’autocontrollo è indispensabile per frenare il pilota automatico della spontaneità. Per cambiare abitudini deve però essere pervasivo, costante nel tempo e ben radicato. Così da modificare i circuiti sinaptici esistenti, sostituendoli con quelli nuovi.

Tutto questo cosa ci dice? Che per avviare il cambiamento nelle persone, che sia a livello personale sia aziendale, occorre guardare in direzioni diverse da quelle dei normali corsi di formazione. Diventati abitudine non solo nel modo in cui vengono espletati, ma per i nostri stessi circuiti cerebrali. Automatici, e incapaci di stuzzicare il dubbio e far attivare la consapevolezza.

Dobbiamo ricordare una lezione importante che viene dalle Neuroscienze. Dire o pretendere che una persona, un collega, un dipendente, un cliente, un paziente cambi, equivale a far entrare la mente di quella stessa persona in conflitto con se stessa.

Ecco la contraddizione in termini.

Cambiare non è un conflitto che si fa nascere verso colleghi, dipendenti, clienti, pazienti, non è uno sforzo che va in direzione contraria alla realtà esterna. Cambiare è uno scontro fra due strategie neurali presenti all’interno del nostro cervello.

Ben diverso cioè da come ci è sempre stato insegnato, detto, proclamato a gran voce da chi di Neuroscienze e cervello sa quello che può aver imparato spulciando quale nozione qua e là, o seguendo qualche corso tenuto da formatori improvvisati (almeno su questi temi).

Se veramente si vuole spingere verso il cambiamento qualcuno, e solo se ce lo chiede, ecco 5 domande che potrebbero essere utili e non invasive (per il cervello).

– I comportamenti che voglio attivare, vanno contro le abitudini di quella persona?

– Se sì, quanto?

-La resistenza che quella persona deve fare valgono lo sforzo? O fa solo bene a me, promotore del cambiamento a tutti i costi?

– In che modo posso innescare il dubbio, affinchè la persona veda quell’abitudine come obsoleta o poco funzionale? E sia quindi spinta a modificarla?

– Come posso nel tempo sostenere la nuova abitudine? Come posso far sì che la perseveranza non venga meno di fronte all’estenuante resistenza che i vecchi circuiti opporranno verso il nuovo?

Come vedete, il cambiamento è qualcosa di molto più personale di quello che si crede. Le abitudini ci regalano sicurezza e lasciarle è un po’ come abbandonare qualcosa di caro.. provate, a togliere la coperta a Linus e vedrete come reagisce. Cambiare per cambiare non serve. Ogni cambiamento, soprattutto a livello aziendale, deve essere frutto di una analisi profonda e ben motivata. Solo allora si potrà chiedere a chi, per quella azienda lavora, uno sforzo. E lo faranno se lo credono efficace e funzionale. Ma se il cambiamento che richiedete è schizofrenico, dettato dalle mode del momento e poco sostenuto da ragioni anche e soprattutto razionali, lasciate stare. Questa volta, accettate il consiglio.

COLLABORATORI e DIPENDENTI più COINVOLTI, con il METODO SCARF. ISTRUZIONI per l’USO

Chi, sul luogo di lavoro non si è sentito minacciato? O eccessivamente controllato? O sminuito, o addirittura messo da parte? Alzi la mano…

Spesso, quando veniamo esclusi da un progetto, un’attività, una promozione, ciò che avvertiamo è un senso di minaccia. Sentiamo minacciato il nostro status, il nostro ruolo all’interno del contesto lavorativo. Reazione questa che può avere sfumature variegate, anche violente e non sempre facili da controllare, perché tocca le parti più antiche e profonde del nostro cervello.

Senza contare che ci fa male, molto male; non a caso le neuroscienze hanno dimostrato che questo sentimento può stimolare la stessa regione del cervello del dolore fisico.

Per fortuna quando ci sentiamo ricompensati, quando riceviamo elogi per il nostro lavoro, i nostri cervelli rilasciano dopamina, l’ormone della gratificazione. E naturalmente vogliamo di più e quindi ci attiviamo per essere ricompensati ancora e ancora nel futuro a breve termine.

Per minimizzare il senso di minaccia e massimizzare quello di gratificazione è stato pensato, dall’esperto di Leadership David Rock, un modello noto con il nome di SCARF, che evidenzia i cinque fattori organizzativi che hanno un effetto negativo impattante ma spesso poco considerato sulle reazioni umane sul luogo di lavoro. Se li si impara a conoscere, sarà di fatto più facile e funzionale aumentare l’engagement di dipendenti e collaboratori a un costo molto basso.

