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COME sei messo a CORAGGIO? …quando si tratta di DECIDERE, AGIRE, condividere il tuo PUNTO DI VISTA?

C’è una parola che ricorre nei board delle organizzazioni, in questo periodo storico, più di altri: coraggio.

Nel contesto aziendale coraggio:

Ø  significa avere la fiducia e il mindset necessari per prendere decisioni laddove non esiste una risposta certa o comoda,

Ø  significa fare ciò che è meglio per l’azienda, anche se quella decisione renderà qualcuno infelice,

Ø  significa attenersi ai valori dichiarati, anche se questo ha un costo per la posizione che si occupa, perché ci si è rifiutati di seguire un piano che si riteneva sbagliato.

Il mio lavoro mi permette di confrontarmi con molti dirigenti e, fra quelli che mi colpiscono di più ci sono coloro che possiamo definire ippocratici. Il nome deriva dal giuramento dei medici di Ippocrate, che è stato associato alla frase “Primo, non fare del male“. Questi leader sembrano aver adottato la stessa filosofia nella gestione della carriera e degli incarichi. Giocano sul sicuro, rimanendo sotto il radar e non correndo rischi.

Eppure, se si vuol fare un salto di qualità, molti amministratori delegati hanno bisogno di avere la certezza che i loro manager e dirigenti hanno il coraggio di agire. Non tutti in un’azienda prendono grandi decisioni, o allocano importanti risorse. Ma ognuno deve saper guidare, avere doti di leadership. Ciò richiede assumersi la responsabilità e capire come avere un impatto e influenzare l’organizzazione.

Il coraggio è un’abilità estremamente preziosa – sostiene Ryan Roslansky, CEO di LinkedIn -. Si tratta di avere il coraggio di prendere una decisione quando semplicemente non ci sono decisioni buone o facili da prendere. È facile rimanere intrappolati nell’attesa di avere maggiori informazioni, ma è fondamentale avere il coraggio di prendere semplicemente la decisione e andare avanti”[1].

COME SI COSTRUISCE IL CORAGGIO?

Avere un’opinione su ciò che viene discusso è importante.  Non si tratta solo di conoscere la risposta a una domanda. Occorre avere un punto di vista e saperlo condividere, portare avanti. Altrimenti è difficile progredire.

Un leader coraggioso apprezza il fatto che mettersi in mostra comporta il rischio di sbagliare o di fallire. Molti amministratori delegati e dirigenti senior stanno cercando di promuovere i manager che hanno fallito e che possono dimostrare di aver imparato dall’esperienza. Vogliono leader che intraprendano grandi cambiamenti e, se inciampano, capiscano cosa è andato storto.

Tuttavia, siamo ancora tutti troppo inclini a erigere facciate di invincibilità e perfezione, lucidando curriculum che mostrano liste di record coerenti di successo. Nei colloqui di lavoro, i candidati non sono disposti a riconoscere eventuali fallimenti o debolezze oltre alle prevedibili mancate risposte di “lavoro troppo impegnativo o poco interessante”.

Le persone che non prendono decisioni sbagliate sono indecise e avverse al rischio“, argomentava David Kenny,  quando ricopriva il ruolo di CEO della Weather Company  (ora gestisce la società di ricerche di mercato Nielsen). “Mi piace assumere persone che hanno fallito. Abbiamo delle persone fantastiche qui con alle spalle grandi fallimenti. Se hanno imparato da questi errori, sono professionisti migliori perché hanno corso un rischio. Sono molto più umili, contribuiscono maggiormente alla cultura aziendale e fanno grandi cose perché hanno imparato” [2].

Non tutti i leader la pensano in questo modo. Ci sono ancora aziende con una cultura che incoraggia un approccio più ippocratico. Sono avversi al rischio e i dipendenti che provano cose che non funzionano possono pagare dazi più o meno pesanti. La parola preferita dei leader di aziende come questa è “no” e giustificano questo approccio dicendo a sé stessi che stanno aggiungendo valore “proteggendo il marchio”.

Se il mondo degli affari fosse più stabile e prevedibile, l’approccio ippocratico potrebbe anche funzionare. Ma non adesso. Adesso tutti devono avere coraggio per prendere decisioni, per avere un punto di vista, per agire. Il coraggio è una qualità straordinaria, essenziale per la leadership e, per quanto molti siano convinti che si tratti di una dote innata, al contrario può essere sviluppato e potenziato attraverso un costante lavoro su di sé e una cura delle relazioni.

