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DIRE ADDIO

Le ultime ore della sua vita, poco prima che facesse giorno, mia madre mi chiese con fermezza: “poni fine al mio dolore”. Qualsiasi cosa dicessi, ripeteva “fallo smettere”. A ogni tocco, leggero, mi implorava “aiutami a morire”.

Mia madre aveva un tumore osseo e metastasi diffuse.

Eravamo in ospedale. Era ottobre, ma non ricordo se fuori facesse caldo o piovesse o se gli alberi avessero iniziato a perdere le foglie. Ci trasferivamo da un reparto all’altro, senza sapere cosa succedeva al di fuori. Tutti i giorni erano uguali.

C’erano drenaggi di ogni tipo, l’ossigeno, e flebo che si susseguivano l’una all’altra. Infermieri, medici, farmaci e morfina. C’era un campanello che mia madre suonava al bisogno, a cui ricorreva sempre meno; in preda al dolore, incapace di mettersi seduta nel letto, incapace di respirare. Non camminava più, l’unica cosa che le restava, nei momenti migliori, una poltrona in cui trovare dignità.

L’ultima volta che vi ricorse, fu per cercare il cielo, poi chiuse gli occhi. Un silenzio disatteso, a rompere il silenzio.

In quel reparto, in quegli ultimi giorni, ho trascorso accasciata sulle sedie di plastica, un numero imprecisato di ore. Che paiono, ora, inique. L’ultima notte, nel mio letto. Mia madre mi aveva spinto a tornare a casa; era tranquilla, come sanno essere le persone che sono già altrove.

Non credo ci sia una parola per descrivere la sensazione che si prova quando qualcuno sta morendo. Certo, molte sono le emozioni, ma ciò a cui mi riferisco è quella che pervade la fine. La sensazione degli ultimi giorni. È un sentimento fatto di desideri opposti. Quello dell’attesa e dell’immediatezza. Del volere che il tempo rallenti e del volere che il tempo acceleri. Di volere, e allo stesso tempo non volere affatto, che tutto finisca.

Pur avendo fatto della scrittura un lavoro, non ho mai scritto di mia madre. Per la paura di venir sommersa. Dalle profondità in cui annegano i sopravvissuti.

Il sentimento di quegli ultimi giorni era quello di un ritiro dal mondo, di un isolamento. Difficile riappacificarsi con il suo opposto, l’amore. O forse, l’amore è l’addio alla vita. Ma non ci è dato scegliere il momento.

Quell’ultima alba, con il sole che sorgeva e la città tornava a vivere, mia madre chiese “fa che il dolore finisca” e per quella volta, forse l’unica fra tutte, l’ho amata davvero, assecondandola.

Di queste cose avrei voluto scrivere spesso, ma non potevo. Ogni anno, di questi giorni, pensieri affollavano il cuore e io non facevo altro che allontanarli. Ma quel richiamo è insistente. Si è rifiutato di scomparire per 31 anni. Mentre scrivo, mi rendo conto che non è la storia di mia madre quella che sto narrando. Ma del fatto che per saper dire addio occorre saper amare profondamente. Sto scrivendo cosa significa amare qualcuno e perderlo ma sentirsi così infinitamente fortunati da averlo vissuto, quell’amore. Smettendo di condannarlo.

Forse, è questo il mistero della scrittura. O dell’amore.

NON è MAI solo PIACERE (e solo DOLORE)

Quando è stata l’ultima volta che hai urlato (di dolore)?

Per me è stato qualche giorno fa, mentre cercavo di togliere un calzino dalla bocca di Byron, il mio golden retriever. Nella frenesia del gioco (per lui) mi ha morso la mano, pizzicandomi un tendine. Non è stata un’esperienza piacevole, ne porto ancora i segni.

Gridiamo quando proviamo #dolore. Ma gridiamo anche quando proviamo un #piacere immenso, gioia, grande eccitazione, un po’ come fanno i fan ai concerti dei loro cantanti preferiti.

La stessa cosa avviene con il #pianto. Piangiamo sia nei giorni peggiori sia in quelli migliori. Ai funerali e ai matrimoni, quando viviamo il brivido della #vittoria e l’agonia della #sconfitta.

Il pianto è qualcosa di curioso. In Pictures and Tears, il critico d’arte James Elkins parla di dipinti che fanno piangere: quando raffigurano eventi terribili, come la morte di un bimbo, o quando sono così belli da generare una risposta emotiva positiva alle straordinarie creazioni umane.

Non è diverso nemmeno quando #ridiamo. Si ride per cose divertenti, ma ridiamo anche quando siamo ansiosi o imbarazzati. Quando siamo felici ma anche arrabbiati.