Ecco i cinque fattori:

  • Status (percezione di essere considerati migliori o peggiori di altri);
  • Certainty/Certezza (possibilità di prevedere eventi futuri e, quindi, poter programmare senza ansia la propria vita);
  • Autonomy/Autonomia (il livello di controllo sulle attività e la possibilità di decidere sul proprio lavoro con una sufficiente indipendenza);
  • Relatedness/Relazione (l’esperienza di far parte di un gruppo e condividerne gli obiettivi);
  • Fairness/Equità (sentirsi rispettati e trattati in modo equo)

COME APPLICARE SCARF AL LAVORO

Sentirsi minacciati blocca la creatività, riduce la capacità di risolvere i problemi e ci rende più difficile comunicare e collaborare con gli altri. Quando invece ci sentiamo ricompensati, l’autostima sale e ci sentiamo motivati a fare un buon lavoro.

Non a caso, quando il livello percepito da un collaboratore in merito a uno qualsiasi dei 5 fattori SCARF è basso, aumenta il senso di minaccia e turbamento. Anche se non lo esprime palesemente, la sensazione c’è o è latente, e spesso compromette la sua produttività e la volontà di mostrare impegno.

In altri termini, la persona, di fronte a determinate situazioni organizzative non favorevoli, riceve gli stessi messaggi di allerta e di pericolo di quando vengono messe in gioco le elementari strutture (minaccia e ricompensa) sulle quali fa affidamento per la sua sopravvivenza. A quel punto, nel suo cervello si attivano le stesse risposte “primitive”, le stesse reazioni fisiche (dolore) ed emotive a livello istintuale, che non sono facili da controllare e da reprimere.

STATO

Il prestigio sembra essere uno dei principali elementi della longevità e del benessere. Il nostro cervello pensa al prestigio utilizzando gli stessi circuiti con cui processa i numeri e un aumento nel prestigio viene equiparato a un colpo di fortuna finanziario. Vincere una gara, una partita, un confronto, fa sentire meglio perché aumenta la percezione del proprio prestigio e i circuiti di ricompensa vengono attivati, in particolare i livelli di dopamina. Di norma nelle organizzazioni si tende a ricompensare le persone attraverso le promozioni. Come detta la legge di Peters, questo può avere come effetto collaterale il promuovere persone all’apice della loro incompetenza. Le ricerche dimostrano però che il prestigio può essere ricompensato e aumentato fornendo feedback positivi e riconoscimenti pubblici.

Essendo il prestigio fondato sulla percezione della posizione che si ha all’interno della propria comunità di riferimento, ogni ricompensa fornita in questa direzione accresce il senso di benessere e innesca un circolo virtuoso che stimola il cervello, aumenta la creatività, soddisfa i bisogni primari e riduce le richieste di promozione o di avanzamento di carriera.

CERTAINTY/CERTEZZA

Il cervello è una macchina per il riconoscimento degli schemi: cerca costantemente di predire il futuro. Quando non siamo certi di qualcosa, la corteccia frontale del nostro cervello inizia a fare gli straordinari mentre cerca di dare un senso all’ignoto. Livelli più ampi di incertezza, come non conoscere le aspettative del proprio capo, le valutazioni del proprio insegnante o il grado di affetto del proprio genitore o partner, generano un forte stato di debilitazione. Ogni cambiamento significativo genera incertezza. Ecco perché nelle organizzazioni, si sviluppano strategie, piani, mappe, diagrammi di flusso, tabelle excel che permettono ai dipendenti di sentirsi meglio perché il loro livello di certezza è mantenuto. È noto come la chiarezza sulle aspettative e sugli obiettivi, generi nei collaboratori un maggior senso di sicurezza e conseguentemente di benessere. Tra le diverse azioni che possono aumentare i livelli di Sicurezza vi sono:

  • Rendere esplicito quello che tendiamo a tenere implicito e non dare nulla per scontato
  • Definire obiettivi chiari all’inizio di ogni “ciclo” di azioni
  • Fornire tutte le informazioni a disposizione in un tempo dato

AUTONOMY/AUTONOMIA

Autonomia significa esercitare il controllo su un determinato contesto, avere la sensazione di avere delle scelte. Uno stress senza vie di fuga e senza possibilità di controllo è altamente distruttivo, mentre lo stesso stress, interpretato come evitabile, è significativamente meno distruttivo. Il lavoro in team richiede una riduzione dell’autonomia, ma in culture organizzative evolute, questa potenziale minaccia viene neutralizzata da un aumento del Prestigio, della Certezza e della Relazionalità. Sul lato della ricompensa, in un’organizzazione non è sempre semplice fornire livelli elevati di autonomia. Ciò nonostante può dimostrarsi utile offrire alle persone la libertà di organizzare il proprio lavoro, la propria scrivania e magari il proprio tempo lavorativo, all’interno naturalmente di parametri concordati.