Diversamente, in questa epoca, restare fermi significa che si verrà rapidamente lasciati indietro.

Nel dubbio, c’è una frase di William Sloan Coffin che può aiutare a riflettere: “Il coraggio è una grande virtù. Cos’è che ci fa paura? La morte o la vita?”. Le risposte potrebbero non essere così scontate.


Bibliografia

[1] Bryant A., Do you have the courage of your convictions? The pace of change can paralyze some executives. It’s time to develop a more dynamic relationship with risk-taking and failure, Strategy+business, March 6, 2023

[2] https://www.nytimes.com/2014/07/27/business/corner-office-david-kenny-of-the-weather-company-move-fast-but-know-where-youre-going.html

Quanto puoi ESSERE TU, sui social Media?

Qualche anno fa, la giornalista del Guardian, Elle Hunt, decise, a seguito di una conversazione con amici su film e generi cinematografici, di aprire un sondaggio su Twitter. L’obiettivo era capire se il film Alien, potesse o meno essere considerato un horror.

La sua posizione era chiara: «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio».

Il giorno dopo, la giornalista trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati e di amici preoccupati: il sondaggio aveva ottenuto 120 mila voti e la sua opinione era stata citata da migliaia di persone che se la prendevano con lei per quanto affermato. Molti volevano delle scuse. La ragione di tante attenzioni era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” su Twitter.

La spiacevole esperienza vissuta dalla Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui Social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico ristretto. Questo fenomeno, molto comune sulle piattaforme social, è noto come “collasso del contesto”.

COLLASSO DEL CONTESTO: NEI DETTAGLI

Il collasso del contesto è dunque l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in un unico spazio, in un unico #contesto.

Dove sta il problema?

Nel mondo reale abbiamo un range di relazioni, che va dai confidenti intimi agli amici, fino ai conoscenti. E, a seconda dei momenti e delle circostanze, mostriamo facce diverse e diciamo bugie per mantenere inalterata l’immagine che gli altri hanno di noi. Nel mondo virtuale, dei social media, questi confini sono sfumati, se non addirittura inesistenti.

Facebook è stato inizialmente impostato per avere un solo tipo di “amico”, in modo che ogni persona che hai accettato come amico avrebbe visto tutti i tuoi post. Negli anni, ha ampliato le sue opzioni per l’ordinamento in base ad “amici intimi”, “conoscenti” e altri gruppi, in modo che gli utenti possano modellare i loro feeddi notizie e pubblicare post mirati.

L’etnografa Danah Boyd, una delle prime ricercatrici della vita sociale online, fa riferimento alla “convergenza sociale” nei siti di social networking. La convergenza sociale, si verifica quando più mondi sociali si fondono. Ciò si traduce in un “collasso del contesto“, il che significa che i social media riuniscono contemporaneamente diversi contesti sociali. È come cercare di chattare comodamente con tua madre, un tuo amico, la tua collega e il tuo ex allo stesso tempo.

Alcuni nuovi problemi sociali sono emersi come risultato di questi circoli sociali che si sono fusi. Devo taggare la mia amica Maria in una foto che pubblico su un socialanche se so che non farà piacere all’altra mia amica Barbara? Se non la taggo, si offenderà? Anche se non pubblico, devo comunque chiedere a Maria di non taggarmi in uno dei suoi post perché sono preoccupato per la possibile reazione di Barbara…

Chi non si è trovato in situazioni simili?

In uno studio del 2012, i ricercatori hanno utilizzato i dati dei focus group per elaborare 36 “regole” dell’amicizia su Facebook. Per molti versi l’amicizia su Facebook è la stessa cosa dell’amicizia nel mondo reale.

Ma sui social, il peso elevato attribuito alla presentazione di un’immagine positiva è portato all’estremo. L’amicizia nel mondo offline è più complessa e comporta doveri più seri. Ci aspettiamo che gli amici ascoltino seriamente le nostre preoccupazioni, che ci sostengano e capiscano quando facciamo cose che non sono educate, simpatiche o interessanti. Online, essere un “buon amico” significa più comunemente mantenere il costrutto di “persona felice” di qualcuno.

