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PERCHE’ TUTTI ABBIAMO BISOGNO di CREDERE in un qualche DIO…

Sei dodicenni già vecchi, sei bambini soldato. Avevano visto la morte, forse l’avevano anche data, erano vissuti a contatto con l’orrore. E di colpo si erano ritrovati invecchiati: la fronte solcata da rughe profonde, gli occhi che avevano smesso di ridere, le mascelle serrate che indurivano i tratti del volto. Uno di loro mi chiese di spiegargli perché lui stava bene soltanto in chiesa. “Non vedo che immagini spaventose. Ma appena entro in chiesa vedo cose belle”.

All’età di 14 anni, un altro bambino fu gettato in un inferno dove la realtà si era trasformata in follia: Auschwitz. Di ritorno dal regno dei morti non riusciva a parlare. Intorno a lui tutti domandavano “Quale Dio ha permesso tutto questo?”. Finchè il ragazzo capì che Dio soffriva per la presenza del male.

PSICOTERAPIA DI DIO

Inizia così “Psicoterapia di Dio”, un libro che dà risposte. Anche quelle scomode. Sulla vita e sulla morte. Sul dolore e sul peccato e spiega perché miliardi di persone, hanno bisogno di rivolgersi a Dio in cerca di aiuto.

Che sia il Dio dei cristiani, quello degli ebrei o dei musulmani, che sia una presenza benevola o un equilibrio cosmico di ascendenza orientale, resta il fatto che moltissime persone si rivolgono a Dio per provare pace.

Esiste una spiegazione?  Boris Cyrulnik, il più noto neuropsichiatra francese, profondo studioso dei traumi dei bambini-soldato, si pone questa domanda cruciale. Il tema è immenso e non scevro da valenze politiche in un momento storico come il nostro, nel quale masse di persone compiono crimini efferati proprio in nome di un cieco credo religioso.

GLI EFFETTI POSITIVI DELLE RELIGIONI

Ma resta il dato positivo: l’ambiente pacifico, calmo e fiocamente illuminato delle cattedrali gotiche, il cantillare delle liturgie ebraiche, la voce rassicurante del muezzin che chiama i fedeli in preghiera sono tutti esempi del lato consolatorio della religione, in cui così tanti esseri umani cercano riparo. Con gli strumenti delle neuroscienze e con i concetti chiave di attaccamento e di resilienza, Cyrulnik mostra come la religione sia effettivamente in grado di avere effetti psicoterapeutici, spesso visibili. L’approccio scientifico e psicologico porta a comprendere come il cervello del bambino instauri con Dio un rapporto affettivo paragonabile a quello che si instaura coi genitori. Il mondo della mente in via di sviluppo si struttura e nel cervello si scolpisce un sé neurologicamente e psicologicamente legato all’ambiente di crescita, che spesso aiuta, e molto, a combattere le inevitabili avversità della vita. Dio e psicoterapia sembrerebbero dunque alleati, almeno fintanto che Dio viene percepito come un padre buono e accogliente. I problemi iniziano quando l’ambiente della crescita presenta ai bambini un Dio vendicativo e intransigente. Proprio come avviene coi padri violenti.

Che tu sia credente o non lo sia affatto, poco importa. Non è un libro che indottrina, è un libro che sviluppa la resilienza.

COME il BLACK FRIDAY SEDUCE il nostro CERVELLO

Il prezzo seduce e si fa ancora più manipolatorio nella settimana del Black Friday. Fenomeno dilagante anche in Italia e che non si accontenta più di rimanere contenuto in un solo giorno, il venerdì appunto.

Settimana in cui ci ritroviamo a comprare un po’ di tutto, da ciò che ci sembra conveniente, a ciò che ci è utile fino a ciò che, a prezzo pieno, non compreremmo mai.

Ed ecco che mettiamo in borsa quei jeans troppo stretti per la nostra taglia, ma irrinunciabili a un prezzo così conveniente e soprattutto non vogliamo correre il rischio che li compri qualcun altro.

Il problema è proprio questo: percepiamo i capi in saldo come il treno che passa una volta sola, e pentirci per aver perso l’occasione del momento, fa troppo male al nostro cervello. Ed ecco che andare oltre è quasi sacrilego.