RELATEDNESS/RELAZIONE

Implica la decisione se gli altri sono “dentro” o “fuori” un gruppo sociale, se qualcuno è amico o nemico. L’affinità è un driver comportamentale all’interno di diverse tipologie di squadra. L’informazione relativa a persone percepite “come noi” viene processata dal cervello utilizzando circuiti simili a quelli usati per pensare a se stessi e mettendo in gioco l’ossitocina. Maggiori quantità di questo ormone si trovano in persone con elevate capacità di sviluppare affinità. Concetto strettamente connesso con la fiducia. Più questa è elevata tra le persone, più forte e ampia è la collaborazione e la condivisione. In ambiti sociali limitati (scuola, lavoro, palestra), incoraggiare le connessioni sociali aumenta la qualità e la valenza delle prestazioni, riduce l’ansia sociale e favorisce la collaborazione. L’unico modo per aumentare la risposta di ricompensa dalla Relazione è aumentare le connessioni sicure tra le persone. In ambito organizzativo possiamo parlare di:

  • sistemi di “buddy” (piccoli agglomerati di 2/3 persone che si accordano per sostenersi a vicenda)
  • programmi di mentoring e/o coaching
  • piccoli gruppi di “action learning”

FAIRNESS/EQUITA’

Gli scambi basati sulla correttezza e la giustizia sono premianti. Questo può spiegare perché molte persone sperimentano un senso di ricompensa svolgendo una attività di volontariato: contribuiscono a ridurre l’ingiustizia nel mondo. Allo stesso tempo, scambi ingiusti generano una forte risposta di minaccia: situazioni percepite come fortemente ingiuste possono portare alcuni a morire per difendere i propri diritti. Persone considerate disoneste non stimolano la pietà nel prossimo; anzi generano un senso di soddisfazione quando vengono punite. La minaccia nella percezione di un’ingiustizia può essere ridotta:

  • aumentando la trasparenza
  • migliorando la chiarezza della comunicazione
  • stabilendo chiare aspettative in ogni situazione

Scarf è un modello scientificamente basato sulle reazioni del nostro cervello a stimoli di minaccia o ad azioni di ricompensa e ci insegna che agire in direzione di una ricompensarelativamente alle 5 aree appena descritte, aumenta le probabilità che le persone siano maggiormente motivate, sviluppino un maggior senso di appartenenza all’azienda/team, riducano l’assenteismo, ottimizzino le prestazioni.

Diffondere in azienda un approccio che premi queste 5 attitudini, che soddisfi nel cervello di ognuno, il bisogno continuo di socialità, che potenzi nei collaboratori le condizioni di ricompensa in grado di superare le relative sensazioni di minaccia che impediscono di fatto i processi evolutivi, può generare una condizione di profonda trasformazione del tessuto relazionale interno, aumentare il livello di benessere personale e relazionale ma anche di efficacia ed efficienza, riducendo allo stesso tempo assenteismo e conflittualità, perdite di tempo e distrazioni. In altri termini favorendo lo sviluppo di aziende più sane, etiche e sostenibili.

Per saperne di più: SCARF: un modello basato sul cervello per collaborare e influenzare gli altri 

NUDGE QUESTI SCONOSCIUTI: strategie per rendere semplici scelte complesse

“Carne: abbiamo una bella bistecca pesante, oppure agnello, rognone, fegato fritto intriso, impanato. Altrimenti pesce: abbiamo rombo grasso grasso, oppure baccalà porchettato intriso, unto al Grand Marnier, altrimenti un salmone magro”.

E’ così che Roberto Benigni, nelle vesti di un cameriere, presenta a un importante cliente entrato al ristorante in orario di chiusura, il menù. Una tortuosa lista di cibi, sapendo però che in cucina c’è solo salmone e insalata. Ma il modo in cui snocciola una dopo l’altra le diverse alternative, orienterà il cliente verso l’unica soluzione disponibile: il salmone.

Era il 1999, nelle sale usciva La vita è bella e di Nudge ancora non si parlava. Eppure questo simpatico esempio ben rappresenta la strategia che diciotto anni più tardi regalerà il Nobel per l’economia a Richard Thaler, il papà dei nudge.

LE SPINTE GENTILI

Se nel film, Benigni, si trova costretto a orientare il cliente, per forza di cose, verso l’unica soluzione possibile, i Nudge hanno un obiettivo meno commerciale e più funzionale al benessere individuale e collettivo sia in termini di salute, soldi e sia di felicità: aiutarci a preferire l’opzione migliore fra le diverse alternative possibili ma senza sforzo e fatica.

I nudge sono infatti un modo di pensare, una strategia pensata per rendere semplici scelte complesse.

In italiano la parola nudge può essere tradotta come spinta gentile ed è un approccio tutt’altro che casuale, accettato anche dai più scettici, perché validato da poderose ricerche scientifiche.

