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QUANDO il CAPO ha un PREFERITO… e NON sei TU

Antonella è la classica donna mediterranea, rossetto rosso acceso, occhi e capelli neri. Quando la incontri la prima volta, ti accoglie con gentilezza ed entusiasmo, facendo sembrare tutto semplice, tanto che ti viene da pensare “questo nuovo incarico sarà stupendo. Il team è solare, affiatato, collaborativo”. E in effetti lo è. Per un po’.

Intanto, Antonella, pur non abbandonando il sorriso rosso accesso, inizia a lavorare ai fianchi, in modo quasi impercettibile. Non ci fai caso, anche perché i #valori decantati dell’azienda sono, fra gli altri, #meritocrazia e #inclusione, così, quando lo fai, è troppo tardi.

Mentre con i colleghi risolvevi problemi e trovavi soluzioni lei, Antonella, lavorava assiduamente per ritagliarsi su misura il ruolo di #preferita. Dell’ufficio, del capo.

La storia, vera, finisce male. Io me ne vado, una collega finisce in burnout e un’altra, per aver cercato di fermarla, deve difendersi in commissione disciplinare.

Ciò che ho imparato, da quella situazione, è sia riconoscere i #preferiti, evitarli, laddove serve, sia accettare il fatto che parte della #responsabilità non è (solo) dei manipolatori seriali, quelli ci saranno sempre, ma del management, del board, chi decide e crea la cultura di un’azienda. Troppo spesso inconsapevoli o non abbastanza strutturati per trattare tutti in modo equo.

OVUNQUE VAI C’E’ SEMPRE QUALCHE PREFERITO

Piaccia o meno, in ogni organizzazione c’è sempre qualche preferito. La cosa non sarebbe così tragica se si limitasse a questo, anzi è quasi normale. Il malinteso nasce se all’eleggere il preferito si unisce anche il mancato #riconoscimento di tutti gli altri, o di una parte.

Seppur paradossale, si dimentica che è riconoscendo le persone per chi sono e cosa fanno che le si coinvolge, trattiene e rende felici e quindi performanti; molto più della sola busta paga.

Gallup e Workhuman hanno studiato le esperienze di riconoscimento di oltre 7.500 dipendenti statunitensi. L’analisi ha rivelato che solo il 26% è d’accordo sul fatto di ricevere quantità di riconoscimento simili a quelle degli altri membri del team con livelli di prestazioni simili.

Le conseguenze di un mancato riconoscimento sono di vasta portata: se il riconoscimento sembra iniquo, crea un problema di inclusione, mina l’esperienza dei dipendenti e invia messaggi contrastanti su come appare l’eccellenza.

CHI SI SENTE ESCLUSO

Sebbene l’analisi sia stata fatta oltre oceano, da noi la situazione non è meno triste. In generale, la maggior parte dei dipendenti non è certa che il riconoscimento che riceve sia equo o puramente guidato dal #merito. E quando le organizzazioni non riescono a fornirlo equamente, stanno minando i sentimenti di appartenenza e inclusione sul lavoro. Non si può sfruttare il potere della diversità senza inclusione.

La nuova generazione. Quattro dipendenti su 10 della generazione Z, preferirebbero essere riconosciuti dal loro responsabile almeno un paio di volte alla settimana, ma solo un quarto sta effettivamente ottenendo il riconoscimento con quella frequenza. I più giovani hanno maggiori esigenze di riconoscimento rispetto ai più esperti e ai senior.

Il riconoscimento non è da intendersi come una lamentela. Piuttosto come un elemento indispensabile per far crescere e consolidare la fiducia, lo spirito di gruppo, la collaborazione e la cooperazione fra le persone.

Il riconoscimento crea #talento: il modo in cui i più giovani vengono riconosciuti ora, determinerà le loro prestazioni e il loro potenziale futuri, per non parlare del loro impegno. Le organizzazioni possono far crescere collaboratori forti e fiduciosi rafforzando positivamente l’eccellenza fin dall’inizio.

I manager. Concordano sul fatto di essere fra i ruoli che meno ricevono un riconoscimento equo. Sebbene tutti riferiscano di dare più riconoscimento di quello che ricevono, i manager sono quelli più svantaggiati: dicono di dare riconoscimento tre volte di più di quanto lo ricevono dai propri responsabili, supervisori o leader e 2,5 volte di più di quanto lo ricevono dai colleghi.

Non è un segreto che le organizzazioni si affidano pesantemente sui manager. I leader si fidano di loro per svolgere operazioni quotidiane, avviare nuove iniziative e priorità strategiche. I dipendenti dipendono da loro per risolvere problemi e sostenere il loro sviluppo. I manager sopportano il peso dall’alto e dal basso, e questo finisce per essere scontato anziché riconosciuto in qualche modo.

Non sorprende che il burnout dei manager stia aumentando a un ritmo più elevato rispetto agli altri ruoli. Escluderli dal riconoscimento può essere una cattiva scelta nel medio-lungo termine. Riconoscerli ne aumenta il coinvolgimento e il morale e, a loro volta, quello dei team che coordinano.

COME FAR SENTIRE LE PERSONE RICONOSCIUTE

Ci sono alcuni passaggi che permettono di meglio riconoscere e valorizzare le persone.

Predisporre audit. Le organizzazioni non devono tirare a indovinare per scoprire dove si nascondono le disuguaglianze e le preferenze. Incentivare i momenti di feedback, le riunioni in team e gli incontri one to one a tutti i livelli, unitamente a dare la possibilità di fornire pareri in forma anonima, consente di creare un contesto dove più facilmente le persone si sentiranno incentivate e sicure a parlare. Coinvolte. Difficilmente le persone distruggono ciò hanno costruito.

Formare i manager in modo da essere consapevoli del riconoscimento. Dai dati, quasi tre quarti delle organizzazioni non formano i manager sulle migliori pratiche di riconoscimento. Per quanto possa apparire strano non sempre i manager (e non solo loro) sono consapevoli di avere dei #preferiti e di come tendano a favorirli. Esserne consapevoli permette, non sono solo di individuare i manipolatori seriali per non caderne vittime, ma anche di attuare i giusti comportamenti affinchè tutti vengano trattati e premiati nel giusto modo.

Difficilmente chi ha un preferito lo ammetterà. Non solo agli altri ma addirittura a sé stesso.

Creare pari opportunità di riconoscimento. Offrire un riconoscimento sul posto di lavoro significa ringraziare ed elogiare i dipendenti per il loro contributo, se meritato ovviamente. Il riconoscimento può assumere varie forme: da un semplice grazie detto di persona o pubblicato sulla piattaforma social media dell’azienda a benefit professionali o permessi retribuiti. Anche se il riconoscimento può essere di natura finanziaria, è molto utile offrire feedback pubblici positivi.

Le organizzazioni hanno molte opportunità per offrire ai dipendenti un riconoscimento per il loro impegno e per i risultati raggiunti:

·      Fissare uno standard di lavoro: il riconoscimento pubblico può aiutare i responsabili a stabilire un benchmark che i team dovrebbero raggiungere.

·      Raggiungimento di un obiettivo importante: utile è non limitarsi ad annunciare e celebrare solo le promozioni. Sottolineare ricorrenze come gli anniversari di lavoro contribuisce a creare un senso di appartenenza. Le persone apprezzano riconoscimenti più ampi, e percepiscono l’azienda che celebra gli eventi della vita privata dei dipendenti (il matrimonio o la nascita di un figlio), come un luogo di lavoro migliore.

