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La (DIS)UTILITA’ dell’EFFETTO GREGGE a cui NON SAPPIAMO SOTTRARCI

Provate a immaginarvi soli, all’interno di un aeroporto internazionale di una qualsivoglia metropoli dove, appena varcata l’uscita, ad attendervi c’è… nessuno.

Siete stanchi e disorientati dalle indicazioni scritte in una lingua che se anche conosceste, non è la vostra; dalla folla e dalle luci: quale criterio adottate per decidere la direzione verso la quale dirigervi?

Probabilmente, vi lascerete guidare dall’istinto e seguirete la strada intrapresa dal gruppo più nutrito di persone. Sarete, cioè, vittime inconsapevoli dell’“effetto gregge”, l’istinto innato che ci porta a seguire la massa. Questo effetto prende tecnicamente il nome di principio di riprova sociale: fare qualcosa di riconosciuto come socialmente accettabile soltanto perché la massa, la collettività lo ritiene tale.

La sua validità è ulteriormente confermata da un recente studio condotto dall’Istituto per le Applicazioni del Calcolo alla Sapienza di Roma: a due gruppi di 40 persone è stato chiesto di uscire da un’aula per recarsi in una destinazione sconosciuta a tutti, ad eccezione di una persona all’interno di un gruppo e di cinque persone all’interno dell’altro: dopo alcuni momenti di titubanza iniziale, durante i quali alcuni individui si sono diretti verso i Dipartimenti loro più familiari, l’intera compagine si è accodata agli “infiltrati”, ovvero alle persone che avevano l’aria di sapere esattamente dove si dovesse andare, raggiungendo rapidamente la destinazione finale.

Attraverso l’esperimento è stato possibile dimostrare che nelle situazioni di dubbio e incertezza gli esseri umani tendono a comportarsi come un gregge (da qui la denominazione effetto gregge dell’istinto gregario), ovvero come un grande gruppo di “agenti” che seguono regole elementari e le cui condotte individuali sono influenzate da quelle degli agenti più vicini. In altre parole, quando non si è certi di cosa sia meglio fare, si è spinti ad agire nella stessa maniera in cui ha agito chi è più prossimo.

L’effetto gregge è tanto più probabile quanto più è forte la convinzione individuale di ciascun singolo che il proprio comportamento, seppur omologato, sia il frutto di una libera scelta individuale. “L’unione fa la forza”, insomma, ma a patto che si sia convinti che quella di aggregarsi sia una scelta autodeterminata in assoluta libertà.

ESEMPI QUOTIDIANI

Il meccanismo esiste anche nel mondo animale, è sufficiente guardare come agiscono quando si trovano in una situazione incerta come attraversare un fiume: si mettono in gruppo e lo attraversano insieme e in questo modo hanno maggiore probabilità di sopravvivere. La stessa cosa vale per i pesci quando si raggruppano in modo da formare una grande palla da sembrare un unico pesce gigante in grado di spaventare gli aggressori. Insomma ogni qualvolta si fiuta il pericolo, muoversi in massa garantisce maggior probabilità di sopravvivenza. Questo meccanismo risiede anche nella psiche dell’uomo: se vediamo un gruppo di persone guardare verso l’alto, dentro di noi sentiamo una forza che ci spinge a fare la stessa cosa.

Altri esempi? Cadiamo nella stessa trappola ogni volta che prenotiamo un ristorante o un hotel o compriamo qualcosa on line. La tendenza è acquistare da venditori che hanno un certo numero di vendite alle spalle e diversi feedback positivi: insomma, tutto quello che vogliamo è essere rassicurati. Ecco il motivo per cui i siti aziendali riportano nelle landing page le testimonianze dei clienti. Questa tecnica gioca su due fattori: spinge all’acquisto e parallelamente punta a far sentire il potenziale acquirente intento alla lettura, l’unica persona a non aver ancora provato il nuovo prodotto o servizio, facendo scattare in lui una sorta di senso di inadeguatezza. In sostanza si sfrutta il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una community e il gap si può colmare con un semplice (e impulsivo) click.