E poi quei jeans possono sempre essere la “spinta gentile” per motivarci a perdere peso. Infatti tendiamo a usare gli sconti per trovare uno scopo, un motivo per fare qualcosa che procrastiniamo da tempo, pur sapendo che quell’intento svanirà appena usciti dal negozio.

Senza contare l’effetto gregge che il “Venerdì Nero” si fa ancora più prepotente: il cervello umano tende ad imitare e imitare è il miglior modo per funzionare in un gruppo. Dunque se tutti comprano per il Black Friday, comprerò anch’io, così mi sentirò parte della società.

Il consiglio? Prendete tempo per compiere verifiche e valutare e confrontare le opzioni, solo così capirete se quella spesa, seppur scontata, vale davvero la pena o se non finireste addirittura per pagare di più (non indossando mai quei jeans).

Insomma gli acquisti fatti in occasione del “Venerdì Nero” non sono frutto di un ragionamento razionale. Compriamo non per risparmiare ma per rimpianto, piacere ed imitazione. Questo è ciò che più di altri fattori decreta il grande successo del Black Friday in ogni parte del mondo.

La (DIS)UTILITA’ dell’EFFETTO GREGGE a cui NON SAPPIAMO SOTTRARCI

Provate a immaginarvi soli, all’interno di un aeroporto internazionale di una qualsivoglia metropoli dove, appena varcata l’uscita, ad attendervi c’è… nessuno.

Siete stanchi e disorientati dalle indicazioni scritte in una lingua che se anche conosceste, non è la vostra; dalla folla e dalle luci: quale criterio adottate per decidere la direzione verso la quale dirigervi?

Probabilmente, vi lascerete guidare dall’istinto e seguirete la strada intrapresa dal gruppo più nutrito di persone. Sarete, cioè, vittime inconsapevoli dell’“effetto gregge”, l’istinto innato che ci porta a seguire la massa. Questo effetto prende tecnicamente il nome di principio di riprova sociale: fare qualcosa di riconosciuto come socialmente accettabile soltanto perché la massa, la collettività lo ritiene tale.

La sua validità è ulteriormente confermata da un recente studio condotto dall’Istituto per le Applicazioni del Calcolo alla Sapienza di Roma: a due gruppi di 40 persone è stato chiesto di uscire da un’aula per recarsi in una destinazione sconosciuta a tutti, ad eccezione di una persona all’interno di un gruppo e di cinque persone all’interno dell’altro: dopo alcuni momenti di titubanza iniziale, durante i quali alcuni individui si sono diretti verso i Dipartimenti loro più familiari, l’intera compagine si è accodata agli “infiltrati”, ovvero alle persone che avevano l’aria di sapere esattamente dove si dovesse andare, raggiungendo rapidamente la destinazione finale.

Attraverso l’esperimento è stato possibile dimostrare che nelle situazioni di dubbio e incertezza gli esseri umani tendono a comportarsi come un gregge (da qui la denominazione effetto gregge dell’istinto gregario), ovvero come un grande gruppo di “agenti” che seguono regole elementari e le cui condotte individuali sono influenzate da quelle degli agenti più vicini. In altre parole, quando non si è certi di cosa sia meglio fare, si è spinti ad agire nella stessa maniera in cui ha agito chi è più prossimo.

L’effetto gregge è tanto più probabile quanto più è forte la convinzione individuale di ciascun singolo che il proprio comportamento, seppur omologato, sia il frutto di una libera scelta individuale. “L’unione fa la forza”, insomma, ma a patto che si sia convinti che quella di aggregarsi sia una scelta autodeterminata in assoluta libertà.

ESEMPI QUOTIDIANI

Il meccanismo esiste anche nel mondo animale, è sufficiente guardare come agiscono quando si trovano in una situazione incerta come attraversare un fiume: si mettono in gruppo e lo attraversano insieme e in questo modo hanno maggiore probabilità di sopravvivere. La stessa cosa vale per i pesci quando si raggruppano in modo da formare una grande palla da sembrare un unico pesce gigante in grado di spaventare gli aggressori. Insomma ogni qualvolta si fiuta il pericolo, muoversi in massa garantisce maggior probabilità di sopravvivenza. Questo meccanismo risiede anche nella psiche dell’uomo: se vediamo un gruppo di persone guardare verso l’alto, dentro di noi sentiamo una forza che ci spinge a fare la stessa cosa.

