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L’OPPORTUNITA’ di ESSERE una PECORA NERA (al LAVORO)

Essere definiti una pecora nera non piace a nessuno. Questo perché il termine viene usato a pretesto per connotare negativamente decisioni e comportamenti di persone che si distinguono dalla massa, generando quindi vergogna alla famiglia, al team o all’organizzazione di cui fanno parte.

Tuttavia, ciò che la maggior parte delle persone non sa è che ci sono diversi tipi di pecore nere:

–         quelle che si distinguono in un nucleo familiare o organizzativo disfunzionale o tossico

–         quelle che non si conformano a una dinamica familiare o aziendale sana

–         quelle che sono semplicemente diverse dal nucleo familiare e professionale in generale.

E già solo da questa classificazione si capisce che non tutte le pecore nere vengono per nuocere. Scherzi a parte e senza entrare in ambito analitico (e men che meno nella psicopatologia), la riflessione che voglio generare con questo primo articolo del 2025 è sull’utilità che gli outsider hanno nel nostro quotidiano professionale. Poiché trovo curioso che vengano accusati di provocare imbarazzo, anziché sia chi lo prova a chiedersi il perché…

Posso dire di esserlo. Non sempre, non solo. Talvolta meno di quanto vorrei. Ho fatto tante scelte coraggiose, bollate come insensate. Mi sono sentita dare della kamikaze (quando ho lasciato la carriera di docente universitaria per la libera professione), dell’egoista (quando ho scelto la ricerca anziché un posto fisso in una realtà pubblica), dell’ossessiva (quando in giovane età mi alzavo alle 5 del mattino per allenarmi prima di andare a scuola allo scopo di entrare in nazionale), della persona arida (quando optavo per i turni notturni nel week end per avere più tempo libero in settimana per prendermi una seconda laurea) ecc, ecc.

Raramente mi è stato chiesto il motivo delle scelte difficili. Era più facile etichettarmi… Quante volte mi sono sentita dire “tu sei diversa, non sai divertirti”. Forse è così. Sul divertirsi ho molto da imparare, anche se per me un buon libro o imparare e cimentarmi in cose nuove è un piacere irrinunciabile. Forse, in virtù dei fine anno, quando si tirano un po’ le somme, mi è sembrato un buon motivo spendere sulle pecore nere, me compresa, qualche parola.

La vita è più facile per una pecora bianca

Essere una pecora nera in un mondo pieno di pecore bianche può essere demotivante. La società incoraggia a comportarsi da pecore bianche e molti fingono di esserlo perché semplifica loro la vita in molti modi. Eppure, riconoscere e accettare la propria natura dà almeno una grande ricompensa: consente di ottenere e vivere più cose che si desiderano. Posso dire che la maggior parte delle volte che mi sento profondamente soddisfatta è quando faccio le scelte giuste per me, non quelle che gli altri ritengono giuste per me. E questo dettaglio non è semplice semantica!

Lavorare il doppio

Proprio così. Chi mi conosce sa quanto ho faticato per poter portare avanti le mie idee, con lavori diversi da mettere in equilibrio, che per tanti sembravano antitetici e distanti e io vedevo, a ragione, come una sovrapposizione estesa tra i ruoli poiché ciò che insegnavo e ricercavo accademicamente equivaleva a ciò che mettevo in atto imprenditorialmente.

La vita è più appassionante quando sei una pecora nera

Come ho fatto a sopportare notti insonni, turni massacranti e poche occasioni di svago e divertimento? Semplicemente perché sono profondamente appassionata dalla mia carriera da “pecora nera”. Quindi, anche quando non ho intenzione di lavorare in un giorno particolare, spesso non posso fare a meno di fare qualcosa direttamente o indirettamente correlato al mio lavoro. Difficilmente ciò che faccio si fa (solo) dovere.

Sacrifici

Accettare di essere una pecora nera, significa anche accettare di vivere in un modo più libero ma anche più umile, meno esuberante, almeno inizialmente. Perché? In un mondo governato da pecore bianche, tutte le pecore che sono bianche tendono a essere ricompensate in modo più generoso e affidabile delle pecore nere non convenzionali e anormali.

