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BANANE, SCIMMIE e la SCOPERTA dei NEURONI SPECCHIO

Metti nella stessa stanza un uomo e una scimmia. Invita la persona a mangiare una banana e scoprirai che sia compiere l’azione (di addentare, in questo caso, il frutto), sia osservarla compiere, attiva i medesimi neuroni, le cellule presenti nel nostro cervello. Nel caso specifico i neuroni della scimmia si attivarono alla sola visione dell’uomo che mordeva il frutto, con la stessa intensità di come se fosse lei stessa ad addentare la banana.

E’ così che la task force diretta da Giacomo Rizzolatti scoprì occasionalmente che alcuni neuroni della scimmia si attivavano non solo quando l’animale compiva una determinata azione, ma anche quando osservava qualcuno fare lo stesso.

Queste cellule furono battezzate neuroni specchio e per comprendere l’unicità di questa scoperta è sufficiente ricordare la frase del neuroscienziato Vilayanur Ramachanrdan: “I neuroni a specchio saranno per la psicologia quello che per la biologia è stato il DNA”.

Già nel 1827 Darwin approcciò il tema ne: “L’espressione delle emozioni”, dove le definì come delle risposte adattive per la sopravvivenza: osservare un uomo che urla di dolore non susciterà negli esseri (sani) una sensazione di piacere o divertimento, al limite una profonda commozione. 

Un noto esperimento provò infatti come anche davanti una persona che piange o ride, si aveva un pattern motorio speculare anche nell’osservatore, che riproponeva il coinvolgimento del muscolo risorio o orbicolare. Ciò che vogliamo esprimere con un’emozione viene elaborato dalle sinapsi dei neuroni a specchio.

La vera sorpresa arrivò però quando si scoprì che i mirror neurons non solo si attivano di rimando all’osservazione di un’azione o un’emozione nota, ma lo fanno anche con un certo anticipo, misurato in millisecondi. Più semplicemente, la sinapsi anticipa non solo il movimento dell’altro, ma anche il sentimento dell’altro, trasducendo in potenziali d’azione quello che noi possiamo percepire come una intenzione.

“So quel che fai” è il titolo di un libro di Rizzolatti sulle prestazioni che ci garantiscono i neuroni a specchio. Vi è mai capitato di scontrarvi con qualcuno per strada e fare il gioco per cui nessuno capisce quale direzione prendere? Ecco un contro esempio per comprendere come non essendovi “osservati” in anticipo, non abbiate usufruito della potenzialità dei vostri neuroni a specchio che in qualche modo vi avrebbero suggerito quale lato scegliere per poi proseguire indisturbati.

Si entra nell’ordine dell’empatia quando infatti si anticipano non solo le azioni ma anche le emozioni dell’altro. Le persone molto affini sono quelle che in virtù della condivisione di uno spazio d’azione comune, mettono in risonanza i propri neuroni a specchio: quante volte un amico ha intuito perfettamente una vostra intenzione ridendo solo qualche millisecondo prima di voi? Goethe le chiamava affinità elettive.

Al contrario ogni allontanamento implica un istinto di evitamento e di non condivisione degli spazi. Una risposta poco empatica ad una discussione potrebbe essere quella di separarsi al fine di non vedere le proprie emozioni riflesse nell’altro.

Una conferma arriva dallo studio dei bambini affetti da Sindrome di Asperger. Il loro comportamento ermetico e poco empatico nei confronti del mondo sembrerebbe essere sostenuto anche da un misfunzionamento dei neuroni a specchio. Al comando “Prendi la penna” o “Abbraccia la mamma” questi bambini potrebbero rispondere “sì” ma senza muoversi. I più recenti studi di neuroimaging hanno consentito di visualizzare un netto “silenzio” in quei neuroni a specchio che suggerirebbero in anticipo non solo come prendere una penna, ma anche cosa significhi riconoscere e cercare il contatto materno.

Vivere senza lo specchio degli altri porta non solo ad un’emarginazione personale ma ad una vera forma di “atrofia” cerebrale: che l’uomo sia un animale sociale è noto, così come sapere che non c’è arma peggiore dell’indifferenza in termini emotivi.