Altri esempi? Cadiamo nella stessa trappola ogni volta che prenotiamo un ristorante o un hotel o compriamo qualcosa on line. La tendenza è acquistare da venditori che hanno un certo numero di vendite alle spalle e diversi feedback positivi: insomma, tutto quello che vogliamo è essere rassicurati. Ecco il motivo per cui i siti aziendali riportano nelle landing page le testimonianze dei clienti. Questa tecnica gioca su due fattori: spinge all’acquisto e parallelamente punta a far sentire il potenziale acquirente intento alla lettura, l’unica persona a non aver ancora provato il nuovo prodotto o servizio, facendo scattare in lui una sorta di senso di inadeguatezza. In sostanza si sfrutta il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una community e il gap si può colmare con un semplice (e impulsivo) click.

VANTAGGI DELL’EFFETTO GREGGE

Agire come pecore presenta dei vantaggi? Assolutamente sì. Per quanto riguarda l’aspetto sociale l’istinto gregario, quando correttamente “sfruttato”, consente una migliore gestione delle masse in situazioni di emergenza e di forte afflusso (è sufficiente inserire all’interno dei grandi gruppi dei leader nascosti che sappiano esattamente come comportarsi per far sì che tutti li seguano); per quanto concerne, invece, l’aspetto psicologico individuale, a fare come fan tutti non si sbaglia mai poiché, nel caso in cui le cose dovessero andar bene, si penserà di essere stati intelligenti a uniformarsi (autonomamente, s’intende) e nel caso in cui le cose andassero male, ci si consolerà pensando che non si è stati i soli ad aver sbagliato.

SFATIAMO un MITO: NON è VERO che il CERVELLO non CAPISCE le NEGAZIONI

Voglio sfatare un mito che si sente raccontare spesso nei corsi di crescita personale (o si legge in “certi” libri) da chi di come funziona esattamente il cervello ne sa ben poco. Per lo meno rispetto a chi il cervello lo ha studiato per anni in aule universitarie e magari lo ha anche maneggiato nelle sale operatorie o nei centri di ricerca.

La negazione è una funzione tipica del linguaggio umano, ed è considerata esigenza universale pragmatica per le esigenze comunicative a cui risponde. Tuttavia, spesso si sente dire che abbiamo prima bisogno di rappresentare il significato di una parola, per poi negarlo.

A sostenere il fatto che non è vero che il cervello non capisce le negazioni, diversi studi, fra cui il più recente condotto dai ricercatori del Center for Neuroscience and Cognitive System (CNCS)  a Rovereto e dell’Institut des Sciences Cognitives “Marc Jeannerod” del CNRS a Lione.

NEGAZIONI E CERVELLO

Immaginate di leggere la frase “Non ci sono aquile nel cielo”. Successivamente vi vengono mostrate due immagini: un’aquila nel nido e un’aquila nel cielo. Se vi chiedessero quale immagine associate alla frase appena letta, indichereste immediatamente quella dell’aquila nel cielo e solo dopo vi correggereste.

Partendo da questa evidenza, neuroscienziati, esperti di linguaggio e psicologi hanno ipotizzato che per elaborare il significato di una negazione, sia prima necessario comprendere l’affermazione.

Tuttavia nell’esempio dell’aquila c’è un condizionamento di natura pratica: il cervello sceglie la strada cognitivamente più economica. La frase “Non ci sono aquile nel cielo” lascia aperte numerose possibilità. Le aquile potrebbero infatti essere nel loro nido, su un albero o in volo a pelo d’acqua.

Il nostro cervello preferisce dunque memorizzare l’unico caso impossibile, un’aquila in cielo, piuttosto che gli innumerevoli casi possibili. Ma cosa succede se non sussistono condizionamenti di natura pratica? È ancora vero che la comprensione delle negazioni avviene in due fasi successive?