·      Ringraziamento dei neoassunti nei primi mesi dall’assunzione. Nei primi sei mesi di un nuovo lavoro, il turn over è elevato ed è quindi fondamentale offrire feedback positivi sin dall’inizio. Diversamente da altri incentivi, il riconoscimento non deve necessariamente attendere il raggiungimento di un obiettivo. Esprimere il proprio apprezzamento risulta particolarmente efficace con i più giovani.

No all’approccio universale. Per far sentire riconosciute le persone l’approccio universale non è efficace. La motivazione dipende da fattori diversi e, per alcuni, i piccoli gesti sono significativi quanto un premio importante. Anche l’origine degli apprezzamenti ha la sua importanza. Spesso le persone collegano il riconoscimento a figure quali manager e leader, ma anche l’apprezzamento dei colleghi (ovvero il riconoscimento sociale) può essere fondamentale.

Premi flessibili. È finita l’epoca in cui della ricompensa prestabilita e non negoziabile. Dare la possibilità alle persone di scegliere fra più opzioni le farà sentire apprezzate e ascoltate, e sentiranno i loro #valori rispettati. Per alcuni può essere particolarmente utile l’abbonamento alla palestra, per altri orari flessibili per accompagnare i figli a calcio e via dicendo.

Per esempio Cisco,  dispone di un programma di riconoscimento che permette a qualsiasi dipendente di nominare un collega per l’assegnazione di un premio monetario. I dipendenti possono inoltre scegliere un premio in occasione del primo e del quinto anniversario di lavoro nella azienda.

McDonalds premia con coupon i dipendenti con la maggiore anzianità di servizio. Offre loro anche sconti presso vari rivenditori e opportunità di formazione e sviluppo.

General Motors (GM) ha un programma di riconoscimento attivo in 26 Paesi. I dipendenti possono inviare e ricevere riconoscimenti basati su punti, da utilizzare per riscattare premi a loro scelta.

COME CREARE UN PROGRAMMA PER IL RICONOSCIMENTO DEI DIPENDENTI

Definisci obiettivi e traguardi: stabilisci quali obiettivi vuoi raggiungere, quando e decidi come valutare i progressi compiuti.

Allineamento con la cultura aziendale: per quali comportamenti vuoi assegnare un riconoscimento? Cosa li mette in relazione con i valori dell’azienda?

Comunica il programma: posiziona il programma come campagna e accertati che tutti ne siano informati

Assegnazione frequente e regolare dei riconoscimenti: eccedere nei riconoscimenti ne riduce l’efficacia, ma è importante mostrare apprezzamento almeno a intervalli di qualche mese. Inoltre, se qualcuno si distingue per la qualità del lavoro svolto, riconosci subito il contributo apportato.

·       Personalizzazione dei premi: se possibile, offri ai dipendenti una scelta

·       Richiesta di feedback per misurare l’efficacia: l’efficacia dei programmi è relativamente facile da misurare. Usa i sondaggi per scoprire se i dipendenti si sentono apprezzati e perché.

Il cambiamento non sarà immediato, ma nel tempo sarà facile capire come e quanto il programma influisce positivamente su: turn over dei dipendenti, assenteismo, vendite e ricavi, oltre a rendere l’organizzazione più connessa e trasformarla in un posto di lavoro più piacevole.

Il turn over ha un costo elevato: sostituire una persona costa da metà al doppio della retribuzione di un dipendente. E questo è solo il costo monetario, senza considerare le implicazioni in termini di perdita di competenze e di impatto negativo sul morale causato dall’alto tasso di turn over. Tuttavia, difficilmente le persone che si sentono apprezzate lasciano un’azienda.

Il 63% delle persone che ricevono riconoscimenti professionali ritiene altamente improbabile l’ipotesi di cercare un nuovo lavoro, contrariamente all’11% delle persone il cui lavoro viene apprezzato di rado o mai. Inoltre, i dipendenti apprezzati e considerati sono più propensi a impegnarsi maggiormente, con un conseguente aumento della produttività.

La soddisfazione sul lavoro non solo incrementa la produttività del 31% e le vendite del 37%, ma influisce anche sul modo di lavorare delle persone, con un aumento del 19% del livello di accuratezza con cui svolgono le attività.

A te la scelta…

CONTROLLARE ciò che POSSIAMO CONTROLLARE: il miglior antidoto al senso di impotenza (anche sul lavoro)

Sarà capitato anche a voi di entrare in ascensore e non riuscire a resistere alla tentazione di premere compulsivamente il pulsante chiusura porte. Vi siete mai chiesti #perché?

Schiacciando ripetutamente il pulsante si ha (l’errata) sensazione che le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, quanto questo innervosisse gli altri giocatori. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003.

Come era abituato a fare in #azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo, è descritta come un’“illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e #incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere #obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è #pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di #impotenza, alla scarsa #fiducia in noi stessi. L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

“RENDERE il FAMILIARE STRANO e lo STRANO FAMILIARE” per facilitare il CAMBIAMENTO (in azienda)

C’è una costante che ritrovo nelle #organizzazioni che vogliono abbracciare il #cambiamento: cercare il nuovo (pretendere che le cose cambino), senza modificare il come (continuando a fare le stesse cose nello stesso modo).

Un #paradosso. Comodo, tranquillizzante e fallimentare, quello di reiterare vecchi schemi, #abitudini e #strategie, con la convinzione che si otterranno risultati diversi.

Non dico sia semplice, riuscire a riconoscere le routine consolidate, così come non lo è adattarle al nuovo a cui aspiriamo.

Fra le #strategie che possono venire in aiuto, una è rendere il familiare strano e lo strano familiare.

RENDERE IL FAMILIARE STRANO E LO STRANO FAMILIARE

Si tratta, a grosso modo, di vestire i panni dell’antropologo: mettere in discussione e capovolgere le cose, interessarsi a come la #cultura si esprime, diventare curiosi delle routine quotidiane (come viene svolto il lavoro) per poi modificarle, anziché lanciare grandi e faticosi programmi di cambiamento.

Come ha fatto quell’AD, il cui primo intervento trasformativo è stato togliere, durante la convention annuale, il ruolo/titolo gerarchico sotto il nome dei partner senior sul badge dell’evento. Il primo passo di un piano che ha visto poi trasformare i processi di produzione affinchè fossero più in linea con il cambiamento sociale e i progressi tecnologici.

Per raggiungere questo #obiettivo, e per realizzarlo rapidamente, sapeva di dover rimuovere la power-distance culturale che esisteva tra i livelli organizzativi e che, fra le altre cose, non consentiva ai più giovani di contribuire a un nuovo modo di pensare.

Rendere ciò che è sempre stato familiare (sapere chi è chi in linea gerarchica), strano (perché dovremmo farlo?!) può generare ansia e attivare le routine difensive che l’accompagnano – al fine di continuare a fare ciò che si è sempre fatto. 

Fare ciò che sembra strano (le persone non si offenderanno se il loro titolo non è evidente?!) ossia la cosa più ovvia (ho solo bisogno di presentarmi), può provocare disturbo, fastidio e resistenza.

La #familiarità ha uno scopo: regalarci serenità e sicurezza. Le #abitudini ci permettono di agire senza pensare, peccato che ci impediscono di vedere le cose da nuove prospettive.

Troppo presi dalla nostra storia di come è il mondo e come dovrebbe funzionare, finiamo per non considerare scenari diversi da quelli noti.

APOLLO 8

Un po’ come è successo agli astronauti della missione Apollo 8, e brillantemente narrato in Overview Effect: gli astronauti pensavano che sarebbero andati sulla luna per saperne di più (della luna). In realtà, la cosa più importante che il viaggio sulla luna ha insegnato loro è stato vedere il nostro familiare pianeta terra in modo diverso.