Bernie Hogan, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute, ci esorta a considerare le amicizie sui siti di social networking come relazioni di accesso, non di intimità, affetto o attaccamento emotivo. Diventare amici su Facebook, significa ottenere i diritti di visualizzazione e pubblicazione delle “performance” identitarie di qualcuno.

Nei contesti vis à vis, spesso abbiamo un maggiore controllo sulla nostra identità perché possiamo personalizzare il modo in cui ci presentiamo in una determinata situazione sociale. Se abbiamo amici con noi, anche loro regolano le informazioni che condividono in base a chi è presente. E, proprio come noi, sono consapevoli delle ripercussioni sociali di rivelare qualcosa che è inappropriato per un pubblico specifico. Ma online, un’amica potrebbe pubblicare una foto di te in una situazione compromettente che diventa immediatamente visibile a tua madre e al tuo capo. È raro che un amico mostri intenzionalmente una foto del genere a un pubblico inadatto nella vita reale. L’equivalente digitale di “un lapsus” – come pubblicare una foto di una coppia e rovinare il loro alibi socialmente accettabile – accade facilmente e spesso. Ed è meno probabile che passi inosservato in un formato in cui tutto viene scritto e trasmesso a una rete convergente.

Quando si accetta una richiesta di amicizia online, occorre ricordare che si sta fondendo il mondo di questa nuova persona con il nostro. Si sta concedendo al nuovo “amico” i diritti di pubblicazione della nostra identità sociale.

Ps…

Non è un caso se molti utenti, per mitigare gli effetti del collasso del contesto, ricorrano a strategie le più diverse, come autocensurarsi, creare identità multiple o utilizzare le impostazioni per la privacy.

E voi? Avete mai fatto caso a questo fenomeno? Vi trovate a vostro agio o avete adottato strategie utili che volete condividere?

Ehm, Um, Uh… Perchè è DIFFICILE farne a meno quando PARLIAMO?

Un paio di sere fa stavo ascoltando un’intervista in TV a una nota attrice italiana quando sono stata costretta a cambiare canale. Ogni sua risposta era costellata da fastidiosi ehm, eh, um, uh.

Nonostante l’argomento trattato fosse di mio interesse, l’esitazione continua rendeva difficoltoso l’ascolto. E questo mi ha portato a domandarmi se anch’io fossi solita ricorrervi. Mi sono così resa conto che tutti usiamo dei riempitivi, soprattutto quando parliamo in pubblico o non abbiamo avuto modo di prepararci prima un discorso.

Più l’opportunità di parlare è improvvisata, più riempitivi utilizziamo. Dovendo pensare a cosa dire mentre parliamo, gli ehm, eh, um, uh, ci vengono in soccorso per guadagnare tempo e trovare le parole giuste. Condizione che colpisce tutti, anche gli oratori esperti.

In uno studio, il linguista Mark Liberman ha analizzato un enorme database di lingue parlate e ha scoperto che una parola su 60 pronunciata è um o uh. A seconda della velocità con cui si parla, si inseriscono da due a tre di questi riempitivi al minuto.

Perché lo facciamo?

Una risposta ovvia è che li usiamo quando non siamo momentaneamente in grado di dire quello che vogliamo dire. Potremmo avere difficoltà a ricordare una parola o un nome, o a formulare i nostri pensieri, oppure potremmo avere motivo di esitare. Riguardo a questo ultimo punto, per la maggior parte delle persone, è più semplice ricorrere a riempitivi che restare in silenzio.

Il motivo per cui diciamo ehm, eh, um, uh è che, nell’alta velocità della conversazione, tacere non funziona. Nel parlato quotidiano non esiste un copione. Non sappiamo chi parlerà, quando e per quanto tempo, cosa dirà e se quando qualcun altro interverrà, soprattutto perché in una conversazione civile si tende a rispettare la regola di “parlare uno alla volta”. Le regole cooperative della conversazione ci impongono quindi di utilizzare dei segnali che regolino il flusso dell’interazione sociale.

Supponiamo di avere difficoltà a esprimere un pensiero: se rimaniamo in silenzio, l’interlocutore potrebbe credere che abbiamo esaurito ciò che avevamo da dire e prendere lui in mano il filo della conversazione. Se ciò accade, potenzialmente abbiamo perso la nostra occasione per dire ciò che volevamo esprimere, anche perchè la conversazione potrebbe velocemente virare su altri temi.

