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OFFBOARDING: molto più di un grazie e arrivederci

C’è una pratica diffusa nelle organizzazioni: dedicare molto tempo e risorse a selezionare e trattenere i talenti e molto poco a curare i rapporti con le persone che vanno a lavorare altrove.

Un errore, se si considera che gli ex dipendenti di oggi, possono diventare i clienti, i fornitori, le opportunità, i migliori e i peggiori amici della nostra azienda, domani.

Secondo PeoplePath e l’Università Cornell, un terzo degli ex dipendenti mantiene contatti con i precedenti datori di lavoro in qualità di clienti, partner o fornitori e circa il 15% delle nuove assunzioni è rappresentato da ex dipendenti che tornano a lavorare per la precedente azienda. Non è un caso se le società di consulenza manageriali abbiano modificato le loro practices proprio per accaparrarsi un vantaggio competitivo futuro certo sfruttando la pubblicità positiva di chi va a lavorare da un’altra parte.

Analizzando le migliori prassi di programmi di offboading sul mercato, ho estrapolato alcuni suggerimenti.

GLI ADEMPIMENTI DI LEGGE NON BASTANO

Un programma serio di offboarding (le attività da svolgere quando un dipendente lascia l’azienda), non prevede solo di ottemperare agli obblighi di legge ma tiene conto della strategia, della cultura, mission e vision, delle disponibilità finanziarie, del tasso di tour over del personale, nonché dal settore in cui opera l’azienda.

Se ci pensiamo bene, il modo in cui vengono trattati i dipendenti in uscita racconta molto di un’impresa.

Per attirare i migliori talenti un’organizzazione fa di tutto per mostrare i vantaggi che si ottengono lavorando lì. Allo stesso modo quando qualcuno se ne va, anche in circostanze difficili, bisognerebbe fare in modo che il processo e l’esperienza di uscita rispecchino la cultura generale dell’organizzazione.

Pensare un programma di offboarding attento alle persone, ha un impatto considerevole sull’immagine aziendale, come ha documentato il premio Nobel Daniel Kahenman attraverso la regola del picco-fine: si giudica un’esperienza soprattutto dalle sensazioni provate nel momento di picco (fase più intensa) e alla fine, anziché ragionare sulla somma totale dell’esperienza.

Tradotto, significa che le persone prestano più attenzione al modo in cui le aziende gestiscono la fine del rapporto di lavoro che al modo in cui accolgono i neoassunti, di conseguenza i rapporti, anche se buoni, fra un dipendente in partenza e un datore di lavoro possono essere vanificati all’istante, se la separazione viene gestita male.

Quando una persona se ne va, è abbastanza normale che parlerà dell’azienda e di come è stato trattato al momento di andarsene. Se gestita male, questa fase, può essere un boomerang pericoloso per la reputazione aziendale.

PAROLA D’ORDINE: PIANIFICARE

I piani di offboarding che funzionano sono quelli pensati e a cui si dedica un’attenzione costante. E non quelli che vengono affrontati come un evento singolo. E prevedono molto di più di una exit interview e un passaggio di consegne.

I piani di offboarding che funzionano sono quelli che vengono organizzati al momento dell’assunzione. Talvolta, non dimentichiamolo, è necessario per un dipendente andare altrove per realizzare i propri obiettivi di carriera. Boicottarlo, remargli contro non è una strategia efficace nel medio-lungo periodo. Lui se ne ricorderà.

Pensate l’impatto che avrebbe ritrovarlo come cliente, in un’altra azienda: perdere un ordine, una commessa o una consulenza sarebbe quasi scontato. Vale la pena?

Spesso è necessario cambiare lavoro più volte nel corso della carriera, non è un caso che molti manager siano attratti dal tour of duty, come lo ha definito Reid Hoffman, uno dei fondatori di LinkedIn: un’assunzione la cui durata e le aspettative di crescita per il lavoratore e l’azienda sono fissate in anticipo. Partire dalla consapevolezza che nulla dura per sempre, aiuta i datori di lavoro a essere più onesti con i dipendenti e a prevenire antipatici misunderstanding, nonché utilizzare le risorse nel modo più produttivo.

Un piano di offboarding può includere, ad esempio:

–         Assegnare attività complesse ai dipendenti per permettere loro di potenziare il cv e spendersi poi altrove.

–         Attività di outskilling per aiutare le persone ad acquisire competenze che le rendano più attraenti agli occhi dei reclutatori. Il programma Career Choice di Amazon paga rette e corsi in alcuni campi di studi, mentre Archways to opportunity aiuta i dipendenti McDonald’s a prendere titoli di studio, migliorare la conoscenza delle lingue e pianificare la loro carriera con un consulente.

–         Piani di successione, utili ad assicurare continuità durante le transizioni. Un dirigente potrebbe comunicare al suo vice di avere in programma di ritirarsi fra 5 anni e il vice potrebbe realizzare di non voler attendere un tempo così lungo per salire nella scala gerarchica. In questo caso, aiutarlo a trovare un ruolo direttivo in un’altra azienda è un’ottima strategia che potrà dare i suoi frutti in futuro.

Prepararsi anzitempo all’offboarding mentre il lavoratore è ancora alle dipendenze dell’azienda, può inoltre aiutare i manager a non venir presi alla sprovvista dal ricambio del personale.

Essere aperti alla possibilità che un dipendente vada altrove può permettere di trasformare quella risorsa in un ambasciatore del marchio, una volta terminato il contratto di lavoro. E si sa quanto la pubblicità positiva sia utile.

GESTIRE L’USCITA

Lasciare un posto di lavoro può essere una esperienza complessa e dolorosa. Quando ho deciso di lasciare, per dare una spinta alla mia carriera, un mio vecchio capo fece di tutto per isolarmi dal resto del gruppo. Impedì ai colleghi di pranzare con me o fermarsi anche solo a parlarmi. Capite bene che questo non ha fatto bene né a lui, né a quel dipartimento né a quella organizzazione. A parlarne male, furono per lo più i colleghi preoccupati della reazione spropositata di un manager che si diceva aperto alle novità e ai cambiamenti. Ero la prima che osava andarsene. Inutile dire che furono in molti, nei mesi successivi, a seguire il mio esempio.

Nei negozi Apple, quando qualcuno se ne va, i dipendenti si riuniscono per applaudirlo e acclamarlo. Se l’azienda ha un programma ufficiale di offboarding, la partenza di un dipendente può essere un buon momento per accoglierlo ufficialmente nel gruppo degli ex.

Piani di offboarding possono essere applicati anche in caso di licenziamento, aiutando la persona a trovare un nuovo impiego o fornendo consulenza e altri tipi di supporto per gestire emozioni e situazione.

L’OFFBOARDING NON è UGUALE PER TUTTI

Il programma di offboarding non può essere uguale per tutti. Ogni dipendente ha le proprie esigenze e non tutti desiderano essere coinvolti nelle fasi di uscita. E questo va rispettato.

Un alto dirigente che va in pensione può aver bisogno di consulenza per orientarsi sui piani di indennità sanitarie o di pensionamento, ma anche essere rassicurato sul fatto che il suo successore sarà affiancato nel modo giusto per non distruggere ciò che lui ha costruito.

Impossibile dettagliare ogni specificità ovviamente. Ciò che va considerato è che la relazione con un dipendente non termina solo perché il rapporto di lavoro si è concluso. È qualcosa di molto più complesso e delicato. Ecco perché, in un contesto lavorativo sempre più dinamico e veloce, un offboarding ragionato e strutturato è un fattore critico di successo, una necessità strategica che non considerata può diventare un vero e proprio boomerang.

A questo punto, vi chiedo. La vostra azienda ha piani di offboarding coerenti e strutturati?

Fonti

–         Dachner A.M., Makarius, E. E. (2021). Turn Departing Employees into Loyal Alumni. A holistic approach to offboarding. HBR Magazine.