Quando ci troviamo a prendere una decisione, la maggior parte delle volte lo facciamo affidandoci più al nostro istinto che alla nostra razionalità. Se fossimo totalmente razionali, probabilmente sceglieremmo sempre la dieta giusta, il programma di allenamento più funzionale ai nostri obiettivi, non fumeremmo, non consumeremmo alcolici, non consulteremmo lo smartphone mentre siamo alla guida, valuteremmo nel dettaglio pro e contro di un’eventuale offerta di lavoro, scegliendo infine quella, sulla carta, meno rischiosa per noi e con i benefici più grandi. E ci innamoreremmo solo dopo aver attentamente vagliato ogni alternativa.

Ma non è così che ci comportiamo nel quotidiano. Siamo facilmente influenzabili, cediamo alle tentazioni e, sappiamo che al cuor non si comanda: non è possibile scegliere sempre e solo l’opzione migliore. Anzi, soprattutto in amore spesso andiamo in tutt’altra direzione… per non parlare della nostra capacità analitica quando parliamo della nostra squadra sportiva… del cuore.

È così che, per far sì che le persone prendano decisioni migliori – per il proprio benessere in primis, ma anche per la società in generale – alle volte serve loro un piccolo aiuto, una “spintarella”, un nudge appunto.

METTI UNA MOSCA IN AEROPORTO

Hai mai sentito la storia della mosca nei bagni dell’aeroporto di Amsterdam?

E’ stato sufficiente applicare l’adesivo di una mosca in ogni orinatoio maschile dell’aeroporto di Schiphol per far sì che la quantità di urina finita sul pavimento diminuisse dell’80%. Un dato che si è tradotto in una minore necessità di interventi di pulizia dei bagni e, di conseguenza, un significativo risparmio sui prodotti di disinfezione e detersione. Un effetto domino che ha portato enormi benefici all’aeroporto e ai suoi dipendenti in primis e ai passeggeri che dovevano utilizzare i bagni, poi. Non è un caso che le mosche si trovino oggi in molti altri bagni pubblici in giro per il mondo.

Le nostre scelte non avvengono nel vuoto: scegliamo sempre all’interno di contesti e architetture ben definite, anche se non ne siamo troppo consapevoli. E il modo in cui questi ambienti sono progettati influenza in modo evidentissimo le nostre decisioni, spingendoci in una direzione piuttosto che un’altra.

BANCHE E SCONTRINI

Qualche anno fa alcune banche spostarono il pulsante per richiedere lo scontrino, dopo un prelievo al bancomat, dall’angolo in basso a destra a quello in basso a sinistra dello schermo. Migliaia di euro buttati al vento? Assolutamente no.

Questa semplice modifica ha consentito alle banche di risparmiare milioni e milioni di scontrini, di carta e toner. Come?

La morfologia del nostro corpo, il nostro essere destrimani nella maggioranza dei casi, ci porta a scegliere più frequentemente un’opzione se questa si trova a destra dello schermo, così come a prestare più attenzione alle pagine dispari di un giornale, quelle che si trovano sulla destra. Le opzioni sono sempre lì a disposizione (selezionare “sì”, oppure “no” per richiedere o meno lo scontrino), non scappano, ma il modo in cui sono presentate, ci spinge a preferirne una piuttosto che un’altra.

Per risparmiare l’Istituto bancario poteva fare altre scelte, come quello di non erogare più scontrini, o farli pagare, ma in questo modo non sarebbe stato un nudge. I nudge infatti non vietano o riducono le scelte, ma presentano le alternative più funzionali al nostro benessere, al nostro portafoglio e per l’ambiente in modo che sia più facile sceglierle. La banca ha scelto di modificare l’architettura di quella scelta specifica, lasciando ai pasionari dello scontrino, la possibilità di continuare a richiederlo, ma spingendo in modo gentile gli altri, a richiederlo meno di frequente o solo quando è strettamente necessario. Se ci pensate bene, la maggior parte delle volte che lo richiediamo, finiamo poi con il gettarlo prima ancora di esserci allontanati dallo sportello.

I nudge ci lasciano liberi di scegliere l’opzione che preferiamo, ma rendono più attrattiva l’alternativa maggiormente conveniente e funzionale al nostro benessere, al nostro portafoglio, alla nostra salute, alla nostra produttività, alla nostra felicità e al pianeta.

SCELTE CHE VALGONO UNA VITA

Una delle spinte maggiormente efficaci per promuovere comportamenti virtuosi è l’utilizzo strategico dell’opzione di default. Un caso esemplare è quello della donazione di organi.

Se confrontiamo la percentuale di donatori di organi nei diversi Paesi europei, si vede che questa non è influenzata dalle opinioni individuali o dalla cultura di appartenenza, ma dalla modalità con cui è strutturato il modello di adesione al programma di donazione. Nei Paesi in cui il cittadino deve fornire un consenso esplicito per donare gli organi, la percentuale di donatori risulta molto bassa. Di contro, nei Paesi in cui il cittadino è automaticamente incluso nel programma di donazione e, al contrario, il dissenso alla donazione deve essere fornito attivamente, la percentuale di donatori è al di sopra del 90%.