Pertanto, se sei claudicante ma non hai ancora finito di palesare il tuo punto di vista, utilizzare un riempitivo come ehm, eh, um, uhpermette di guadagnare tempo e non perdere una chance.

Il riempitivo è, a tutti gli effetti, un segnale che spiega il tuo ritardo: “per favore aspetta un attimo, non ho ancora finito“. Se l’altra persona collabora, si asterrà dal prendere la parola.

Nonostante i riempitivi abbiano funzioni chiare nella conversazione, spesso ci viene consigliato di evitarli. Il problema è che, almeno nelle conversazioni informali, se li eliminassimo tutti, troveremmo persone che inizierebbero a parlare prima di darci il tempo di concludere. L’unico modo per liberarsi dei riempitivi è essere sempre pronti a dire ciò che vogliamo dire nella frazione di un secondo di tempo che abbiamo a disposizione prima che l’altro prenda, a sua volta, la parola.

In una conversazione fluida, è inevitabile sperimentare dei ritardi e, se non si ricorre a quei fastidiosi ehm, eh, um, uh il rischio è passare per persone noiose e banali.

In che modo parlare in pubblico è diverso

Nessuno parla sempre in modo perfetto. Tendiamo però a essere più fluidi in determinate condizioni, ad esempio quando trattiamo un argomento che conosciamo bene, quando diciamo cose che abbiamo già detto e quando non abbiamo fretta. Queste condizioni non possono essere garantite in una conversazione a flusso libero. Di solito non sappiamo in anticipo cosa diremo esattamente. Non possiamo esercitarci e nemmeno avere sempre il controllo sull’argomento della conversazione per ogni contesto in cui andremo a trovarci. Questo perché ogni conversazione è un progetto congiunto, costruito al volo, e in modo collaborativo, dalle due o più persone coinvolte nella conversazione.

Nel parlare in pubblico la situazione è diversa. Quando parliamo di fronte a una platea, possiamo decidere (e provare) in anticipo cosa diremo. Quindi, con una buona pianificazione possiamo garantire che le parole e le idee che articoliamo siano facilmente accessibili, il che significa che possiamo essere più fluenti ed evitare i riempitivi.

In secondo luogo, nel parlare in pubblico, una delle funzioni principali svolte dai riempitivi, vale a dire far sapere all’altra persona di non iniziare ancora il proprio turno, non è rilevante. La parola è tutta nostra, almeno fino al Q.A. Quindi, se stiamo in silenzio qualche secondo non rischiamo, come nel dialogo informale, di vederci togliere la parola.

In terzo luogo, quando parliamo in pubblico non siamo impegnati nel frenetico andirivieni della conversazione, e quindi siamo liberi di determinare il ritmo temporale del nostro discorso.

La migliore strategia? Rallentare

La migliore strategia per eliminare le parole di riempimento quando si parla in pubblico è rallentare. Rallentando consapevolmente, ci concediamo più tempo per formulare ciò che stiamo dicendo (e il nostro pubblico ha più tempo per elaborarlo), e quindi riduciamo la probabilità delle pressioni cognitive che portano a ritardi, e di conseguenza agli ehm, eh, um, uh.

Rallentare ha anche altri vantaggi: quando parliamo più lentamente, ci sentiamo più autorevoli e rilassati. Se vogliamo ridurre al minimo l’uso dei riempitivi e trarre vantaggio dall’impressione di controllo e autorità che ciò dà, dovremmo comprendere le buone ragioni per cui questi riempitivi conversazionali esistono.

E voi, quanto siete consapevoli dei riempitivi a cui ricorrete?

Ci sono VOLTE in cui TACERE è peggio che DIRE ciò che si PENSA. Attenti all’IGNORANZA PLURALISTICA…

Ti è mai capitato di trovarti in mezzo a un gruppo di persone e non riuscire a sopportarne una in particolare? Potrebbe trattarsi di un amico di un amico, un collega o della nuova fidanzata di tuo fratello. Poco importa. Ciò che è rilevante è che mentre tu ritieni questa persona odiosa o indelicata, sembri anche l’unica a pensarla così. Così per non rovinare la serata, fai buon viso a cattivo gioco e cerchi di celare il tuo disappunto.

Ma, anche se nessuno palesa di non apprezzare quella persona, è comunque corretto ritenere che piaccia a tutti?

