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Le TRAPPOLE della (MALA) SCRITTURA

Non è facile far percepire il valore dello scrittore (professionista). Che si tratti di scrivere un articolo, un libro, una Newsletter o post per blog e social. Tutti sanno costruire frasi, ecco perché è facile improvvisarsi copy, ghostwriter e scrittori e millantare capacità letterarie poi non coerenti con i risultati portati a casa e sostenibili nel tempo.

Scrivere male è infatti assai più facile e più frequente dello scrivere bene. Per appropriarti dell’arte della scrittura l’unico modo è leggere tanto e scrivere di più. Migliorarsi è possibile ma non è nè facile nè rapido.

Inoltre ogni volta che ci si cimenta nella stesura di un libro o di un articolo alcune trappole mentali si materializzano come d’incanto per rendere l’impresa ancor più ardua. Quali?

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

E’ la credenza di avere la verità in tasca, di pensarsi migliori di tutti. E questo porta a una scrittura pessima, autoreferenziale, cieca ai bisogni di chi legge e di chi cerca risposte e soluzioni. Questo stile può funzionare quando si tratta di tomi universitari o di temi complessi, in tutti gli altri casi è un suicidio. La scrittura è ben altro: è la capacità di aprirsi agli altri, di confrontarsi e ascoltare le idee del mondo. Non c’è peggior scrittore di chi crede di essere Tim Roth, Martin Amis o Umberto Eco e di poter dire la sua senza ascoltare nessuno. In questi casi è meglio limitarsi a scrivere un diario da tenersi rigorosamente in un cassetto.

LA TRAPPOLA DELL’INSICUREZZA

Chi è insicuro o costellato di dubbi tende a scrivere male in quanto non vuole esporsi, vuole rimanere al sicuro nella propria zona di comfort. E finisce con trattare tematiche in modo superficiale e asettico, facendo di tutto per nascondere il proprio tratto distintivo, la propria firma, il proprio stile. Senza emozioni non c’è storia che vale la pena essere vissuta.

LA TRAPPOLA DELLA MONOTONIA

Come nella vita di tutti i giorni, anche nella scrittura tendiamo a proporre i soliti schemi, le nostre rassicuranti ed automatiche routine.

Nel caso della scrittura il rischio è di appiattire la trama, risultando noiosi e poco emozionali. Scontati. Confrontarsi con altri stili e leggere molto è sempre il miglior consiglio per appropriarsi di più stili e di una leggerezza narrativa raramente innata.

SCRIVERE E’ UN LAVORO PER POCHI

Scrivere è dunque un lavoro per pochi. Coloro che si mettono in gioco. Che conoscono la grammatica, la sintassi, le regole della leggibilità. Scrivere in modo errato “qual è” o “anch’io” sono errori che si possono correggere, più difficile è il rapporto con se stessi e il proprio pubblico. Non per nulla molti abbandonano o continuano a scrivere male, schermandosi dietro scuse e l’arroganza di chiamare stile personale, una schizofrenia di parole buttate a caso come tessere di un puzzle su un foglio bianco.

Scrivere è un lavoro. E come tale non può essere improvvisato.

LEGGO per LEGITTIMA DIFESA

Leggiamo poco, quasi nulla. E scriviamo tanto. Con le conseguenze che ognuno può immaginare.

Secondo il rapporto dell’Istat 23 milioni di persone dichiarano di aver letto appena un libro in 12 mesi: il che vuol dire che 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Inoltre queste statistiche si basano sulla quantità, non sulla qualità della lettura. Per quanto possa essere soggettivo il valore di un libro, è giusto ricordare che in tali dati il libro di ricette di Benedetta Parodi e Guerra e Pace di Tolstoj hanno la stessa incidenza.

Se si vuole fare un confronto con gli altri paesi europei: la percentuale dei lettori è superiore al 75 per cento nella maggior parte dei paesi del centro e del nord dell’Europa occidentale: Svezia (89 per cento, il dato più alto), Danimarca, Finlandia, Estonia, Olanda, Lussemburgo, Germania, Regno Unito. Mentre è inferiore al 60 per cento in Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Grecia. E Italia.

