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QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Un VOLTO, TRE EMOZIONI. Come ci INGANNA l’EFFETTO KULESHOV

Lo dirò senza mezzi termini: non importa quando si è empatici e/o allenati a leggere le #espressioni facciali per attribuire la corretta #emozione al volto di chi ci sta di fronte. Il medesimo volto comunicherà un’emozione diversa a seconda del #contesto. Quindi, al modificarsi del #contesto, cambierà anche la nostra #percezione sull’emozione che quello stesso viso trasmette.

Ecco l’effetto Kuleshov.

EFFETTO KULESHOV

È un #bias che si verifica nella mente dello spettatore. Utilizzato per la prima volta, negli anni ‘20, dal regista sovietico Lev Kuleshov, venne associata l’inquadratura di un volto senza espressione a una scena comunicante una particolare emozione.

Questo fa in modo che lo spettatore abbia l’impressione che l’attore comunichi attraverso il viso un’emozione coerente alla scena proposta. E spiega come la stessa espressione facciale possa cambiare significato a seconda dell’immagine a cui viene associata. 

L’esperimento dimostrò come un filmato potesse far nascere emozioni differenti negli spettatori a seconda delle inquadrature e, come due inquadrature in una sequenza avessero (e hanno) più impatto di una singola inquadratura.

Kuleshov credeva che l’interazione delle inquadrature nel cinema fosse ciò che differenziava il cinema dalla fotografia poiché le fotografie sono singole inquadrature isolate che non consentono di ricavare lo stesso significato.

Affascinato dal potere che i montatori avevano nel manipolare le #emozioni del pubblico, volle creare una distinzione fra i vari mezzi artistici, fra cui cinema, letteratura, teatro e fotografia. Nacque così l’effetto Kuleshov, che continua ancor oggi a influenzare il cinema moderno.

IN CHE MODO KULESHOV HA DIMOSTRATO IL SUO EFFETTO?

Kuleshov ha dimostrato l’effetto proponendo la stessa inquadratura di un uomo associata a scene diverse:

–       la prima inquadratura ritraeva l’uomo e un bambino in una bara,

–       la seconda, l’uomo e una scodella di zuppa,

–       la terza, l’uomo e una donna su un divano.

Rispettivamente, questi scatti trasmettevano tristezza, fame e lussuria.

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Nel creare questa dimostrazione, Kuleshov ha fatto credere che l’uomo nell’inquadratura stesse guardando ciò che seguiva (bambino, scodella, donna), anche se in realtà non era così. Ciò che è cambiato è la percezione della sua espressione quando è stata abbinata a un’altra inquadratura che ha generato emozione nel pubblico.

Questo effetto ha trasformato il processo di creazione dei film, poiché ha dimostrato di poter suscitare qualsiasi reazione montando e mettendo insieme le riprese: ossia di manipolare il tempo, lo spazio e la reazione dello spettatore.

L’effetto ha continuato a influenzare l’industria cinematografica ben oltre Kuleshov e non sono pochi i registi contemporanei che lo utilizzano.

ESEMPI DELL’EFFETTO KULESHOV

Alfred Hitchcock ha usato l’effetto Kuleshov, evolvendolo. La finestra sul cortile si basa ampiamente su questo effetto per creare la tensione che si accumula nel film. Intere scene si alternano tra il personaggio principale e ciò che vede attraverso la sua finestra, generando varie emozioni mentre il pubblico assiste al suo punto di vista.

Un altro thriller di Hitchcock, Psycho, utilizza l’effetto Kuleshov nella famosa scena della doccia. La comprensione di ciò che accade, l’accoltellamento del personaggio di Janet Leigh, è solo immaginato, poiché il pubblico vede solo tre fotogrammi di un coltello che perfora la carne. La vista passa da Leigh all’assassino armato di coltello, che crea questo effetto per evocare paura e tensione nello spettatore.

Una scena in Se7en, trasla fra ciò che è all’interno di una scatola e le reazioni di ogni personaggio nella scena, ognuno dei quali è drasticamente diverso dagli altri. Per capire la scena e cosa accadrà dopo, il pubblico deve vedere la reazione a ciò che c’è nella scatola.