VANTAGGI DELL’EFFETTO GREGGE

Agire come pecore presenta dei vantaggi? Assolutamente sì. Per quanto riguarda l’aspetto sociale l’istinto gregario, quando correttamente “sfruttato”, consente una migliore gestione delle masse in situazioni di emergenza e di forte afflusso (è sufficiente inserire all’interno dei grandi gruppi dei leader nascosti che sappiano esattamente come comportarsi per far sì che tutti li seguano); per quanto concerne, invece, l’aspetto psicologico individuale, a fare come fan tutti non si sbaglia mai poiché, nel caso in cui le cose dovessero andar bene, si penserà di essere stati intelligenti a uniformarsi (autonomamente, s’intende) e nel caso in cui le cose andassero male, ci si consolerà pensando che non si è stati i soli ad aver sbagliato.

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA delle PERSONE NOIOSE

 

Siamo circondati, assediati da persone pesanti. Così autocelebrative e autoreferenziali da diventare noiose. L’estremo opposto della leggerezza.

C’è un testo che Italo Calvino scrisse in occasione di alcune lezioni che avrebbe dovuto tenere ad Harvard relativamente a sei proposte per il nuovo Millennio. Era il 1985 e Calvino (che non riuscì a tenere le lezioni a causa della sua morte improvvisa), con il tocco visionario del poeta e la saggezza dello scrittore riuscì comunque a scolpire l’essenzialità della leggerezza: «il planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore».

L’ironica leggerezza è quell’atteggiamento che ti permette di atterrare nelle difficoltà della vita, senza rimanerne travolto. Non con l’occhio della supponenza o dell’alterigia dunque, ma con un comportamento naturale che ci fa vedere le cose in profondità e allo stesso tempo le distanzia dall’affanno del presente.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE

Sulla leggerezza si interroga, e finirà per far interrogare anche noi lettori, Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere: esistono leggerezza e pesantezza?, possono affondare nella carne fino a diventare delle qualità umane?

Kundera ci porta a scavare nell’attrazione e nel suo gioco, per svelare l’arcano. Nel romanzo ci sono due coppie polari, ma siamo lontani da quello scambio chimico che Goethe evocò ne Le affinità elettive, si tratta piuttosto di infinite triangolazioni e combinazioni: ogni personaggio rappresenta un modello che ha i suoi epigoni. Tomáš, Tereza, Sabina e Franz, sono i quattro cardini di questo gioco. Tomáš è il medico di Praga, libertino e leggero, che si divide fra donne e letti finché non incontra Tereza, e qui sente agitarsi il grido dell’Es muss sein (deve essere), la fatalità della resa. Tereza rappresenta il contraltare di Tomáš, e di fatto si impone con la sua inevitabilità e “pesantezza” nel suo letto, nella sua casa, nella sua vita.

“Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi”

È nel momento in cui Tomáš si arrende a provare compassione per Tereza che sceglierà di cedere all’amore e alla sua irrimediabile pesantezza. “L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore ma col desiderio di dormire insieme”.

Per Kundera il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. L’insostenibile leggerezza dell’essere è un’indagine di gran classe, che ci riporta diritti a noi, agli altri, alla vita violenta, al suo dramma di sottili e leggere speranze.

E’ VERO che SONO i più CAPACI ad AVERE SUCCESSO nella VITA?

E’ vero che sono i più capaci ad avere successo nella vita?

Raramente la lettura di un saggio si fa leggera come un romanzo, eppure il libro di Nassim Taleb riesce a fare esattamente questo effetto.

Giocati dal caso parla della fortuna, o meglio, del ruolo che il caso gioca nella nostra vita. ma parla anche di quella fortuna che, non essendo percepita come tale, viene scambiata per abilità: una confusione presente nei campi più disparati: dalla scienza alla politica, dalla letteratura alla finanza.

Taleb, sullo sfondo della sua esperienza di trader a Wall Street, ci mostra le conseguenze che possono nascere dal confondere la fortuna per abilità: sono numerosi gli idioti fortunati e gli scemi strapagati che si sono semplicemente trovati nel posto giusto al momento giusto. Individui del genere purtroppo attraggono schiere di seguaci devoti che credono ciecamente in quello che loro – talvolta in buona fede – spacciano per metodo.

La lettura di “Giocati dal caso” esplora quelle deformazioni cognitive del nostro cervello che ci portano alla ricerca continua di nessi di causalità anche là dove si tratta di pura casualità, tendenze inveterate (frutto dell’evoluzione avvenuta per la maggior parte in un ambiente molto più lineare di quello in cui viviamo oggi) di cui non riusciamo a liberarci, e che conducono ad equivoci di cui il libro ci mostra le conseguenze, talvolta drammatiche, mentre fa cadere come birilli i nostri pregiudizi sull’idea di successo e di sconfitta.

