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PERCHE’ LEGGIAMO gli OROSCOPI

Oroscopi. Li consultiamo, affidiamo loro parte delle nostre decisioni e imperterriti ci piace crederci, pur consapevoli della loro fallacia e inaffidabilità.

Perché è cosi difficile ignorarli?

La trappola di cui siamo vittime è detta effetto Forer (dal nome dello psicologo che già nel 1948, aveva descritto il fenomeno), anche conosciuto come “effetto di convalida soggettiva”, che ci porta a credere, accettare e dare l’approvazione a descrizioni psicologiche sommarie, spesso contrapposte, con dettagli vaghi e che si potrebbero applicare a un gran numero di persone. In parole semplici: ogni individuo posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso, nonostante quel profilo sia generico, tale da adattarsi a più persone.

Per dimostrare le sue ipotesi Forer chiese ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, questionario dove venivano raccolte diverse informazioni fra cui hobby, aspirazioni, caratteristiche a cui sarebbe seguita una interpretazione qualitativa.

Dopo una settimana, restituì un quadro della loro personalità, chiedendo di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione: perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano in alcune delle seguenti frasi.

– Hai grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri. – Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio – Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato – A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta – Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto  – A volte sei estroverso, affabile, socievole, altre sei introverso, diffidente e riservato

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti fu 4.26.

Questo fenomeno è stato replicato con altri esperimenti e si è potuto verificare che tra l’80 e il 90% delle persone considerano che le affermazioni generali siano molto precise in riferimento a loro stessi.

Certo è che tendiamo ad accettare quelle affermazioni nella stessa misura in cui desideriamo che queste siano reali e ci risultano sufficientemente positive e lusinghiere.

Va tenuto in conto che quando incontriamo una credenza (o info) che risolve una incertezza, questo ci predispone a confermare e dare per certa la stessa, scartando a priori ogni evidenza contraria. Così, si sviluppa una sorta di meccanismo automatico che consolida l’errore originale e conferisce una eccessiva attendibilità alla credenza.

Il consiglio non è quello di smettere di leggere l’oroscopo, ma di consultarlo. Il fato non ha memoria, come i dadi e la roulette. Dunque perché privarci di una scelta consapevole, che seppur si dimostrerà errata, ci avrà permesso di essere noi i veri artefici del nostro destino.

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DIO, UN PO’ MEFISTOFELE…

Un uomo, in un bar, ogni giorno. Seduto in un angolo, con gli occhi tristi e stanchi. Un uomo senza nome, senza casa e senza sonno.

Un’agenda e tante persone addolorate, piegate, sconsolate che lo cercano e lui è lì per aiutarle. Purchè portino a termine compiti spietati, malvagi, crudeli.

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DEUS EX MACHINA, UN PO’ MEFISTOFELE

L’uomo è seduto a quel tavolo, e attende. Attende che i suoi “clienti” gli chiedano aiuto, si riflettano nel suo volto che è anche uno specchio oltre che rappresentazione di uno spietato deus ex machina del gioco al massacro, in cui o si scende a patti con la propria coscienza, con se stessi, con gli altri o ci si ribella alla richiesta, percorrendo un’altra strada.

Il viso dell’uomo senza nome porta con sé tutto il dolore, la stanchezza del mondo e, nonostante questo, assegna compiti infliggendo terribili condanne. Dando forma alle paure, alle ansie, alle angosce e ai desideri di tutti coloro che vogliono migliorare la propria vita, uscire dalla crisi, dal buio, ritrovare la propria strada, e forse finalmente essere felici.

Si entra in un castello kafkiano scuro e oscuro, stando accanto a quell’uomo che dà possibilità di vite alternative, come farebbe Dio, o forse Mefistofele (“Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?“), in realtà però tutto e profondamente umano.

Così si accomodano a quel tavolo, per la “partita a scacchi” della vita, un poliziotto in lotta con se stesso e con il figlio; una suora che non sente più la voce di Dio e la ricerca con immensa sofferenza; un giovane cieco che ha un solo desiderio, vedere di nuovo; un padre che vuole salvare il proprio bimbo dal cancro; un meccanico che sogna di passare la notte con la donna da calendario. Il deus pagano ascolta e mostra a ciascuno la strada per raggiungere la propria felicità – che vuol dire danneggiare quella degli altri – e emerge chiaramente una domanda: cosa si è disposti a fare per avere ciò che si desidera?

The Place è tutto questo e molto di più. Un film che chiede allo spettatore di essere o dentro o fuori: se si sceglie la prima via si partecipa, scendendo in un inferno in terra, alle vite di questi uomini e donne afflitti e segnati, di essere partecipe della cognizione del dolore.

Non mostra mai tutto, fa immaginare, mette nella condizione di cercare le risposte (Cosa avremmo fatto noi al posto loro?), eviscerare il dentro per portarlo fuori, lega i personaggi del film in maniera sadica, spaventosa e machiavellicaQuesti uomini e queste donne incredibilmente si incrociano in maniera crudele senza sapere però gli uni delle altre e il corso della vita dei primi in qualche modo condiziona quello delle seconde.