Stessa cosa del #sorriso. E’ associato alla gioia, ma quando i ricercatori hanno chiesto alle persone di guardare una scena di un film triste, la parte di Fiori d’acciaio in cui una madre parla al funerale della figlia, circa la metà dei soggetti ha sorriso.

I PIACERI DEL DOLORE E I DOLORI DEL PIACERE

Pensiamo all’espressione che abbiamo durante un orgasmo. Assomiglia a qualcuno in agonia: quando sono state mostrate fotografie di volti durante l’orgasmo, i soggetti li hanno erroneamente identificati come volti di #dolore nel 25% delle volte.

In generale, le espressioni sono difficili da interpretare. Mi spiace distruggervi un mito ma non basta un corso di un week end per imparare a interpretare e profilare le persone. Me ne occupo da una vita e ancora non ho imparato a farlo in modo preciso e senza tenere conto del contesto…

Gli autori di un articolo su Science fanno l’esempio di due persone: una ha appena vinto un’enorme somma alla lotteria; l’altra ha visto il suo bambino di 3 anni investito da un’auto.

Guardando i loro volti, evidenziano i ricercatori, si potrebbe non essere in grado di discernerli: hanno scoperto che le persone non sono in grado di distinguere tra vincitori e sconfitti di competizioni sportive ad alto rischio quando vedono i loro volti isolati dal #contesto. È necessario, per leggere l’emotività dei volti, avere accesso anche alle posture corporee.

Pensiamo alla reazione che solitamente abbiamo nei confronti dei bambini (e di molti animali domestici). Spesso ne mordicchiamo mani e piedi, associando espressioni quali “ti mangerei tutto” e nessuno pensa che lo faremmo davvero, neanche il bambino (e il cane, o il gatto…).

In un sondaggio condotto dai ricercatori di Yale, si è scoperto che la maggior parte delle persone era d’accordo con affermazioni come:

–      Se tengo in braccio un bambino molto carino, ho l’impulso di stringere le sue gambette grasse.

–      Se guardo un bambino molto bello, voglio pizzicarne le guance.

–      Sono il tipo di persona che dirà a un bel bambino “Potrei mangiarti!” a denti stretti.

La teoria che i docenti di Yale hanno su queste reazioni è che sorgono quando i nostri sentimenti – verso la nostra band preferita, un’opera d’arte, un bambino, un animale – diventano travolgenti. Devi calmare il sistema e quindi, per compensare, generi espressioni e azioni che li contrastano, che vanno nella direzione opposta.

I ricercatori che hanno studiato le espressioni facciali durante l’orgasmo sostengono qualcosa di simile, suggerendo che l’espressione sia un tentativo di regolare un “input sensoriale troppo intenso“.

I filosofi hanno a lungo apprezzato la curiosa relazione tra dolore e piacere. Platone descrive Socrate che si massaggia la gamba dolorante dicendo: “Quanto strana sembra in qualche modo essere questa cosa che gli uomini chiamano piacere; quanto meravigliosamente è in relazione con ciò che sembra essere contrario, il dolore, per il fatto che questi due non vogliono essere presenti contemporaneamente nell’uomo, ma, qualora uno insegua uno dei due e lo prenda, più o meno è costretto in qualche modo a prendere sempre anche l’altro, come se fossero attaccati a un’unica testa, nonostante siano due”.

LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO

Nei tempi moderni, molti psicologi sostengono la teoria dell’esperienza del “processo avversario” , in base alla quale le nostre menti cercano l’equilibrio, o l’omeostasi, in modo che le reazioni positive incontrino sentimenti negativi e viceversa.

Un famoso studio che ha coinvolto paracadutisti militari è utile per rimanere sul pratico. Quando gli uomini sono saltati dall’aereo per la prima volta, erano terrorizzati, con tutti i sintomi fisici della paura. All’atterraggio provarono sollievo. Nel corso di ripetute esposizioni all’esperienza, la paura si è verificata in durate sempre più brevi e il sollievo si è evoluto in piacere, trasformando il paracadutismo da un’attività spaventosa a una eccitante.

In effetti, a volte giochiamo con il dolore per massimizzare il contrasto, in modo da generare piacere: insomma quante volte abbiamo sperimentato il dolore nell’immergere un piede nell’acqua di una vasca da bagno eccessivamente calda, per goderci poi la temperatura perfetta pochi minuti dopo. O il fuoco in bocca per l’eccesso di spezie e il sollievo e poi il piacere di una bevanda fresca subito dopo.

In questo senso, studi di laboratorio rilevano che dopo aver provato dolore, ad esempio immergendo una mano in acqua gelata, le persone riferiscono che le esperienze successive, come il gusto del cioccolato, sono più piacevoli.