La teoria di Kuleshov è pienamente efficace ne Il silenzio degli innocenti, generando tensione tra i personaggi mentre la scena è pronta per un’emozionante rivelazione. Questa particolare sequenza genera anche una reazione unica tra la maggior parte degli spettatori, poiché fa scoprire di una cosa che si pensava vera, il contrario.

L’effetto Kuleshov viene utilizzato anche nei film per bambini. Ne Inside Out il pubblico vive le emozioni attraverso la reazione di Riley, Fear, e gli altri personaggi.

In The Dark Knight Risesl’ultimo capitolo della serie “Batman”, il pubblico osserva Catwoman mentre Batman viene picchiato dal cattivo del film. Vedere la scena dal punto di vista della donna evoca rimpianto.

Spielberg è un maestro dell’effetto Kuleshov. Ne Incontri ravvicinati del terzo tipo, una delle inquadrature principali è il “volto di Spielberg”, che è una reazione ravvicinata a qualcosa che il personaggio vede, generando una reazione da parte del pubblico.

E così in molti altri film famosi.

CONTEXT IS KING

Benchè noi esseri umani siamo, in parte, capaci di leggere le emozioni nelle altre persone, non dobbiamo dimenticare la nostra incapacità di dare #giudizi imparziali e accurati. Questo per due ipotesi.

La prima sostiene che sarebbe il #contesto a suggerirci quali #emozioni dobbiamo aspettarci di provare quando osserviamo un volto. Questa teoria mette in discussione l’universalità della percezione delle emozioni umane e prevede che attribuiamo un valore emotivo viziato dal contesto a espressioni che in realtà sarebbero neutre.

La seconda ipotesi sostiene invece che è legata alla necessità di proiettare le nostre stesse emozioni sugli altri. Il contesto attiva in noi una risposta emotiva e fisiologica che verrebbe poi proiettata o attribuita a espressioni neutre altrui.

D’ora in poi, non dimenticate di considerare il contesto non solo per prendere decisioni ma anche nella lettura delle emozioni di chi vi sta di fronte, chiedendovi quanto sta influenzando la vostra percezione. Che piaccia o meno context is king.

LE PERSONE NON RESISTONO AL CAMBIAMENTO. RESISTONO A ESSERE CAMBIATE

Uno degli errori più ricorrenti quando si applicano interventi di change management è concentrarsi unicamente sul cambiamento che si vuole ottenere trascurando l’impatto che questo ha sulle persone che lo subiranno.

Se si è troppo concentrati sul piano di azione e poco sulle persone, ci sono buone possibilità che il progetto fallisca.

Uno dei modelli più utili allo scopo è quello di William Bridges.

 

Che cos’è il modello di transizione Bridges?

 Creato dal consulente organizzativo William Bridges, questo modello ha la peculiarità di fare una distinzione tra cambiamento e transizione.

Bridges ha descritto il cambiamento come “un evento esterno che si verifica“. Ad esempio, l’adozione di un nuovo software o il lancio di un nuovo prodotto.

Ciò che le persone attraversano durante questo cambiamento esterno è una “transizione” interna. Il modello di transizione di Bridges si concentra sul processo psicologico che vivono le persone durante il cambiamento e consta di tre fasi.

Se gli step di transizione non vengono affrontati e gestiti, la resistenza al cambiamento può far deragliare il progetto o non produrre il risultato finale desiderato.

Un aspetto chiave è dato dal fatto che l’obiettivo di un progetto di change management di successo non dovrebbe essere il risultato del cambiamento, ma la fine del vecchio processo che le persone devono affrontare all’inizio di quel cambiamento .

Pur essendo simile al modello Lewin, il modello di Bridges è più incentrato sull’individuo e sulle tante emozioni (sia negative sia positive) che possono accompagnare un cambiamento organizzativo.

L’obiettivo è che coloro che facilitano il cambiamento comprendano e affrontino eventuali emozioni negative in modo che possano rimuovere le barriere al cambiamento.