Assolutamente no, il gruppo potrebbe solo sperimentare ignoranza pluralistica.

Che cos’è l’ignoranza pluralistica?

Il termine è stato coniato, a inizio del Novecento, da Allport per descrivere una situazione in cui tutti i membri di un gruppo rifiutano privatamente le sue norme, credendo però, allo stesso tempo, che tutti gli altri membri le accettino.

Detto in altri termini: è quel fenomeno in cui la maggioranza delle persone non è d’accordo con l’opinione della minoranza, ma crede che l’opinione della minoranza sia l’opinione della maggioranza.

Questo accade perché nessuno parla contro l’opinione prevalente, presumendo che tutti gli altri siano d’accordo poiché nessuno sta parlando.

E’ dunque quella sensazione che proviamo quando crediamo che amici e colleghi la pensino diversamente riguardo a un argomento, anche se questi sono, in realtà, sulla nostra lunghezza d’onda. Un esempio si ha in un’aula universitaria quando gli studenti non interrompono un professore che dice una cosa sbagliata, poiché, guidati dall’inazione generale, credono di aver capito male.

In concreto

È dimostrato come i membri esterni di alcuni C.d.A. possano sottostimare la preoccupazione dei membri interni dello stesso consiglio riguardo a una performance non soddisfacente della propria azienda. E’ sufficiente che i membri interni non manifestino le loro preoccupazioni affinché il punto di vista della minoranza, quello dei membri esterni, venga percepito come quello di una larga maggioranza. Il supporto che ha la visione della minoranza viene così sovrastimato a causa dell’inazione dei membri interni.

Non è raro che i dipendenti di un’azienda, pur di dare sostegno al proprio gruppo supportino alcuni valori che, in privato, rigettano.

Una delle maggiori conseguenze dell’ignoranza pluralistica a livello aziendale è l’influenza negativa che questa può avere nei processi decisionali di gruppo. Dato che i dipendenti non condividono le loro reali opinioni in un contesto di decisione di gruppo, potrebbero essere inclini a intraprendere azioni che non sono supportate dai singoli membri del gruppo.

O più banalmente, potrebbe accadere al bar o in un contesto pubblico: un cliente abituale prende a fare battute sessiste ad alta voce verso alcune donne sedute al bancone. Per un po’ si tenderà ad osservare il comportamento dell’avventore, provando disagio ma anche un po’ di timore. Poi, una volta che ci è guardati intorno e resi conto che nessuno dice niente, si è tentati di pensare che forse non è un atteggiamento tanto errato visto che mette a disagio solo te.

Sfortunatamente, in casi come questo più a lungo il cattivo comportamento viene tollerato, più la persona è portata a pensare di essere appropriata e facilmente cercherà di spingere i limiti ancora più in là.

Perché si verifica l’ignoranza pluralistica?

Se ti sei trovato in una situazione come quelle sopra menzionate, o simili, conosci la sensazione. Hai paura di essere l’unica persona a sentirsi in difficoltà. Non vuoi causare problemi, innescare una lite o attirare l’attenzione. O, dai per scontato che qualcun altro interverrà. Due sono i fenomeni che spiegano perché ci sentiamo a disagio e come questo possa portare un intero gruppo a presumere la cosa sbagliata.

Effetto spettatore. Se a nessuno in un gruppo viene assegnato un compito, tutti possono presumere che qualcun altro se ne occuperà. Soprattutto se l’attività richiede di mettersi in evidenza o di separarsi dagli altri membri. L’effetto spettatore può avere conseguenze disastrose in caso di emergenza. In quanto, anziché intervenire, la prima cosa che fanno tutti è guardarsi intorno per vedere chi sta per agire e aiutare la persona in difficoltà. Perdendo tempo prezioso che potrebbe fare la differenza in caso di vita o di morte.

Ingroup Effetto. Agli albori dell’umanità, andare controcorrente era pericoloso. Nessuno voleva separarsi dalla propria “tribù”. Questa mentalità è ancora radicata in noi. Sentiamo il bisogno di conformarci agli altri, anche se quegli “altri” sono solo persone nella nostra stessa stanza mentre partecipiamo a un esperimento di psicologia sociale!

Per questo, ci vuole molto coraggio per andare controcorrente e dare voce a quella che si crede sia un’opinione minoritaria. Ma ci vuole anche fiducia. Se non sei sicuro che le persone del tuo gruppo reagiranno con rispetto alla tua opinione, specie se negativa, potresti pensare che sia più sicuro per te tenere la bocca chiusa.