–         Kahneman D., Fredrickson B.L., Schreiber C.A., Redelmeier D.A. (1993) When More Pain Is Preferred to Less: Adding a Better End. Psychological Science: 4(6):401-405

–         Tulpule D., Upendra Pandya N. (2020). The Relevance and Significance of Employee Lifecycle Management in HRD: Business Perspectives. International Journal of Creative Research Thoughts (IJCRT). Vol. 8, Issue 9 September 2020

PERCHE’ il mio CAPO è INCOMPETENTE? La risposta è nel Principio di Peter

Perché il mio capo è un incompetente? Perché le cose in questa azienda non funzionano come dovrebbero?

Chi non si è fatto queste domande, senza poi trovare una risposta soddisfacente, almeno una volta nella vita?

A porsi gli stessi quesiti, nel 1969, è stato il sociologo canadese Laurence Peter.

Ancora oggi, cinquant’anni più tardi, le sue osservazioni meritano una attenta lettura, non solo da chi si occupa di comportamenti organizzativi, ma da tutti coloro che vogliono capire meglio i problemi che affliggono i luoghi di lavoro e da chi, in generale, è interessato ad approfondire il tema della stupidità umana.

Come con gli studi di Parkinson, anche quelli di Peter sono utili e piacevoli da leggere e non mancano di ironia.

IN COSA CONSISTE

La tesi di fondo del Principio di Peter afferma che in una organizzazione meritocratica ognuno viene promosso fino al suo livello di incompetenza. In altri termini “ogni membro di un’organizzazione scala la gerarchia fino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”.

Quasi a dire che se una persona sa fare bene una certa cosa la si sposta a farne un’altra. Il processo continua fino a quando si arriva al livello di ciò che non sa fare e lì rimane.

La tesi si basa sull’assunto che le abilità di una persona a svolgere le mansioni assegnatole la porterà al conseguimento di un avanzamento di livello fino a quando giungerà a un livello tale che non potrà fare altro che manifestare la propria incompetenza.

Una persona, che non è stupida, quando ha un compito che è capace di svolgere, viene spostata in un contesto in cui diventa stupida in rapporto ai risultati delle sue azioni. Così facendo nell’organizzazione aumenta di continuo il livello di incompetenza. E le persone competenti si trovano via via alle dipendenze di incompetenti che le ostacolano nello svolgimento del lavoro.

Sebbene il Principio di Peter possa sembrare paradossale, l’autore intendeva puntare i riflettori su una serie di problemi che affliggono le aziende. Nulla assicura che le abilità sviluppate nella precedente mansione siano sufficienti a garantire un efficace svolgimento dei nuovi task assegnati.

Promuovere i dipendenti in virtù dei buoni risultati raggiunti è un grave errore se non si valutano bene competenze, abilità ed esperienze necessarie per ricoprire adeguatamente il nuovo incarico.

Non necessariamente un valido assistente sarà un buon professore, un assessore un buon presidente della Regione e così via. Questo si verifica poiché buoni gregari non diventano di default buoni leader, in quanto l’esser bravo a eseguire non necessariamente coincide con l’essere bravo a guidare.

Quello di Peter non è un principio da ignorare, complesso da mitigare e prevenire poiché le persone al vertice (delle organizzazioni) non amano sentirsi dire che hanno promosso i loro dipendenti in modo sbagliato o, che sono proprio loro ad aver raggiunto il fatale livello di incompetenza.

Al principio di Peter si aggiungono una serie di varianti:

–       Dilbert Principle di Scott Adams: «I più inefficienti sono sistematicamente promossi alla posizione in cui fanno meno danno: il management».

–       Natreb Principle«Le persone gravitano verso le professioni dove più si manifesta la loro incompetenza» ovvero «Ogni professione attrae le persone meno adatte».

NON È PASSATO DI MODA

Sebbene gli studi di Peter siano lontani nel tempo, i risultati a cui è arrivato non sono né obsoleti né superati, come hanno dimostrato Benson dell’Università del Minnesota, Li del MIT e Shue di Yale, analizzando le prestazioni di 53.035 addetti alle vendite in 214 aziende americane dal 2005 al 2011. In quel periodo, 1.531 di questi addetti sono stati promossi a responsabili delle vendite. I dati hanno mostrato che i migliori venditori avevano maggiori probabilità di:

a) essere promossi

b) avere scarsi risultati come manager

Il Principio di Peter è reale.

Il lavoratore più produttivo non è sempre il miglior candidato per ricoprire il ruolo di manager, eppure è più probabile che le aziende promuovano i migliori addetti alle vendite in posizioni manageriali. Di conseguenza, le prestazioni dei subordinati di un nuovo manager diminuiscono maggiormente dopo che la posizione manageriale è stata occupata da qualcuno che era un forte venditore prima della promozione[1].

Un’azienda che fa troppo affidamento sulle vendite come criterio di promozione paga due volte l’errore. La rimozione di un performante addetto alle vendite sconvolge potenzialmente i rapporti con i clienti, mette a rischio le entrate e la squadra sotto la sua direzione ha un rischio maggiore di conseguire prestazioni inferiori. “Tali risultati sottolineano la possibilità che la promozione basata sui soli indicatori di vendita anzichè sulle competenze manageriali possa essere estremamente costosa“.

La severità dei risultati ha colto di sorpresa i tre ricercatori: “Ci aspettavamo che i migliori venditori sarebbero diventati dei buoni manager, ma constatare che i migliori venditori stavano diventando i peggiori responsabili delle vendite è stato sorprendente[2].

Difficile dire con quale frequenza le aziende inciampano nel Principio di Peter e non si può generalizzare, ma è palese che spesso le organizzazioni sono disposte ad abbassare gli standard per premiare i migliori venditori ma non sempre le loro capacità manageriali sono nei loro numeri di vendita.

PSEUDO SOLUZIONI

Fra le soluzioni più creative, per mitigare il principio di Peter, c’è il promoveatur ut amoveatur: le persone incompetenti ai vertici dell’impresa vengono collocate in ruoli di sola apparenza, così che i compiti operativi possano essere svolti da persone competenti che non sono ancora state promosse al di sopra delle loro capacità. Anche se questo non spiega la promozione a livelli più alti di chi era già incompetente nel ruolo in cui si trovava.

Insomma, il Principio di Peter continua a fare danni, in modo tanto più grave quanto più si mescola con altre disfunzioni.

COME PREVENIRE IL PRINCIPIO DI PETER

Retrocessione

Fra le soluzioni proposte da Peter c’è la retrocessione. Supponiamo che una persona sia stata promossa a un ruolo che non è abbastanza qualificata per ricoprire, in tal caso, la si può riportare nella sua posizione iniziale senza stigmatizzazione ovviamente. Tuttavia, colui che ha preso la decisione sbagliata proponendo una promozione, deve ammettere di aver commesso un errore.

Paga più alta, nessuna promozione

Un’altra soluzione consiste nell’offrire al lavoratore una retribuzione più elevata senza necessariamente promuoverlo. La maggior parte delle persone è entusiasta all’idea di una promozione non tanto per il potere o il prestigio, ma per i benefici salariali collegati. Per prevenire il verificarsi del principio di Peter, si potrebbero aumentare gli stipendi dei collaboratori migliori per l’eccellente lavoro svolto nei rispettivi ruoli. In tal modo, la persona può guadagnare abbastanza denaro mentre è ancora in una posizione in cui è competente.

Arabesco laterale

Peter consiglia ai manager di sbarazzarsi dei dipendenti incompetenti senza licenziarli. In altre parole, si può riassegnare il lavoratore incompetente a un’altra posizione, che ha un titolo più lungo/pomposo ma meno responsabilità. Tale pratica è stata definita arabesco laterale: il lavoratore promosso non saprà di essere stato privato del ruolo a cui era stato promosso.

Collaboratori attenti

Il modo più efficace per evitare il principio di Peter è avere persone attente. Ciò significa lavorare con team che conoscono la portata delle loro capacità e competenze. Anche se l’offerta di ricevere una promozione è allettante, la risorsa dovrebbe prima considerare tutti i compiti aggiuntivi che derivano dal nuovo ruolo. Se non si sentisse in grado di gestire i nuovi compiti, dovrebbe semplicemente rifiutare l’offerta.