Forse non sapremo mai quello che gli altri pensano veramente. Ma scegliendo un approccio più empatico, sarà difficile se non impossibile, neuroscientificamente parlando, non condividere spazi, movimenti ed emozioni, attivando dunque circuiti specchio.

CERVELLO: le DIMENSIONI non CONTANO!

Un cervello grande non significa maggiore intelligenza.

Avere un cervello di dimensioni maggiori rispetto lo standard non garantisce maggiore capacità cognitiva. L’intelligenza, la capacità di capire, apprendere, elaborare concetti non dipende dalla grandezza del cervello, ma da come questo è organizzato e da quanto estese sono le sue connessioni.

Non a caso, nonostante si creda che gli umani siano la razza più intelligente sul pianeta, il nostro cervello è in realtà piccolo rispetto a quello di molti animali. Quello dell’elefante pesa circa 4,5 chili, quello della balena può arrivare a 10, i topi hanno il nostro stesso rapporto tra volume del corpo e quello del cervello e alcune specie di uccelli, hanno il cervello, in proporzione al corpo, ancora più voluminoso. Gli scandenti, una razza di mammiferi simili agli scoiattoli che vive nelle foreste pluviali, hanno un cervello che costituisce il 10% della massa corporea, quello umano, arriva appena al 2 per cento.

Stando alle ricerche, sembra sia il coordinamento, più che il volume del cervello, a dettar legge. E, in particolare, la funzionalità e la complessità delle sue sinapsi che permettono ai neuroni di comunicare l’uno con l’altro. Sul fronte dell’intelligenza, insomma, il cervello appare più interessante se esplorato attraverso un microscopio, piuttosto che nel suo assetto globale.

L’ipotesi è supportata da risultati ottenuti mediante risonanza magnetica funzionale, tecnica che scansiona l’attività dell’encefalo in tempo reale. Ciò che è venuto alla luce è come l’efficienza e lo sviluppo delle vie neurali che collegano la corteccia prefrontale laterale sinistra al resto del cervello siano di fatto responsabili del 10% delle differenze di intelligenza individuali. L’ampiezza delle connessioni risulta in relazione proprio con l’efficienza con cui eseguiamo il nostro lavoro. Quasi come un direttore d’orchestra, questa porzione del cervello controlla e mette in relazione le altre aree (quelle che eseguono specifici compiti cognitivi) nel coordinamento dei processi, e porta inoltre con sé le istruzioni necessarie per portare a termine i compiti che ci prefissiamo. Analizzando le connessioni possiamo intuire quanto qualcuno sia intelligente.

O rendercene conto a posteriori: come nel caso di Einstein, che aveva un cervello nella media in fatto di dimensioni, ma superconnesso e con numerosissime circonvoluzioni della materia grigia prefrontale, che rendono conto della sua straordinaria intelligenza e delle sue doti matematiche eccezionali.

Si può ESSERE un OTTIMO TEAM anche senza aver NUOTATO fra gli SQUALI…

Qualche giorno fa, una multinazionale mi ha chiesto se fossi stata disponibile a gestire un team building in cui i top manager avrebbero dovuto nuotare fra gli squali in una esotica località di mare. Pur facendo immersioni ed essendo una nuotatrice che in giovane età ha vissuto l’esperienza nazionale, la richiesta mi ha a dir poco sconcertata. Che utilità aveva far vivere quell’esperienza estrema ai poveri manager prescelti?

L’engagement, il riallineamento, la motivazione all’interno di un gruppo possono essere migliorati in diversi modi, ma quale fattore critico di successo poteva mai avere buttarli in pasto ai pesci?