L’ignoranza pluralistica può verificarsi in quegli ambienti tutt’altro che sicuri dove proteggersi è più proficuo che dare la propria opinione.

Come superare l’ignoranza pluralistica

Il primo passo dovrebbe farlo colui che ha convocato la riunione per decidere su un determinato argomento. Questo individuo dovrebbe essere il primo a mostrarsi aperto a un potenziale feedback negativo, e dovrebbe in qualche modo cercarlo, esternando le proprie preoccupazioni qualora la decisione presa dovesse andare contro i desideri di un membro del gruppo stesso.

Le realtà aziendali però richiedono spesso decisioni complesse, non riducibili a semplici aperture verso potenziali feedback negativi. Nonostante ciò, essere consapevoli dell’esistenza di questo bias, può aiutare le organizzazioni ad approfondire l’argomento e ad affrontare i loro processi decisionali di modo da non andare contro gli interessi dei decisori stessi.

O almeno, questo è quello che penserebbe una larga maggioranza.

Fonti

Miller D.T., McFarland C. (1987). Pluralistic ignorance: When similarity is interpreted as dissimilarity. Journal of Personality and Social Psychology, 53(2), 298-305.

Halbesleben J.R.B., Wheeler A.R., Buckley M.R., Understanding pluralistic ignorance in organizations: application and theory. J Manag Psychol. 2007;22(1):65–83.

Latané B., Darley J., The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, Appleton-Century-Crofts, 1970.

Effetto KAYAK: per fare dell’ATTESA un ALLEATO

C’era una volta un fabbro che si lamentava di quanto gli affari andassero male. All’inizio della sua carriera, scassinare serrature lo impegnava a lungo e talvolta era costretto a sfondarle per aprirle, ma i clienti apprezzavano i suoi sforzi e lo ricompensavano con mance generose. Con il tempo, diventato esperto, per scassinare le serrature gli ci volevano pochi istanti, e i clienti, vedendo quanto fosse facile, avevano smesso di lasciare la mancia, risentendosi persino di pagare il suo compenso per quello che sembrava un lavoro da poco.

L’effetto kayak si può raccontare anche in quest’altro modo.

Immagina di trovarti a cena, con amici, in un nuovo bellissimo ristorante. Sfogliando il menù, la tua attenzione cade sul risotto allo zafferano e champagne. Mentre le persone che sono con te ordinano tutti piatti diversi. Il cameriere trascrive gli ordini, ringrazia e si allontana. Per comparire pochi minuti più tardi, con in mano il tuo risotto.

La prima domanda che ti poni, se non sei super affamato, è come sia possibile che l’ordine sia pronto in così poco tempo… e non solo il tuo…

Lo assaggi e ti sembra anche abbastanza buono, ma continui a pensare che mancano due ingredienti fondamentali: lo sforzo e il tempo per prepararlo. Così il dubbio che il risotto fosse già pronto prende il sopravvento. Dubbio che andrà poi ad influenzare il tuo giudizio sul piatto.

EFFETTO KAYAK O LABOR ILLUSION

L’effetto kayak o labor illusion è lo stesso meccanismo che si cela osservando un quadro d’arte contemporanea esposto in un museo e che ci porta a pensare: ‘Avrei potuto farlo io!’. Poche cose sono semplici come sembrano.

Quante bozze stracciate ci sono dietro un romanzo? Quanti anni di allenamento dietro un tiro decisivo? Quante startup fallite dietro un’azienda di successo?

Quando vediamo lo sforzo impiegato per realizzare un prodotto o erogare un servizio, la nostra percezione del suo valore aumenta. Lo apprezziamo di più e, di conseguenza, siamo disposti a pagarlo di più.

È per questo che siamo più inclini a spendere per acquistare un vaso in vetro soffiato dopo avere osservato un artigiano modellarlo, con maestria, nel suo laboratorio a Murano. Sicuramente di più di quanto lo pagheremmo se lo trovassimo esposto in vetrina senza conoscere l’impegno che sta dietro.

Succede anche il contrario: quando un prodotto ci sembra troppo facile da ottenere, il nostro cervello tende inconsciamente a ridimensionarne il valore. Come con il risotto di cui sopra e il falegname.