Scriveva Jean Cocteau: “Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri”, al giorno d’oggi, senza fortuna, ci mancherebbero gli alibi.
Buona fortunata lettura

La PIGRIZIA è la CHIAVE della SOPRAVVIVENZA

Siamo pigri per natura: il nostro cervello è programmato per evitare sforzi.

Risparmiare energia è da sempre essenziale per la sopravvivenza e ha permesso ai nostri antenati di essere più efficienti nella ricerca di cibo e riparo, di competere ed evitare i predatori. In altre parole per il nostro cervello svolgere attività fisica, o il pensiero di farlo, richiede energie in più che i neuroni tentano a tutti i costi di risparmiare, trattenendoci svogliatamente sul divano.

A rivelarlo è uno studio internazionale condotto tra Belgio, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Canada pubblicato su «Neuropsychologia» (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30056055)

PARADOSSO DELL’ESERCIZIO

Il lavoro contribuisce a sciogliere un annoso enigma, il «paradosso dell’esercizio»: nonostante la società ci incoraggi a fare esercizio fisico e sebbene sia risaputo che lo sport fa bene a corpo e psiche, le statistiche mostrano che stiamo diventando via via più pigri.

Lo studio ha coinvolto 29 giovani, alcuni attivi e altri sedentari. Tutti dovevano giocare con un avatar al pc. Sul video comparivano oggetti in movimento paradigmatici della pigrizia (poltrone, divani, amache, letti) oppure dello sport (racchette da tennis, scarpe da corsa, scale, palloni…). L’avatar doveva evitare il più rapidamente possibile gli oggetti che richiamavano la pigrizia e dirigersi verso i simboli del movimento. I partecipanti indossavano il caschetto per l’elettroencefalogramma, così da registrarne l’attività cerebrale: ogni volta che l’avatar doveva evitare i simboli della pigrizia il cervello del giocatore – indipendentemente dalle proprie attitudini – si «accendeva» più intensamente, consumando maggiori quantità di risorse.

Evitare la sedentarietà, quindi, ha un prezzo in termini di energie. «In particolare – spiegano i ricercatori – sono due le aree della corteccia cerebrale ad attivarsi più intensamente, se tentiamo di sfuggire alla sedentarietà. Una è la corteccia frontale mediale, che ha un ruolo nella risoluzione dei conflitti interni e serve a risolvere il dissidio tra un’intenzione volontaria (come voler fare sport) e una modalità inconsciamente radicata (la sedentarietà). L’altra è la corteccia fronto-centrale, un’area a funzione inibitoria che spegne i comportamenti automatici inconsci».

I risultati dello studio mostrano che il cervello è, nel profondo, attratto da comportamenti statici. Per sfuggire al loro richiamo ci si deve impegnare. Ecco perché le policy contro la sedentarietà non hanno funzionato. Per fortuna, come si sa, le “cattive” abitudini si possono cambiare… benchè non senza fatica!

BIANCO a ogni COSTO: ANALISI di un FENOMENO PREOCCUPANTE

Una pubblicità di qualche anno fa vedeva come protagonista un ragazzino nero che entrava in una vasca e usato il prodotto reclamizzato, ne usciva con la pelle bianca.

In un altro spot l’ex miss Nigeria Akinnifesi, usava una nuova crema che pareva capace di rendere la sua pelle molto più chiara.

In un’altra ancora si vedono in fila tre ragazze (nera, bruna e bianca) avvolte solo da un asciugamano. Sopra di loro la nota: “prima” e “dopo”. Come se il sapone in questione riuscisse a “pulire” la pelle nera, rendendola bianca.

PERCHE’ LE DONNE VOGLIONO SCHIARIRE IL COLORE DELLA LORO PELLE?

Perché milioni di donne nel mondo, mi sono chiesta, vogliono schiarire il colore della loro pelle?

Un articolo della BBC “Africa: Where Black is not really Beautiful (Africa, dove il nero non è proprio bello)” ha scatenato un acceso dibattito su questa pratica che ribadisce una supremazia bianca e s’interroga sulla sua natura.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le Nigeriane sono le più dedite alla pratica, il 77% di loro consuma regolarmente prodotti per lo sbiancamento della cute. Seguono le cittadine del Togo con il 59%, quelle del Sudafrica con il 35%, mentre in Mali sono al 25%.