IL DISPREGIO DELLA CULTURA

Un soggetto competente viene definito un “professorone”, con tono dispregiativo; un uomo di cultura viene additato come nemico del popolo perché non vive sulla propria pelle la difficoltà di arrivare a fine del mese. Come se uno come Pier Paolo Pasolini non avesse avuto diritto di parlare dei “ragazzi di vita”, solo perché era benestante.

Nel 2018, ai politici italiani non conviene mostrare un alto lignaggio culturale: è preferibile immedesimarsi con “la gente”, sbagliare qualche congiuntivo e riallacciarsi a una certa cultura popolare che preferisce citare Massimo Boldi piuttosto che Petrarca.
Nel 1987, durante il discorso per il premio Nobel, Iosif Brodskij commentò: “Per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe meno sofferenza sulla Terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal”. Più di 30 anni sono passati da quel discorso, eppure è ancora attuale.

La lettura da molti viene ancora vista come un mero esercizio cerebrale o un passatempo per coloro che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti o necessarie, e invece, bisognerebbe leggere per “legittima difesa”, per ampliare i propri orizzonti e formare uno spirito critico in grado di permetterci di comprendere il mondo e agire con cognizione di causa, seguendo i nostri valori, non imposti da altri.

LA STORIA INSEGNA

La storia ci insegna che i libri hanno sempre rappresentato un pericolo per le dittature. Il popolo doveva restare ignorante per essere controllabile e gestibile, e la cultura veniva proposta come il nemico unico e assoluto. Pensiamo ai Bücherverbrennungen durante il nazismo: i roghi nei quali venivano bruciati tutti i libri distanti dall’ideologia totalitaria, oppure ai libri bruciati in Cile sotto Pinochet, o ancora a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Senza dimenticare la Santa Inquisizione. La stessa letteratura distopica ha creato allegorie che si riallacciano a questo contesto. Tra queste spicca Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, con i pompieri che bruciano i libri in una società dove leggere è reato. Adesso, per lo meno in Italia, non è più necessario bruciare i libri però, semplicemente perché nessuno li compra e tanto meno li legge.

PERCHE’ TUTTI ABBIAMO BISOGNO di CREDERE in un qualche DIO…

Sei dodicenni già vecchi, sei bambini soldato. Avevano visto la morte, forse l’avevano anche data, erano vissuti a contatto con l’orrore. E di colpo si erano ritrovati invecchiati: la fronte solcata da rughe profonde, gli occhi che avevano smesso di ridere, le mascelle serrate che indurivano i tratti del volto. Uno di loro mi chiese di spiegargli perché lui stava bene soltanto in chiesa. “Non vedo che immagini spaventose. Ma appena entro in chiesa vedo cose belle”.

All’età di 14 anni, un altro bambino fu gettato in un inferno dove la realtà si era trasformata in follia: Auschwitz. Di ritorno dal regno dei morti non riusciva a parlare. Intorno a lui tutti domandavano “Quale Dio ha permesso tutto questo?”. Finchè il ragazzo capì che Dio soffriva per la presenza del male.

PSICOTERAPIA DI DIO

Inizia così “Psicoterapia di Dio”, un libro che dà risposte. Anche quelle scomode. Sulla vita e sulla morte. Sul dolore e sul peccato e spiega perché miliardi di persone, hanno bisogno di rivolgersi a Dio in cerca di aiuto.

Che sia il Dio dei cristiani, quello degli ebrei o dei musulmani, che sia una presenza benevola o un equilibrio cosmico di ascendenza orientale, resta il fatto che moltissime persone si rivolgono a Dio per provare pace.

Esiste una spiegazione?  Boris Cyrulnik, il più noto neuropsichiatra francese, profondo studioso dei traumi dei bambini-soldato, si pone questa domanda cruciale. Il tema è immenso e non scevro da valenze politiche in un momento storico come il nostro, nel quale masse di persone compiono crimini efferati proprio in nome di un cieco credo religioso.