Applicare l’opzione di default significa impostare un’opzione che verrà scelta automaticamente, a meno che le persone scelgano attivamente di comportarsi in modo diverso. Nella vita quotidiana la troviamo ad esempio, negli smartphone e nei dispositivi digitali, venduti con impostazioni predefinite che possiamo scegliere o meno di cambiare. I sensori di movimento sono semplici strategie per evitare sprechi di energia: fanno in modo che la luce si spenga automaticamente ogni qualvolta il sensore non rivela la presenza di persone nell’ambiente. In questo modo, i rilevatori di movimento creano l’equivalente di un valore predefinito.

Così come le impostazioni del computer spengono l’apparecchiatura quando non è in uso dopo un lasso di tempo stabilito. Carte di imbarco e badge per congressi, come altri strumenti di identificazione, possono essere sostituiti nelle finalità da smartphone e tablet e stampati solamente su richiesta. La copia elettronica della fattura è ormai divenuta la regola e quella cartacea un optional su richiesta. Sempre più spesso sono offerti incentivi con punti premio sulle carte fedeltà per acquisti effettuati senza fornitura di imballaggio nei supermercati e nel circuito del piccolo commercio.

ABBONARSI DI DEFAULT

Molti abbonamenti vengono rinnovati automaticamente a meno che non si decida attivamente di annullare l’iscrizione. Questa stessa scelta può essere posta in due modi differenti: allo scadere dell’abbonamento è possibile rinunciare all’offerta, per non ritrovarsi abbonati automaticamente; oppure, è possibile esplicitamente richiedere di continuare ad aderire. Queste due opzioni, sono logicamente equivalenti, ma a causa della nostra passione per la scelta di non scegliere, tenderemo a non modificare la nostra adesione iniziale: ci troveremo quindi, nel primo caso, iscritti, mentre nel secondo caso non iscritti. Per questo le imprese, in questi casi e in molti altri simili, preferiscono porre le questioni nella seconda forma. Perché così non scegliamo e finiamo per pagare beni e servizi dei quali avremmo fatto tranquillamente a meno. Ma in questo caso non stiamo parlando di nudge ma di sludge!


NUDGE VS SLUDGE

Gli sludge (una parola inglese che significa, non a caso, fango), a differenza dei nudge presentano opzioni di scelta che avvantaggiano chi li propone e scoraggiano ad attuare comportamenti che invece sono nell’interesse della persona, come reclamare un rimborso, cancellarsi da una newsletter e fare reclamo, come ben dettaglio nel libro “Nudge Revolution, la spinta gentile per rendere semplici scelte complesse”. 

Sebbene possano sembrare simili, i nudge rispetto gli sludge cercano di incoraggiare il cambiamento per favorire scelte virtuose, per il nostro benessere, il nostro portafoglio, per la nostra felicità, produttività e per il pianeta. Se sei in dubbio, chiediti quanto sia semplice e libera la tua scelta e saprai subito se ti trovi di fronte a un nudge o a uno sludge.

Architettare dei nudge, non è complesso. Spesso infatti sono sufficienti piccole modifiche al contesto per ottenere grandi risultati. Un esempio? Sostituire in azienda i dispenser contenenti merendine e cibo ipercalorico con contenitori trasparenti con frutta fresca e noci ben visibili. Banale? Decisamente… Eppure questo piccolo accorgimento adottato negli uffici di Google a New York, ha permesso di ottenere risultati impressionanti, come ridurre del 30% le calorie totali consumate dai dipendenti, eliminare una percentuale di grasso del 40% negli snack; indurre i dipendenti a consumare 3,1 milioni di calorie in meno in sole 7 settimane di esperimento.

Rendere semplici scelte complesse dunque si può, con i Nudge!

https://magazine.darioflaccovio.it/2019/11/14/nudge-questi-sconosciuti-strategie-per-rendere-semplici-scelte-complesse/

 

PERCHE’ LEGGIAMO gli OROSCOPI

Oroscopi. Li consultiamo, affidiamo loro parte delle nostre decisioni e imperterriti ci piace crederci, pur consapevoli della loro fallacia e inaffidabilità.

Perché è cosi difficile ignorarli?

La trappola di cui siamo vittime è detta effetto Forer (dal nome dello psicologo che già nel 1948, aveva descritto il fenomeno), anche conosciuto come “effetto di convalida soggettiva”, che ci porta a credere, accettare e dare l’approvazione a descrizioni psicologiche sommarie, spesso contrapposte, con dettagli vaghi e che si potrebbero applicare a un gran numero di persone. In parole semplici: ogni individuo posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso, nonostante quel profilo sia generico, tale da adattarsi a più persone.

Per dimostrare le sue ipotesi Forer chiese ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, questionario dove venivano raccolte diverse informazioni fra cui hobby, aspirazioni, caratteristiche a cui sarebbe seguita una interpretazione qualitativa.