Lo fanno perché vogliono “la pelle bianca”, ha spiegato l’artista sudafricana Nomasonto Mshoza Mnisi, che ha difeso la sua scelta come una soddisfazione della sua autostima, al pari di un qualsiasi altro intervento estetico, e infatti si è anche sottoposta a interventi chirurgici per avvicinare i suoi lineamenti a quelli caucasici.

Allo stesso modo dell’analogo tentativo di sbiancamento di Michael Jackson.

PERICOLI E MALATTIE

Necessità che se da un lato può, a sentire le donne coinvolte, aiutare l’autostima e allineare agli stereotipi, può essere pratica pericolosa per la salute. Tanto è vero che il commercio di creme e prodotti sbiancanti è proibito in molti paesi dell’Asia e in quasi tutto l’Occidente, ma non ne è proibita la produzione e quindi, proprio da qui sono prodotti ed esportati in Africa, dove legalmente o clandestinamente finiscono sui mercati del continente.

Il pericolo si chiama ocronosi: malattia in forte aumento e che colpisce la cute a lungo sbiancata, facendola diventare viola e rovinandola anche oltre lo sgradevole effetto cromatico, estendendosi fino alle leucemie e ai tumori a reni e polmoni.

IDENTITA’ FERITE

Ma cosa spinge donne di colore, anche bellissime, a farsi bianche?

Non è la mentalità coloniale ossia la necessità di ritenere da parte degli africani, prodotti e cittadini dei paesi a maggioranza bianca e in particolare quelli europei, superiori. Non solo, almeno. Quanto piuttosto il riconoscimento inconscio di una realtà nella quale essere nero è ancora oggi, per molti, un disvalore. Anche in Africa.

Anche qui infatti un ascendente bianco nobilita il lignaggio, e coloro che si sbiancano la pelle non lo fanno per vezzo, ma perché vivono in società che hanno privilegiato la “pelle chiara” e continuano a farlo, così come continuano a privilegiare l’identità maschile su quella femminile.

Chiaramente la corsa allo sbiancamento rappresenta anche una ferita all’identità nera e un suo tradimento, almeno nella misura in cui riconosce e riafferma una superiorità bianca, ma ridurre il discorso al ritratto delle ingenue africane che trovano più bella la pelle bianca è limitante.

Basti pensare che il fenomeno che non ha subito rallentamenti nemmeno con la elezione di Obama a Presidente di una superpotenza mondiale, ma anzi lo ha alimentato in quanto ha una madre bianca e lui “non è poi così nero”, confermando che “meno nero” è comunque meglio di “più nero”.

PREGIUDIZIO O SOPRAVVIVENZA?

Nonostante sia passato un discreto numero di anni dai tempi dello schiavismo, il potere è ancora bianco e il pregiudizio contro i neri è ancora fortissimo e non ha mai smesso di essere alimentato. Se pensiamo ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è spesso un sentimento di diffidenza. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Tra neri con molti discendenti del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono un gradino più alti. C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.

Lo è in Africa, dove la maggior parte dei paesi sono oppressi da dittatori neri ma i fili sono tirati dai paesi dei bianchi e lo è negli Stati Uniti. È vero che si sono visti neri ricoprire tutte le maggiori cariche pubbliche statunitensi, ma è altrettanto vero che lo stesso Obama era l’unico (quasi) nero in tutto il senato.

Non è quindi difficile capire in quali mani stia lo scettro del potere. E non è difficile capire che la vicinanza culturale e di classe fra i maschi bianchi (molto ricchi) alla blindata maggioranza ai vertici dell’economia mondiale rappresenti quasi la divinità alla quale ispirarsi. Benchè quasi irraggiungibile.

Ecco perché attaccare o deridere le donne che rischiano la salute per salire qualche gradino di una scala sociale senza fine, può al limite apparire grottesco e triste. E talvolta necessario.

L’Italia è viva o morta?

Dopo le mirabolanti dichiarazioni politiche di queste ultime settimane, fra chi ha annunciato di aver estirpato la povertà per la prima volta nella storia, azzerato il numero delle vittime della strada e dopo le fibrillanti reazioni dei mercati e dello spread, ci sarebbe da chiedersi, come direbbe Schrodinger con il suo paradosso, l’Italia il gatto dalle mille vite è viva o morta?

Il povero felino chiuso nella scatola politica di metallo insieme con la sostanza radioattiva dei conflitti di interesse e il gas velenoso dell’ego, della speculazione politica, vivrà o morirà?

Per uscire dal drammatico dilemma è inevitabile ricorrere al famoso esperimento proposto nel 1935 dal fisico austriaco, nonchè premio Nobel, Erwin Schrödinger.