Le fasi della transizione

 

  • Ending: gestire la transizione durante il cambiamento significa capire che inizia con una fine o una perdita. Le persone stanno dicendo addio al modo in cui le cose venivano fatte, il che può comportare sentimenti di rabbia, rifiuto, confusione e frustrazione.
  • Zona neutrale: subentra nel momento in cui le persone, superata la fase di rifiuto, elaborano le nuove informazioni. Questo è un momento di flusso e può includere sentimenti di eccitazione, ansia, resistenza, creatività e innovazione.
  • Nuovi inizi: significa cementare nuovi modi di fare le cose e incorporarli come nuova norma. I sentimenti in questa fase possono comportare sollievo, confusione, incertezza, impegno ed esplorazione.

 

Come si usa il modello di transizione di Bridges per facilitare il cambiamento?

Una volta che sai cosa stanno attraversando le persone, come puoi utilizzare il modello Bridges per facilitare il cambiamento?

COMUNICAZIONE

E’ importante che le persone sappiano quale ruolo svolgono nel cambiamento, in modo che si sentano incluse e apprezzate. Comunicaglielo.

FEEDBACK

Dai alle persone la possibilità di esprimere ciò che sentono riguardo al cambiamento. Entrare in contatto con gli stakeholder, durante il progetto di cambiamento, può aiutarti a essere consapevole in quale fase del modello Bridges si trovano. Ciò ti consentirà di affrontare i sentimenti negativi che potrebbero impedir loro di abbracciare il cambiamento.

MONITORAGGIO

Segui le persone mentre attraversano le tre fasi del modello Bridges in modo da sapere quali piani d’azione potrebbero dover essere messi in atto per gestire la resistenza al cambiamento.

 

E ricorda, le persone non resistono al cambiamento. Resistono a essere cambiate.

RACCONTI STORIE o COSTRUISCI RACCONTI?

Tutti raccontiamo storie, attraverso i post, i video, le foto, i blog, i profili, le canzoni…

Raccontiamo storie, ma il raccontare storie non è fare storytelling.
Proprio così. Fare storytelling non vuol dire raccontare storie ma costruire racconti.

La storia è una cronologia, il racconto invece è una rappresentazione. Fare storytelling significa creare rappresentazioni testuali, visive, percettive, scegliendo gli strumenti giusti con cui porgere al pubblico giusto un racconto che a quel punto diventa la tua rappresentazione specifica”. A dirlo il più rilevante esperto di Corporate Storytelling in Italia, Andrea Fontana.

In altri termini… una cosa è raccontare la storia cronologica di Apple, un’altra è il racconto di Apple, che è fatto dal mito di Steve Jobs, dal comportamento dei suo manager, dalla estetica dei suoi store e dei suoi prodotti e le modalità di rappresentazione che come azienda decide di avere per raccontarsi.

Per diventare very Storyteller occorre essere strateghi del racconto. Non si racconta a caso, è tutto estremamente curato. Uno stratega cerca di capire chi è il suo lettore, che mercato frequenta, di cosa ha bisogno. Nel costruire un racconto c’è ispirazione e creatività, ma non senza tecnica e sistema.

Occorre possedere lo script-writing narrativo. Che non consiste nella semplice abilità a scrivere. Scrivere in modo narrativo è la capacità di creare mondi di senso e di destino. Occorrono competenze visive e di costruzione di immaginari visuali.

E per finire occorre il design di esperienze narrative. Quando ho costruito un racconto devo curarmi anche di come gli altri vivranno il racconto. Se non sai fare questo, non sai nemmeno costruire un libro, un video, una storia…. Non solo non sai come costruirla, ma neanche come gli utenti la vivranno. In altre parole: sei tu che prepari le “regole del gioco” del (tuo) racconto che l’altro dovrà poi vivere.

Ricapitolando ecco le 3 qualità di un bravo storyteller:

  1. Ordine strategico: bisogna scegliere bene a chi raccontare cosa. La selezione del proprio target è fondamentale per avere uno storytelling efficace. Andare a caso, lasciare spazio solo alle emozioni, non paga.
  2. Saper scrivere e sapere ciò di cui si scrive: saper scrivere narrativamente è più difficile di quello che sembra. Non si improvvisa e richiede anni di pratica e studio.
  3. Aver chiaro come il cliente vivrà il racconto: l’user experience è essenziale e un bravo storyteller si domanda come gli altri vivranno il suo racconto e ne tiene conto.