GLI EFFETTI POSITIVI DELLE RELIGIONI

Ma resta il dato positivo: l’ambiente pacifico, calmo e fiocamente illuminato delle cattedrali gotiche, il cantillare delle liturgie ebraiche, la voce rassicurante del muezzin che chiama i fedeli in preghiera sono tutti esempi del lato consolatorio della religione, in cui così tanti esseri umani cercano riparo. Con gli strumenti delle neuroscienze e con i concetti chiave di attaccamento e di resilienza, Cyrulnik mostra come la religione sia effettivamente in grado di avere effetti psicoterapeutici, spesso visibili. L’approccio scientifico e psicologico porta a comprendere come il cervello del bambino instauri con Dio un rapporto affettivo paragonabile a quello che si instaura coi genitori. Il mondo della mente in via di sviluppo si struttura e nel cervello si scolpisce un sé neurologicamente e psicologicamente legato all’ambiente di crescita, che spesso aiuta, e molto, a combattere le inevitabili avversità della vita. Dio e psicoterapia sembrerebbero dunque alleati, almeno fintanto che Dio viene percepito come un padre buono e accogliente. I problemi iniziano quando l’ambiente della crescita presenta ai bambini un Dio vendicativo e intransigente. Proprio come avviene coi padri violenti.

Che tu sia credente o non lo sia affatto, poco importa. Non è un libro che indottrina, è un libro che sviluppa la resilienza.

COME il BLACK FRIDAY SEDUCE il nostro CERVELLO

Il prezzo seduce e si fa ancora più manipolatorio nella settimana del Black Friday. Fenomeno dilagante anche in Italia e che non si accontenta più di rimanere contenuto in un solo giorno, il venerdì appunto.

Settimana in cui ci ritroviamo a comprare un po’ di tutto, da ciò che ci sembra conveniente, a ciò che ci è utile fino a ciò che, a prezzo pieno, non compreremmo mai.

Ed ecco che mettiamo in borsa quei jeans troppo stretti per la nostra taglia, ma irrinunciabili a un prezzo così conveniente e soprattutto non vogliamo correre il rischio che li compri qualcun altro.

Il problema è proprio questo: percepiamo i capi in saldo come il treno che passa una volta sola, e pentirci per aver perso l’occasione del momento, fa troppo male al nostro cervello. Ed ecco che andare oltre è quasi sacrilego.

E poi quei jeans possono sempre essere la “spinta gentile” per motivarci a perdere peso. Infatti tendiamo a usare gli sconti per trovare uno scopo, un motivo per fare qualcosa che procrastiniamo da tempo, pur sapendo che quell’intento svanirà appena usciti dal negozio.

Senza contare l’effetto gregge che il “Venerdì Nero” si fa ancora più prepotente: il cervello umano tende ad imitare e imitare è il miglior modo per funzionare in un gruppo. Dunque se tutti comprano per il Black Friday, comprerò anch’io, così mi sentirò parte della società.

Il consiglio? Prendete tempo per compiere verifiche e valutare e confrontare le opzioni, solo così capirete se quella spesa, seppur scontata, vale davvero la pena o se non finireste addirittura per pagare di più (non indossando mai quei jeans).

Insomma gli acquisti fatti in occasione del “Venerdì Nero” non sono frutto di un ragionamento razionale. Compriamo non per risparmiare ma per rimpianto, piacere ed imitazione. Questo è ciò che più di altri fattori decreta il grande successo del Black Friday in ogni parte del mondo.

La (DIS)UTILITA’ dell’EFFETTO GREGGE a cui NON SAPPIAMO SOTTRARCI

Provate a immaginarvi soli, all’interno di un aeroporto internazionale di una qualsivoglia metropoli dove, appena varcata l’uscita, ad attendervi c’è… nessuno.

Siete stanchi e disorientati dalle indicazioni scritte in una lingua che se anche conosceste, non è la vostra; dalla folla e dalle luci: quale criterio adottate per decidere la direzione verso la quale dirigervi?