 Supera in astuzia il datore di lavoro

Se un dipendente è ben consapevole dei propri limiti, farà tutto il possibile per evitare la promozione per una posizione in cui sarebbe incompetente. Peter ha descritto tale modalità come incompetenza creativa: ossia la persona cercherà di far capire ai superiori che non è la persona giusta per quella posizione.

Peter, con le sue provocazioni vuole semplicemente ricordarci che non tutti sono adatti a ricoprire posizioni apicali, a prescindere da quanto siano abili e bravi nell’operatività. Che ci piaccia o meno, elevare qualcuno incompetente significa condannare l’intera azienda al fallimento o quanto meno a danni economici e di reputazione seri.

Fonti

[1] Lazear E.P., The Peter Principle: A Theory of Decline (April 2003) https://ssrn.com/abstract=403880

[2] Benson A., Li D., Shue K., 2019. “Promotions and the Peter Principle*,” The Quarterly Journal of Economics, 134(4): 2085-2134

LEGGE di PARKINSON ed EFFICIENZA e perché un’attività di 2 minuti può richiedere un giorno intero

Apple è stata costretta a rimandare il  lancio dell’HomePod  poichè aveva bisogno di più tempo per perfezionarlo.

Windows ha ritardato l’installazione di una funzionalità per Windows 10 per poi eliminarla del tutto.

La costruzione della Sydney Opera House, che avrebbe dovuto richiedere quattro anni, alla fine ne ha necessitati 14.

L’autostrada Asti-Cuneo, i cui lavori sono iniziati nel 1998 al momento non sono ancora terminati, per fare un esempio più vicino a me/noi e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Perché, talvolta, il tempo si dilata così tanto? Perché quando un progetto la cui scadenza è lontana, tendiamo a procrastinarlo o a complicarlo?  La spiegazione è nella legge di Parkinson, secondo cui:

Il lavoro si espande in modo da riempire il tempo a disposizione per il suo completamento.

Questo significa che se si ha a disposizione una settimana per portare a termine un’attività, questa richiederà una sola settimana per essere completata. Ma se per la stessa attività si hanno a disposizione due mesi, si potrebbero impiegare sessanta giorni per portarla a termine.

La pressione della scadenza spinge a completare un compito nel tempo dato. Se non ci sono tempistiche definite che vincolano lo svolgimento di un progetto, quel lavoro potrebbe richiedere un tempo molto più lungo.

Quindi, più tempo ti dai per finire un lavoro, più quel lavoro richiederà tempo per essere finito. Allo stesso tempo se aspetti fino all’ultimo minuto per fare qualcosa, probabilmente è perché ci vuole solo un minuto per farla questa cosa.

LE ORIGINI

Il termine è stato coniato da Cyril Northcote Parkinson, storico navale britannico, in un saggio per The Economist nel 1955. Narra la storia di una donna il cui unico compito, in un giorno, è inviare una cartolina. Attività che richiederebbe non più di cinque minuti. Ma la donna passa un’ora a selezionare la cartolina, un’altra mezz’ora a cercare gli occhiali, 90 minuti a scriverla, 20 minuti a decidere se portare o meno l’ombrello nel tragitto verso la cassetta della posta… e così via fino a quando la giornata giunge al termine.

Calata in contesto aziendale: con il team hai due settimane per completare una relazione che richiede appena un paio d’ore di lavoro. Sapendo di avere così tanto tempo a disposizione, la portata del progetto aumenta. Mentre ultimate la bozza, decidete di modificare alcune parti di quanto già scritto, l’ordine di alcuni paragrafi e così vita. Anche se alla fine queste modifiche possono rivelarsi utili, ti hanno allontanato dall’obiettivo e un’attività di qualche ora appena si è trasformata in un’attività di due settimane. Ecco la legge di Parkinson in azione.

Cyril, osservando la burocrazia governativa dell’epoca, aveva notato che più gli apparati burocratici si espandono, più tendono a diventare inefficienti. Applicando tale osservazione a un’ampia varietà di contesti, realizzò che quando le dimensioni di qualcosa aumentano, la sua efficienza diminuisce.

Scoprì inoltre come anche compiti molto semplici possono acquistare complessità nel caso il tempo a disposizione per il loro svolgimento viene prolungato. Quindi concluse che quando il tempo assegnato a un compito si riduce, quel compito diventa più semplice e più facile da risolvere.

SE CI SI METTE ANCHE LA PROCRASTINAZIONE

Ad alimentare la legge di Parkinson ci si mette anche la procrastinazione.

Sapere di avere molto più tempo di quello che è necessario per completare un’attività, spinge a procrastinare, ad aspettare l’ultimo minuto per farla ed è così che il tempo si espande inesorabilmente.

Come mai? Un’ipotesi è che le scadenze incombenti siano motivanti. La legge Yerkes-Dodson spiega che esiste un livello ottimale di eccitazione che migliora le prestazioni. Quindi, il termine di consegna che si avvicina rapidamente dà una spinta a concentrarci e fare bene.

COM SFRUTTARE la LEGGE di Parkinson in modo vantaggioso

Crea urgenza

La creazione di un falso senso di urgenza aiuta a combattere le distrazioni. Ad esempio, potresti lavorare al tuo portatile, senza alimentatore, e impegnarti a finire tutto quello che devi fare in un determinato lasso di tempo prima che la batteria si scarichi.

Pianifica la giornata in modo creativo

Aggiungi pressione al punto 1, programmando la tua giornata in modo da creare naturalmente una certa pressione temporale. Dai un limite temporale a compiti come rispondere alle email, riducendolo, per esempio, a un’ora al giorno. Invece di agonizzante su ogni singola email man mano che arriva, stabilisci 30 minuti a inizio e fine giornata tutti dedicati alla risposta delle email ricevute. Scoprirai così che i compiti più piccoli richiedono molto meno tempo.

Imposta la cronologia

A un costruttore solitamente non dici: “Voglio una casa con le caratteristiche x, y e la voglio entro questa data“. Con il costruttore ti concentri invece su aspettative, materiali, capitolato e tenendo conto di una serie di informazioni negoziate le tempistiche di avanzamento lavori e una data approssimativa di completamento.

Questo serve a rendere il progetto gestibile e infonde un maggiore senso di urgenza: anche se la data di fine dell’intero progetto (la casa) non è immediata, la scadenza di un primo step, lo è sicuramente. Inoltre, questo consente di toccare con mano i passi avanti fatti ed è altamente motivante (principio di avanzamento ).

Mentre delinei la sequenza temporale, identifica le diverse scadenze. Meglio se anziché in anni, mesi o settimane, imposti scadenze in giorni, laddove possibile. Uno studio ha dimostrato che è un piccolo cambiamento mentale che può amplificare in modo non trascurabile il fattore di urgenza.

Crea dei forti incentivi per finire presto i compiti

Bilancia la tua maggiore produttività con una maggiore disponibilità di tempo libero, così potrai fare anche quelle attività che ti appassionano e ti divertono per rilassarti e ricaricarti.

Identifica i tuoi compromessi

Nonostante le migliori intenzioni, gli imprevisti accadono. Ecco perché è importante aver chiari quali sono i tuoi compromessi, laddove sia utile allargare lo spazio di manovra e dove non lo è.

Se in una data stabilita devi presentare un nuovo prodotto (un’applicazione, per esempio), la tempistica sarà la metrica più importante e quindi non è negoziabile. Ciò che invece è negoziabile e ragione di compromesso, potrebbero essere alcune funzioni, o altri aspetti che in quel momento non pregiudicano il valore del prodotto.

Non è facile delineare i compromessi, soprattutto a inizio progetto, ma è utile per quando i momenti critici, in cui è necessario prendere decisioni, si presenteranno.

È l’esatto opposto della legge di Parkinson: piuttosto che lavorare in espansione per adattarsi al tempo assegnato, potresti dover ridurre il lavoro o altre aspettative per adattarti alla finestra temporale.