Per rispondere a questa domanda i tre ricercatori hanno mostrato ai soggetti coinvolti nello studio frasi relative ad azioni che implicano il movimento della mano, in versione positiva e negativa, ad esempio “ora scrivo” e “non scrivo”.

L’ESPERIMENTO DI ROVERETO

Lo studio ha coinvolto 30 persone, tutte italiane e destrorse. A ciascun soggetto sono state mostrate sullo schermo di un computer una serie di verbi di azione e di stato precedute da un avverbio di contesto “ora” o “non”. Per monitorare l’attività cerebrale durante l’esperimento, la parte della corteccia motoria associata al movimento dell’avambraccio e della mano destra è stata sollecitata tramite stimolazione magnetica transcranica.

RISULTATI

I ricercatori hanno osservato che gli impulsi elettrici che raggiungono la mano quando i soggetti leggono azioni positive sono più intensi rispetto a quelli evocati da azioni negative, che risultano addirittura più deboli di quelli misurati in corrispondenza dei verbi di stato.

Questa differenza di intensità esiste già durante i primi istanti in cui la frase appare sullo schermo. L’elaborazione delle negazioni avviene dunque in maniera diversa rispetto a quella delle affermazioni sin dalle primissime fasi, senza bisogno di passare dall’elaborazione del significato positivo.

CONCLUSIONI

L’esperimento ha chiarito il funzionamento di un meccanismo logico fondamentale, la negazione, mostrando come il cervello sia più efficiente di quello che si pensi.

L’elaborazione delle negazioni probabilmente contribuisce a definire la differenza tra cognizione umana e cognizione non-umana.

Se il nostro sistema cognitivo non riconoscesse la negazione, questa stessa affermazione come un infinità di molte altre, sarebbero incomprensibili agli umani. E di conseguenza neppure le affermazioni positive.

E’ VERO che SONO i più CAPACI ad AVERE SUCCESSO nella VITA?

E’ vero che sono i più capaci ad avere successo nella vita?

Raramente la lettura di un saggio si fa leggera come un romanzo, eppure il libro di Nassim Taleb riesce a fare esattamente questo effetto.

Giocati dal caso parla della fortuna, o meglio, del ruolo che il caso gioca nella nostra vita. ma parla anche di quella fortuna che, non essendo percepita come tale, viene scambiata per abilità: una confusione presente nei campi più disparati: dalla scienza alla politica, dalla letteratura alla finanza.

Taleb, sullo sfondo della sua esperienza di trader a Wall Street, ci mostra le conseguenze che possono nascere dal confondere la fortuna per abilità: sono numerosi gli idioti fortunati e gli scemi strapagati che si sono semplicemente trovati nel posto giusto al momento giusto. Individui del genere purtroppo attraggono schiere di seguaci devoti che credono ciecamente in quello che loro – talvolta in buona fede – spacciano per metodo.

La lettura di “Giocati dal caso” esplora quelle deformazioni cognitive del nostro cervello che ci portano alla ricerca continua di nessi di causalità anche là dove si tratta di pura casualità, tendenze inveterate (frutto dell’evoluzione avvenuta per la maggior parte in un ambiente molto più lineare di quello in cui viviamo oggi) di cui non riusciamo a liberarci, e che conducono ad equivoci di cui il libro ci mostra le conseguenze, talvolta drammatiche, mentre fa cadere come birilli i nostri pregiudizi sull’idea di successo e di sconfitta.

Scriveva Jean Cocteau: “Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri”, al giorno d’oggi, senza fortuna, ci mancherebbero gli alibi.
Buona fortunata lettura

La PIGRIZIA è la CHIAVE della SOPRAVVIVENZA

Siamo pigri per natura: il nostro cervello è programmato per evitare sforzi.

Risparmiare energia è da sempre essenziale per la sopravvivenza e ha permesso ai nostri antenati di essere più efficienti nella ricerca di cibo e riparo, di competere ed evitare i predatori. In altre parole per il nostro cervello svolgere attività fisica, o il pensiero di farlo, richiede energie in più che i neuroni tentano a tutti i costi di risparmiare, trattenendoci svogliatamente sul divano.