Probabilmente, vi lascerete guidare dall’istinto e seguirete la strada intrapresa dal gruppo più nutrito di persone. Sarete, cioè, vittime inconsapevoli dell’“effetto gregge”, l’istinto innato che ci porta a seguire la massa. Questo effetto prende tecnicamente il nome di principio di riprova sociale: fare qualcosa di riconosciuto come socialmente accettabile soltanto perché la massa, la collettività lo ritiene tale.

La sua validità è ulteriormente confermata da un recente studio condotto dall’Istituto per le Applicazioni del Calcolo alla Sapienza di Roma: a due gruppi di 40 persone è stato chiesto di uscire da un’aula per recarsi in una destinazione sconosciuta a tutti, ad eccezione di una persona all’interno di un gruppo e di cinque persone all’interno dell’altro: dopo alcuni momenti di titubanza iniziale, durante i quali alcuni individui si sono diretti verso i Dipartimenti loro più familiari, l’intera compagine si è accodata agli “infiltrati”, ovvero alle persone che avevano l’aria di sapere esattamente dove si dovesse andare, raggiungendo rapidamente la destinazione finale.

Attraverso l’esperimento è stato possibile dimostrare che nelle situazioni di dubbio e incertezza gli esseri umani tendono a comportarsi come un gregge (da qui la denominazione effetto gregge dell’istinto gregario), ovvero come un grande gruppo di “agenti” che seguono regole elementari e le cui condotte individuali sono influenzate da quelle degli agenti più vicini. In altre parole, quando non si è certi di cosa sia meglio fare, si è spinti ad agire nella stessa maniera in cui ha agito chi è più prossimo.

L’effetto gregge è tanto più probabile quanto più è forte la convinzione individuale di ciascun singolo che il proprio comportamento, seppur omologato, sia il frutto di una libera scelta individuale. “L’unione fa la forza”, insomma, ma a patto che si sia convinti che quella di aggregarsi sia una scelta autodeterminata in assoluta libertà.

ESEMPI QUOTIDIANI

Il meccanismo esiste anche nel mondo animale, è sufficiente guardare come agiscono quando si trovano in una situazione incerta come attraversare un fiume: si mettono in gruppo e lo attraversano insieme e in questo modo hanno maggiore probabilità di sopravvivere. La stessa cosa vale per i pesci quando si raggruppano in modo da formare una grande palla da sembrare un unico pesce gigante in grado di spaventare gli aggressori. Insomma ogni qualvolta si fiuta il pericolo, muoversi in massa garantisce maggior probabilità di sopravvivenza. Questo meccanismo risiede anche nella psiche dell’uomo: se vediamo un gruppo di persone guardare verso l’alto, dentro di noi sentiamo una forza che ci spinge a fare la stessa cosa.

Altri esempi? Cadiamo nella stessa trappola ogni volta che prenotiamo un ristorante o un hotel o compriamo qualcosa on line. La tendenza è acquistare da venditori che hanno un certo numero di vendite alle spalle e diversi feedback positivi: insomma, tutto quello che vogliamo è essere rassicurati. Ecco il motivo per cui i siti aziendali riportano nelle landing page le testimonianze dei clienti. Questa tecnica gioca su due fattori: spinge all’acquisto e parallelamente punta a far sentire il potenziale acquirente intento alla lettura, l’unica persona a non aver ancora provato il nuovo prodotto o servizio, facendo scattare in lui una sorta di senso di inadeguatezza. In sostanza si sfrutta il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una community e il gap si può colmare con un semplice (e impulsivo) click.

VANTAGGI DELL’EFFETTO GREGGE

Agire come pecore presenta dei vantaggi? Assolutamente sì. Per quanto riguarda l’aspetto sociale l’istinto gregario, quando correttamente “sfruttato”, consente una migliore gestione delle masse in situazioni di emergenza e di forte afflusso (è sufficiente inserire all’interno dei grandi gruppi dei leader nascosti che sappiano esattamente come comportarsi per far sì che tutti li seguano); per quanto concerne, invece, l’aspetto psicologico individuale, a fare come fan tutti non si sbaglia mai poiché, nel caso in cui le cose dovessero andar bene, si penserà di essere stati intelligenti a uniformarsi (autonomamente, s’intende) e nel caso in cui le cose andassero male, ci si consolerà pensando che non si è stati i soli ad aver sbagliato.