Dopo una settimana, restituì un quadro della loro personalità, chiedendo di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione: perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano in alcune delle seguenti frasi.

– Hai grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri. – Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio – Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato – A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta – Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto  – A volte sei estroverso, affabile, socievole, altre sei introverso, diffidente e riservato

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti fu 4.26.

Questo fenomeno è stato replicato con altri esperimenti e si è potuto verificare che tra l’80 e il 90% delle persone considerano che le affermazioni generali siano molto precise in riferimento a loro stessi.

Certo è che tendiamo ad accettare quelle affermazioni nella stessa misura in cui desideriamo che queste siano reali e ci risultano sufficientemente positive e lusinghiere.

Va tenuto in conto che quando incontriamo una credenza (o info) che risolve una incertezza, questo ci predispone a confermare e dare per certa la stessa, scartando a priori ogni evidenza contraria. Così, si sviluppa una sorta di meccanismo automatico che consolida l’errore originale e conferisce una eccessiva attendibilità alla credenza.

Il consiglio non è quello di smettere di leggere l’oroscopo, ma di consultarlo. Il fato non ha memoria, come i dadi e la roulette. Dunque perché privarci di una scelta consapevole, che seppur si dimostrerà errata, ci avrà permesso di essere noi i veri artefici del nostro destino.

GUIDARE (SENZA GPS) FA BENE AL CERVELLO

Guidare fa bene al cervello, soprattutto se lo si fa in una grande città e senza aiuto di mappe e gps. A dirlo uno studio dell’University College di Londra che ha monitorato il cervello e nello specifico l’ippocampo, l’area della memoria, dei tassisti di Londra.

A bordo dei black cab infatti non troverete né Gps, né piantine della città. I tassisti a Londra conoscono a memoria la mappa della capitale. Preferiscono contare su quanto ricordano a mente piuttosto che sulla tecnologia.

Il risultato dello studio rivela che in questi professionisti l’ippocampo, l’area del cervello fondamentale nella gestione di apprendimento, memoria e stress, è più sviluppato rispetto a quello dei loro colleghi che invece usano il gps di default.

La ricerca dell’University College di Londra, ha seguito due gruppi di autisti. “Fotografando” attraverso tecniche di neuroimaging nel tempo le immagini della struttura dei loro cervelli si è visto che all’inizio della fase di apprendimento delle nozioni, i due gruppi non presentavano differenze sostanziali. Dopo 3-4 anni di formazione sono emerse invece delle differenze: gli autisti di taxi che non fanno uso di gps e mappe, avevano un ippocampo più sviluppato.

LA MEMORIA A LUNGO TERMINE

L’ippocampo svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale, presenta un volume maggiore in animali che sono abituati a nascondere il cibo per recuperarlo in un secondo momento. Partendo da queste osservazioni, la neuroscienziata Maguire, a capo del progetto, ha ipotizzato che studiare i tassisti potesse dare buoni risultati.

Non abbiamo bisogno di utilizzare il Gps. Quando sappiamo che dobbiamo andare in una determinata direzione ci andiamo. Come autista di taxi per noi diventa automatico. Lo facciamo senza pensarci, il nostro cervello è condizionato, spiega Peter Allen, uno dei 20.000 tassisti che lavorano nel Regno Unito.

ASPIRANTI TASSISTI IN TRAINING

All’origine di questa particolarità, secondo gli esperti, la lunga formazione che gli autisti di black cab devono seguire per ottenere la licenza. Un patrimonio chiamato “The knowledge” (la conoscenza) e che deve permettere loro di spostarsi quasi ‘a occhi chiusi’ attraverso le 25.000 strade e stradine di Londra. E al Knowledge point, una delle scuole dove studiano i futuri chaffeur, si respira un’atmosfera severa. Non si scherza. C’è silenzio e concentrazione per permettere agli allievi di prepararsi al meglio. Nulla è lasciato al caso e gli studenti sono sottoposti a innumerevoli simulazioni di percorsi in città, prima di superare l’esame finale. Chi viene promosso può vantarsi di avere una memoria al di sopra della media.

Secondo la professoressa Maguire, i risultati della ricerca sono una ulteriore conferma di come determinati esercizi cognitivi e l’apprendimento intensivo possono modificare la morfologia del cervello anche in età adulta, portando a sviluppare determinate capacità.

OTTENERE IL MASSIMO, CONCEDENDO IL MINIMO… CON LE MANI LEGATE

Non è semplice ottenere il massimo, concedendo il minimo. Così come non è facile accettare di fingere di non avere sufficienti responsabilità di fronte a clienti, amici e fornitori. Eppure, talvolta, fingere di avere le mani legate, di non avere abbastanza potere, può portare grandissimi benefici.