Violentare una donna, far scoppiare una bomba, insabbiare una denuncia di violenza; un Dio buono e giusto non chiederebbe mai nulla di tutto ciò, ma qui colui che offre la felicità è il più disgraziato di tutti, il più dannato, il più errato tra gli errati. Un “dio” fuori dagli schemi che forse dio non è, la cameriera Angela, pura luce, rispetto al buio di The Place, gli chiede se fa lo psicologo…

Ma lui non può tutto (“non ho tutto sotto controllo, le cose non dipendono da me”), non può indicare l’alternativa giusta, non tira i fili né scioglie i nodi di giorni imperfetti, l’uomo ha ideato il meccanismo ma poi a ciascuno dei questuanti spetta l’ultima parola. Non ci sono obblighi, c’è la possibilità di “rescissione del contratto”.

The Place è un film sul libero arbitrio, arma potente nelle mani dell’uomo, ciò che lo rende “l’essere” che è, è un film sull’affermazione di sé.

THE PLACE: IL RACCONTO DEL MALE NASCOSTO DENTRO DI NOI

Camminano paralleli e convivono, il bene e il male. Declinabili in tutte le loro sfumature, spietatezza e amorevolezza, amore e morte. Come in un girone dantesco lo spettatore si trova in mezzo alla sofferenza che il protagonista tocca con mano, assorbendone la portata devastante.

The Place non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro, racconta di chi deve anche commettere uno sbaglio per vivere meglio. Si tratta quindi, fino ad un certo punto, di vedere e parlare con il proprio lato oscuro.

Alla fine l’uomo senza nome è stremato, parlano i segni d’espressione, le occhiaie profonde, i gesti limitati dalla mancanza di movimento – c’è un’unità di luogo talmente radicata da provocare un senso di claustrofobia.

Crolla per umanità e a farlo cadere è Angela, nomen omen; l’unica a domandare, insistere, vuole sapere chi è lui, vuole farlo sorridere, lo guarda da lontano, lo osserva come si fa con i misteri e solo alla fine arriva al suo intento. Lei riesce a entrare nel suo mondo, è la (sua) coscienza che gli permette di vivere un attimo di pace, lo rende “debole” e così lui esce dal suo “personaggio”, si apre a qualcuno e si alza dalla sedia.

Tanto il senza nome è misterioso tanto lo è Angela, delicata e calma, sicura e potente, affascinante e disarmante; il Titano infatti timidamente sorride e metaforicamente se ne va (l’indomani mattina il bar è vuoto) lasciando dietro di sé un portacenere in cui c’è l’ennesimo, forse l’ultimo, foglio di carta (testimonianza dei compiti portati a termine) bruciato.

The Place è un film sul malvagio che c’è in ciascuno di noi ma è anche un film sulla speranza, nascosta dietro a un incontro semplice e banale. Questo è un quadro doloroso, nero, claustrofobico, è un urlo silenzioso, lunghissimo e straziante, è il racconto di un uomo che non è un mostro ma che dà da mangiare a molti mostri.

Ed è assolutamente da vedere…

Il LIBRO di TALBOTT che GIOCA con le OSSESSIONI dell’OCCIDENTE

Un misterioso libro nero-blu dalle direttive rivoluzionarie circola fra i prescelti, uomini comuni che presto passeranno all’azione mentre una fantomatica lista su internet “I meno amati d’America” identifica i bersagli da uccidere: classe dirigente, docenti universitari, politici e giornalisti.

E’ la trama dissacrante, ingegnosa, politicamente scorretta, ma quanto mai attuale (in un’epoca dove chi ha cultura e successo è sottoposto ad ostracismo) del romanzo fresco di stampa di Chuck Palahniuk, “il libro di Talbott”. Una tragedia annunciata, ma noi esseri umani, fatichiamo a imparare dalla storia. O con le affilate parole di Chuck “Dio non voglia che qualcuno impari qualcosa dai miei libri. Il mio mestiere non è insegnare. Quello era il lavoro di Stalin”.

A quattro anni dal suo ultimo romanzo, l’autore dell’acclamato Fight Club torna con un’opera in cui fa esattamente quello che gli riesce meglio: mettere alla berlina le assurdità della società contemporanea, le ossessioni, il razzismo, l’omofobia, il mito della sicurezza, il sovranismo per smascherare le teorie complottiste che giacciono latenti nella psiche degli americani. E aggiungo, non solo quelle americane. Insomma… ogni mio riferimento ai nostrani fatti politici e di cronaca non è per nulla casuale.