Mentre si libravano sopra la terra, non potevano smettere di fissarne il mistero, vedendolo di nuovo in tutta la sua interconnessa bellezza, unità e fragilità, per la prima volta. Questa sorprendente rivelazione ha fornito loro utili #intuizioni per apprezzare, e fare diversamente le cose, una volta tornati a casa.

Non c’è chiaramente bisogno di andare sulla luna per riscoprire la terra, per fortuna. Possiamo, in qualsiasi momento, fermarci per osservare le nostre routine, le nostre risposte emotive e mentali predefinite a ciò che sperimentiamo, e sottoporle a un’ispezione compassionevole ma feroce.

A cosa servono? In che modo ci forniscono risorse e in che modo (specialmente nei tempi che cambiano) potrebbero essere disfunzionali?

LE ABILITA’ PER GUIDARE IL CAMBIAMENTO

Due sono le abilità essenziali correlate al successo nel guidare il cambiamento:

–       una interiore (dell’essere): la capacità di entrare in sintonia con il sistema e percepire una causalità più profonda dietro ciò che vediamo in superficie. Portare la percezione sistemica a ciò che normalmente sperimentiamo può essere intellettualmente impegnativo, ma può portare a una sorprendente reinterpretazione del modo familiare di vedere le cose.

–       una esteriore (del fare): la pratica of edge and tension leadership, in cui i leader possono parlare in modo chiaro e inequivocabile della realtà e, in particolare, sfidare le convenzioni e le routine comportamentali comuni. Rendere ciò che è familiare, strano.

L’AD che ha deciso di modificare i badge, ha usato entrambe le abilità, insieme. Non ha criticato i partner presenti alla conferenza quando hanno ripetutamente riscritto ruolo e titoli sui badge (è così facile personalizzare l’esperienza e vederla come un problema attitudinale o di abilità). No. Ha piuttosto interpretato questa routine familiare come un segnale sistemico della cultura che richiedeva ancora un cambiamento. Questo gli ha permesso di dispiegare poi visibilmente edge and tension con grande sensibilità.

L’AD ha aperto la conferenza con la storia del badge, evidenziando ciò che ancora richiedeva un cambiamento nella cultura – e ha chiesto a ogni leader presente di guardarsi dentro e riconoscere il disagio che viveva conseguentemente al rovesciamento della gerarchia: “il modo in cui funziona il badge, è rappresentativo del modo in cui si esplicita la vostra leadership quotidiana?’

Un approccio semplice ma di impatto, che ha permesso di rendere strano ciò che fino a quel momento era familiare.

TO DO

Per rendere strano ciò che è familiare occorre:

  • Formare e coinvolgere osservatori interni. Troppo spesso inseriamo il pilota automatico, senza mai fermarci a osservare gli schemi nei quali siamo coinvolti. Tali osservatori distaccati e imparziali possono essere potenti specchi della cultura, capaci di premere il pulsante pausa di volta in volta in una riunione e condividere le loro osservazioni su ciò che stanno notando e ipotizzando. Tale approccio è utilissimo per cambiare le routine del momento.
  • Portare le persone dalle familiari realtà lavorative in #contesti in cui il futuro sta già emergendo. Contesti diversi, stimolanti e che possono aiutare a guardare la cultura aziendale sotto una nuova luce, meno stereotipata e difensiva. Questo è un ottimo modo per incentivare l’innovazione.
  • Raccogliere le intuizioni e le idee dei nuovi arrivati. Qualcuno ha detto che “la cultura aziendale è ciò che smetti di notare dopo tre mesi che la respiri e vivi tutti i giorni“. Dopo quel tempo, quello che sembrava strano all’inizio si è fatto routine, tra l’altro senza nemmeno essertene accorto. Incoraggio sempre i senior a confrontarsi con i nuovi arrivati per capire cosa sembra bizzarro della cultura aziendale.

Oltre a mettere in discussione le routine culturali quotidiane e sottoporle a ispezione imparziale, rendendo strano ciò che è familiare, gli antropologi sono addestrati a rendere normale ciò che potrebbe sembrare bizzarro di una cultura. Tutti i pensieri e le azioni possono avere perfettamente senso se visti attraverso gli occhi della cultura che li ha creati.

Come possono i leader del cambiamento introdurre nuovi modi di pensare e agire senza che la cultura “nativa” respinga questo sforzo?

Occorre conoscere da dove parte il sistema, e capire qual è il punto di disagio accettabile a cui si può spingere la cultura di quella specifica realtà (cosa che il mio osteopata fa magnificamente quando ho mal di schiena, sapendo quanta manipolazione è necessaria per portarmi beneficio ma senza causare danni).

IN CHE MODO?

C’è un altro video che può venire in soccorso: First Follower: Leadership Lessons from Dancing Guy. A un festival musicale si vede una persona uscire dalla folla e iniziare, da sola, a ballare in modo strano. Dopo un po’, un tizio lo raggiunge e appena inizia anche lui a ballare, il primo ballerino non appare più così strano, e presto l’intera folla si unisce ai due. Ciò che inizialmente era strano è diventato il nuovo familiare.

Il segreto è quindi quello di trovare e coltivare persone che non hanno paura di sperimentare, conoscere per ingaggiare tutti gli altri. In questo modo, qualsiasi novità che inizialmente sembra strana diventa, per riprova sociale e imitazione, ok.

Di fatto per incentivare il cambiamento occorre essere in grado di dare un #posto e uno #scopo alle diverse esperienze, in particolare a quelle che sembrano difficili, strane e bizzarre. Normalizzando poi in modo #acritico e non reattivo ciò che è scomodo (d’altronde, quale cambiamento avviene senza alcun disagio?), così da consentire alle persone di abituarsi a ciò che non è familiare. Nonché la capacità di rimanere curiosi e non ansiosi, anche in situazioni difficili e spigolose. Se il leader non si sente al sicuro con lo strano, allora nessun altro lo sarà.

SPUNTI PRATICI

Altri spunti pratici per “rendere familiare lo strano” e quindi aumentare le possibilità che un’organizzazione accetti e non rifiuti il cambiamento:

  • Presenta il nuovo come naturale evoluzione del vecchio. Quando Edison lanciò l’elettricità negli Stati Uniti, progettò il suo nuovo sistema di illuminazione sulla falsariga dei precedenti sistemi di illuminazione a gas, in particolare le lampade a vista, in modo che le persone non rifiutassero ciò che era nuovo e possibilmente pericoloso.
  • Inizia in piccolo e poi dai slancio al nuovo con interventi che si ripetono e creano la strada verso nuovi atteggiamenti e routine.
  • Vai a caccia dei positive deviance: in ogni comunità ci sono persone dai comportamenti e dalle strategie insolite ma vincenti che consentono di trovare soluzioni migliori a una sfida di cambiamento rispetto ai loro coetanei, pur trovandosi nello stesso #contesto e con le stesse #risorse. Lo strano può sembrare più familiare quando ci si rende conto che sta già funzionando con buoni risultati nel proprio sistema.

Nel guidare il cambiamento occorre guardare alle differenze con rispetto. La differenza porta valore, non lo sottrae. E rendere il familiare strano e lo strano

NON è MAI solo PIACERE (e solo DOLORE)

Quando è stata l’ultima volta che hai urlato (di dolore)?

Per me è stato qualche giorno fa, mentre cercavo di togliere un calzino dalla bocca di Byron, il mio golden retriever. Nella frenesia del gioco (per lui) mi ha morso la mano, pizzicandomi un tendine. Non è stata un’esperienza piacevole, ne porto ancora i segni.

Gridiamo quando proviamo #dolore. Ma gridiamo anche quando proviamo un #piacere immenso, gioia, grande eccitazione, un po’ come fanno i fan ai concerti dei loro cantanti preferiti.