Non lavorare fino a tardi

Sei abituato a lavorare fino a tardi tutti giorni o quasi? Sei convinto che così facendo mostrerai la tua dedizione, o semplicemente vuoi portare a termine più incarichi e l’unico modo che conosci e non staccare mai?

Lavorare di più non significa necessariamente fare di più, ma di certo significa che sei stato sotto stress più a lungo del necessario. Il pensiero divergente effettivamente funziona. Creare restrizioni artificiali sul lavoro portano ad avere più libertà.

A questo punto, se ti guardi indietro, riesci a identificare qualche esempio in cui sei stato vittima della legge di Parkinson?

QUESTA VOLTA è DIVERSO… Le 4 parole più costose di sempre

Questa volta è diverso. Lo avrete sentito dire spesso, immagino.

Quattro parole che possono rivelarsi le più costose di sempre. In realtà, non sono le parole a costare, quanto le conclusioni che questa frase ci spinge a trarre.

Pensiamo, sbagliando, che le differenze valgano più delle somiglianze. In fondo, tutti sono capaci di vedere le similitudini ma, per trovare le differenze, ci vuole intuizione, tempo, capacità di osservazione, spirito critico. Dimenticando, mentre ricerchiamo le differenze, di prestare attenzione a ciò che è uguale.

Come a quella riunione, in cui i partecipanti stanno per cadere nello stesso errore commesso l’anno precedente, e quello prima, in merito alla medesima decisione. E alla medesima persona.

“C’è quella manager che fa casino con i clienti, alcuni almeno, quando c’è da aggiornarli sulle tempistiche nella fornitura dei prodotti dell’azienda”.

È una brava persona, gentile con tutti quella manager. Non perde un compleanno, fa a ogni collega un regalo a Natale, e spesso delizia l’ufficio con torte e brioche a colazione. Ma

“…gli ultimi due anni, da quando ricopre quel ruolo, sono stati problematici”.

Potrebbe essere l’amico poco affidabile, la colf che nasconde la polvere sotto il tappeto, il datore di lavoro insofferente, il responsabile indeciso, il vicino di casa che ruba le riviste dalla nostra buca delle lettere… e nonostante tutto continui a ripeterti questa volta sarà diverso.

Così vai in riunione per esprimere il tuo disappunto e trovare una soluzione (una diversa collocazione per la manager, per esempio), quando un collega ti anticipa:

so che ha fatto alcuni errori, ma questa volta sarà diverso. Ne abbiamo parlato e mi sono assicurato che abbia compreso l’importanza dell’incarico”.

La riunione giunge al termine, tutti sono certi che questa volta sarà davvero diverso e non c’è prova, dubbio o soluzione che puoi addurre per convincerli del contrario: la manager rimane dov’è a fare quello che fa. Fine della storia.

Questo perché, quell’incarico, non interessa granchè a nessuno. I clienti sono difficili da gestire, ancor più quando ci sono variazioni o ritardi da comunicare e poi quella manager è davvero una brava persona…

Tutti vogliamo credere che questa volta sarà davvero diverso e poi preferiamo crogiolarci fra le prove a sostegno del nostro punto di vista (bias di conferma), sostenuti da una buona dose di ottimismo e overconfidence, che mettere tutto in discussione… O no?

LA STORIA è PIENA DI QUESTA VOLTA è DIVERSO

La storia, se ci pensiamo bene, è piena di questa volta è diverso, dove diverso alla fine, non è stato e ha incoraggiato a trarre conclusioni che si sono poi rivelate estremamente costose.

Siamo stati così presi da ciò che era diverso che ci siamo dimenticati di vedere cosa fosse lo stesso.

Non è un caso se gli economisti affermano che questa volta è diverso è probabilmente uno dei pregiudizi più pericolosi in finanza.

La convinzione che le crisi finanziarie siano cose che accadono ad altre persone… [e non] a noi, qui e adesso“. 

La storia suggerisce che non possiamo fare a meno di ricreare le stesse vulnerabilità che hanno innescato le crisi passate. Da quelle dei mutui, quando il rischio era considerato minimo perché “i prezzi delle case avrebbero continuano a salire per sempre” o la bolla delle Dotcom, insegnano.

Un tempo c’erano oltre 70 diverse aziende automobilistiche negli Stati Uniti. Solo 3 di loro sono sopravvissute…

Anche se questa volta può davvero sembrare diverso, solo uno sguardo più attento e un’analisi approfondita possono dirci se lo è effettivamente.

Il consiglio, se ti va di seguirlo, è molto semplice: se una situazione ti sembra diversa questa volta, chiediti cosa potrebbe accadere se questa volta non fosse diversa dalla precedente. Carta e penna alla mano, potresti vedere cose che non avevi considerato.

Talvolta, abbiamo bisogno di credere che sarà diverso, perché è più facile e meno faticoso rimanere nello status quo che cambiare approccio. Mettersi in discussione non è una passeggiata. Ma cambiare solo perché il costo economico e psicologico è diventato troppo alto per andare avanti allo stesso modo all’infinito, non è razionale. Non è nemmeno utile. Meglio tardi che mai… ma quando diventa tardi?

(DIS)ONESTI AL LAVORO: è tutta colpa del contesto!

«Ci sono persone oneste nel mondo, ma solo perché il diavolo ritiene che il prezzo che chiedono è incredibilmente alto». Questione di punti di vista, ma è difficile non fare dell’ironia di fronte alla definizione che lo scrittore americano Peter S. Beagle dà a un concetto al contempo tanto concreto quanto astratto.

L’onestà è come la dieta

Comportarsi in modo onesto non è facile, siamo onesti… E non sempre gli esempi resi salienti dagli organi di stampa ci aiutano a rimanere saldi sui nostri buoni propositi. Per fortuna però resistere alla tentazione di mettere in atto comportamenti poco, se non addirittura, non etici, non è una missione impossibile, come invece si potrebbe pensare.

A dirlo lo studio pubblicato sulla rivista Personality and Social Psychology Bulletin. Secondo gli autori della ricerca, l’onestà sarebbe un po’ come una dieta: difficile da seguire se non si tiene bene a mente l’obiettivo (onestà) per cui si è aderito a quello specifico regime alimentare, e le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.

I ricercatori hanno svolto diversi esperimenti con un gruppo di volontari posti di fronte a una serie di dilemmi. In uno, i partecipanti hanno impersonato il venditore di un palazzo storico e un potenziale acquirente, con due obiettivi molto diversi: il venditore doveva evitare che la proprietà fosse distrutta, mentre il compratore puntava a demolirla per costruire, al suo posto, un hotel.

Prima di iniziare, a metà di loro è stato chiesto di ricordare una situazione in cui in passato si erano comportati in modo disonesto e quali conseguenze questo avesse portato. Tra loro il 45% dei compratori ha mentito nel corso della fase di contrattazione per l’acquisto della proprietà, mentre la percentuale nell’altra metà dei partecipanti è stata del 65%.

In un secondo esperimento è invece stato chiesto ai partecipanti di valutare se fossero o meno accettabili una serie di comportamenti disonesti sul lavoro, come darsi malati per prendere un giorno di vacanza, rubare cancelleria dall’ufficio, o rallentare il ritmo di lavoro per evitare di ricevere mansioni aggiuntive. Chiedendo ad alcuni di loro di riflettere su una serie di dilemmi etici, prima di partecipare alla prova, i ricercatori hanno notato che in questo modo diminuiva notevolmente la possibilità che giudicassero accettabili i comportamenti disonesti in esame. Secondo i ricercatori, i risultati indicherebbero che è più facile comportarsi onestamente se ci si ricorda delle conseguenze del comportamento disonesto e se non ci si prepara per tempo per resistere alla tentazione.

La situazione non è dunque così drammatica, per fortuna. E a venire ulteriormente in aiuto, per aumentare la propensione umana all’onestà, ci sono i Nudge. La strategia gentile che aiuta a rendere semplici anche le scelte più complesse.