Ecco perché occorre conoscere l’effetto kayak, noto anche come labor illusion. La tendenza a dare maggiore valore a servizi o beni per i quali possiamo immaginare od osservare lo sforzo impiegato per produrli[1].

Siamo cioè disposti a pagare di più per un servizio o un oggetto quando osserviamo lo sforzo profuso nella sua produzione e quindi, se rendiamo visibile l’illusione dello sforzo, possiamo creare un plusvalore attorno al nostro servizio/prodotto.

DOVE NASCE

Questo effetto prende il nome da Kayak, un famoso sito comparatore di prezzi che, per farsi perdonare i tempi di attesa fra una pagina e l’altra, ricorre al trucco di mostrare agli utenti i progressi della sua ricerca, dando l’impressione di poter assistere dal vivo al software che analizza i prezzi di ogni hotel o volo[2].

Alcune piattaforme usano questo effetto, nelle schermate di caricamento, mostrando i nomi di tutte le compagnie aeree analizzate dal loro software, creando l’illusione di un complesso work in progress. Il messaggio implicito inviato all’utente è: “Ecco quanto sforzo stiamo impiegando, in questo preciso momento, per soddisfare la tua richiesta”.

L’efficacia di questa strategia è stata confermata nel 2011 da un esperimentocondotto da due ricercatori di Harvard, Buell e Norton: gli utenti che osservano il meccanismo ‘in azione’ sono più soddisfatti del risultato finale e sono disposti a sopportare attese più lunghe.

Tornando all’esempio del ristorante, soprattutto se è la prima volta che ci entriamo, non avendo molti elementi per giudicarlo, tendiamo a pensare che il tempo e la cura con cui un piatto viene preparato sia un indicatore di qualità. Ecco perché molti ristoranti optano per cucine a vista, così da enfatizzare il lavoro degli chef e aumentare il valore percepito.

A mostrare la persuasione di questo effetto, è un altro esperimento, durante il quale a dei volontari fu chiesto di valutare la qualità di alcuni quadri dopo aver mostrato loro l’impegno che ci era voluto per crearli (2 ore vs 2 giorni). Il risultato fu che quando era occorso più tempo e impegno, il valore percepito era maggiore, anche in termini di prezzo che sarebbero stati disposti a pagare[3]. A prescindere dal risultato.

L’effetto kayak trova applicazione nel design di applicazioni e siti web. Dopo aver effettuato l’ordine in Deliveroo, l’app consente un tracciamento in tempo reale delle operazioni svolte dal ristorante e dal rider, rendendo l’attesa della consegna a domicilio meno lunga[4].

Così l’app di Uber che consente di tracciare posizione dell’autista e monitorare il tempo di attesa. La banca argentina BBVA mostra animazioni di conteggio delle banconote mentre i clienti aspettano che la macchina eroghi il denaro.

COME USARE IN MODO VANTAGGIOSO LA LABOR ILLUSION

Utenti, lettori o clienti valutano il nostro operato in base al prodotto finito: gli sforzi che abbiamo profuso per arrivare al risultato sono spesso invisibili ai loro occhi, e raramente incidono nella valutazione complessiva.

Per questo a volte essere più trasparenti come aziende o individui, svelando (anche parzialmente) meccanismi e processi, contribuisce ad aumentare il valore percepito in quello che facciamo.

È ciò che viene definita “trasparenza operazionale”.

A questo punto permettetemi una domanda: se poteste portare un po’ di effetto kayak nel vostro lavoro, si alzerebbe il valore percepito in quello che fate?

Fonti

[1] Efrat-Treister D., Cheshin A., Harari D., Rafaeli A., Agasi S., Moriah H., Admi H., 2009. How psychology might alleviate violence in queues: perceived future wait and perceived load moderate violence against service providers, Plos One 14.

[2] Marsden (2014). The kayak effect: why making customers wait drives satisfaction. www.digitalwellbeing.org

[3] https://online.ucpress.edu/collabra/article/9/1/87489/197632/The-Effort-Heuristic-Revisited-Mixed-Results-for

[4] https://www.bing.com/search?q=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&qs=n&form=QBRE&sp=-1&ghc=1&lq=0&pq=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&sc=6-47&sk=&cvid=46105991F7744532A0246A43A1BA42EE&ghsh=0&ghacc=0&ghpl=