DOLORE PIACEVOLE

Una serie di studi, progettati per esplorare ciò che i ricercatori chiamano dolore piacevole, prevedeva di mettere i soggetti in uno scanner cerebrale e di esporli a una serie di esperienze di calore: lieve, intenso o intermedio. Prima di qualsiasi esperienza, ricevevano un avvertimento su ciò che potevano aspettarsi, ma a volte l’avvertimento non era corretto. La grande scoperta è che mentre normalmente la quantità intermedia di calore è stata giudicata dolorosa, smette di esserlo quando è preceduta da un avvertimento, quando cioè sappiamo che un calore intenso, in questo caso, è in arrivo. Tanto da diventare, in molti casi, piacevole.

Si scopre, quindi, che se pensi che qualcosa farà davvero male e fa male solo leggermente, la magia del #contrasto può trasformare questo lieve dolore in piacere.

Ovviamente l’effetto si perde se il dolore diventa troppo intenso.

Questi esperimenti sono strani, ma l’idea principale è familiare: tutti sanno che il cibo non ha mai un sapore così buono come quando si ha fame, sdraiarsi sul divano è fantastico dopo una lunga corsa, e la vita stessa è meravigliosa quando si lascia lo studio dentistico.

Avere in tasca qualche trucchetto per ingannare i nostri sensi, può aiutarci a gestire meglio una pessima giornata, un evento drammatico o pauroso o emotivamente troppo coinvolgente. A costo zero.

Segui il consiglio, la prossima volta!

Fonti

  • Paul Bloom (2021). The Sweet Spot: The Pleasures of Suffering and the Search for Meaning. New York, NY: HarperCollins/Ecco.
  • Fredrickson B. L., Levenson R.W. (1998). Positive Emotions Speed Recovery from the Cardiovascular Sequelae of Negative Emotions. Cognition and Emotion, 12(2), 191–220.
  • Hughes S.M., Nicholson S.E. Sex Differences in the Assessment of Pain Versus Sexual Pleasure Facial Expressions. Journal of Social, Evolutionary, and Cultural Psychology, 2, 289–298. (Link)
  • Aviezer H., Trope Y., Todorov A. (2012). Body Cues, Not Facial Expressions, Discriminate Between Intense Positive and Negative Emotions. Science, 338, 1225-1229. (Link)
  • Aragón O.R. et al. (2015). Dimorphous Expressions of Positive Emotion: Displays of Both Care and Aggression in Response to Cute Stimuli. Psychological Science, 26, 259–273. (Link)
  • Solomon R.L. (1980). The Opponent-Process Theory of Acquired Motivation: The Costs of Pleasure and the Benefits of Pain. American Psychologist, 35(8), 691–712. (Link)
  • Bastian B. et al. (2014). The Positive Consequences of Pain: A Biopsychosocial Approach. Personality and Social Psychology Review, 18, 256-279. (Link)
  • Leknes S. et al. (2013). The Importance of Context: When Relative Relief Renders Pain Pleasant. Pain, 154(3), 402–410. (Link)

Le PENE d’AMORE NASCONO dal CERVELLO (e non dal CUORE)

Mi manca. Lei mi manca. Non l’idea di lei, ma lei. E questa assenza mi accompagna come un fedele servitore, con una dovizia di particolari che non sono frantumabili. Non mi lascia spazio. Impedendomi di vedere le cose di sempre, per quello che sono: semplici oggetti dai banali significati.

La sua assenza mi perseguita. Attendo di sentire il ticchettio dei tacchi, la sera. Ne bramo il ritorno. La cena che si consuma nella solitudine è una tremenda tortura che non avevo considerato. La notte mi possiede, impedendomi di vedere arrivare il giorno. Un letto troppo grande per essere vissuto. Da me solo.

Rifletto e sragiono. Lei mi manca. Mi manca troppo per pensare a qualcosa diverso da lei.

Il dolore che provoca un amore perduto è lo stesso di quello provocato da una ferita: in entrambi i casi si attivano le medesime aree neuronali; esperienze fisiche dolorose lasciano lo stesso tragico segno di un tradimento, un rifiuto, un amore giunto al capolinea.

La sofferenza parte non dal cuore, ma dal cervello. Ce lo dimostra la scienza attraverso uno studio condotto da Ethan Kross dell’Università del Michigan che ha sottoposto a risonanza magnetica, un gruppo di volontari, invitati a visionare una foto dell’amante perduto prima e sottoposti poi ad un test in cui veniva inflitto loro dolore fisico tramite stimoli termici. Il risultato non ha lasciato dubbi: la rottura di una relazione genera lo stesso dolore di una scottatura.