Attenzione a dove si firma

Uno degli éscamotage più efficaci è rendere saliente il valore dell’onestà. Come? Facendo porre la firma su documenti e certificazioni, in alto anziché in basso, prima cioè della compilazione anziché al termine, come invece solitamente avviene. Questo piccolo Nudge ha la funzione di indirizzare l’attenzione su sé stessi e portare a effetti sorprendentemente potenti sul comportamento morale che poi andremo ad agire. La firma è un modo per attivare l’attenzione verso sé stessi e verso i valori in cui crediamo.

Apporre il proprio nome prima di inserire informazioni (piuttosto che alla fine) risveglia in noi il valore dell’onestà e questo ci spingerà a rispondere alle domande in modo più sincero. L’attuale pratica di firmare dopo aver riportato le informazioni suggella il danno: immediatamente dopo aver mentito, le persone si impegnano rapidamente in varie giustificazioni, reinterpretazioni e altri trucchi come sopprimere i pensieri sugli standard morali che consentono loro di mantenere un’immagine di sé positiva nonostante abbiano mentito. Detto in modo semplice, una volta che un individuo ha mentito, è troppo tardi orientarne l’attenzione verso l’etica, richiedendo una firma.

È davvero così semplice? Sì.

A supporto di tale Nudge sono stati condotti alcuni esperimenti: uno di questi è stato misurare l’onestà di un gruppo di volontari impegnati a risolvere problemi matematici e la cui soluzione generava loro dei guadagni.

A seguito del compito loro assegnato, i soggetti sono stati incaricati di comunicare i propri guadagni, le spese e il tempo di viaggio, dopo di che avrebbero ricevuto il pagamento. I soggetti hanno quindi avuto l’opportunità di aumentare il proprio reddito, segnalando guadagni esagerati sul modulo di autodichiarazione.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato poca differenza fra i soggetti che avevano firmato una dichiarazione di onestà alla fine del modulo e coloro ai quali non era stato fatto firmare nulla (a imbrogliare è stato il 63% per chi ha firmato a fine modulo e il 79% per coloro cui non è stata richiesta alcuna firma).

Per coloro i quali avevano invece firmato prima di compilare il modulo, le dichiarazioni disoneste si sono attestate intorno al 37%. Ciò suggerisce che rendere saliente il valore dell’onestà prima che le persone agiscano, può avere effetti significativi sulla loro tendenza a essere oneste.

Scarsa consapevolezza

Uno dei motivi per cui le persone tendono a comportarsi in modo poco onesto, è che non sempre hanno un consapevole accesso ai propri standard morali. Non sono cioè attente a ciò che le porta ad agire, ciò che indirizza le loro scelte e decisioni.

Le persone valutano le azioni secondo valori e standard interni. Una mancanza o una lassità di autocoscienza, potrebbe quindi indurle a mostrare comportamenti disonesti, anche se questo non è coerente con il loro standard morale.

Firmare una dichiarazione di onestà in cima al modulo, è in questi casi efficace nel promuovere l’onestà, poiché attiva la bussola morale interna delle persone prima che agiscano.

Anche se questo non è l’unico incentivo progettato per promuovere l’onestà, il suggerimento proposto è abbastanza facile da implementare e può potenzialmente avere grandi benefici sia per l’individuo sia per la società. Come accennato in precedenza, il problema non è che gli individui siano dei bugiardi senza scrupoli, ma che molti di noi siano più inclini a un po’ di disonestà se ne hanno la possibilità. Come suggeriscono le evidenze, le persone possono essere aiutate a rimanere coerenti rispetto i loro standard di onestà, se la loro bussola morale viene attivata appena prima di agire.

 

Fonti:

Sheldon O.J., Fishback A., Anticipating and Resisting the Temptation to Behave Unethically, May 22, 2015

Shu L., Mazar N., Gino F., Ariely D., Bazerman M. H., Signing at the beginning makes ethics salient and decreases dishonest self-reports in comparison to signing at the end, PNAS September 18, 2012

RIESCO A FARMI PAGARE PER QUELLO CHE VALGO?

A causa del budget limitato, il fee che possiamo corrisponderLe è…”. A cui segue un valore nettamente inferiore a quello che l’impegno meriterebbe.

Chi non ha mai ricevuto una e-mail (o una proposta) di questo tipo?

Cosa fai? Accetti o rifiuti?

Spesso, si accetta. Raccontandosi “quello specifico progetto mi servirà per fare esperienza, guadagnare qualcosa (meno è meglio di niente), e comunque mi farò pagare di più la prossima volta…”.

Purtroppo, essere un libero professionista non è facile e talvolta scendere a compromessi può avere i suoi vantaggi. Ma non li ha se accettare compensi ridotti è legato al fatto che non ci apprezziamo a sufficienza da chiedere ciò che noi e il nostro lavoro meritano.

Dietro scelte economicamente poco vantaggiose si possono celare alcuni miti che abbiamo su noi stessi quando si tratta di denaro. Difficoltà che abbiamo avuto tutti in una certa fase della vita, ma che si fanno passaggio obbligato se si vuole esprimersi al meglio professionalmente.

Se faccio un buon lavoro, il cliente lo vedrà e mi pagherà di più la prossima volta…

L’approccio è sbagliato a priori, perché così facendo svalutiamo il lavoro che siamo chiamati a fare, ancor prima di farlo.

Se un cliente ci affida un incarico, vuol dire che disponiamo delle abilità e competenze che è importante e prezioso avere per soddisfare la sua richiesta. Farsi pagare un compenso adeguato, è il modo coerente per quantificare il valore di quelle abilità e competenze.

È importante considerare che le tariffe che accettiamo dai clienti finiscono per stabilire e influenzare il prezzo di mercato, impattando sugli standard di tutti i liberi professionisti che operano in quel dato settore. Se la maggior parte dei liberi professionisti accetta compensi inferiori alla media, sarà più difficile negoziare tariffe eque in futuro.

Per evitare che questo accada, occorre avere maggiore consapevolezza circa il proprio valore e al proprio grado di expertise rispetto a colleghi e competitor.

Ciò che è importante tenere a mente è che la partita non si gioca sul prezzo: si tratta di vendere la soluzione che si è in grado di generare per il cliente o il cambiamento di cui il cliente ha bisogno.

A questo punto, quanto vale il tuo lavoro?

Per avere lavoro sufficiente, dovrei accettare tutti gli incarichi che mi vengono offerti. Potrei anche fare alcuni lavori gratis, solo così posso fare l’esperienza…

Quando non si ha molto lavoro, accettare tutto ciò che arriva sembra la soluzione più saggia. Così come non ritenere di avere “abbastanza” esperienza, spinge ad accettare lavori sottopagati.

Ma quando saprai di avere “abbastanza” esperienza e lavori?

Il lavoro di un freelance dipende dalle sue capacità e conoscenze. Probabilmente hai impiegato molto tempo ed energia per padroneggiare il mestiere, ed è un’abilità di cui le aziende hanno bisogno.

Quindi, possiamo dire che “abbastanza” è quando hai a disposizione e sai gestire tutto quello che serve a soddisfare le esigenze di un cliente.

In parole semplici: se sei in grado di fare il lavoro, sei anche in grado di farti pagare. Anche se c’è sempre margine di miglioramento, il tuo lavoro merita, comunque, di essere retribuito in denaro e non in esperienza.

Di fatto, se qualcuno si rivolge a te, vuol dire che ti ha cercato. E questo è già un valore.

Non importa in che modo valuti le tue potenzialità, ma se gli altri ti chiedono aiuto per risolvere un problema significa che le tue capacità valgono.

Se voglio diventare un libero professionista, non posso essere troppo esigente: potrebbe danneggiare la mia reputazione. E poi, se rifiuto un lavoro perché non remunerativo, il cliente andrà da qualcun altro…

“Beggars can’t be choosers”, i mendicanti non possono scegliere, è un chiaro esempio di mindset sbagliato. Una sorta di “questo è quanto passa il convento”.