 TEAM BUILDING: QUESTO SCONOSCIUTO

Il termine team building indica un insieme di metodologie e di attività utili a formare un team orientato a migliorare le proprie capacità di lavorare in gruppo. Fra i primi a interessarsi al concetto di gruppo, gli psicologi sociali Lewin e Tuckeman: il gruppo è più della somma delle singole parti (Lewin, 1948). L’idea di base era che il gruppo è una totalità dinamica in cui i membri sono in interdipendenza e al cambiamento dello stato di uno degli elementi mutano anche tutti gli altri componenti e il gruppo stesso come totalità. Tuckeman propose il modello in 5 fasi, particolarmente utile nei luoghi di lavoro: Forming, Storming, Norming, Performing e Adjourning. Step inevitabili per far crescere il team, affrontare le sfide e raggiungere gli obiettivi.

In altre parole un team non può essere considerato come un mero numero di persone che lavorano insieme: un gruppo ha una dinamica ben precisa che si evolve in fasi e comportamenti diversi.

UNA MODA DEL MOMENTO?

Ragionando sulla richiesta dell’azienda di portare i manager in acque profonde e pericolose, ho dovuto accettare l’idea che questa fosse solo una delle tante mode del momento. Il responsabile delle risorse umane, era infatti a conoscenza delle attività più bizzarre, come camminare sui carboni ardenti, surviving in zone remote dell’Asia, love management, volare con le frecce tricolore e via dicendo. Oltre a mostrarmi un articolo di un noto quotidiano che narrava le gesta di una ventina di manager della Silicon Valley persuasi (o manipolati…) a nuotare tra gli squali dell’acquario di Monterey in California.

Perché un gruppo di persone diventi anche un team di lavoro, occorre che i membri sperimentino un senso di interdipendenza e di coesione, che prendano coscienza delle rispettive personalità, aspettative e delle potenzialità dei propri colleghi. L’idea portante è che attraverso queste attività costruttive e non familiari si affrontino situazioni diverse da quelle tipiche del luogo di lavoro, sfide, difficoltà concrete che permettono di far conoscere le persone in modo approfondito, costruire e potenziare relazioni interpersonali, sviluppare maggiormente l’ascolto, la collaborazione e la fiducia reciproca.

COSA C’E’ DOPO?

Perché ci sia coesione le attività devono dunque essere “divertenti e il divertimento educativo”, per parafrasare il sociologo Marshall McLuhan, ecco perché è opportuno chiedersi se tutte siano davvero utili, efficaci e necessarie allo scopo prefissato. Spesso purtroppo, una volta completato il team building, le persone tornano in aziende dove tutto è rimasto immutato e di innovazione non c’è nemmeno l’ombra.

Al di là del tipo di esperienza che si vuol far vivere ai propri dipendenti ciò che fa davvero la differenza non è tramortirli e stupirli per il tempo di una settimana, ma ripensare nuove competenze, condividere know-how ed esperienze per attivare in un continuum, reali processi di trasformazione umana e reale culture change. Ecco che allora l’intrattenimento, il team building possono farsi precise metafore di apprendimento facili da portare nel contesto organizzativo per accelerare trasformazioni in atto e raggiungere insieme nuovi orizzonti.

McDONALD’S si fa BUONO al PALATO, QUANDO non si sa che è McDONALD’S

Pur essendo di qualche anno fa, lo scherzetto organizzato da due olandesi ha ancora molto da insegnarci sulla percezione che abbiamo del cibo.

I due, dopo aver acquistato da McDonald’s dolci e pollo fritto, sono andati a offrirli in degustazione, privi del caratteristico logo, a una fiera gastronomica. Il cibo, presentato come bio, è stato apprezzato da molti visitatori e presunti esperti che, curiosi, si sono fermati ad assaggiare. Alcuni si sono addirittura sbilanciati in analisi gustative.

SE AVESSERO SAPUTO CHE IL CIBO ERA DI McDONALD’S AVREBBERO ESPRESSO LO STESSO CONSENSO?

Non è una novità che in molti paesi il cibo biologico venga considerato più saporito e gustoso del fratello convenzionale, figuriamoci del cibo spazzatura. Le prove scientifiche di questa superiorità gustativa generalizzata però latitano, ma non pochi esperimenti, gettano qualche spiraglio di luce sulla questione.