Osa essere antipatico

Se scegli di vivere la vita come una pecora nera, una cosa è certa: non sarai amato dalla maggior parte delle persone. Le pecore nere sono, per definizione, i membri stravaganti di una famiglia o di una società che non si allineano con gli altri. Sono casi anormali che si discostano dalla norma. Lo spiega bene la curva di adattamento all’innovazione di Everett Rogers:

  • Nel mondo degli affari e della società, le pecore nere sono spesso gli innovatori che guidano il cambiamento e si rifiutano di adattarsi (2,5%).
  • Le uniche altre persone a cui piace ciò che fanno questi pionieri sono i primi utilizzatori (13,5%), che favoriscono allo stesso modo il progresso e il cambiamento e li supportano approvando e parlando del lavoro degli innovatori.
  • Il restante 84% delle persone non ama i cambiamenti e ti considera una pecora nera innovativa, con un certo divertimento (maggioranza iniziale, 33%), un leggero fastidio (maggioranza tardiva, 33%) o una grande disapprovazione (ritardatari, 18%).

Quindi vivere e lavorare come una pecora nera innovativa (non solo per il piacere di essere una pecora nera, ovviamente) richiede il coraggio di non piacere ad almeno metà delle persone che incontri. Ma se cerchi di piacere a tutti, finisci per non piacere a nessuno, men che meno a te stesso. Quindi, concentrati sul viaggio, non sulla destinazione.

CONCLUSIONE

Non occorre essere una pecora nera per essere felici e realizzati. Basta essere sé stessi, a prescindere da cosa dicono e vogliono gli altri (per noi). Questo non vuol dire andare contro tutto e tutti, ma essere sufficientemente focalizzati da ascoltare ma poi decidere da soli su ciò che è importante per noi. Ricordandosi che il riconoscimento siamo noi a darcelo e nessun altro. Insomma, essere una pecora nera dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un errore!

SAPER DECIDERE può AIUTARE a SALVARE molte VITE

Vi racconterò una storia. Una storia che parla di uomini e di macchine. E di come un ingegnere salvò il mondo da una apocalisse nucleare, facendo una scelta che nessuna macchina è ancora stata programmata a compiere: lasciar decidere il cuore.

Correva l’anno 1983, si era in piena guerra fredda, e un uomo di cui la maggior parte del mondo non aveva mai sentito parlare, sarebbe diventato il più grande eroe di tutti i tempi.

Era notte il 25 settembre, quando un colonnello di 44 anni della sezione spionaggio militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica giunse al proprio posto di comando al Centro di allerta precoce, da dove coordinava la difesa aerospaziale russa.

Suo compito era analizzare e verificare tutti i dati provenienti da un satellite, in vista di un possibile attacco nucleare americano. Per far ciò, aveva a disposizione un protocollo semplice e chiaro. Tanto più chiaro e semplice in quanto redatto da lui stesso. Dopo appropriati controlli, se positivi, suo compito era allertare il superiore, che avrebbe immediatamente dato inizio ad un massiccio contrattacco nucleare su Stati Uniti e alleati.

Poco dopo mezzanotte, alle 12.14 del 26 settembre del ‘83, tutti i sistemi di allarme scattarono e sugli schermi comparve: “attacco imminente di missile nucleare“.

Un missile era stato lanciato da una delle basi degli Stati Uniti.

L’ufficiale verificò i dati, richiedendo conferma dalla veduta aerea, l’unica che il satellite non aveva potuto confermare a causa delle condizioni atmosferiche. Nonostante le conferme, concluse che doveva essersi verificato un errore: non era logico che gli USA lanciassero un solo missile se davvero stavano attaccando l’Unione Sovietica.
Così ignorò l’avviso, considerandolo un falso allarme.
Poco dopo, però, il sistema mostrò un secondo missile. E poi un terzo.
Dal secondo piano del bunker poteva vedere, nella sala operativa, la grande mappa elettronica degli Stati Uniti con la spia lampeggiante indicante la base militare sulla costa est, da cui erano stati lanciati i missili nucleari.
In quel momento, il sistema indicò un altro attacco. Un quarto missile nucleare e immediatamente un quinto.
In meno di 5 minuti, 5 missili nucleari erano stati lanciati da basi americane contro l’URSS. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale dagli Stati Uniti era: 20 minuti.

Dopo aver rilevato l’obiettivo, il sistema di allarme doveva passare attraverso 29 livelli di sicurezza per conferma; l’ufficiale cominciava ad avere forti dubbi man mano che venivano superati i vari livelli di sicurezza.
Sapeva che il sistema poteva avere qualche malfunzionamento. Ma poteva l’intero sistema essere in errore, 5 volte?
Il principio di base della strategia della guerra fredda sarebbe stato un massiccio lancio di armi nucleari, una forza travolgente e contemporanea di centinaia di missili, non 5 missili uno a uno. Doveva esserci un errore.
E se invece non fosse così? Se fosse una astuta strategia americana? L’olocausto tanto temuto stava per succedere e lui non faceva niente?