SFATIAMO un MITO: NON è VERO che il CERVELLO non CAPISCE le NEGAZIONI

Voglio sfatare un mito che si sente raccontare spesso nei corsi di crescita personale (o si legge in “certi” libri) da chi di come funziona esattamente il cervello ne sa ben poco. Per lo meno rispetto a chi il cervello lo ha studiato per anni in aule universitarie e magari lo ha anche maneggiato nelle sale operatorie o nei centri di ricerca.

La negazione è una funzione tipica del linguaggio umano, ed è considerata esigenza universale pragmatica per le esigenze comunicative a cui risponde. Tuttavia, spesso si sente dire che abbiamo prima bisogno di rappresentare il significato di una parola, per poi negarlo.

A sostenere il fatto che non è vero che il cervello non capisce le negazioni, diversi studi, fra cui il più recente condotto dai ricercatori del Center for Neuroscience and Cognitive System (CNCS)  a Rovereto e dell’Institut des Sciences Cognitives “Marc Jeannerod” del CNRS a Lione.

NEGAZIONI E CERVELLO

Immaginate di leggere la frase “Non ci sono aquile nel cielo”. Successivamente vi vengono mostrate due immagini: un’aquila nel nido e un’aquila nel cielo. Se vi chiedessero quale immagine associate alla frase appena letta, indichereste immediatamente quella dell’aquila nel cielo e solo dopo vi correggereste.

Partendo da questa evidenza, neuroscienziati, esperti di linguaggio e psicologi hanno ipotizzato che per elaborare il significato di una negazione, sia prima necessario comprendere l’affermazione.

Tuttavia nell’esempio dell’aquila c’è un condizionamento di natura pratica: il cervello sceglie la strada cognitivamente più economica. La frase “Non ci sono aquile nel cielo” lascia aperte numerose possibilità. Le aquile potrebbero infatti essere nel loro nido, su un albero o in volo a pelo d’acqua.

Il nostro cervello preferisce dunque memorizzare l’unico caso impossibile, un’aquila in cielo, piuttosto che gli innumerevoli casi possibili. Ma cosa succede se non sussistono condizionamenti di natura pratica? È ancora vero che la comprensione delle negazioni avviene in due fasi successive?

Per rispondere a questa domanda i tre ricercatori hanno mostrato ai soggetti coinvolti nello studio frasi relative ad azioni che implicano il movimento della mano, in versione positiva e negativa, ad esempio “ora scrivo” e “non scrivo”.

L’ESPERIMENTO DI ROVERETO

Lo studio ha coinvolto 30 persone, tutte italiane e destrorse. A ciascun soggetto sono state mostrate sullo schermo di un computer una serie di verbi di azione e di stato precedute da un avverbio di contesto “ora” o “non”. Per monitorare l’attività cerebrale durante l’esperimento, la parte della corteccia motoria associata al movimento dell’avambraccio e della mano destra è stata sollecitata tramite stimolazione magnetica transcranica.

RISULTATI

I ricercatori hanno osservato che gli impulsi elettrici che raggiungono la mano quando i soggetti leggono azioni positive sono più intensi rispetto a quelli evocati da azioni negative, che risultano addirittura più deboli di quelli misurati in corrispondenza dei verbi di stato.

Questa differenza di intensità esiste già durante i primi istanti in cui la frase appare sullo schermo. L’elaborazione delle negazioni avviene dunque in maniera diversa rispetto a quella delle affermazioni sin dalle primissime fasi, senza bisogno di passare dall’elaborazione del significato positivo.

CONCLUSIONI

L’esperimento ha chiarito il funzionamento di un meccanismo logico fondamentale, la negazione, mostrando come il cervello sia più efficiente di quello che si pensi.

L’elaborazione delle negazioni probabilmente contribuisce a definire la differenza tra cognizione umana e cognizione non-umana.

Se il nostro sistema cognitivo non riconoscesse la negazione, questa stessa affermazione come un infinità di molte altre, sarebbero incomprensibili agli umani. E di conseguenza neppure le affermazioni positive.