A rivelarlo è uno studio internazionale condotto tra Belgio, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Canada pubblicato su «Neuropsychologia» (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30056055)

PARADOSSO DELL’ESERCIZIO

Il lavoro contribuisce a sciogliere un annoso enigma, il «paradosso dell’esercizio»: nonostante la società ci incoraggi a fare esercizio fisico e sebbene sia risaputo che lo sport fa bene a corpo e psiche, le statistiche mostrano che stiamo diventando via via più pigri.

Lo studio ha coinvolto 29 giovani, alcuni attivi e altri sedentari. Tutti dovevano giocare con un avatar al pc. Sul video comparivano oggetti in movimento paradigmatici della pigrizia (poltrone, divani, amache, letti) oppure dello sport (racchette da tennis, scarpe da corsa, scale, palloni…). L’avatar doveva evitare il più rapidamente possibile gli oggetti che richiamavano la pigrizia e dirigersi verso i simboli del movimento. I partecipanti indossavano il caschetto per l’elettroencefalogramma, così da registrarne l’attività cerebrale: ogni volta che l’avatar doveva evitare i simboli della pigrizia il cervello del giocatore – indipendentemente dalle proprie attitudini – si «accendeva» più intensamente, consumando maggiori quantità di risorse.

Evitare la sedentarietà, quindi, ha un prezzo in termini di energie. «In particolare – spiegano i ricercatori – sono due le aree della corteccia cerebrale ad attivarsi più intensamente, se tentiamo di sfuggire alla sedentarietà. Una è la corteccia frontale mediale, che ha un ruolo nella risoluzione dei conflitti interni e serve a risolvere il dissidio tra un’intenzione volontaria (come voler fare sport) e una modalità inconsciamente radicata (la sedentarietà). L’altra è la corteccia fronto-centrale, un’area a funzione inibitoria che spegne i comportamenti automatici inconsci».

I risultati dello studio mostrano che il cervello è, nel profondo, attratto da comportamenti statici. Per sfuggire al loro richiamo ci si deve impegnare. Ecco perché le policy contro la sedentarietà non hanno funzionato. Per fortuna, come si sa, le “cattive” abitudini si possono cambiare… benchè non senza fatica!

L’Italia è viva o morta?

Dopo le mirabolanti dichiarazioni politiche di queste ultime settimane, fra chi ha annunciato di aver estirpato la povertà per la prima volta nella storia, azzerato il numero delle vittime della strada e dopo le fibrillanti reazioni dei mercati e dello spread, ci sarebbe da chiedersi, come direbbe Schrodinger con il suo paradosso, l’Italia il gatto dalle mille vite è viva o morta?

Il povero felino chiuso nella scatola politica di metallo insieme con la sostanza radioattiva dei conflitti di interesse e il gas velenoso dell’ego, della speculazione politica, vivrà o morirà?

Per uscire dal drammatico dilemma è inevitabile ricorrere al famoso esperimento proposto nel 1935 dal fisico austriaco, nonchè premio Nobel, Erwin Schrödinger.

IL PARADOSSO DI SCHRODINGER

La condizione sperimentale (e immaginaria) è semplice da descrivere. Supponiamo di avere un gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo (col quale il gatto non può interferire) può fare o non fare da grilletto all’emissione di un gas velenoso. Per entrambe le situazioni la probabilità è esattamente del 50%.

Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere, prima di aprire la scatola, se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa il gatto si trova in uno stato indeterminato: sia vivo sia morto.

Solo aprendo la scatola questa ambivalenza si risolverà, in un modo o nell’altro. In parole semplici: è l’osservazione che determina il risultato della osservazione stessa. E’ l’osservatore che decide.

L’OSSERVATORE DECIDE ANCHE NEI SOCIAL

Un po’ come avviene nei social, dove si espone tutto e il contrario di tutto, dove molti commentano senza leggere e dove arriva sempre qualcuno che non ha letto bene le premesse iniziali, ma si sente autorizzato a commentare con furore sulla presunta crudeltà verso il felino, convinto che il povero gatto sia stato messo veramente in una scatola.

Un po’ come avviene nelle stanze politiche del potere. Si fa e si disfa, nella piena contraddizione. L’unica cosa certa è rimanere lì dove si è, più che si può. Basta non aprire la scatola. In fondo, ben pochi vogliono sapere la verità (scientifica).