E’ importante saper distinguere quali progetti sono interessanti per te. Non dovresti cioè sentirti forzato ad accettare un lavoro che non vuoi fare o che va contro i tuoi valori e la tua etica solo perché sei preoccupato di apparire “difficile” o che “te la tiri”.

Accettare un lavoro che non è nelle nostre corde serve solo a generare rabbia e risentimento. Accettare opportunità che non ci soddisfano e/o sottopagate può portare a un circolo vizioso fatto di super lavoro e spreco di tempo dal quale può poi essere molto difficile uscire.

Se rifiuti un lavoro, non vuol necessariamente dire che non ti verranno offerte altre opportunità. Anzi, potrebbe essere un modo per differenziarti da chi non è ben posizionato e focalizzato su ciò che sa e sa fare bene.

Pensaci, tu vorresti un professionista che spazia da un ambito all’altro e accetta compromessi di ogni tipo, economicamente cheap, al limite del frustrato e stressato?

Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort

Ci sono due uomini:

  • il primo è un professore che ha l’abitudine di cantare, volteggiare sul palco, ed enfatizzare consonanti e vocali. 
  • il secondo vive con la moglie in una casa isolata in oltre due acri di boschi canadesi, dove occasionalmente riceve le visite di figli e nipoti, ma per il resto del tempo frequenta nessuno.

Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.

LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI

Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.

Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.

OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA

Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.

Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.

Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.

COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE

1. Identifica i tuoi progetti personali principali

– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?

– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?

– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.

Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.

 

2. Identifica la tua nicchia riparatrice

Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.

La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.

Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?

Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?

 

3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti

Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.

Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”. 

Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.

Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.

La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.

In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.

UN AVVERTIMENTO

I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.

L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.

Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.

Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?

LE RIUNIONI, quelle UTILI e che LE PERSONE AMANO (davvero)

A: sono esausto

B: cosa hai fatto oggi per essere tanto stanco?

A: sono stato in riunione tutto il giorno

B: Sì, ma cosa hai fatto?

A (esasperato): Te l’ho appena detto, sono stato in riunione tutto il giorno!

B: E io ti ho chiesto: cosa hai fatto?!

 

Questo è uno stralcio di conversazione avuta con un cliente. Gli ci è voluto un momento per capire dove volevo arrivare, stanco e frustrato per le ore di riunione che ha dovuto sostenere perché per lui, il lavoro, è ciò che accade tra una riunione e l’altra.

Nel peggiore dei casi, le riunioni sono simili a brevi prigionie che costringono a contare i minuti/ore che mancano al rilascio. Per fortuna, ci sono anche incontri utili, produttivi e divertenti.

Nel mio lavoro, ho trovato tre tipi di riunioni che vale la pena elencare.

 

I meeting a colazione

Il successo è legato alla capacità del team di condividere informazioni, e capire le giuste connessioni fra persone ed eventi. È utile, questa tipologia di incontri, per porre domande difficili e offrire feedback schietti e diretti. Oltre al fatto che incontrarsi fuori ufficio alimenta lo spirito di gruppo, il cameratismo, che va oltre il tempo del breakfast e fa sembrare le informazioni più preziose.

 

La mischia

L’ Economist ha  pubblicato un resoconto degli incontri editoriali del lunedì mattina in cui vengono presentate le storie, viene pianificata la copertina e discussa la posizione del settimanale sugli eventi globali.

Ciò che rende le riunioni dell’Economist così produttive è la loro natura egualitaria. Grado e ruolo viene messo da parte e tutti sono incoraggiati a contribuire.

“L’intero giornale si riunisce e chiunque, dallo stagista all’editor più anziano, può proporre e scrivere un articolo. Ciò che conta non è l’anzianità di un collaboratore, ma la forza e la qualità delle sue argomentazioni”.

Immagina se altre organizzazioni seguissero questa pratica. Il coinvolgimento aumenterebbe perché investirebbero nella discussione. I pregiudizi potrebbero essere mitigati e le opinioni divergenti palesate e dibattute. Le persone avrebbero la possibilità di affinare il loro pensiero critico e la capacità di argomentazione costruttiva. La qualità delle decisioni migliorerebbe.

 

Il focus

Ogni mattina dal 12 settembre 2001, le persone interessate alla sicurezza e alla protezione all’aeroporto internazionale di Boston Logan si incontrano per condividere informazioni sui probabili eventi della giornata. Scossi dagli attacchi dell’11 settembre, i funzionari hanno deciso che ottimizzare la collaborazione e il coordinamento tra le varie agenzie e società afferenti all’aeroporto, fosse fondamentale per migliorare la sicurezza. A differenza della maggior parte di tante nobili iniziative, questa dura sette giorni alla settimana da allora. Non è un incontro obbligatorio. Le persone continuano a partecipare perché lo trovano prezioso e utile.

L’incontro è incentrato su tutto ciò che potrebbe avere un impatto sull’aeroporto quel giorno o nell’immediato futuro: il ritorno a casa di una squadra sportiva, un temporale, i lavori in corso o un allarme dell’intelligence.  Tutto ciò che è rilevante per il gruppo è il benvenuto. Anche “oggi niente” è un contributo accettabile, e riduce al minimo la tentazione di riempire il tempo in modo infruttuoso. L’incontro dura non un minuto in meno o più del necessario, ma mai più di un’ora.

È un modo efficiente per connettersi, condividere, ricevere informazioni e porre domande. L’incontro è una componente chiave della costruzione di una cultura duratura in cui la collaborazione e il coordinamento attraverso i confini organizzativi sono la norma, eliminando la rete di canali secondari che può portare a lacune informative e incomprensioni.

 

4 CONSIGLI PER MIGLIORARE LE RIUNIONI AL LAVORO

Sebbene questi tre tipi di incontri siano molto diversi fra loro, ci sono alcuni concetti essenziali di facile applicazione.

  • Coinvolgi le giuste persone

Invita solo le persone utili. Sii chiaro sullo scopo, il formato, le decisioni necessarie da prendere e il risultato desiderato. Crea e definisci norme sociali che si allineino con quei parametri. Sii puntuale e mantieni la rotta.

 

  • Stabilisci le tempistiche

Le informazioni pertinenti devono fluire alle persone giuste al momento giusto. Le riunioni utili riducono al minimo le speculazioni e migliorano la coesione del gruppo.

 

  • Non tutto è per tutti

Non mettere tutte o tante persone in una stanza se è più utile agire per piccoli gruppi. Cerca di capire quando e che tipo di informazioni vanno condivise e come, e quale modo è più efficace.

 

  • Conosci il ROI

Anche le riunioni hanno dei costi. Calcola l’equivalente di stipendio approssimativo per le ore in cui le persone sono presenti e stima il ritorno su tale investimento, per ciascun partecipante. Qual è il contributo di ogni persona e cosa riceve in cambio? Qual è il ritorno per l’organizzazione? Un modo per scoprire se le persone ritengono che un incontro valga la pena è renderlo facoltativo e vedere chi si presenta.

Le riunioni scandiscono il ritmo della nostra vita organizzativa; in alcuni casi, sembrano essere fine a sé stesse. Ma gli incontri sopra descritti sono un utile investimento di tempo, talento ed energia. I partecipanti ricevono e danno valore. È così che crei incontri che le persone abbracciano con entusiasmo.

Se NON sei PRONTO a SBAGLIARE NON PENSERAI mai FUORI dagli SCHEMI: il legame fra rischio e creatività

Forte è la tentazione di unire creatività e follia, genialità ed eccesso. Forse perché risveglia l’ideale romantico con cui siamo stati cresciuti fin da bambini. Eppure, la creatività ha poco a che fare con la follia e meno ancora con la sregolatezza.

Il fatto che Picasso soffrisse di depressione, non ha legami con la creatività. Lucy in the Sky with Diamonds può anche essere nata da un viaggio lisergico, ma è stata composta dalla collaborazione di due musicisti scrupolosi e perfezionisti: John Lennon e Paul McCartney. Le poesie di Rimbaud, autore maledetto per eccellenza, sono il frutto di ore di lavoro e non di una unica idea geniale. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, suonava il bongo in un night club per non  ammuffire nelle aule universitarie e avere nuovi stimoli. Edvard Munch gravitava fra arte, ansie e allucinazioni, Einstein raccoglieva mozziconi di sigarette per strada e Henry Cavendish, il primo a identificare l’idrogeno, viveva in totale isolamento e con frugalità, nonostante fosse uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra.