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA delle PERSONE NOIOSE

 

Siamo circondati, assediati da persone pesanti. Così autocelebrative e autoreferenziali da diventare noiose. L’estremo opposto della leggerezza.

C’è un testo che Italo Calvino scrisse in occasione di alcune lezioni che avrebbe dovuto tenere ad Harvard relativamente a sei proposte per il nuovo Millennio. Era il 1985 e Calvino (che non riuscì a tenere le lezioni a causa della sua morte improvvisa), con il tocco visionario del poeta e la saggezza dello scrittore riuscì comunque a scolpire l’essenzialità della leggerezza: «il planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore».

L’ironica leggerezza è quell’atteggiamento che ti permette di atterrare nelle difficoltà della vita, senza rimanerne travolto. Non con l’occhio della supponenza o dell’alterigia dunque, ma con un comportamento naturale che ci fa vedere le cose in profondità e allo stesso tempo le distanzia dall’affanno del presente.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE

Sulla leggerezza si interroga, e finirà per far interrogare anche noi lettori, Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere: esistono leggerezza e pesantezza?, possono affondare nella carne fino a diventare delle qualità umane?

Kundera ci porta a scavare nell’attrazione e nel suo gioco, per svelare l’arcano. Nel romanzo ci sono due coppie polari, ma siamo lontani da quello scambio chimico che Goethe evocò ne Le affinità elettive, si tratta piuttosto di infinite triangolazioni e combinazioni: ogni personaggio rappresenta un modello che ha i suoi epigoni. Tomáš, Tereza, Sabina e Franz, sono i quattro cardini di questo gioco. Tomáš è il medico di Praga, libertino e leggero, che si divide fra donne e letti finché non incontra Tereza, e qui sente agitarsi il grido dell’Es muss sein (deve essere), la fatalità della resa. Tereza rappresenta il contraltare di Tomáš, e di fatto si impone con la sua inevitabilità e “pesantezza” nel suo letto, nella sua casa, nella sua vita.

“Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi”

È nel momento in cui Tomáš si arrende a provare compassione per Tereza che sceglierà di cedere all’amore e alla sua irrimediabile pesantezza. “L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore ma col desiderio di dormire insieme”.

Per Kundera il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. L’insostenibile leggerezza dell’essere è un’indagine di gran classe, che ci riporta diritti a noi, agli altri, alla vita violenta, al suo dramma di sottili e leggere speranze.

E’ VERO che SONO i più CAPACI ad AVERE SUCCESSO nella VITA?

E’ vero che sono i più capaci ad avere successo nella vita?

Raramente la lettura di un saggio si fa leggera come un romanzo, eppure il libro di Nassim Taleb riesce a fare esattamente questo effetto.

Giocati dal caso parla della fortuna, o meglio, del ruolo che il caso gioca nella nostra vita. ma parla anche di quella fortuna che, non essendo percepita come tale, viene scambiata per abilità: una confusione presente nei campi più disparati: dalla scienza alla politica, dalla letteratura alla finanza.

Taleb, sullo sfondo della sua esperienza di trader a Wall Street, ci mostra le conseguenze che possono nascere dal confondere la fortuna per abilità: sono numerosi gli idioti fortunati e gli scemi strapagati che si sono semplicemente trovati nel posto giusto al momento giusto. Individui del genere purtroppo attraggono schiere di seguaci devoti che credono ciecamente in quello che loro – talvolta in buona fede – spacciano per metodo.

La lettura di “Giocati dal caso” esplora quelle deformazioni cognitive del nostro cervello che ci portano alla ricerca continua di nessi di causalità anche là dove si tratta di pura casualità, tendenze inveterate (frutto dell’evoluzione avvenuta per la maggior parte in un ambiente molto più lineare di quello in cui viviamo oggi) di cui non riusciamo a liberarci, e che conducono ad equivoci di cui il libro ci mostra le conseguenze, talvolta drammatiche, mentre fa cadere come birilli i nostri pregiudizi sull’idea di successo e di sconfitta.