La stessa cosa avviene con il #pianto. Piangiamo sia nei giorni peggiori sia in quelli migliori. Ai funerali e ai matrimoni, quando viviamo il brivido della #vittoria e l’agonia della #sconfitta.

Il pianto è qualcosa di curioso. In Pictures and Tears, il critico d’arte James Elkins parla di dipinti che fanno piangere: quando raffigurano eventi terribili, come la morte di un bimbo, o quando sono così belli da generare una risposta emotiva positiva alle straordinarie creazioni umane.

Non è diverso nemmeno quando #ridiamo. Si ride per cose divertenti, ma ridiamo anche quando siamo ansiosi o imbarazzati. Quando siamo felici ma anche arrabbiati.

Stessa cosa del #sorriso. E’ associato alla gioia, ma quando i ricercatori hanno chiesto alle persone di guardare una scena di un film triste, la parte di Fiori d’acciaio in cui una madre parla al funerale della figlia, circa la metà dei soggetti ha sorriso.

I PIACERI DEL DOLORE E I DOLORI DEL PIACERE

Pensiamo all’espressione che abbiamo durante un orgasmo. Assomiglia a qualcuno in agonia: quando sono state mostrate fotografie di volti durante l’orgasmo, i soggetti li hanno erroneamente identificati come volti di #dolore nel 25% delle volte.

In generale, le espressioni sono difficili da interpretare. Mi spiace distruggervi un mito ma non basta un corso di un week end per imparare a interpretare e profilare le persone. Me ne occupo da una vita e ancora non ho imparato a farlo in modo preciso e senza tenere conto del contesto…

Gli autori di un articolo su Science fanno l’esempio di due persone: una ha appena vinto un’enorme somma alla lotteria; l’altra ha visto il suo bambino di 3 anni investito da un’auto.

Guardando i loro volti, evidenziano i ricercatori, si potrebbe non essere in grado di discernerli: hanno scoperto che le persone non sono in grado di distinguere tra vincitori e sconfitti di competizioni sportive ad alto rischio quando vedono i loro volti isolati dal #contesto. È necessario, per leggere l’emotività dei volti, avere accesso anche alle posture corporee.

Pensiamo alla reazione che solitamente abbiamo nei confronti dei bambini (e di molti animali domestici). Spesso ne mordicchiamo mani e piedi, associando espressioni quali “ti mangerei tutto” e nessuno pensa che lo faremmo davvero, neanche il bambino (e il cane, o il gatto…).

In un sondaggio condotto dai ricercatori di Yale, si è scoperto che la maggior parte delle persone era d’accordo con affermazioni come:

–      Se tengo in braccio un bambino molto carino, ho l’impulso di stringere le sue gambette grasse.

–      Se guardo un bambino molto bello, voglio pizzicarne le guance.

–      Sono il tipo di persona che dirà a un bel bambino “Potrei mangiarti!” a denti stretti.

La teoria che i docenti di Yale hanno su queste reazioni è che sorgono quando i nostri sentimenti – verso la nostra band preferita, un’opera d’arte, un bambino, un animale – diventano travolgenti. Devi calmare il sistema e quindi, per compensare, generi espressioni e azioni che li contrastano, che vanno nella direzione opposta.

I ricercatori che hanno studiato le espressioni facciali durante l’orgasmo sostengono qualcosa di simile, suggerendo che l’espressione sia un tentativo di regolare un “input sensoriale troppo intenso“.

I filosofi hanno a lungo apprezzato la curiosa relazione tra dolore e piacere. Platone descrive Socrate che si massaggia la gamba dolorante dicendo: “Quanto strana sembra in qualche modo essere questa cosa che gli uomini chiamano piacere; quanto meravigliosamente è in relazione con ciò che sembra essere contrario, il dolore, per il fatto che questi due non vogliono essere presenti contemporaneamente nell’uomo, ma, qualora uno insegua uno dei due e lo prenda, più o meno è costretto in qualche modo a prendere sempre anche l’altro, come se fossero attaccati a un’unica testa, nonostante siano due”.

LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO

Nei tempi moderni, molti psicologi sostengono la teoria dell’esperienza del “processo avversario” , in base alla quale le nostre menti cercano l’equilibrio, o l’omeostasi, in modo che le reazioni positive incontrino sentimenti negativi e viceversa.

Un famoso studio che ha coinvolto paracadutisti militari è utile per rimanere sul pratico. Quando gli uomini sono saltati dall’aereo per la prima volta, erano terrorizzati, con tutti i sintomi fisici della paura. All’atterraggio provarono sollievo. Nel corso di ripetute esposizioni all’esperienza, la paura si è verificata in durate sempre più brevi e il sollievo si è evoluto in piacere, trasformando il paracadutismo da un’attività spaventosa a una eccitante.

In effetti, a volte giochiamo con il dolore per massimizzare il contrasto, in modo da generare piacere: insomma quante volte abbiamo sperimentato il dolore nell’immergere un piede nell’acqua di una vasca da bagno eccessivamente calda, per goderci poi la temperatura perfetta pochi minuti dopo. O il fuoco in bocca per l’eccesso di spezie e il sollievo e poi il piacere di una bevanda fresca subito dopo.

In questo senso, studi di laboratorio rilevano che dopo aver provato dolore, ad esempio immergendo una mano in acqua gelata, le persone riferiscono che le esperienze successive, come il gusto del cioccolato, sono più piacevoli.

DOLORE PIACEVOLE

Una serie di studi, progettati per esplorare ciò che i ricercatori chiamano dolore piacevole, prevedeva di mettere i soggetti in uno scanner cerebrale e di esporli a una serie di esperienze di calore: lieve, intenso o intermedio. Prima di qualsiasi esperienza, ricevevano un avvertimento su ciò che potevano aspettarsi, ma a volte l’avvertimento non era corretto. La grande scoperta è che mentre normalmente la quantità intermedia di calore è stata giudicata dolorosa, smette di esserlo quando è preceduta da un avvertimento, quando cioè sappiamo che un calore intenso, in questo caso, è in arrivo. Tanto da diventare, in molti casi, piacevole.

Si scopre, quindi, che se pensi che qualcosa farà davvero male e fa male solo leggermente, la magia del #contrasto può trasformare questo lieve dolore in piacere.

Ovviamente l’effetto si perde se il dolore diventa troppo intenso.

Questi esperimenti sono strani, ma l’idea principale è familiare: tutti sanno che il cibo non ha mai un sapore così buono come quando si ha fame, sdraiarsi sul divano è fantastico dopo una lunga corsa, e la vita stessa è meravigliosa quando si lascia lo studio dentistico.

Avere in tasca qualche trucchetto per ingannare i nostri sensi, può aiutarci a gestire meglio una pessima giornata, un evento drammatico o pauroso o emotivamente troppo coinvolgente. A costo zero.

Segui il consiglio, la prossima volta!