A prescindere dalla genialità, i risultati creativi arrivano se c’è metodo e dedizione. Non esistono scorciatoie. Anzi, è probabile che la sregolatezza sia un limite che frena il talento, non il segreto che dà vita alla creatività.

Ecco perchè lasciarsi sedurre dal mito “genio e sregolatezza”, al pari di un pregiudizio, induce irrimediabilmente all’errore.

LA VOGLIA DI SPERIMENTARE

La creatività ha molto più a che fare con la volontà di sperimentare al di fuori dei confini del pensiero convenzionale e nell’essere consci che ciò che si pensa di sapere, potrebbe essere sbagliato.

Nel contesto aziendale, più che genio–sregolatezza, il binomio più evidente, ma forse più trascurato è quello che unisce la creatività al rischio. Proprio perché la creatività consiste nel provare qualcosa di nuovo, esplorare l’ignoto e accettare l’incertezza e la possibilità di fallire. Ci piaccia o meno, è la creatività ad alimentare la strategia e l’innovazione.

In altre parole, il vero potere della creatività va oltre la visione artistica e la capacità di immaginare e costruire qualcosa di nuovo. Grandi artisti, scienziati e pensatori sono disposti a fallire, venire sommersi da critiche negative e vedere andare in frantumi la propria reputazione, pur di portare avanti le loro idee. Sir Ken Robinson ha ben spiegato questo concetto nel TED Talk più visto di sempre : “Se non sei pronto a sbagliare, non ti verrà mai in mente nulla di originale”.

RISCHI, GIOCHI E RISULTATI

Sebbene la connessione tra creatività e assunzione di rischi sembri intuitiva, gli scienziati sociali hanno faticato a mostrarne il legame diretto. Questo perché misurare la creatività è difficile.

Studi passati che miravano a esplorare la relazione tra creatività e assunzione di rischi hanno equiparato la creatività alla fluidità associativa, al pensiero divergente, alla tolleranza dell’ambiguità e allo stile di vita“, hanno evidenziato gli psicologi Tyagi, Hanoch, Hall e Denham dell’Università della Georgia e Runco della Plymouth University in Frontiers in Psychology . Ma, hanno aggiunto “ognuna di queste misure fornisce solo una visione ristretta della creatività“.

Adottando un approccio diverso, i ricercatori hanno considerato la creatività come un tratto multidimensionale che coinvolge la personalità, i risultati, il processo di formazione di nuove idee, la risoluzione dei problemi. Hanno misurato il rischio utilizzando due test. Uno prevedeva di giocare alla roulette e l’altro la compilazione di un questionario che analizzava la probabilità di assunzione di diversi tipi di rischi: etici, finanziari, sanitari, legati alla sicurezza, ricreativi e sociali. L’analisi risultante ha suggerito che il legame più forte tra creatività e assunzione di rischi coinvolge il rischio sociale, ovvero esporre tesi e idee anche quando le dinamiche di gruppo o di relazione incoraggiano i membri del team a rimanere in silenzio.

ESSERE CREATIVITI VUOL DIRE ASSUMERSI DEI RISCHI

Essere creativi significa correre il rischio che le tue idee vengano criticate o che falliscano miseramente“, sostiene Todd Dewett . Durante il dottorato, Dewett ha notato una lacuna nella ricerca sul legame tra creatività e assunzione di rischi. Quindi ha progettato uno studio attorno a un concetto che chiama disponibilità al rischio: un tipo specifico di assunzione di rischi che ha lo scopo di portare a risultati produttivi in un’organizzazione, anche se può avere conseguenze personali negative per l’individuo che si assume il rischio. Ad esempio, i dipendenti possono rischiare di essere rimproverati o ostracizzati se segnalano potenziali errori di un progetto particolarmente caro al capo, propongono miglioramenti a un venerato prodotto di punta o sostengono le innovazioni in un’azienda quando i loro colleghi resistono al cambiamento o sono più propensi a proteggere il loro territorio.

Lo sviluppo e la discussione di nuove idee è rischioso, perché rappresentano rumors nelle routine, nelle relazioni, negli equilibri di potere e nella sicurezza di un”organizzazione“, ha scritto Dewett sul Journal of Creative Behavior. La sua ricerca ha documentato una stretta relazione tra creatività e disponibilità al rischio. Dewett ha creato un sondaggio che ha somministrato a 1.100 dipendenti di una società di ricerca e sviluppo con sede negli Stati Uniti.  Il sondaggio ha esaminato come specifici comportamenti dei manager  siano in grado di influenzare le decisioni dei dipendenti riguardo creatività e propensione al rischio.

Ciò che è emerso è che i manager garantivano ai dipendenti l’autonomia, ovvero la sensazione di libertà di scegliere come svolgere un’attività, sostenendo la loro volontà di rischiare ma non la loro creatività.

Secondo Dewey, le aziende possono aumentare la creatività individuale e di squadra in vari modi. Tutti implicano che i dipendenti si sentano più a loro agio a parlare e ad assumersi dei rischi. Le organizzazioni più innovative possono includere formalmente la disponibilità al rischio nelle valutazioni delle prestazioni, ponendo ai dipendenti domande come: “Quali cambiamenti hai apportato? Che tipo di idee o cambiamenti hai sostenuto o chi hai sostenuto per facilitare un cambiamento?

LA CREATIVITA’ IN AZIENDA

Una volta che inizi a cercare il tipo di assunzione di rischio sociale costruttivo che va di pari passo con la creatività, potresti trovare sorgenti creative dove non te lo aspettavi.

Ecco perché le persone che sono disposte a parlare indipendentemente dal fatto che siano o meno le benvenute, potrebbero essere le più grandi risorse di un’azienda. Il vantaggio è duplice: portano ossigeno, incentivano il pensare fuori dagli schemi a supporto di nuove opportunità e contemporaneamente sono disposte a evidenziare problematiche che possono aiutare l’organizzazione a evitare perdite onerose e inutili.

E se questo non bastasse si può sempre ricorrere, per spingere le persone ad assumersi qualche rischio in più, alla tecnica dei piccoli passi dello psicologo di Stanford passi di Albert Bandura. La tecnica è nata inizialmente per aiutare le persone a superare le fobie. Una fra tante, quella dei serpenti. La creatività in fondo è un po’ come maneggiare serpenti, secondo quanto sostiene un bell’articolo sulla Harvard Business Review: sperimentare senza temere il giudizio altrui, proprio come facevamo da bambini.

Un modo per farlo è appunto quello di superare gradualmente le paure apprese. All’inizio ci può sentire a disagio ma, piano piano con la creatività come con i serpenti, al timore si sostituiscono fiducia e capacità nuove. La prima regola è abbandonare le certezze e la protezione offerta dal proprio ufficio, misurarsi con il mondo, sia che si tratti di inventare un’app che cambierà gli eventi o progettare la start up del secolo.

Il successo, spesso, nasce dal fallimento, come insegna l’economista Albert Hirschman.

In realtà, nessuno si imbarca in imprese che vanno così male da dover richiedere una soluzione creativa. Eppure, proprio quando mal giudichiamo la natura del compito che ci stiamo assumendo sottovalutandone i rischi, poi succede che il precipitare stesso degli eventi ci forzi a tirar fuori soluzioni creative. Non a caso la vita di Hirschman, economista eretico, si svolge all’insegna del mettersi in gioco. “Gli ostacoli portano alla frustrazione, la frustrazione all’ansia, e nessuno vuole essere ansioso –  dice -. Eppure, l’ansia è il fattore di motivazione più potente, l’emozione che guida alla ricerca di soluzioni”.