L’errore che un bravo storyteller sa assolutamente evitare? Raccontarsi in modo eccessivo. Può sembrare un paradosso, ma bisogna raccontare la storia degli altri, non la propria. Quella in cui vi riconoscono e si riconoscono.

PERCHE’ avere PAURA può SALVARCI la VITA

Difficile dimenticare Lunch atop a Skyscraper (pranzo in cima a un grattacielo), la foto in cui 11 uomini dai vestiti sporchi e dai volti sereni, consumano il loro pranzo al sacco, seduti uno di fianco all’altro, sulla trave d’acciaio di un grattacielo in costruzione nella grande mela quello, per essere precisi, che sarebbe diventato l’RCA Building, uno dei grattacieli che formano il complesso del Rockefeller Centre, all’altezza della 41° Strada.

Era il 1932. Undici uomini rischiavano ogni giorno la vita per quel lavoro, apparentemente niente affatto spaventati di consumare la propria pausa pranzo al 69° piano dell’edificio, a un’altezza di 260 metri dalle strade di Manhattan.

Quelle stesse facce serene le incontriamo oggi all’angolo della strada, al supermercato, nel parco sotto casa o nelle immagini di feste clandestine postate orgogliosamente sui social, in barba al decreto che ci  vuole tutti a casa, ma soprattutto con la stessa leggera espressione. Incuranti del pericolo, incapaci di percepirlo. Come a dire e a dirsi… a me non può accadere.

Se nel 1932 questa foto suscitò grande scalpore (non a caso fu pubblicata sull’Herald Tribune insieme a un articolo in cui si contestava la totale mancanza di adozione di dispositivi di protezione o misure di sicurezza), nel 2020, 90 anni dopo, continua a far venire le vertigini ad alcuni e ad altri la voglia di salire anche loro lassù. Insomma passano gli anni, ma spericolatezza e paura ci abitano ancora allo stesso modo.

Perchè?

NON SEMPRE SAPPIAMO QUANDO AVERE PAURA

Il modo in cui viene percepito il rischio è fenomeno complesso, nonché soggettivo e risente della nostra irrazionalità più di quanto ci piace credere e ha molto a che fare con il nostro vissuto e le nostre convinzioni. Questo fa sì che qualcuno sottovaluti e altri sovrastimino i rischi e quindi il pericolo e attivino dei comportamenti e delle reazioni non proporzionate al fenomeno. In parole semplici, capita che le persone a volta temano eventi che non sono in realtà pericolosi e non temano invece, eventi che potrebbero avere conseguenze drammatiche.

Un esempio: l’errata convinzione che viaggiare in auto sia più sicuro che prendere un aereo. Razionalmente sappiamo che non è così, ma la paura di volare è più impattante di quella di guidare soprattutto dopo un incidente aereo recente.

QUANDO HO IL CONTROLLO… NON C’E’ RISCHIO

Alcuni fattori più di altri influenzano la percezione che abbiamo di un fenomeno. Uno di questi è quanto controllo possiamo esercitare sugli eventi che possono generare pericolo. Per esempio: crediamo di poter esercitare più controllo alla guida che di fronte a un terremoto. Un altro è: quanto volontariamente abbiamo deciso di affrontare una situazione pericolosa e quanto gravi sono le conseguenze.

Se pensiamo al coronavirus, la fuga nel cuore della notte dal nord al sud ne è un esempio, senza contare la discriminazione razziale verso cittadini cinesi. Un istinto che è difficile calcolare in termini statistici.

Un fattore importante lo gioca anche la correlazione positiva e/o negativa fra rischi e benefici di una decisione. Molte scelte che coinvolgono un possibile rischio offrono anche dei vantaggi (sottoporsi a indagine diagnostica, come raggi X e TAC). In questo caso rischi e benefici sono correlati in modo positivo se li si analizza in modo scientifico.
Tuttavia, nella mente delle persone questi due fattori impattano in modo negativo. Se una persona percepisce un’attività come rischiosa allora assocerà ad essa un basso beneficio, mentre se percepisce un’attività come sicura allora assocerà a essa un beneficio elevato.