Fonti

  • Paul Bloom (2021). The Sweet Spot: The Pleasures of Suffering and the Search for Meaning. New York, NY: HarperCollins/Ecco.
  • Fredrickson B. L., Levenson R.W. (1998). Positive Emotions Speed Recovery from the Cardiovascular Sequelae of Negative Emotions. Cognition and Emotion, 12(2), 191–220.
  • Hughes S.M., Nicholson S.E. Sex Differences in the Assessment of Pain Versus Sexual Pleasure Facial Expressions. Journal of Social, Evolutionary, and Cultural Psychology, 2, 289–298. (Link)
  • Aviezer H., Trope Y., Todorov A. (2012). Body Cues, Not Facial Expressions, Discriminate Between Intense Positive and Negative Emotions. Science, 338, 1225-1229. (Link)
  • Aragón O.R. et al. (2015). Dimorphous Expressions of Positive Emotion: Displays of Both Care and Aggression in Response to Cute Stimuli. Psychological Science, 26, 259–273. (Link)
  • Solomon R.L. (1980). The Opponent-Process Theory of Acquired Motivation: The Costs of Pleasure and the Benefits of Pain. American Psychologist, 35(8), 691–712. (Link)
  • Bastian B. et al. (2014). The Positive Consequences of Pain: A Biopsychosocial Approach. Personality and Social Psychology Review, 18, 256-279. (Link)
  • Leknes S. et al. (2013). The Importance of Context: When Relative Relief Renders Pain Pleasant. Pain, 154(3), 402–410. (Link)

I COLLEGHI PROBLEMATICI a cui PERMETTIAMO di ROVINARCI VITA e CARRIERA

Abbiamo tutti avuto a che fare con colleghi al limite del maleducato, invadenti, costantemente scortesi, incapaci di lavorare in team, bulli quanto basta, impermeabili ai sensi di colpa, bravissimi nel prendersi i meriti per il lavoro svolto (da altri) e a far ricadere i loro errori sul malcapitato di turno…

E non è stata un’esperienza gradevole.

Anche perché quando si ha a che fare con i cosiddetti portatori di comportamenti tossici spesso, di fronte al capo, sono loro ad avere la meglio. Abili #camaleonti riescono a essere tutto il contrario di tutto, alla costante ricerca di ogni sorta di vantaggio personale, e poco importa se le loro azioni danneggiano altri.

Tutti, dicevo, ne abbiamo incontrato qualcuno. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, prevenire è impossibile, e l’unica cosa che rimane da fare è contenere i danni: non è insolito che l’ultimo a rendersi conto di quanto sia dannosa quella persona sia proprio il capo.

Inoltre, se alcuni di loro sono inconsapevoli della negatività che trasmettono, altri traggono soddisfazione dal caos generato e dalla capacità di far soffrire. Ciò che resta da fare è cercare, dunque, di individuarli il prima possibile.

COME RICONOSCERLI

COLLABORARE? No grazie! Per i portatori di comportamenti tossici, il team è un numero di concorrenti da sovrastare e l’ufficio un’arena dove scontro e sopraffazione sono i fattori critici di successo. Più che tutti per uno, uno per tutti, prediligono mors tua, vita mea.

IO, SO TUTTO IO. La loro vita è un’autocelebrazione continua. Le cose si complicano quando all’egocentrismo spinto si aggiunge anche un po’ di subdola cattiveria: hanno un piacere profondo nel ricordare gli errori commessi dai colleghi al fine di minimizzarne i meriti.

Sono il genere di persone che hanno una risposta per tutto e che non accettano un punto di vista diverso.  È facile riconoscerli perché durante il colloquio saranno gentili e affabili con il team di reclutamento, con l’addetto alla reception, con tutti coloro che incontrano e si interfacciano. Attenzione, non è gentilezza disinteressata!

YES MAN! Difficile che un toxic worker contraddica i superiori: è costantemente in accordo con le decisioni del capo, almeno in apparenza. Il disaccordo è tutto per i colleghi.

La persona che mette in atto questo tipo di strategia non è facile da identificare, poiché non sembra capace di causare problemi diretti. Lo si può notare se in riunione non mette mai idee e proposte nuove sul tavolo e si dice sempre d’accordo con chi prende decisioni. Tende a non fare domande e fa il minimo sforzo per eseguire alla lettera ciò che ci si aspetta da lui e niente di più. Aspetta istruzioni precise senza prendere iniziative se non gli portano un vantaggio diretto.

DISTRUTTIVO quanto basta. Non ha interesse a risolvere malintesi e conflitti che si sono generati con i colleghi; preferisce riferire l’accaduto al capo per mettere in cattiva luce l’altra persona. Facile alla lamentela continua, anche laddove non ce n’è motivo: dalla stampante che non funziona, alla connessione internet a bassa velocità. Non sembra essere soddisfatto di nulla e alla fine crea negatività nel team.

Inoltre, è costantemente molto meno entusiasta degli altri membri del team e poco interessato ad aiutare la squadra a crescere.

GOSSIP. Acquisire notizie è la sua missione e poco importa se non siano veritiere. Non butta via nulla, anche semplici illazioni sono utili, perché appena le apprende si preoccuperà di diffonderle velocemente senza curarsi delle conseguenze nel lungo termine.

Questo tipo di persona mette in atto un comportamento tossico quando è più interessato ai pettegolezzi che a lavorare. I fatti di cronaca ci ricordano troppo spesso quanto le voci infondate possano diventare un dramma per le persone, e portarle anche a gesti estremi.

COMPORTAMENTI DA ATTUARE CON UN TOXIC WORKER

INDIVIDUALO E CERCA DI CAPIRE IN CHE MODO TI INFLUENZA

Importante è individuare le persone tossiche nell’ambiente che ti circonda: coloro che attirano costantemente l’attenzione; che criticano ogni proposta perché spinti da una competitività esagerata; attenti a raccogliere informazioni da riferire ai superiori per metterti in cattiva luce; che si lamentano di continuo caricandoti delle loro ansie, i pigri, gli svogliati, chi è sempre in ritardo sulle consegue influenzando anche i tuoi risultati.

STABILISCI I LIMITI E FAI RISPETTARE I TUOI CONFINI

Sul lavoro, molto spesso, si è costretti a fare buon viso a cattivo gioco, non essendo sempre possibile allontanare le persone negative. Come si fa quindi a far rispettare i propri confini?

In molti tendono a lamentarsi scaricando la propria negatività su chi li circonda. C’è una differenza sostanziale tra ascoltare un problema e concedere uno sfogo amichevole a qualcuno e cadere nella stessa trappola di autocommiserazione. I toxic workers tendono a focalizzarsi sulle cattive notizie, sui problemi, sulle difficoltà e trovano giustificazioni comode alle loro mancanze: non farti assorbire e non unirti al coro. Stabilisci un limite oltre il quale non sei disposto ad ascoltare, obbliga al rispetto dei tuoi spazi e, se necessario, interrompi la conversazione indirizzandola verso tematiche più stimolanti e costruttive.

Il rischio, concedendo troppo spazio a queste persone, è vedere mortificati anche i tuoi risultati positivi.

D’altronde, se al posto del lamentoso di turno ci fosse un fumatore, non ce ne staremmo di certo lì seduti a respirare fumo passivo per l’intera giornata… Ci allontaneremmo o chiederemmo all’interlocutore di andare a fumare da un’altra parte.

Un buon modo per stabilire dei limiti è chiedere all’interlocutore come intende risolvere il problema. Potrebbe calmarsi o dare una piega produttiva alla conversazione.

NON LASCIARTI COINVOLGERE NELLO SCONTRO. VAI OLTRE

È inutile discutere se il confronto non porta a niente, non serve sprecare tempo ed energie in una battaglia estenuante che non ti permetteranno mai di vincere: potresti impiegare quel tempo e quelle energie per qualcosa di utile, produttivo e motivante.

A cosa serve discutere con qualcuno che parla sempre e non ascolta mai?

L’unico risultato, dando corda a questi soggetti, sarà avere qualcosa su cui rimuginare per giorni.

NON ASPETTARTI CHE CAMBINO

Parti dal presupposto che, con ogni probabilità, questi soggetti non cambieranno mai. E che non è compito tuo migliorare le persone.  Continuare a chiederti perché continua a comportarsi così? non porterà da nessuna parte.