Ora sappiamo che oltre a generare un dolore psicologico, l’amore perduto fa anche male fisicamente. Tutto nasce dal fatto che, in entrambi i tipi di dolore, si attivano nel cervello la corteccia secondaria somatosensoriale e l’insula dorsale posteriore, aree legate finora solo a stimoli fisici dolorosi. 

Il cuore ha ahimè un ruolo piuttosto marginale: tutto parte dal cervello, che crea uno stato di sofferenza, con il risultato che le pene d’amore bruciano parimenti a quelle del corpo.

Noi siamo le nostre passioni, è una frase che non è mai stata così vera e predittiva. L’idea che chi soffre per amore patisca un dolore, anche fisico, già veniva sostenuta da Freud: “l’Io, prima di ogni altra cosa, è corporeo e non esiste quindi una scissione tra mente e corpo ma un’integrazione di vissuti che si manifestano attraverso diversi linguaggi che hanno una stessa grammatica”.

Nella società odierna, dove ogni desiderio è presentato come realizzabile, è andata perduta la capacità di tollerare il conflitto, la tristezza, il limite e quindi si vive nella consumazione dell’istante e nell’impossibilità di accettare che un progetto possa riuscire ma anche fallire. Pochi sanno tollerare una frustrazione: si vive in un mondo che pubblicizza e vende come merce felicità, bellezza, immortalità.

L’amore non dovrebbe dunque essere sinonimo di possesso ma consistere nell’essere flessibili, nel trovare uno spazio intermedio in cui coltivare similarità e differenze. Il dolore della perdita, non sarebbe così eliminato ma potrebbe diventare la spinta verso un nuovo modo di essere (di nuovo) felici. Reinventandosi.

Anche i MEDICI PIANGONO. NON è il TITOLO di una TELENOVELA

“Tu cosa preferisci? Un medico che ti tenga la mano mentre muori o un medico che ti ignori mentre migliori? Certo che sarebbe terribile un medico che ti ignora mentre muori!” chiedeva Gregory House, il medico poco convenzionale protagonista della serie omonima trasmessa fino a qualche anno fa in tv.

Come dargli torto…

Frustrazione e amore sono due sentimenti con cui tutti abbiamo a che fare, anche i medici che troppo spesso ci paiono imperturbabili dietro le loro diagnosi asettiche e glaciali. Maschere perfette nelle quali nascondere le emozioni.

Sfatiamo un altro mito: anche i medici piangono. E se lì per lì, potrebbe sembrare il titolo di una telenovela da quattro soldi, è ahimè cruda realtà.

Piangono per stress, per la frustrazione di non riuscire a salvare un paziente, per la compassione che li lega a chi da mesi dimora in un letto, dopo aver perso tutto, anche la dignità.

Pochi lo ammettono. Spesso paragonati a Dio, perché capaci (talvolta) di dare e di togliere la vita, sono molto più umani di quanto ognuno di loro ha il coraggio di ammettere.

“Sono arrivato in reparto dove c’erano diversi parenti di un paziente appena deceduto ad attendermi. Uno ha iniziato a urlarmi contro, accusando l’ospedale di aver appena ucciso il fratello. Capivo il loro dolore, dato che avevo perso due fratelli più giovani anch’io. Una parte di me voleva davvero scoppiare in lacrime, ma in quel momento non sarebbe stato possibile. Dopo aver fatto quello che dovevo fare, mi sono preparato una tazza di tè e ho pianto in un angolo tranquillo prima di tornare al lavoro”. Storie di medici, molto comuni, raccontate dal British Medical Journal (https://www.bmj.com/content/364/bmj.l690)

Difficile illudersi di poter affrontare la carriera medica senza doversi confrontare con le proprie emozioni: un paziente potrebbe avere caratteristiche simili a quelle di un vecchio fidanzato, un bambino potrebbe avere la stessa età del proprio figlio, cosi che all’improvviso quel paziente morente diventa tuo figlio, nella tua testa.

Ane Haaland, scienziata sociale all’Università di Oslo, sostiene l’importanza per i camici bianchi di poter piangere sul lavoro, ma in modo controllato “Lo chiamo pianto della consapevolezza ed è incentrato sull’aiutare il paziente, non sul farti aiutare dal paziente, c’è un’enorme differenza e i medici devono saperlo”.

Ho spesso avuto modo di confrontarmi su questi temi, con i medici. Ho tenuto non pochi corsi in università e ospedali, insegnando loro come comunicare cattive notizie senza farsi del male. Aiutandoli a riconoscere e gestire piuttosto che ignorare i sentimenti, a stabilire sani confini e vedere la vulnerabilità come una risorsa piuttosto che come un segno di debolezza.

Quando vorresti piangere e te lo neghi, non fai un torto all’altro ma a una parte vitale di te.