Per esempio, se una persona non prende l’aereo per paura di precipitare, allora potrebbe giudicare questo mezzo di trasporto come molto rischioso e poco utile; diversamente coloro che trovano utile l’aereo perché permette di andare in tutto il mondo in modo relativamente veloce, ne sottovaluteranno il rischio.

Questo ragionamento dipende dal mondo in cui funziona il nostro cervello, ed è dovuto in particolare all’utilizzo del sistema intuitivo che agisce principalmente a livello inconsapevole e che influenza le nostre valutazioni coscienti sulla base delle reazioni emotive che associamo ai diversi stimoli. Di conseguenza, coloro che hanno paura di prendere l’aereo associano a questa attività un’emozione di tipo negativo che li porta a non riconoscerne i possibili benefici. Al contrario, coloro che vedono i benefici offerti dalla possibilità di viaggiare in aereo assoceranno a questa attività un’emozione positiva che li porterà a sottostimare i possibili rischi.

#NUNSEPOFA VS IORESTOACASA
  
Tornando al nostro virus, a seconda di quanto le persone assoceranno al stare a casa anzichè uscire o in un luogo lontano da ciò che chiamano casa, un’emozione di tipo negativa, saranno portati a sottovalutare i rischi, quindi a prendere treni super affollati, bus imballati o partecipare a feste e a chiacchierare con chiunque anche a breve distanza, perché solo raggiunta la meta di loro interesse si sentiranno veramente sicuri. E quindi non c’è disposizione, legge e provvedimento che tenga.

Insomma, ci sono molti modi di prendere decisioni e di spingere verso il comportamento più ecologico e sicuro, come dimostrano i Nudge. Purtroppo solo raramente se ne tiene conto. Eppure i Nudge, anche in questo caso, potrebbero fare grandi differente nella policy e non solo!

PERFETTI NEGOZIATORI con le TECNICHE dell’FBI

Vuoi convincere tuo marito a fare le pulizie in casa? Tuo figlio ad andare a letto presto? Il capo a darti un aumento? L’inquilina del piano di sopra a non riempirti il balcone di briciole? Il collega a fare gli straordinari (almeno alcuni) al posto tuo?

Il successo dipende in gran parte dalla nostra capacità di negoziare. Apprendere e poi applicarne le tecniche però non è cosa immediata. Quest’oggi voglio introdurti qualche segreto utilizzata dalla stessa FBI: Federal Bureau of Investigation, l’agenzia governativa di polizia federale degli Stati Uniti d’America che ha competenza per alcuni reati tra cui l’antiterrorismo e l’intelligence interna (https://www.fbi.gov/).

A dare il primo consiglio è Chriss Voss, agente dell’FBI già responsabile dei negoziatori per i rapimenti internazionali, docente ad Harvard, e CEO di Black Swan Group: “Il segreto è tenere sempre in conto le emozioni“. Spesso per trattare si è soliti “separare il problema dalle persone“, non prendere in considerazione i sentimenti dei nostri interlocutori.

Come si può separare la persona dal problema quando proprio le sue emozioni sono il problema?Prendiamo il caso di chi ha una pistola in mano ed è spaventatissimo: in quel caso le emozioni sono l’elemento principale in grado di deragliare la comunicazione. Ecco perché i bravi negoziatori invece di ignorarle o negarle, le riconoscono e cercano di influenzarle. I sentimenti non sono gli ostacoli ad una trattativa di successo: sono proprio loro a determinarla”.

Immaginate che il direttore del personale davanti a voi sia un rapinatore di banca. Con una pistola in mano e dieci ostaggi sdraiati per terra; invece di chiedere milioni e un jet privato, custodisce gelosamente il budget delle risorse umane. Con lui, capo del personale o scassinatore di caveau, bisogna usare la stessa tecnica, pur essendo le due figure naturalmente diverse. Come? Ascoltando molto e facendo parlare il più possibile la controparte. Nel caso di una rapina in banca, questo serve per capire carattere e debolezze del sequestratore. In un colloquio con il responsabile del personale o il capo ufficio, invece, la strategia è un invito all’«avversario» a prendere una posizione, che magari va nella direzione desiderata.