In parole semplici, se abbiamo l’intelligenza di non gonfiarci come tacchini, pur di dimostrare quanto siamo bravi, più bravi della controparte, potremmo portare a casa risultati inaspettati. Soprattutto laddove la controparte soffre i problemi economici legati alla mancata disponibilità di tempo.

LA TECNICA DELLE MANI LEGATE

La tecnica delle mani legate consiste nel dichiarare, semplicemente, di non avere sufficiente potere per chiudere un accordo o firmare un contratto. Questo il succo del discorso. Semplice, ma attenti, non banale!

“Mi dispiace ma il mio responsabile non mi permetterà mai di firmare l’accordo se lei non arriva a proporre una cifra di almeno …. euro”.

La ragione di questa tecnica negoziale è indurre la controparte ad avanzare una proposta che possa metterci nelle condizioni di superare questo impasse, vero o immaginario, che sia, a cui noi “semplici collaboratori” dobbiamo rendere conto.

Dichiarare di avere le mani legate può rivelarsi utile anche per uscire da una situazione negoziale in cui ci siamo resi conto che non è più conveniente andare avanti o semplicemente perché abbiamo bisogno di più tempo per riflettere sul da farsi.

A sostenere la bontà di questa tecnica è stato un economista americano Thomas Schelling, premio Nobel 2005 per l’economia, e autore di un importante testo sui comportamenti strategici: Strategy of Conflict, considerato fra i 100 libri che hanno avuto maggiore influenza dopo la II guerra mondiale e fra i più importanti testi sulla negoziazione internazionale.

NEGOZIAZIONE E TEORIA DEI GIOCHI

Schelling utilizza, nel suo libro, diversi esempi per spiegare questa semplice tecnica:

  • Il sistema che fornisce alla polizia fogli di multa numerati e incancellabili fa sì che il funzionario, scrivendo il numero di targa della macchina prima di parlare con il conducente, non possa essere minacciato da quest’ultimo.
  • La chiusura sincronizzata della cassaforte nelle banche che fa sì che il dipendente anche volendo non possa aprirla.
  • La regola presente in molte università che nega ai professori il potere di cambiare il voto di uno studente una volta registrato.

Per Schelling l’essenza di questi esempi, tutti aventi lo stesso scopo, risiede nel paradosso che il potere di limitare le mosse di un avversario può dipendere dal potere di vincolare se stessi e paradossalmente l’avere le mani legate, durante una negoziazione, può trasformarsi da motivo di debolezza a punto di forza.

Perché questa strategia funzioni, è però necessario che la nostra limitazione sia completamente evidente e comprensibile alla controparte. Se così non è, l’efficacia della tattica è inutile.

IL POTERE NEGOZIALE

A Schelling si deve l’aver introdotto in modo esplicito il concetto di potere negoziale (bargaining power) definendolo come la capacità di vincolare se stessi a un determinato corso di azione. Definizione questa che deriva dalla teoria dei giochi e dal concetto di mossa strategica, prevedendo che attraverso una mossa strategica si possa influenzare in modo significativo l’azione della controparte e volgerla a esiti per noi più favorevoli. Insomma la differenza la fanno le persone, non solo le mosse, con la loro capacità di portare a soluzioni non prevedibili a priori.

Anche se le teorie di Schelling sono un po’ datate ormai, se si vuole conoscere meglio l’arte negoziale, non si può fare a meno di leggerlo. Credetemi, non rimarrete delusi. E la vostra capacità negoziale non potrà che beneficiarne.

Se lo DICO IO… Il PREGIUDIZIO della RAGIONE

Una coppia si era appena trasferita nel nuovo appartamento. Una mattina a colazione, la moglie vide dalla finestra la vicina di casa intenta a stendere le lenzuola: “Guarda, la vicina sta stendendo delle lenzuola sporchissime! Forse dovrebbe cambiare detersivo”.

Il maritò osservò la scena e rimase in silenzio. Ogni settimana si ripeteva la stessa storia. Passato un mese, un mattino la moglie si sorprese nel vedere che le lenzuola stese erano pulite: “Guarda, finalmente la vicina ha imparato come si lavano i panni!”. E il marito rispose: “Non è proprio così… Oggi mi sono alzato prima e ho pulito i vetri della nostra finestra”.

Li consideriamo stupidi e li troviamo detestabili e talvolta guardiamo loro con sufficienza. Dentro di noi infatti siamo convinti sostenitori della nostra razionalità e obiettività. A differenza di chi ci sta intorno, amici, colleghi, famigliari… Eppure cadiamo vittime di pregiudizi e condizionamenti. Tutti.

Soprattutto uno (il padre di tutti i bias cognitivi), il più insidioso e pericoloso che non solo fa da presupposto a tutti gli altri, capace di bypassare la nostra consapevolezza: blind spot bias. Tale “zona cieca” è così ben integrata nel nostro modo di pensare e così profondamente sepolta nella nostra mente da non essere accessibile alla coscienza consapevole. La storiella ne è la rappresentazione più fedele.