IL PARADOSSO DI SCHRODINGER

La condizione sperimentale (e immaginaria) è semplice da descrivere. Supponiamo di avere un gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo (col quale il gatto non può interferire) può fare o non fare da grilletto all’emissione di un gas velenoso. Per entrambe le situazioni la probabilità è esattamente del 50%.

Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere, prima di aprire la scatola, se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa il gatto si trova in uno stato indeterminato: sia vivo sia morto.

Solo aprendo la scatola questa ambivalenza si risolverà, in un modo o nell’altro. In parole semplici: è l’osservazione che determina il risultato della osservazione stessa. E’ l’osservatore che decide.

L’OSSERVATORE DECIDE ANCHE NEI SOCIAL

Un po’ come avviene nei social, dove si espone tutto e il contrario di tutto, dove molti commentano senza leggere e dove arriva sempre qualcuno che non ha letto bene le premesse iniziali, ma si sente autorizzato a commentare con furore sulla presunta crudeltà verso il felino, convinto che il povero gatto sia stato messo veramente in una scatola.

Un po’ come avviene nelle stanze politiche del potere. Si fa e si disfa, nella piena contraddizione. L’unica cosa certa è rimanere lì dove si è, più che si può. Basta non aprire la scatola. In fondo, ben pochi vogliono sapere la verità (scientifica).

SAPPIAMO LEGGERE SOLO i LIBRI di CALCIATORI e CHEF…

Ho sempre cercato di scrivere cose che avessero un significato, capaci di regalare esperienze, anche quando forse avrei fatto meglio a non scrivere affatto.

Ogni tanto penso di aver scritto cose importanti. Altre molto meno. Eppure, sento di dover continuare, per nutrire quella famelica necessità così ben radicata in me, che detta le regole del gioco, il gioco dell’esprimere chi sono, attraverso la scrittura.

La scrittura mi fa credere di poter persuadere il mondo. Decidere le parole, la punteggiatura, la trama narrativa, l’intreccio, i protagonisti, mi ha fatto credere di esser a mia volta protagonista di qualcosa.

La scrittura, dicevo, è fondamentale per un essere scrivente. Vitale. Anacronistica, a volte: se si scrive, non si vive. Almeno parafrasando Pavese.

L’ITALIA CHE NON LEGGE

Oggi l’Italia è un paese saturo di scrittori e non di lettori: 6 italiani su 10 non legge nemmeno un libro l’anno. Tanti scrittori per pochi lettori.

Se l’editoria sta annegando inesorabilmente in una crisi senza fine, la contrazione delle vendite non avviene quando, ad essere pubblicati e letti, sono i libri di calciatori e chef (famosi).

IMPOVERIMENTO CULTURALE DELLE MASSE

Un perverso amore verso un’icona, un simbolo, rimane. Sintomo di un vuoto oceanico, fra il mondo culturale e la quotidianità. Gap che con gli anni sta prendendo dimensioni atroci.

L’impoverimento culturale delle masse, autoindotto o manipolato ad arte, screpola la consapevolezza da parte di queste ultime, sottraendo loro l’aspetto ludico e arricchente che può derivare da una ecologica vita culturale. E questo, conduce i singoli a cercare ciò che è stato loro negato in contesti inconsistenti e molto, troppo distanti dalla realtà, dove peraltro la dimensione sociale viene meno o quasi. Mentre l’emarginazione di chi ama la sophia, assume contorni kafkiani.

La cultura italiana resiste, fra baionette linguistiche, calamaio e carta per difendersi dagli assalti nemici, in attesa di un pubblico al momento solo impegnato a fare le file sbagliate.

ABBIAMO BISOGNO del FALLIMENTO… per FARE MEGLIO… (?)

Ci sono realtà che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte al caso, al disordine, allo stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, ce ne sono altre che sono solo robuste e reggono il colpo senza subire danni e poi ci sono le antifragili che migliorano in un contesto burrascoso e difficile.

Antifragile è questo il concetto elaborato, ormai qualche anno fa, da Nassim Taleb, immaginifico saggista, la cui filosofia ha perseguitato la mia attenzione fin dai primi libri  “Il cigno nero”, e “Giocati dal Caso”, al cui centro della riflessione: lo scarto esistente tra casualità, imprevedibilità, unicità di tanti fatti, e  la pretesa delle scienze sociali e dell’economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell’illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» possa aiutare a predire il futuro.