Scriveva Jean Cocteau: “Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri”, al giorno d’oggi, senza fortuna, ci mancherebbero gli alibi.
Buona fortunata lettura

La PIGRIZIA è la CHIAVE della SOPRAVVIVENZA

Siamo pigri per natura: il nostro cervello è programmato per evitare sforzi.

Risparmiare energia è da sempre essenziale per la sopravvivenza e ha permesso ai nostri antenati di essere più efficienti nella ricerca di cibo e riparo, di competere ed evitare i predatori. In altre parole per il nostro cervello svolgere attività fisica, o il pensiero di farlo, richiede energie in più che i neuroni tentano a tutti i costi di risparmiare, trattenendoci svogliatamente sul divano.

A rivelarlo è uno studio internazionale condotto tra Belgio, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Canada pubblicato su «Neuropsychologia» (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30056055)

PARADOSSO DELL’ESERCIZIO

Il lavoro contribuisce a sciogliere un annoso enigma, il «paradosso dell’esercizio»: nonostante la società ci incoraggi a fare esercizio fisico e sebbene sia risaputo che lo sport fa bene a corpo e psiche, le statistiche mostrano che stiamo diventando via via più pigri.

Lo studio ha coinvolto 29 giovani, alcuni attivi e altri sedentari. Tutti dovevano giocare con un avatar al pc. Sul video comparivano oggetti in movimento paradigmatici della pigrizia (poltrone, divani, amache, letti) oppure dello sport (racchette da tennis, scarpe da corsa, scale, palloni…). L’avatar doveva evitare il più rapidamente possibile gli oggetti che richiamavano la pigrizia e dirigersi verso i simboli del movimento. I partecipanti indossavano il caschetto per l’elettroencefalogramma, così da registrarne l’attività cerebrale: ogni volta che l’avatar doveva evitare i simboli della pigrizia il cervello del giocatore – indipendentemente dalle proprie attitudini – si «accendeva» più intensamente, consumando maggiori quantità di risorse.

Evitare la sedentarietà, quindi, ha un prezzo in termini di energie. «In particolare – spiegano i ricercatori – sono due le aree della corteccia cerebrale ad attivarsi più intensamente, se tentiamo di sfuggire alla sedentarietà. Una è la corteccia frontale mediale, che ha un ruolo nella risoluzione dei conflitti interni e serve a risolvere il dissidio tra un’intenzione volontaria (come voler fare sport) e una modalità inconsciamente radicata (la sedentarietà). L’altra è la corteccia fronto-centrale, un’area a funzione inibitoria che spegne i comportamenti automatici inconsci».

I risultati dello studio mostrano che il cervello è, nel profondo, attratto da comportamenti statici. Per sfuggire al loro richiamo ci si deve impegnare. Ecco perché le policy contro la sedentarietà non hanno funzionato. Per fortuna, come si sa, le “cattive” abitudini si possono cambiare… benchè non senza fatica!

BIANCO a ogni COSTO: ANALISI di un FENOMENO PREOCCUPANTE

Una pubblicità di qualche anno fa vedeva come protagonista un ragazzino nero che entrava in una vasca e usato il prodotto reclamizzato, ne usciva con la pelle bianca.

In un altro spot l’ex miss Nigeria Akinnifesi, usava una nuova crema che pareva capace di rendere la sua pelle molto più chiara.

In un’altra ancora si vedono in fila tre ragazze (nera, bruna e bianca) avvolte solo da un asciugamano. Sopra di loro la nota: “prima” e “dopo”. Come se il sapone in questione riuscisse a “pulire” la pelle nera, rendendola bianca.

PERCHE’ LE DONNE VOGLIONO SCHIARIRE IL COLORE DELLA LORO PELLE?

Perché milioni di donne nel mondo, mi sono chiesta, vogliono schiarire il colore della loro pelle?

Un articolo della BBC “Africa: Where Black is not really Beautiful (Africa, dove il nero non è proprio bello)” ha scatenato un acceso dibattito su questa pratica che ribadisce una supremazia bianca e s’interroga sulla sua natura.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le Nigeriane sono le più dedite alla pratica, il 77% di loro consuma regolarmente prodotti per lo sbiancamento della cute. Seguono le cittadine del Togo con il 59%, quelle del Sudafrica con il 35%, mentre in Mali sono al 25%.