Aveva cinque missili nucleari balistici intercontinentali in viaggio verso l’URSS e solo 10 minuti per prendere la decisione se informare i leader sovietici… Essendo pienamente consapevole che se avesse segnalato ciò che tutti i sistemi stavano confermando, avrebbe scatenato la terza guerra mondiale.

I 120 tra ufficiali e ingegneri militari, aspettavano la sua decisione.
Mai prima nella storia, né dopo, sarebbe stato il destino del mondo nelle mani di un solo uomo come lo fu in quei 10 minuti. Il futuro del mondo dipendeva dalla sua decisione, mentre lottava con sé stesso se premere o meno il “bottone rosso”.
Riflettè: gli americani non sono ancora in possesso di un sistema di difesa missilistico e sanno che un attacco nucleare all’URSS equivale all’annientamento immediato del proprio popolo. E benché diffidi di loro, sa che non sono suicidi.”
Sapendo che se si fosse sbagliato, un’esplosione 250 volte maggiore rispetto a quella di Hiroshima si sarebbe scatenata su di loro su di loro entro pochi minuti, riuscì a mantenere il sangue freddo, e ad avere il coraggio di ascoltare il proprio istinto e di conformarsi alla conclusione logica suggerita dal buonsenso.
E decise di segnalare un malfunzionamento del sistema.
Paralizzati, i 120 uomini al suo comando contarono i minuti che mancavano perché i missili raggiungessero Mosca.
Quando, a pochi secondi dalla fine, le sirene smisero di suonare e le spie di allarme si spensero.

Aveva preso la decisione giusta. E salvato il mondo.

Questo uomo, il tenente colonnello “Stanislaw Petrof” si è trovato di fronte a una scelta. Quella di escludere la razionalità di una macchina a fronte dell’stinto proprio di un essere umano. E ha avuto ragione.

Epilogo
Non fu un epilogo felice quello del tenente colonnello Petrof.
La Russia non potendo permettere che gli Stati Uniti e il popolo russo venissero a conoscenza di quanto successo, ammonirono l’ufficiale per non aver essersi conformato al protocollo e lo trasferirono ad una posizione di gerarchia minore. Poco dopo fu mandato in pensionamento anticipato.
Ha vissuto il resto della sua vita in un modestissimo bilocale alla periferia di Mosca, sopravvivendo con una misera pensione di 200 dollari al mese, in assoluta solitudine e anonimato.
Fino a quando, nel 1998, il suo comandante in capo, Yury Votintsev, presente quella sera, ha rivelato l’accaduto, il cosiddetto “incidente dell’equinozio d’autunno” causato da una rarissima congiunzione astronomica, in un libro di memorie che accidentalmente arrivò fino a Douglas Mattern, Presidente dell’organizzazione internazionale per la pace, “Associazione di cittadini del mondo”.
Dopo aver verificato la veridicità della storia, è andato di persona in cerca di questo eroe sconosciuto, per consegnargli il “Premio Cittadino del Mondo”.
L’unico indizio su dove trovarlo l’aveva avuto da un giornalista russo, che lo aveva avvertito che avrebbe dovuto andare senza un appuntamento perché né il telefono né il campanello funzionavano.
Trovarne traccia in una fila enorme di grigi complessi condominiali a 50 chilometri da Mosca non fu facile.
Uno degli abitanti a cui chiese informazioni rispose: “Lei deve essere pazzo. Se esistesse davvero un uomo che ha ignorato un avviso di attacco nucleare degli Stati Uniti, sarebbe stato giustiziato. A quel tempo non esisteva una cosa come un falso allarme in Unione Sovietica. Il sistema non sbagliava mai. Solo il popolo”.

Al secondo piano di uno degli edifici, riuscì a rintracciare l’ufficiale, che si affacciò, la barba lunga e trasandato. Dopo aver raccontato la storia, quest’uomo vi direbbe: “Non mi considero un eroe; solo un ufficiale che ha compiuto il proprio dovere secondo coscienza in un momento di grande pericolo per l’umanità “. “Ero solo la persona giusta, nel luogo e nel momento giusto.”
Dopo essere venuti a conoscenza di questo evento, esperti di Stati Uniti e Russia hanno calcolato quale sarebbe stata la portata della devastazione in base all’arsenale a loro disposizione al tempo.
E sono arrivati ad un’agghiacciante conclusione: dai tre ai quattro miliardi di persone, direttamente e indirettamente, sono stati salvati dalla decisione presa da quest’uomo quella notte.
“La faccia della terra sarebbe stata sfigurata e il mondo che conosciamo, finito”, ha detto uno degli esperti.

Per questo motivo, in questo periodo storico della decisione basata sul buon senso che ha salvato il mondo, essere consapevoli di come scegliamo, può fare la differenza.