Non serve a nulla continuare a rinfacciare un comportamento o infilarsi continuamente in litigi sterili. Piuttosto che fossilizzarti sui difetti di chi ti circonda, prendine atto e pensa a come arginare un certo comportamento che sicuramente si ripresenterà.

Conosci chi hai intorno, non per cambiare il suo modo d’essere ma per proteggerti e giocare d’anticipo!

CONCENTRATI SULLE SOLUZIONI

Fissandosi sui problemi, il rischio è prolungare emozioni negative e stress. Focalizzarsi sulle azioni utili a risolvere un problema è molto più stimolante e soddisfacente che crogiolarsi nel fallimento.

Quando si ha a che fare con persone tossiche, fissarsi su quanto siano folli e complicate fa solo guadagnare loro potere su di te. Non pensare ai problemi che ti causano, ma concentrati su cosa farai per gestirli. Riprendendo il controllo, sarai più fattivo e sopporterai meglio lo stress dell’interazione con loro.

CHIEDI CONSIGLIO AI TUOI ALLEATI

Non è sempre possibile arginare i toxic workers, da soli. Per gestirli, è necessario riconoscere i punti deboli del proprio approccio verso di loro. Per fare questo, utile è confrontarsi con quei colleghi che stanno dalla nostra parte, che fanno il tifo per noi e sono pronti a offrirci il loro aiuto per trarre il meglio anche da una situazione spiacevole. Identifica queste persone nel contesto in cui lavori e chiedi loro consiglio quando ne hai bisogno. Anche una cosa semplice come illustrare la situazione può condurre a nuove prospettive. Quasi sempre, gli altri vedono la soluzione che tu non riesci a trovare perché non sono invischiati emotivamente in quella determinata circostanza.

Non è facile arginare i toxic workers, ma non è nemmeno impossibile.

Occorre, in primis, essere consapevoli e accettare le emozioni che ci suscitano, anche quelle che non ci piace ammettere. Sembra poco, ma in realtà è un ottimo punto di partenza.

FRATELLI e SORELLE ci CAMBIANO la VITA

Fratelli e sorelle hanno il potere di cambiarci la vita. Possono essere un esempio per raggiungere livelli di eccellenza, ma anche una spinta verso comportamenti pericolosi e dannosi. Insomma, nel bene e nel male, condizionano le nostre scelte, la nostra affettività e il nostro futuro, più di quanto possono fare i genitori.

L’82 per cento dei bambini cresce con un fratello o una sorella, più di quanti crescano con il padre. Difficile è però capire se il legame renda l’esistenza positiva o negativa. Rapporti buoni favoriscono l’empatia, l’estroversione e il rendimento scolastico, effetti che però possono essere annullati da una famiglia eccessivamente numerosa: chi ha molti fratelli tende ad andare peggio a scuola https://www.annualreviews.org/doi/10.1146/annurev.soc.28.111301.093304)

Se invece il clima è teso, le tensioni possono spingerci a far uso di sostanze stupefacenti e causare ansia e depressione in età adolescenziale. Un comportamento prepotente può invece portarci all’autolesionismo e a forme di psicosi (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29429415)

Prendere a modello fratelli e sorelle o cercare di distinguerci, ha conseguenze non trascurabili. Gli studi dimostrano che quando abbiamo buoni rapporti con loro, tendiamo a raggiungere livelli di istruzione simili, quando invece percepiamo trattamenti difformi da parte dei genitori tendiamo ad avere risultati scolastici diversi.

Da uno studio effettuato su un milione di svedesi è emerso che il rischio di morire di infarto aumenta dopo la morte di un fratello per la stessa causa. Questo non avviene solo per motivi genetici ma anche per lo stress della perdita di una persona importante.

Che ci piaccia o no, siamo persone diverse rispetto a quelle che saremmo potute essere se fossimo figli unici. E allo stesso tempo, i nostri fratelli e sorelle sono diverse da quelle che sarebbero potuto essere se noi non fossimo mai nati.

Vale la pena ricordarlo, almeno ogni tanto.

NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

In ARABIA SAUDITA, ogni GIORNO accade qualcosa di NUOVO. La resistenza al cambiamento si può raccontare in molti modi

Ad accogliermi a Jeddah, la più evoluta e libertaria fra le città dell’Arabia Saudita è Al-Anoud, 35 anni, profondi occhi scuri, folti capelli neri e pelle color caramello. Ingegnere, con la passione per la storia. Sarà la mia guida.

Al-Anoud indossa l’abaya e il niqab, che le avvolgono corpo e viso, ma ci tiene a specificare che è “una scelta conservativa” resa possibile da quando, nel 2018, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, potentissimo deus ex machina dell’apparato politico ed economico saudita, stabilì che gli abiti neri femminili della tradizione islamica potevano non essere indossati, purché le donne scegliessero altri “abiti pudichi e rispettosi”.

Quando non fa la guida (un mese all’anno) è una dirigente di una fabbrica di componenti elettrici, dove supervisiona un centinaio di lavoratrici in un’ala sperimentale che fa parte di una campagna nazionale per attirare le donne saudite in lavori retribuiti.

Le donne che supervisiona lavorano in un’area interdetta agli uomini, ma gli uffici dirigenziali sono misti: uomini e donne, non legati da legami di sangue o matrimonio, vicini tutti i giorni.

DONNE E LAVORO

L’Arabia Saudita è una nazione profondamente segregata per genere, e tra i cambiamenti difficili, fragili e straordinari in corso nella vita quotidiana delle donne del regno, generazioni multiple, spinte dalle nuove politiche del lavoro e dagli incoraggiamenti del defunto re Abdullah bin Abdulaziz, stanno ora discutendo cosa significhi essere sia moderni sia sauditi.

Ci sono donne che non prenderebbero nemmeno in considerazione un lavoro che lo richieda.

Ci sono donne che potrebbero prendere in considerazione un lavoro in simili condizioni ma sono annullate da genitori, mariti, parenti.

Ci sono anche donne abbastanza a loro agio con i colleghi maschi: nell’ultimo decennio, i programmi di borse di studio del governo hanno inviato decine di migliaia di donne saudite a studiare all’estero, e stanno tornando a casa, impazienti di avviare il cambiamento.

In questo contesto complicato, improvvisando per soddisfare le proprie idee sulla dignità, Al-Anoud ha stabilito i suoi requisiti personali all’interno dell’azienda: nessun contatto fisico con gli uomini. “Non è una questione di igiene, ma di religione. Non posso toccare un uomo che non sia mio padre, mio zio, mio fratello.'”

Al-Anoud sorride serena mentre racconta il suo quotidiano, ed è forse questo uno dei motivi per cui è stato possibile farle tante domande. È ironica, determinata. Prende in giro le persone invadenti o maleducate. Uno dei suoi cellulari squilla al ritmo della musica di Grey’s Anatomy. A vent’anni ha rifiutato corteggiatori alternativi preferiti dalla sua famiglia perché era determinata a sposare l’uomo che amava. Dice di aver visto tantissimi film americani quando era adolescente; le sale cinematografiche sono vietate in Arabia Saudita, ma i DVD popolari sono facili da trovare.

DIETRO LE QUINTE

Fra le foto custodite nel cellulare (l’ultimo modello di iPhone), mi mostra quella dell’armadio della camera da letto pieno di abiti neri uno in fila all’altro. Le abaya a colori stanno iniziando a proliferare a Jeddah, la città portuale meno conservatrice dell’ovest, ma a #Riyadh un’abaya non nero indossato in pubblico attira ancora lo sguardo accigliato degli estranei e possibili rimproveri da parte della polizia religiosa che pattuglia le strade.