Il CERVELLO dei RAZZISTI…

Una giovane mamma siede sull’autobus con il bambino in braccio, accanto a un anziano. Arriva la sua fermata. Chiede all’uomo di alzarsi, perché non riesce a passare. Si rivolge al figlio, in serbo, spiegandogli che devono scendere. L’anziano capisce che sono stranieri, non si vuole spostare, urla: “Voi non sapete fare altro che bambini”.

“Non si è mai vista una negra che prende 10 a Diritto”. La ragazzina è tra i primi della classe e questa dote è evidentemente stata giudicata da qualcuno incompatibile con il colore della sua pelle. Di qui gli insulti, gravissimi e prolungati nel tempo e lettere anonime in cui si legge “non esiste che una negra possa diventare avvocato”.

Niente di insolito. Solo storie di ordinario razzismo quotidiano.

COSA ACCADE NEL CERVELLO DEI RAZZISTI

Cosa accade nel cervello di chi ha bisogno di togliere ogni residuo di umanità alle genti che vengono da lontano?

A scoprirlo il direttore del Peace and Conflict Neuroscience Lab dell’Università della Pennsylvania, Emile Bruneau, osservando con la Risonanza Magnetica Funzionale, quel che accade nel cervello degli intervistati a cui è stato chiesto come si sentissero di fronte a persone considerate diverse.

Agli intervistati, in modo piuttosto diretto, sono state poste due domande: una relativa al livello di disumanizzazione chiedendo di indicare  dove sistemerebbero le persone in questione in una sorta di scala evolutiva della civiltà; l’altra relativa al senso di gradimento/disgusto che quegli esseri umani generavano loro.

I risultati, pubblicati sul Journal of Experimental Psychology, mostrano che la disumanizzazione e la mancanza di gradimento coinvolgono regioni diverse del cervello. «Quando mi riferisco a un altro essere umano come a un animale o a un essere inferiore in generale si attivano aree cerebrali diverse da quando semplicemente affermo che qualcuno non mi piace – ha spiegato lo scienziato -.

La disumanizzazione, ossia lo svuotamento della vita umana da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità, è un processo che porta: aggressività, torture, il rifiuto ad aiutare le vittime di violenza e soprusi,  il sostegno a atti razzisti e incivili e a conflitti armati.

Capire che disgusto e disumanizzazione sono due sentimenti molto diversi, che prendono strade ben distinte nel nostro cervello, può aiutare a trovare delle soluzioni. Molti interventi per ridurre i conflitti tra gruppi, per esempio fra palestinesi e israeliani, musulmani e occidentali, bianchi e neri, si focalizzano sul tentativo di portare gli uni e gli altri a “piacersi” di più. È però molto difficile riuscirci, potrebbe essere, grazie a queste scoperte, più semplice portare le persone a riconoscersi come esseri umani, cosa per’altro che già è.

I BAMBINI SONO SONO RAZZISTI

Una breve nota di fondo: i bambini non percepiscono un altro essere umano come diverso solo a partire dalla sua appartenenza etnica, almeno fino all’età adolescenziale.

Gli adolescenti, infatti, così come gli adulti, registrano  un’attivazione dell’amigdala diversa in presenza di volti stranieri. Ciò significa che, almeno in una certa misura, si riconosce l’altro come diverso da sé. Ciò non significa essere razzisti, ma è un dato molto interessante rispetto alla comprensione del fenomeno.

Il nostro cervello, per fortuna, è programmato per non essere razzista con i bambini e questo dato, nonostante tutto, infonde un pochino di speranza.

ABBIAMO BISOGNO del FALLIMENTO… per FARE MEGLIO… (?)

Ci sono realtà che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte al caso, al disordine, allo stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, ce ne sono altre che sono solo robuste e reggono il colpo senza subire danni e poi ci sono le antifragili che migliorano in un contesto burrascoso e difficile.