Lo fanno perché vogliono “la pelle bianca”, ha spiegato l’artista sudafricana Nomasonto Mshoza Mnisi, che ha difeso la sua scelta come una soddisfazione della sua autostima, al pari di un qualsiasi altro intervento estetico, e infatti si è anche sottoposta a interventi chirurgici per avvicinare i suoi lineamenti a quelli caucasici.

Allo stesso modo dell’analogo tentativo di sbiancamento di Michael Jackson.

PERICOLI E MALATTIE

Necessità che se da un lato può, a sentire le donne coinvolte, aiutare l’autostima e allineare agli stereotipi, può essere pratica pericolosa per la salute. Tanto è vero che il commercio di creme e prodotti sbiancanti è proibito in molti paesi dell’Asia e in quasi tutto l’Occidente, ma non ne è proibita la produzione e quindi, proprio da qui sono prodotti ed esportati in Africa, dove legalmente o clandestinamente finiscono sui mercati del continente.

Il pericolo si chiama ocronosi: malattia in forte aumento e che colpisce la cute a lungo sbiancata, facendola diventare viola e rovinandola anche oltre lo sgradevole effetto cromatico, estendendosi fino alle leucemie e ai tumori a reni e polmoni.

IDENTITA’ FERITE

Ma cosa spinge donne di colore, anche bellissime, a farsi bianche?

Non è la mentalità coloniale ossia la necessità di ritenere da parte degli africani, prodotti e cittadini dei paesi a maggioranza bianca e in particolare quelli europei, superiori. Non solo, almeno. Quanto piuttosto il riconoscimento inconscio di una realtà nella quale essere nero è ancora oggi, per molti, un disvalore. Anche in Africa.

Anche qui infatti un ascendente bianco nobilita il lignaggio, e coloro che si sbiancano la pelle non lo fanno per vezzo, ma perché vivono in società che hanno privilegiato la “pelle chiara” e continuano a farlo, così come continuano a privilegiare l’identità maschile su quella femminile.

Chiaramente la corsa allo sbiancamento rappresenta anche una ferita all’identità nera e un suo tradimento, almeno nella misura in cui riconosce e riafferma una superiorità bianca, ma ridurre il discorso al ritratto delle ingenue africane che trovano più bella la pelle bianca è limitante.

Basti pensare che il fenomeno che non ha subito rallentamenti nemmeno con la elezione di Obama a Presidente di una superpotenza mondiale, ma anzi lo ha alimentato in quanto ha una madre bianca e lui “non è poi così nero”, confermando che “meno nero” è comunque meglio di “più nero”.

PREGIUDIZIO O SOPRAVVIVENZA?

Nonostante sia passato un discreto numero di anni dai tempi dello schiavismo, il potere è ancora bianco e il pregiudizio contro i neri è ancora fortissimo e non ha mai smesso di essere alimentato. Se pensiamo ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è spesso un sentimento di diffidenza. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Tra neri con molti discendenti del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono un gradino più alti. C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.

Lo è in Africa, dove la maggior parte dei paesi sono oppressi da dittatori neri ma i fili sono tirati dai paesi dei bianchi e lo è negli Stati Uniti. È vero che si sono visti neri ricoprire tutte le maggiori cariche pubbliche statunitensi, ma è altrettanto vero che lo stesso Obama era l’unico (quasi) nero in tutto il senato.

Non è quindi difficile capire in quali mani stia lo scettro del potere. E non è difficile capire che la vicinanza culturale e di classe fra i maschi bianchi (molto ricchi) alla blindata maggioranza ai vertici dell’economia mondiale rappresenti quasi la divinità alla quale ispirarsi. Benchè quasi irraggiungibile.

Ecco perché attaccare o deridere le donne che rischiano la salute per salire qualche gradino di una scala sociale senza fine, può al limite apparire grottesco e triste. E talvolta necessario.