Sulla falsa riga dello scherzo olandese, ne è stato fatto uno anche a Milano, dove in pieno centro è stato aperto un locale di tendenza e servito ai clienti un nuovo Mc panino. Ma anziché su un anonimo vassoio di plastica il cibo è stato posizionato su un ripiano di ardesia. E anche in questo caso il panino è stato particolarmente apprezzato, benchè di gourmet o di bio avesse ben poco.

Scherzi a parte, quando acquistiamo o mangiamo del cibo riceviamo tantissime informazioni: provenienza, etichetta, contenuto nutrizionale, prezzo, metodo di produzione, come viene presentato e così via. E tutto questo può avere una profonda influenza sulla nostra percezione sensoriale. Il punto cruciale è che quando acquistiamo un prodotto alimentare lo scegliamo solo in parte tenendo conto delle caratteristiche che possiamo sperimentare con i nostri sensi, come il colore o il sapore. Altre non sono verificabili con un semplice assaggio: il metodo di produzione, le proprietà salutistiche o la provenienza geografica. Vari esperimenti hanno mostrato come queste caratteristiche intangibili possano influenzare la percezione del gusto.

IL PECORINO BIO

Un gruppo di ricercatori italiani ha fatto assaggiare a 150 persone un formaggio pecorino biologico e uno convenzionale chiedendo di dare un voto da 1 a 9. Il primo assaggio si è svolto senza che nessuno sapesse quale dei due prodotti stesse gustando. E i due prodotti sono risultati essere equivalenti ed entrambi apprezzati, con 7 come punteggio medio.

Il giorno successivo a tutti i soggetti è stato fatto assaggiare solo il pecorino bio, con allegato un foglio che descriveva le caratteristiche del metodo di produzione biologica. La media dei punteggi è stata di 7.4. Il pecorino bio quindi è stato apprezzato di più laddove se assaggiato era identificato. In altre parole, il gusto è fortemente influenzato dall’aspettativa, e poiché molte persone si aspettano che il bio sia più gustoso, quando lo assaggiano lo trovano più gustoso di quello che è in realtà.

L’ANANAS

A cittadini britannici e olandesi è stato fatto assaggiare dell’ananas di tre varietà diverse coltivati in modo convenzionale, presentato però a volte come biologico, a volte come convenzionale o come prodotto del commercio equo e solidale. Le persone che avevano una aspettativa positiva rispetto al biologico hanno dato un voto più alto quando veniva proposto come bio, nonostante fosse sempre lo stesso ananas, e addirittura lo percepivano più dolce e succoso. L’influenza può anche essere negativa: chi aveva una aspettativa negativa nei confronti dai prodotti del commercio equo o dei prodotti bio li percepiva all’assaggio peggiori di quanto facessero senza l’informazione, falsa, della provenienza. Più precisamente la presenza dell’informazione “bio” migliorava la percezione del 55% dei soggetti, e la peggiorava nel 38% dei casi, mentre l’informazione “equo e solidale” migliorava i punteggi nel 43% dei casi e li peggiorava nel 45% dei casi.

La cosa interessante è che non cambiava solo il gradimento generale ma anche i punteggi di descrittori specifici, come “dolcezza” o “intensità del sapore”.

Studi che dicono moltissimo su come i nostri giudizi siano facilmente influenzabili. E non solo quando si tratta di cibo. Ciò che va tenuto presente in qualità di consumatori è che le informazioni che riceviamo sul cibo possono avere una profonda influenza su di noi, creando aspettative positive o negative, arrivando addirittura a modificare la percezione del gusto e le nostre reazioni. Facendoci percepire addirittura eccellente un cibo spazzatura.

SI PUO’ IMPARARE AD AMARE?

“Le feci una proposta di matrimonio e 9 giorni dopo il nostro primo incontro, lei accettò. Ma c’è voluto molto di più per far durare il nostro amore, e farlo crescere, per 62 anni”. Raccontava così Zygmunt Bauman, il grande sociologo scomparso nel 2017, l’amore di una vita, soffermandosi sull’incapacità di conoscere la gioia delle cose durevoli. “Ogni relazione rimane unica: non si può imparare a voler bene”.