Osservazioni quotidiane confermano l’esistenza di pregiudizi [bias] nella percezione umana. Troviamo che i nostri avversari, e a volte anche i nostri colleghi, vedono eventi e problemi attraverso il prisma distorcente della loro ideologia politica, della storia e degli interessi individuali o del loro gruppo, e del loro desiderio di vedere se stessi in una luce positiva – spiega la psicologa Emily Pronin, fra i pionieri degli studi sul Blind Spot Bias. Quando tuttavia riflettiamo sulla nostra visione del mondo, generalmente rileviamo poche prove di questi pregiudizi. Abbiamo l’impressione di vedere problemi ed eventi “obiettivamente”, come sono in realtà. Vorremmo concedere, forse, che alcune delle nostre opinioni sono state modellate dalla nostra esperienza personale e dall’identità di gruppo, ma sentiamo che nel nostro particolare caso questi fattori hanno condotto ad aumentare la conoscenza piuttosto che il pregiudizio.

Per misurare la percezione di suddetto bias sono stati condotti 3 diversi esperimenti, durante i quali i partecipanti sono stati esposti a un certo numero di situazioni:

  • confronto tra sè e un americano medio (24 studenti)
  • confronto tra sè e compagno di classe medio (30 studenti)
  • confronto tra sè e viaggiatore medio (su 76 viaggiatori di varie età ed etnia. Le principali conclusioni dello studio hanno mostrato che tutti i partecipanti hanno percepito se stessi come più obiettivi degli altri in tutti e tre i confronti. Asimmetria nella percezione dei pregiudizi, denominata “illusione introspettiva” che, fa erroneamente presupporre che conoscendo la sua esistenza sia poi possibile evitarla.

Purtroppo però non è leggendo queste parole o interi libri sull’argomento che si riuscirà a slegarsi da essi. Forse, come suggerisce il filosofo Samuel McNerney, spendiamo troppa energia per proteggere il nostro Ego e non ce ne rimane per accorgerci dei nostri errori percettivi.

Un suggerimento potrebbe essere quello di rovesciare il problema: invece di impegnarci nello sforzo titanico di cambiare il nostro cervello dovremmo cercare di cambiare il mondo intorno a noi. Questa volta, però mi sa che a cadere in una trappola mentale sono proprio io…

Quei PULSANTI PROGETTATI per NON FUNZIONARE…

Entri in ascensore e qualcosa dentro di te ti spinge a premere compulsivamente il bottone chiusura porte. Sai perché accade questo?

La percezione è che schiacciando il pulsante, le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi, il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, che gli altri giocatori si erano innervositi molto. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo, che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003, come era abituato a fare in azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la sua malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo, può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo è descritta come una “illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso anche fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di impotenza, alla scarsa fiducia in noi stessi.  L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

E’ RESPONSABILE CHI COMANDA o CHI UBBIDISCE?

Se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica di 400 volt a uno sconosciuto, ubbidiresti? Non rispondere subito “no”, potrebbe non essere la risposta corretta.

Il 65% delle persone di fronte a un ordine eticamente contrario alla propria morale, vìola i propri principi per ubbidire ai voleri di un potere esterno riconosciuto, non sentendosi poi moralmente responsabile delle proprie azioni.

A studiare questa caratteristica dell’uomo fu Stanley Milgran, che iniziò i suoi esperimenti tre mesi dopo l’inizio del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann. Lo psicologo di Yale concepiva l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”. La difesa dell’ex nazista si basava esattamente su questo assunto.

L’esperimento consistette nel reclutare 40 uomini (pagati 4.50$). reperiti attraverso annunci sul giornale, il cui compito era rivestire il ruolo di insegnante e porre domande a uno sconosciuto (complice nell’esperimento) in presenza di uno scienziato che rappresentava l’autorità, e punire l’interrogato con scosse elettriche crescenti (dai 30 sino ai 450 Volt) ad ogni errore, in caso di risposta errata.

Il 65% dei partecipanti somministrò il livello finale di shock di 450 volt, sebbene si sentissero a disagio nel farlo. Qualcuno si fermò e mise in discussione l’esperimento, qualcun altro si informò sul denaro che avrebbe ricevuto in cambio. Nessuno rifiutò di dare uno shock prima che questo raggiungesse i 300 volt.

Lo stupefacente grado di obbedienza ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, ma NON a sentirsi moralmente responsabili delle loro azioni, IN QUANTO esecutori dei voleri di un potere esterno. Come a dire… è responsabile solo chi comanda e non chi ubbidisce!

Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere ad una autorità. La psicologia sociale ci ha dato una grande lezione: a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni” (Milgram, 1974).

A questo punto ti ripongo la domanda: se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica a uno sconosciuto… ubbidiresti fino a qualche voltaggio?