Entriamo nel dettaglio: vi viene proposta una assunzione con uno stipendio di 40 mila euro. Una volta che la società ha messo sul piatto la sua offerta, non è utile dire né sì né no, ma qualcosa come «così lo stipendio per una posizione come questa è quello». Quasi a mettere nell’aria il dubbio che forse, sul mercato, c’è qualcuno che potrebbe offrirvi di più. E – tra l’altro – lasciando la parola all’«avversario», che ora deve – lui – confermare o rilanciare.

Importante è non trasformate l’incontro – che sia nella stanza del capo o davanti a una filale di banca circondata dalla polizia – in un testa a testa fra due opinioni personali. Ma mettete sul campo dati, informazioni oggettive per sostenere i vostri argomenti.
Come dire: quello che voglio (l’aumento di stipendio o la resa del sequestratore) non è il frutto di un capriccio, ma un’evidenza. Perché, per esempio, il rapinatore non ha vie di fuga o – nel vostro caso – i dati di mercato parlano di una retribuzione media più alta per la posizione che ora ricoprite. Mettete quindi la controparte non di fronte a voi, ma al mondo circostante.

Naturalmente non mancheranno le contro-obiezioni. Ma se avete ragione, se la vostra richiesta è sensata, se l’azienda ha soldi in cassa e tiene a voi, forse il vostro obiettivo non è poi così lontano. L’importante, come consiglia l’Fbi ai negoziatori, è non perdere la calma mandando tutto all’aria. Se il direttore del personale o il vostro capo tentennano, abbozzano un «ni» che è più un «no» che un «sì», non arrabbiatevi subito e non perdete il controllo della situazione. Dimostrerete quel sangue freddo che non guasta e, soprattutto, lascerete aperta la porta a un prossimo aumento di stipendio.

TRUCCHI PRATICI

1. Ripetete alcune parole
Ripetere l’ultima delle tre parole che la controparte ha detto. È uno dei modi più veloci per stabilire un rapporto e far sentire l’altro sicuro abbastanza da rivelare se stesso. La bellezza di tutto questo è la sua semplicità. Le persone l’adorano; tattiche come questa rallenteranno il ritmo della conversazione a vostro favore e vi lasceranno più tempo per pensare“.

2. Praticate l’empatia “tattica”
E’ importante far capire alla controparte che comprendete le sue emozioni. Frasi come ‘sembra come se tu sia spaventato da…’ o ‘sembri preoccupato…’ avranno l’effetto di disarmarli”. Un’altra tecnica consiste nel cercare di immedesimarsi nell’altro a tal punto da anticipare quello che dirà a breve, e cercare di dirlo prima.

3. Cercate il “no”
Non bisognerebbe mai mettere la controparte all’angolo e costringerla a dire “sì”. Anzi è meglio fare una serie di domande che hanno come probabile risposta un “no”: “è un momento scomodo per parlare?”. In questo modo, l’interlocutore si sentirà più al sicuro e avrà l’illusione di avere in mano la situazione.

4. Ottenete un “va bene”
C’è un momento cruciale per una negoziazione: è l’attimo in cui la controparte si convince che chi parla ha capito i suoi sentimenti. Prima di ottenere un “ok”, è consigliato ripetere all’interlocutore come stanno andando le cose, riaffermare quali sono i suoi voleri e le sue emozioni. Fare, insomma, una sorta di riassunto.

5. Date all’altro l’illusione del controllo
Il secreto del successo di una negoziazione è dare all’altro l’illusione del controllo, fargli credere di avere in mano la situazione. Per questo, non ha senso forzare la controparte ad ammettere che avete ragione: “Meglio fare domande che inizino con ‘Come?’ o ‘Cosa?’ in modo che usino la loro energia mentale per trovare la risposta”. Che, spesso, scoprirete, coinciderà con la vostra.

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!