I suoi libri sono ricchi di considerazioni sul modo di vivere le relazioni: oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli non è scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo.

Amore liquido partiva dalla lacerazione tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico. “Il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L’amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame”.

“L’amore non è un oggetto preconfezionato. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. L’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente”.

Il tempo e il mercato hanno in qualche modo fiutato nel disperato bisogno di amore l’opportunità di enormi profitti e di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. “L’amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. 

L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana. L’amore esclusivo non è quasi mai esente da dolori e problemi, ma la gioia è nello sforzo comune per superarli.

“Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore e la stessa morte”. Ci si innamora una sola volta nella vita?

“Non esiste una regola. Il punto è che ogni singolo amore, come ogni morte, è unico. Per questa ragione, nessuno può imparare ad amare, come nessuno può imparare a morire. Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento”.

Sei TU a SCEGLIERE CHI VOTARE? O la tua IRRAZIONALITA’…

A poche ore dall’apertura dei seggi, è importante che vi metta in guardia dalla vostra irrazionalità e da come questa potrà influenzare il vostro voto.

Il voto, non è così pensato, ragionato e non condizionato come ci piace credere. Già solo il luogo in cui è posizionato il seggio può influenzare la casella che andremo a sbarrare.

Quando siamo chiamati a votare su iniziative di finanziamento scolastico, per esempio, siamo più propensi a votare a favore se il seggio è ubicato in una scuola o in un ospedale.

Come già si sa (anche se ce lo dimentichiamo), non ci comportiamo in modo razionale. Pur essendo dotati di ottime capacità cognitive, non siamo in grado di ponderare correttamente le informazioni e incappiamo in bias ed emozioni finendo di non compiere sempre la scelta migliore.

SCELGO O RIFIUTO?

A influenzare le nostre preferenze incide anche il modo in cui viene presentato il candidato. Sembra ovvio, fidatevi non lo è. In uno studio condotto alla Princeton University è stata confrontata la scelta al rifiuto. Ciò che è emerso è che nelle scelte hanno un peso maggiore gli elementi positivi delle persone, mentre nei rifiuti incide soprattutto la dimensione negativa.

Se si è di fronte alla scelta, ad esempio, tra due candidati alle elezioni politiche, di cui il candidato A è un uomo con caratteristiche normali mentre il candidato B ha qualità sorprendenti ma altrettanti difetti, se la domanda è posta in termini negativi (ossia per chi non voteresti) l’8% dei soggetti decide di non votare per il candidato A, mentre il 92% decide di non votare per B. Se invece viene posta la domanda in termini positivi (per quale candidato voteresti), il 79% dei soggetti sceglie il candidato A e il 21% quello B.

Le possibilità che B ha di essere eletto sono due volte superiori rispetto a quando la domanda è posta in termini negativi. Questo succede perché nel primo caso le persone si focalizzano sugli aspetti marcatamente negativi che pesano sulla scelta in modo maggiore rispetto a quelli positivi; nel secondo caso l’attenzione si centra più facilmente sugli aspetti positivi che, questa volta, pesano più di quelli negativi. In questo caso, quindi, il candidato A dovrebbe impostare la campagna elettorale sugli aspetti negativi dell’avversario, così da spingere la scelta degli elettori in termini di rifiuto, mentre il candidato B dovrebbe fare campagna sui propri aspetti positivi per aumentare le possibilità di vittoria.

VOTO L’IMMAGINE O IL CONTENUTO?

Siamo influenzati dall’immagine del politico, fatta di ciò che dice, di come lo dice, della personalità che mostra in pubblico, catturata da telecamere e selfie scattati anche nel privato, fino a costruire una rappresentazione di un Sé che deve trasmettere la possibilità di rispondere ai bisogni degli elettori che altrimenti non lo sceglieranno.