L’abaya che indossa Al-Alnoud ha finiture eleganti e variegate, tasche capienti di cui una, portacellulare, cucita sulla manica sinistra. Lo indossa sopra pantaloni e camicetta, come si indossa un trench. E poi c’è il niqab, il velo che copre il capo e il volto, lasciando una striscia libera per gli occhi. Perfettamente truccati, rigorosamente di nero.

Nel mio peregrinare in Arabia Saudita, difficile non notare come tutti i ristoranti che servono sia uomini che donne hanno aree di ristorazione divise, una per “uomini”, e una per “famiglie”.

All’interno dei food court dei centri commerciali, dove i marchi del Medio Oriente competono con McDonald’s e KFC, Starbuck e Dunkin ‘Donuts, le divisioni di genere raddoppiano mentre i cartelli dei menu dividono il bancone degli ordini di ogni bancarella.

Difficile comprendere come stia bene alle donne saudite l’abaya e a tutte coloro che l’ho chiesto, si sono trincerate dietro la medesima risposta: “se sei con altre donne lo puoi togliere”.

Non sono i maschi gli unici esecutori di tali standard. Ci sono le madri, le sorelle, le vicine di casa, le colleghe, le amiche che si sentono libere di rimproverare donne che non conoscono e non si allineano.

Tutto il mondo è paese.

È Al-Alnoud ad articolare la spiegazione velata più concisa e credibile: “Non è qualcosa di strano per noi“. La società saudita è ancora tribale; le donne e gli uomini allo stesso modo sentono che chi li circonda osserva, fa supposizioni sui loro standard familiari, esprime giudizi.

Dayooth significa un uomo che non è sufficientemente vigile nei confronti della moglie e di altre parenti di cui dovrebbe proteggere l’onore. È un’etichetta che ha il suo peso e non si può ignorare.

Poi mi fa indossare l’abaya e mi accorgo che in realtà si può vedere tutto. La stoffa è trasparente, tessuta con questo scopo, fuori dai finestrini dell’auto le cose appaiono più scure e grigie, ma visibili.

Come fanno i mariti a capire qual è la loro moglie in un gruppo di donne vestite tutte uguali, mi chiedo, senza aver coraggio di domandare…

CONTRASTI E TRADIZIONE

A volte ti pare essere nel 21° secolo e in alte nel 19°, una sorta di Medioevo europeo, con la Chiesa cattolica.

A condividere il potere, in una misura difficilmente comprensibile per chi proviene da paesi più laici, sono i leader religiosi dogmatici e la dinastia reale. Gli insulti all’Islam o le minacce alla sicurezza nazionale – categorie che comprendono blog, social media e difesa aperta del già accusato – sono tra i crimini punibili con la reclusione, la fustigazione o la morte. Le esecuzioni sono eseguite mediante decapitazione pubblica.

La convinzione qui è che la virtù e il vizio possano essere gestiti tenendo separati uomini e donne – per natura gli uomini sono lussuriosi e le donne seducenti, così che essere un buon musulmano richiede un’attenzione costante ai pericoli di uno stretto contatto – è così radicata nella vita quotidiana che il visitatore non può che rimanerne disorientato.

Non è un caso se le piscine degli hotel non ammettono donne o riservano un’ora solo per loro. O se la maggior parte dei negozi di abbigliamento sauditi non ha camerini: le donne non si spogliano con gli impiegati maschi dall’altra parte della porta.

O che l’Arabia Saudita ha un solo cinema, un nuovo museo della scienza IMAZ: il governo ha chiuso tutti i cinema durante l’ondata conservatrice negli anni ’80.

E ancora, che i padri, in un divorzio, ottengono la custodia dei figli, tranne se molto piccoli; ottenere la cittadinanza è semplice per le donne straniere che sposano uomini sauditi, ma quasi impossibile per gli uomini stranieri che sposano donne saudite. E che per la donna sia consigliato vivere sotto la tutela di un maschio designato.

Al-Alnoud questo non lo dice.

Come non dice che in Arabia Saudita la legge ufficiale spesso cede alla tradizione, alle interpretazioni individuali degli obblighi religiosi o al timore di ripercussioni da parte della famiglia. Alcuni datori di lavoro non assumono una donna, senza l’approvazione del suo tutore.

E ci sono uomini che usano il potere della tutela per punire, controllare, manipolare.

Sono sfide brutali ma discrete da affrontare una per una e che richiedono manovre delicate in un luogo in cui fede religiosa, onore familiare e potere statale rimangono così strettamente intrecciati.

Qualsiasi persona che vuole esortare a togliersi il niqab, a guidare, ad abbattere i muri di separazione, deve prima capire la cultura di questo popolo. “Molte famiglie saudite non permettono alle loro figlie di lavorare come commesse perché i muri non sono abbastanza alti“.

Guardando Al-Alnoud, mentre ci salutiamo, capisco che aveva ancora bisogno di convincere la straniera sul sedile posteriore della Toyota che mettere il proprio piede sull’acceleratore non era la cosa che desiderava di più da questa vita.

Ci congediamo condividendo l’un l’altra il profilo Instagram e qui mi accorgo che in tutte le foto il suo volto è sfocato, in altre è stato cancellato con il pennarello digitale dell’iPhone, in altre ancora la testa è tagliata all’altezza del collo.

I cambiamenti richiedono tempo. E solo il tempo dirà quanto Bin Salman ha intenzione di modernizzare il regno e dove all’interesse economico verrà consentito di prevalere sulle credenze religiose islamiche.

PERCHE’ CREDIAMO di MERITARE ciò che OTTENIAMO? Ignare vittime della fallacia del MONDO GIUSTO

Non so se anche voi siete fra coloro che credono che il mondo sia giusto e di conseguenza, è la moralità delle proprie azioni a determinare i risultati. O più semplicemente: chi fa del bene sarà premiato e chi ha comportamenti discutibili e cattivi sarà punito.

Io sono fra questi, non so se è per una visione romantica della vita o se (questa seconda opzione è più probabile) sono vittima della fallacia del mondo giusto, una trappola mentale capace di regalarti un profondo senso di pace e di giustizia se solo ti abbandoni all’idea che se fai del bene e sei buono verrai ampiamente ricompensato.

NEL QUOTIDIANO

È sabato sera e con amici siamo al ristorante. Rilassati e soddisfatti, a fine cena, ci dirigiamo al parcheggio. L’atteggiamento ironico e burlone di uno dei nostri amici muta bruscamente quando si accorge che la portiera dell’auto è spalancata e il laptop è sparito.

Consoliamo l’amico, cercando insieme di capire come sia potuto accadere, mentre lui continua a tormentarsi e ripetere “devo aver lasciato le porte aperte e il computer in bella vista”. Inevitabilmente, l’idea che il nostro amico sia distratto e confusionario avrà il sopravvento su di noi.

Ecco che siamo caduti vittime della fallacia del mondo giusto. Una #convinzione capace di modellare la nostra #percezione: presumiamo che ciò che accade si ripeta e quindi, razionalizziamo la sfortuna del nostro amico come conseguenza delle sue azioni o caratteristiche o abitudini negative. Arrivando persino a distorcere la nostra percezione sulla persona per trovare una ragione per cui a venir derubato è stato lui e non noi.

EFFETTI INDIVIDUALI

Questa credenza, da un lato, può motivarci ad agire con moralità e integrità, tuttavia, il mondo non è sempre così giusto come vorremmo che fosse. Attenendoci strettamente a tale ipotesi di fronte all’ingiustizia, è più facile trarre conclusioni e giudizi imprecisi sul contesto che ci circonda.