Il punto è che tra creatività e rischio c’è una connessione spesso sottovalutata. “La creatività fallisce, e la buona creatività fallisce spesso”. Ma non solo: creatività vuol dire trovare connessioni inaspettate e quindi sottoporre il cervello a un grande sforzo e a una immane fatica. E come si può rendere accattivante tutta quella fatica? Non lasciandogli alternative. Prendendosi qualche rischio in più e cercando stimoli nuovi, perché i rischi spingono la mente a pensare fuori dagli schemi.

PRUDENTI? NON TROPPO… e nemmeno ci ASSICURIAMO! La nostra incapacità di valutare rischi e benefici.

Gli italiani sono un popolo sotto assicurato che ricorre alla polizza solo quando è obbligato…

Si sfoga un cliente durante un meeting aziendale, mentre confronta i dati italiani con quelli degli altri Paesi europei. Difficile dargli torto. Se si esclude l’Rc auto, il premio medio pagato da un italiano annualmente è di 300 euro, meno di un terzo di quello degli altri cittadini dei principali Paesi europei che in media spendono 937 euro per le coperture protection.

Non possono tutti essere propensi al rischio e avversi alle polizze…

La questione, ha ragione, è un po’ più complessa di così. E inevitabilmente mi viene in mente Lunch atop a Skyscraper (pranzo in cima a un grattacielo), la foto in cui 11 uomini dai vestiti sporchi e dai volti sereni, consumano il loro pranzo al sacco, seduti uno di fianco all’altro, sulla trave d’acciaio di un grattacielo in costruzione nella grande mela, quello che sarebbe diventato l’RCA Building, uno dei grattacieli che formano il complesso del Rockefeller Centre, all’altezza della 41° Strada.

Era il 1932. Undici uomini rischiavano ogni giorno la vita per quel lavoro, apparentemente niente affatto spaventati di consumare la propria pausa pranzo al 69° piano dell’edificio, a un’altezza di 260 metri dalle strade di Manhattan.

Chissà se quegli operai erano più incuranti del pericolo o incapaci di percepirlo, o se più semplicemente pensassero “a me non potrebbe accadere”.

Se nel 1932 la foto suscitò grande scalpore (fu pubblicata sull’Herald Tribune insieme a un articolo in cui si contestava la totale mancanza di adozione di dispositivi di protezione o misure di sicurezza), 90 anni dopo, continua a far venire le vertigini ad alcuni e ad altri la voglia di salire lassù. Insomma, passano gli anni, ma spericolatezza e paura ci abitano ancora allo stesso modo.

 

Perchè? Sembra quasi che non sappiamo quando avere paura…

Il modo in cui viene percepito il rischio è fenomeno complesso, nonché soggettivo e risente della nostra irrazionalità più di quanto ci piace credere e ha molto a che fare con il nostro vissuto e le nostre convinzioni. Questo fa sì che qualcuno sottovaluti e altri sovrastimino i rischi e quindi il pericolo e attivino dei comportamenti e delle reazioni non proporzionate al fenomeno. In parole semplici, capita che le persone a volta temano eventi che non sono in realtà pericolosi e non temano invece, eventi che potrebbero avere conseguenze drammatiche.

 

Come l’errata convinzione che viaggiare in auto sia più sicuro che prendere un aereo. Razionalmente sappiamo che non è così, ma la paura di volare è più impattante di quella di guidare soprattutto dopo un incidente aereo recente.

Alcuni fattori più di altri influenzano la percezione che abbiamo di un fenomeno. Uno di questi è quanto controllo possiamo esercitare sugli eventi che possono generare pericolo. Per esempio: crediamo di poter esercitare più controllo alla guida che di fronte a un terremoto. Un altro è: quanto volontariamente abbiamo deciso di affrontare una situazione pericolosa e quanto gravi sono le conseguenze.

A peggiorare le cose è anche la scarsa conoscenza che gli italiani hanno in materia di assicurazioni,

aggiunge il cliente, indicandomi percentuali e dati relativi all’attività svolta dall’IVASS, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni e dove si evince che:

  • gli uomini hanno livelli di alfabetizzazione assicurativa più alti rispetto alle donne;
    • i giovani e gli anziani sono i meno alfabetizzati e i più sotto-assicurati;
    • il Nord è più alfabetizzato rispetto al resto dell’Italia.
  • l’indice aumenta man mano che sale il grado di istruzione degli intervistati, in particolare di quelli con almeno un diploma di scuola superiore.

 

 E’ anche colpa dei bias?

Sicuramente i bias non aiutano. Gli italiani peccano di eccesso di fiducia nelle loro conoscenze. L’overconfidence genera un dislivello tra quello che crediamo di sapere e quello che davvero sappiamo.

  • Il 60% degli intervistati afferma di conoscere bene concetti base quali premio, franchigia e massimale, ma solo il 14% risponde correttamente a tutte le relative domande.
  • Il 39% dichiara di conoscere i prodotti assicurativi (infortuni, temporanea caso morte, vita e previdenza complementare, ecc) ma solo 1 su 2 mila risponde correttamente a tutti i quesiti.
  • Il 69% ritiene di non avere bisogno dei consigli dell’assicuratore né di doversi affidare a fonti informative esterne, facendo emergere quello che in finanza comportamentale è noto come “bias dell’autonomia”: l’illusione di essere i principali agenti delle proprie vite, laddove un grado molto elevato di autonomia percepita determina grande o grandissima sicurezza e poco o niente stress.
  • La scarsa conoscenza della statistica può innescare la fallacia dello scommettitore (sui piccoli numeri, ad esempio, ogni ripetizione di un evento mantiene intatte le probabilità medie della serie statistica) o di azione dell’effetto emozionale sulla stima (quando la percezione soggettiva delle probabilità è inficiata dal valore affettivo che l’individuo associa agli esiti attesi) o ancora di sconto temporale (preferenza a scommettere che eventi avversi non avverranno nel futuro e posticipare il costo del danno nel futuro) e infine di avversione all’ambiguità (propensione a preferire soluzioni costanti nel tempo anche se di fatto possono essere meno convenienti).

 

Il paradosso è che anche se timorose dei rischi, le persone non sempre accedono alle relative coperture.

I timori più sentiti per il presente o il futuro riguardano problemi di salute per malattie o infortuni nel 76,7%dei casi. Tuttavia, una polizza malattia è sottoscritta dal 10,6%degli intervistati e quella infortuni solo dal 20,2%.
Il timore di calamità naturali è maggiore al Sud e nelle Isole rispetto al Nord, ma è proprio al Nord che si riscontra una maggiore sottoscrizione di queste polizze: 20% contro il 4,1% al Sud e il 3,5% nelle Isole.
Forse, gli suggerisco, al di là di bias e paure, una migliore comunicazione con il cliente potrebbe aiutare a rendere maggiormente consapevole di rischi e benefici?

La scarsa comprensibilità risulta tra le principali cause di mancata sottoscrizione della polizza (50%), subito dopo il costo (67,5%) e prima della sfiducia nei confronti delle assicurazioni (42,4%) e delle esperienze negative pregresse (28,7%).

 

Scartabellando e mettendo ordine fra i numeri, il  concetto scientia potentia est attribuito a Thomas Hobbes ricorda l’importanza di conoscere una disciplina in modo fondato, per poterne così realizzare il miglior utilizzo. Si tratta di un assunto valido per ogni contesto e andrebbe ricordato e rimarcato per lo meno negli ambiti del quotidiano, per poter così ottenere un miglior livello di qualità di vita in modo generalizzato. E se il cliente non sente tutta questa spinta a informarsi, ecco che l’assicuratore può facilitare il processo, rendendo comprensibile anche i termini e i concetti più astrusi. Purchè il tutto venga fatto in modo etico e sostenibile. Per il cliente. E non dimenticando l’assunto degli assunti tanto caro al Nobel per l’economia Richard Thaler:

se vuoi che le persone facciano qualcosa, rendi quella cosa semplice.

 

FONTI

https://www.ivass.it/pubblicazioni-e-statistiche/pubblicazioni/relazione-annuale/2021/index.html