La tendenza è lasciarci guidare dagli aspetti di personalità ricavati attraverso pochi, spesso selezionati, momenti è aggravata da una ulteriore propensione a giudicare i politici sulla base di semplificazioni cognitive ed emotive. Come mostrano alcuni studi, gli elettori invitati a descrivere la personalità che ritengono propria dei leader politici, fanno riferimento esclusivamente ad aspetti legati ai tratti dell’energia e dell’estroversione, trascurando le altre dimensioni della personalità ben più importanti per affidare razionalmente il governo del proprio paese.

Pertanto, nel processo di percezione della personalità del politico che guida gli elettori, quei fattori più superficiali e legati all’immagine, sembrano giocare un ruolo più forte, indipendentemente dalle preferenze politiche espresse dai votanti e dallo schieramento politico in cui si colloca il candidato che viene giudicato. Agendo come una calamita, caratteristiche connesse ad aspetti esteriori quali l’innovatività e la sincerità, sembrano catturare l’attenzione degli elettori, portando ad una generalizzazione della positività della personalità del candidato prescelto.

APPROVI CIO’ CHE VOTO?

Un altro fattore che influenza l’espressione del voto è la naturale tendenza della memoria degli elettori ad essere più sensibile a ricordare meglio eventi accaduti o narrati di recente su cui viene consolidata la propria scelta di voto, malgrado i complessi intrecci della storia narrata durante un governo.

Esiste poi un ulteriore fattore che può influenzare l’espressione del voto, costituito dalla presunta approvazione del voto da parte delle persone importanti. In relazione a questo, la preoccupazione di essere disapprovati da familiari, amici, parenti sembra giocare un peso maggiore sugli elettori di sinistra, mentre quelli di destra sono più centrati sull’approvazione che potrebbero ricevere dai propri cari votando lo schieramento “familiare”, un rinforzo positivo che influenza meno il comportamento rispetto alla possibile “punizione” rappresentata dalla disapprovazione.

A questo punto l’unica cosa da fare è ricordare consapevolmente e onestamente (per quanto possibile) a noi stessi, le reali ragioni che ci spingono a scegliere o a rifiutare un candidato. Buon voto!

NEUROGASTRONOMIA: è l’odore a farci percepire il gusto di ciò che mangiamo

Avete mai provato a bere un succo di frutta tappandovi il naso? Vi accorgerete che non sarete in grado di individuare il frutto da cui proviene.

Tendiamo a pensare che quando gustiamo qualcosa, il sapore lo avvertiamo grazie alle papille gustative presenti in bocca. In realtà, quel sapore, dipende per l’80 per cento dall’olfatto: quando mettiamo in bocca un alimento o una bevanda molte molecole presenti si staccano per raggiungere la cavità nasale, attivando i recettori olfattivi.

A definire il sapore di una pietanza è innanzitutto l’ambiente: ciò che vediamo, prima di mangiare qualcosa, attiva il nostro cervello preparandolo a determinati sapori.

«Chimicamente parlando – spiega Stuart Firestein della Columbia University – la molecola che ci fa percepire l’aroma del Parmigiano e l’odore del vomito è la stessa: si tratta dell’acido butirrico. Tuttavia, il cervello, interpretando la situazione che ha sotto gli occhi, attiverà un odore escludendo l’altro». Allo stesso modo di come avviene per le illusioni ottiche, il cervello può essere ingannato.

In un esperimento è stato chiesto a intenditori del vino e ad assaggiatori professionisti di analizzare vini bianchi di ottima qualità che però erano stati tinti, con coloranti, in modo da far loro assumere il colore di grandi rossi come Bordeaux, Barolo, Amarone. In quei bianchi gli assaggiatori avvertivano i profumi di frutti rossi o di spezie, tipici dei vini rossi.