Le persone compiono sforzi enormi per correggere i torti e quindi contribuire a ripristinare la giustizia nel mondo. Spesso però, il desiderio di vivere in un mondo giusto non porta alla giustizia, ma alla giustificazione[1]. Invitano a riflettere gli psicologi dell’UCLA.

La ferma #convinzione in un mondo giusto produce un pregiudizio cognitivo che può portare a giustificare la sofferenza di una persona dipingendola negativamente o minimizzando del tutto la sua sofferenza.

Nel quotidiano questa fallacia potrebbe applicarsi nel presumere che chi ha un lavoro scarsamente retribuito lavori meno duramente e seriamente di chi è ritenuto di successo. Creiamo cioè false narrazioni per proteggere la nostra teoria del mondo: vogliamo a tutti i costi credere che il mondo sia giusto e che se lavori duro avrai successo. Così è più facile etichettare qualcuno come pigro o demotivato piuttosto che ammettere che il mondo può essere ingiusto.

EFFETTI SISTEMICI

Il modo in cui decidiamo cosa merita una punizione e cosa una ricompensa determina il modo in cui vediamo il mondo. Questa prospettiva ha effetti significativi sugli esiti politici e legali, sul giudizio delle vittime e nei confronti dell’attivismo sociale. Gli studi scientifici hanno mostrato una correlazione inversa tra l’ipotesi del mondo giusto e l’attivismo sociale: se ritieni che il mondo sia giusto così com’è, avrai meno probabilità di agire e lottare per il cambiamento.

PERCHÉ SUCCEDE

Siamo portati a credere che il bene sia sempre premiato e il male punito. Fin dalla prima infanzia leggiamo storie di eroi coraggiosi che salvano la situazione e vengono ricompensati, i cattivi uccisi o banditi. In queste storie, i personaggi raccolgono sempre ciò che seminano. Di fatto sviluppiamo questo senso di giustizia fin da piccoli.

Come esseri umani, ci troviamo spesso di fronte a una quantità enorme di informazioni. Per dare un senso a ciò che ci circonda, costruiamo schemi per guidare il nostro processo decisionale e prevedere i risultati. L’ipotesi del mondo giusto funge da uno di questi schemi, creando una comprensione degli eventi positivi e negativi attribuendoli a una sorta di ciclo karmico più ampio.

Credere in un mondo giusto crea un ambiente apparentemente prevedibile.

Lo psicologo sociale e pioniere della ricerca sul mondo giusto, Melvin J Lerner, ha ben descritto come tale fallacia installi un’immagine di un “mondo gestibile e prevedibile, centrale per la capacità di impegnarsi in attività a lungo termine orientate agli obiettivi ”[2].

È più probabile che lavoriamo per raggiungere gli obiettivi prefissati se sentiamo di poter prevedere il risultato. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che vedere il mondo come prevedibile ed equo ci protegge dall’impotenza, che è dannosa per il benessere psicologico e fisico umano.

Spesso evitiamo o distorciamo le informazioni che mettono in discussione la nostra visione del mondo.

Quando ci sentiamo fisicamente a disagio, è automatico fare tutto il necessario per metterci a nostro agio. Questo accade anche mentalmente. Probabilmente tutti possiamo relazionarci con la sensazione di disagio quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione o siamo smentiti. A volte questo può portarci sulla difensiva o a trovare modi per invalidare le informazioni opposte.

Leon Festinger ha coniato questo fenomeno come dissonanza cognitiva: “se una persona conosce varie cose che non sono psicologicamente coerenti tra loro, cercherà, in vari modi, di renderle coerenti”. L’ipotesi del mondo giusto provoca distorsioni mentali per far fronte alle apparenti incoerenze del mondo.

PERCHÉ È IMPORTANTE CONOSCERE QUELLA FALLACIA

La forza con cui tale fallacia si manifesta può modellare la nostra comprensione del mondo. Cambia la nostra percezione degli altri. Crea aspettative. Il desiderio di giustizia non è la stessa cosa della convinzione che il mondo sia giusto. Per creare un cambiamento, dobbiamo avere la lucidità per vedere dove una situazione potrebbe essere ingiusta o prenderci il tempo per capire le reali circostanze prima di esprimere un giudizio.

COME EVITARLA

Occorre disturbare gli scienziati comportamentali Daniel Kahneman e Amos Tversky e il loro sistema di pensiero. Il sistema 1 (S1) si riferisce alle nostre risposte istintive, ai nostri giudizi rapidi, alle nostre reazioni emotive. Il sistema 2 (S2) si riferisce a un processo di pensiero più lento, razionale e calcolato. Molti dei nostri pregiudizi sono frutti di S1, inclusa l’ipotesi del mondo giusto.

Ecco perché è importante rallentare il processo attraverso il quale formiamo i nostri giudizi e considerare tutte le informazioni disponibili.

Di fronte all’ipotesi del mondo giusto, ricorrere a S2 significa fare un passo indietro così da evitare valutazioni distorte. A volte, dopo aver esaminato il quadro completo, sosterremo ancora la nostra conclusione iniziale. Forse sentiamo ancora che la punizione o la ricompensa era giustificata, e anche questo va bene. Mitigare l’impatto dell’ipotesi del mondo giusto non significa dire a noi stessi che il mondo non è mai giusto. Ciò che dobbiamo imparare è un nuovo modo di affrontare la dissonanza cognitiva invece di prendere sempre la strada più semplice con tutti i limiti, ben noti, propri delle euristiche.

Usando S2, possiamo pensare in modo critico, piuttosto che istintivamente. Questo permetterà di vedere le ingiustizie e preparare meglio noi e il mondo che ci circonda a combatterle.

COME USARE IL SISTEMA 2 

Proprio come quando impariamo una nuova abilità, ci vuole tempo e ripetizione. All’inizio, potremmo renderci conto retroattivamente quando stiamo pensando in modo prevenuto, dando un rapido giudizio. Esaminando i nostri giudizi intuitivi e considerando il contesto, possiamo coltivare il pensiero S2.

Utile è anche esercitare l’empatia. In un esperimento condotto dai ricercatori della Duke University[3], ai partecipanti è stato chiesto di guardare un video di una donna che riceveva scosse elettriche in base alla sua performance in un compito di apprendimento. Divisi in due gruppi, al primo, è stato chiesto di immaginare sè stessi nel medesimo scenario, al secondo solo di guardare il video.

I partecipanti del primo gruppo, che induceva #empatia, risultarono meno propensi a criticare la vittima, dimostrando una minore influenza dell’ipotesi del mondo giusto. Quindi, se riusciamo a ricordarci di pensare in modo razionale piuttosto che istintivo e metterci nei panni degli altri, possiamo valutare più accuratamente le situazioni.

In un altro studio, condotto durante lo scandalo del Watergate, i ricercatori dimostrarono che i partecipanti all’esperimento che erano più facili vittime dell’ipotesi del mondo giusto erano meno propensi a negare la colpevolezza di Nixon. La fallacia li portò ad associare il grande successo e il carattere forte ad alti valori etici e morali, impedendo loro di credere che Nixon fosse capace di tali atti ingannevoli.

Coloro che credono fermamente in un mondo giusto possono avere una maggiore propensione ad approvare le scelte dei leader politici a causa del presupposto che si raggiunga il successo attraverso meriti elevati e grande forza morale.

Fonti

[1] Rubin Z., Peplau L.A. (1975). Who Believes in a Just World? Journal of Social Issues, 31(3), 65–89.

[2] Lerner, M. J. (1980). The Belief in a Just World. Springer US

[3] Aderman, D., Brehm, S. S., Katz, L. B. (1974). Empathic observation of an innocent victim: The just world revisited. Journal of Personality and Social Psychology, 29(3), 342–347