Il passaparola scatta solo tra persone fidate: “Il Giorno dell’Aggiustamento sta arrivando.” La gente fa circolare un misterioso libro nero-blu, una sorta di pamphlet profetico, memorizzandone le direttive rivoluzionarie. Messaggi radiofonici e televisivi, cartelloni pubblicitari e il web ripetono ossessivamente gli slogan di Talbott Reynolds: si avvicina il giorno della resa dei conti per la classe dirigente e le élite culturali. Il popolo non sarà più sacrificato alla nazione, il surplus di giovani maschi non verrà mandato al macello nell’ennesima guerra in Medio Oriente, ma a cadere saranno le teste di politici e giornalisti, professori e notabili – anzi, per la precisione, le loro orecchie. Sinistre.

Con la Dichiarazione di Interdipendenza, gli ex Stati Uniti vengono ridefiniti secondo criteri razziali, e la popolazione ridistribuita in base al colore della pelle e alle preferenze sessuali. Il simile con il simile, nei tre nuovi stati-nazione di Caucasia, Blacktopia e Gaysia.

Ma neanche in questo nuovo mondo, come è facile prevedere, tutto fila liscio…

Un libro che costringe a pensare, a ridefinire le identità e i valori. Uno scrigno dentro il quale occorre guardare per trovare se stessi, chiunque siamo. Oltre i paradossi e le paure.

NON MERITO il SUCCESSO. L’ERRATA CONVINZIONE delle PERSONE di VALORE

“Se ci sono riuscito io può farcela chiunque. Prima o poi si accorgeranno che non sono bravo come pensano, e che in realtà li ho imbrogliati tutti. Il mio successo? Questione di fortuna, nulla di più”.

Ci sono persone convinte di non meritare il successo, nemmeno quando è la conseguenza di un grande impegno, tanto che continuano a sentirsi indegne del proprio valore nonostante evidenti ed oggettive prove dicano il contrario.

Un esempio è la storia di Nina, studentessa di matematica: ‘‘Ottimo esame. Vorrebbe scriverci una tesi di dottorato? Passi in ufficio nei prossimi giorni, ne parleremo», si complimenta così la docente. La neo laureata in matematica, però, non riesce a rallegrarsi per il complimento. Nella sua testa mulinano pensieri del tipo: «Davvero buona, l’esaminatrice, mi ha chiesto solo cose facili. Sono stata fortunata. Adesso mi guarderò bene dal discutere con lei questioni professionali. Altrimenti si accorgerà che ho bluffato e scoprirà tutto quello che non so». Nina insiste con questi pensieri finché nella sua mente matura una certezza: nonostante l’ottimo esame, non accetterà mai l’offerta di dottorato della docente.

Si chiama “Sindrome dell’impostore” e nessuno ne è immune, colpisce in egual misura studenti, professionisti affermati, dive del cinema, scrittori, musicisti, anche se a soffrirne di più sono le donne (soprattutto quelle che ottengono buoni risultati in ambienti di lavoro a predominanza maschile). Per citare alcuni nomi, ne sarebbero (stati) affetti Jodie Foster, Kate Winslet, Denzel Washington, Emma Watson, la musicista Amanda Palmer, le scrittrici Maya Angelou e probabilmente anche Natalia Ginzburg.

Chi lamenta tale sindrome ha sentimenti specifici, ben descritti dalla consulente del lavoro per l’amministrazione Obama, Alexandra Levit: “senti di non meritare il successo ottenuto, che i traguardi raggiunti sono il frutto della fortuna o della situazione nel posto giusto al momento giusto, invece che del proprio talento, oppure ci si sente un imbroglione che alla fine si rivelerà essere incompetente“.

Fatto curioso è che la sindrome dell’impostore insorge nelle persone effettivamente competenti e brave nel proprio lavoro: “quando uno è un impostore, non si percepisce come tale“. Infatti gli incompetenti, proprio perché sono incompetenti, non si rendono conto dei propri limiti ed errori né delle effettive capacità degli altri, e dunque tendono costantemente a sovrastimare le proprie prestazioni; scomodando Shakespeare “il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio”.

Cosa fare per superare l’empasse dell’impostore?
• fare una lista di tutti i risultati raggiunti e delle motivazioni per cui si è effettivamente qualificati per un determinato lavoro e appenderla in bella vista
• Auto-premiarsi per ogni successo e dire grazie quando si riceve un complimento abbandonando frasi come “figurati, non era importante”; “ma il merito non è (solo) mio”.
• chiedere una seconda opinione. In questo caso è necessario il supporto di un mentore che possa aiutare a vedere i successi sotto una luce obiettiva.
• Scrivere a caratteri cubitali l’insegnamento di Michelangelo: “Se le persone sapessero quanto duramente ho lavorato per ottenere la mia maestria, questa non sembrerebbe così meravigliosa, dopotutto”, abbandonando di fatto la convinzione che solo il talento naturale porta al successo e/o di non possederne affatto.
• Ripetersi e ripetersi ancora “Non sono stato fortunato. Tutto quello che ho ottenuto me lo sono meritato”.