E gli altri sensi? Concorrono in maniera fondamentale a formare, nel nostro cervello, il sapore. L’analisi l’ha condotta Gordon Shepherd, professore della Yale University, che ha creato anche un neologismo che ben traduce l’innovativa visione dello studioso: neurogastronomy, neurogastronomia. «Il tatto – dice Sheperd – ci permette di riconoscere la consistenza in bocca dei cibi. L’udito è fondamentale: provate a pensare di mangiare le patatine senza sentirne il suono croccante o la carne senza avvertire quel tipico rumore quando la mastichiamo». La parola, poi, è il mezzo che l’uomo ha per comunicare: in origine se un cibo era pericoloso o commestibile, oggi per condividere un sapore e la sua cultura. «Perché la gastronomia è un’esperienza unica, propria solo delle specie umana. Nessun altro essere vivente ha sviluppato un così complesso sistema in grado di riconoscere una simile varietà di sapori». Merito del nostro cervello, l’unico neurogastronomo.

L’ARTE di DOMINARE le FOLLE

Quattro colleghi intorno a un tavolo, un caffè che si raffredda, qualche pasta e un collaudato brainstorming per trovare soluzioni laddove è difficile scovarne. E poi, lei, l’economista del gruppo, tutta calcoli e dati che mi guarda accigliata prima di chiedermi “come fanno certi personaggi a calamitare così tanto l’attenzione, pur non avendo poi così tanto da dire? Ad avere seguaci, più che sostenitori pensanti, a creare sette più che luoghi di confronto e scambio? Cosa spinge il singolo a perdere la propria identità?”.

Domanda complessa… mentre rimaneggio la pasta di meliga, cercando di srotolare i pensieri e trovare una risposta concreta, mi viene in aiuto un controverso scrittore francese, apprezzato dai grandi intellettuali del ‘900 e letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini che ne trassero utili informazioni… per conquistare le masse.

Scritto in uno stile semplice, chiaro, metaforico ma anche perentorio, assertivo e ripetitivo, l’opera di Gustave le Bon “Psicologia delle folle” sebbene datata, continua a essere fra i suoi libri più noti. Per propagandare le sue idee. Ma anche profondamente apprezzato, con i tutti i limiti del tempo, per la genialità intuitiva e per la sua funzionalità sul piano del consenso politico.

LA FOLLA: UN’ANIMA COLLETTIVA

La folla, per Le Bon, non è necessariamente un numero immenso di persone radunate nello stesso luogo, piuttosto uno stato d’animo comune, il momento in cui il singolo si libera della sua identità, per fare proprie caratteristiche nuove che lo rendono partecipe di un’anima collettiva.  Una psicologia comune, che lo fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.» E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folla composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori.

Insomma l’intelligenza individuale si perde immediatamente nella folla, abbassandosi ad un grado intellettivo minore. La folla, detto in parole semplici, è limitata.

LA FOLLA HA BISOGNO DI UN PADRONE

La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»

AFFERMAZIONE E RIPETIZIONE

Ma sia i grandi sia i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.»

L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.» Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»

Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo “consiste soprattutto nell’uso della parola”, perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.

«L’irreale predomina sul reale». Il capo può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché la folla non si preoccupa mai di sapere se la guida ha rispettato la proclamata professione di fede.

Nell’eloquio, la tazzina di caffè si è svuotata, le briciole delle paste disegnano strane ombre e senza timidezza i nostri pensieri fanno un balzo in avanti. Le Bon non è mai stato tanto attuale…

DAMMI una RAGIONE e IO COMPRERO’…

Volete essere più persuasivi? Fornite una spiegazione.
A prescindere da quanto questa sia (in)sensata, sarete ben ricompensati.

A dimostrarlo è lo studio denominato “fotocopiatrice Xerox” condotto da Ellen Langer, psicologa ad Harvard. (http://www.ellenlanger.com/blog/141/mind-power): una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice. Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. 

Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta.” Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa.

Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie.” La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

Questa apparente semplice tecnica persuasiva, rientra nella sfera del Neuromarketing, la disciplina volta alla individuazione dei processi decisionali d’acquisto. Dammi una ragione e io comprerò. Non per niente, il Neuromarketing agisce traendo vantaggio dai numerosi punti ciechi della nostra consapevolezza.

Detto questo, non vi resta che dilettarvi.. nel trovare una ragione… E le code non saranno che un brutto ricordo…. accettate il consiglio, questa volta!

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!