Taleb ha un talento innato per i paradossi e uno humor affilato e intelligente. Per vent’anni ha fatto con successo il trader, per poi occuparsi di previsione e prevenzione dei rischi, ma è anche docente, saggista e scrittore.

TUTTO PUO’ ESSERE FRAGILE

… anche l’amore ossessivo. Nel romanzo di Buzzati “Un amore”, ricorda Taleb, lo scrittore si innamora di una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo bel finale.

Anche chi sa trarre profitto dagli errori o perché li sfrutta (è il caso di una varietà di invenzioni a cui si è giunti per errore: penicillina, Viagra e nitroglicerina per fare qualche esempio), o perché li usa come occasioni di crescita e di apprendimento. Il segreto, secondo Taleb, è inventare un’impresa che non tema il fallimento, e che impari a fallire orgogliosamente, in fretta, tanto, su piccole cose, in ambiti in cui un solo grande successo possa sovra compensare tutti i piccoli fallimenti: il mantra che unisce la Silicon Valley e chiunque faccia ricerca.

IL MESSAGGIO

Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, l’intera società si espone al rischio di un collasso totale.

“Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò – scrive Taleb -. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.

 

PIU’ uno non SA, PIU’ CREDE di SAPERE. Il PARADOSSO della IGNORANZA

Un commesso di 44 anni, Wheeler McArthur, rapina due banche a viso scoperto in pieno giorno, finendo rapidamente agli arresti. Interrogato riguardo la scelta di non indossare maschere, affermò che si era spruzzato sul viso succo di limone, aspettandosi che ciò lo rendesse invisibile alle telecamere. Alcuni amici gli avevano parlato di questo “trucco” e lui lo aveva verificato: si era applicato del succo di limone in volto per poi scattarsi una fotografia. Con il limone negli occhi non si accorse però di aver inquadrato il soffitto anziché il volto e sicuro del trucco, si presentò tranquillo in banca.

Come si può essere tanto stupidi, starete pensando. E’ la stessa domanda che si sono fatti anche David Dunning e Justin Kruger, psicologi della Cornell University e da cui deriva il nome della distorsione cognitiva (trappola mentale) a causa della quale una persona incompetente lo è a tal punto da non accorgersi di esserlo.

È un tipo di eccessiva fiducia in se stessi che spaventa particolarmente perché non riguarda solo le persone di talento che si sopravvalutano, ma anche persone che pur non avendo nessun talento pensano di averne a dismisura.

Nello scorso articolo abbiamo visto come le persone affette dalla sindrome dell’impostore siano incapaci di valorizzare se stesse e vivere il successo più che meritato con soddisfazione e orgoglio, oggi ci concentriamo sull’effetto opposto: le persone incompetenti non solo non ammettono i propri limiti, ma arrivano a sentirsi superiori valutando erroneamente le proprie prestazioni.

Uno dei motivi per cui di questi tempi l’effetto Dunning-Kruger sembra onnipresente (l’attuale presidente degli States ne è un esempio da manuale), lo si deve anche ai mezzi d’informazione: non solo le persone sono disinformate, ma la loro testa è continuamente riempita di dati, fatti e teorie falsi che possono portare a conclusioni sbagliate che poi sosterranno con tenace sicurezza ed estrema partigianeria.

Nella vita quotidiana è comune vedere persone che parlano con apparente autorità riguardo a temi che conoscono in modo superficiale. Allo stesso tempo, è una consuetudine che i veri esperti non si mostrino troppo categorici nelle proprie affermazioni, poiché sono coscienti di quanto vasto sia il sapere e di quanto sia difficile provare qualcosa con assoluta certezza.

Per capire se abbiamo a che fare con un incompetente inconsapevole, ecco le 4 regole che definiscono l’effetto Dunning-Kruger:
• Le persone si mostrano incapaci di riconoscere la propria incompetenza
• Tendono a non poter riconoscere la competenza delle altre persone
• Non sono in grado di prender coscienza di quanto risultano incompetenti in un determinato ambito
• Se vengono formate affinché aumentino la propria competenza, risulteranno capaci di riconoscere e accettare quanto fossero incompetenti in precedenza

Se incontrate un incompetente siate comprensivi. In fondo le abilità necessarie per compiere bene qualcosa sono le stesse che servono per fare una valutazione della mansione stessa. Come ci si può rendere conto del fatto che si sta facendo male qualcosa se neanche si è consapevoli di quale sia il modo corretto di farla?