Antifragile è questo il concetto elaborato, ormai qualche anno fa, da Nassim Taleb, immaginifico saggista, la cui filosofia ha perseguitato la mia attenzione fin dai primi libri  “Il cigno nero”, e “Giocati dal Caso”, al cui centro della riflessione: lo scarto esistente tra casualità, imprevedibilità, unicità di tanti fatti, e  la pretesa delle scienze sociali e dell’economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell’illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» possa aiutare a predire il futuro.

Taleb ha un talento innato per i paradossi e uno humor affilato e intelligente. Per vent’anni ha fatto con successo il trader, per poi occuparsi di previsione e prevenzione dei rischi, ma è anche docente, saggista e scrittore.

TUTTO PUO’ ESSERE FRAGILE

… anche l’amore ossessivo. Nel romanzo di Buzzati “Un amore”, ricorda Taleb, lo scrittore si innamora di una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo bel finale.

Anche chi sa trarre profitto dagli errori o perché li sfrutta (è il caso di una varietà di invenzioni a cui si è giunti per errore: penicillina, Viagra e nitroglicerina per fare qualche esempio), o perché li usa come occasioni di crescita e di apprendimento. Il segreto, secondo Taleb, è inventare un’impresa che non tema il fallimento, e che impari a fallire orgogliosamente, in fretta, tanto, su piccole cose, in ambiti in cui un solo grande successo possa sovra compensare tutti i piccoli fallimenti: il mantra che unisce la Silicon Valley e chiunque faccia ricerca.

IL MESSAGGIO

Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, l’intera società si espone al rischio di un collasso totale.

“Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò – scrive Taleb -. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.

LEGGERE per SAPERE… LEGGERE per AVERE

11 libri in tre settimane, poco meno di 5 mila pagine. Questo è il piacere che mi sono regalata nelle vacanze estive, decisamente controcorrente rispetto i dati Istat, secondo cui il 53% degli italiani non ha letto neppure un libro in 12 mesi e il 15% ne ha letti una dozzina.

Eppure, esempi alla mano, chi ha un lavoro appagante e una vita di successo è mediamente un avido lettore.

Steve Jobs aveva un’ossessione per i poeti inglesi, in particolare per William Blake.

Phil Knight, fondatore della Nike, venera a tal punto la sua libreria, che gli ospiti sono costretti a visitarla scalzi.

David Rubenstein, co-fondatore di The Carlyle Group, un private equity che gestisce oltre 150 miliardi di dollari, ha l’abitudine di leggere una dozzina di libri… a settimana!

Winston Churchill, primo ministro inglese durante la II guerra mondiale, vinse il premio Nobel per la letteratura.

Warren Buffett, il più grande investitore di tutti i tempi, legge 500 pagine ogni giorno. Inizia la giornata leggendo dozzine di quotidiani e dedica un’ampia parte della sua giornata al suo consumo vorace di libri.

Il miliardario Mark Cuban trascorre fino a 3 ore delle sue giornate a leggere libri

Bill Gates, si sa, legge 50 libri all’anno.

E quando è stato chiesto come avesse imparato a costruire razzi, Elon Musk ha risposto semplicemente: “Leggo libri”.

1.200 DELLE PERSONE PIU’ RICCHE AL MONDO LEGGONO TUTTE MOLTISSIMO. MA COSA LEGGONO?

Secondo Thomas Corley, autore di Rich habits: The daily success habits of wealthy individuals, le persone con un reddito annuo superiore ai 160.000 dollari e un patrimonio netto liquido superiore ai 3 milioni di dollari leggono testi che parlano di auto-miglioramento, istruzione e successo. Le persone con un reddito annuo non superiore ai 35.000 dollari e un patrimonio netto liquido di 5.000 dollari leggono principalmente per essere intrattenute.

Se non siete dei lettori voraci, non dove iniziare con Roth, Musil o Proust a colpi di 500 pagine al giorno. Sono sufficienti una ventina di pagine purchè siano una ventina tutti i giorni.

Se per caso pensaste di non riuscire a trovare il tempo, considerate che per leggere 200 libri in un anno ci vogliono 417 ore. A fare il calcolo lo scrittore Charles Chu, che per 2 anni ha provato a tenere la media di Buffet: “Sembrano tante, ma se consideriamo che ne usiamo 608 sui social media e 1642 davanti alla tv capiamo bene che quelle ore ce le abbiamo”.