Tag Archivio per: #zimbardo

PERCHE’ le PERSONE BUONE diventano CATTIVE (in AZIENDA). In omaggio al prof Zimbardo

Domenica 15 agosto 1971. In una tranquilla e assolata cittadina della California, alcuni studenti vengono arrestati con accuse fumose da una polizia fin troppo zelante e affidati in carcere ad ancor più zelanti agenti di custodia. Sorpresa! Le guardie sono studenti del Dipartimento di psicologia della locale Università al pari dei detenuti, e tutti hanno dato il loro consenso a una ricerca del professor Zimbardo – e persino la prigione è simulata.

Difficile non appassionarsi al racconto. Prima di proseguire, permettetemi di presentarvi (meglio) la mente dell’esperimento che sto per raccontare.

CHI E’ PHILIP ZIMBARDO

È uno dei più importanti psicologi al mondo. Professore emerito alla Stanford University, ha insegnato a Yale e alla Columbia University. Fra i tanti incarichi istituzionali: President dell’American Psychological Association e della Western Psychological Association.

Autore di numerosissime pubblicazioni, articoli, testi e libri su argomenti che spaziano dalla persuasione, alla dissonanza, alla prospettiva temporale, alla de-individuazione, all’ipnosi, alle sette e all’obbedienza all’autorità.

E’ stato il primo a studiare in maniera scientifica la timidezza, fondando una prima clinica per i timidi. Ha dato un grande contributo al tema del controllo delle menti (il riferimento è allo studio sul più grande suicidio di massa del 1979), della propaganda e delle fake news che rimandano sempre a dinamiche psicologiche della manipolazione. Comportamenti devianti legati al contesto e non solo alle singole personalità.

L’ESPERIMENTO CARCERARIO

L’esperimento carcerario di Stanford nacque dal tentativo di “comprendere i processi di trasformazione che si verificano quando persone buone compiono azioni cattive”. La domanda a cui Zimbardo voleva dare risposta era: “Cosa spinge le persone a mettere in atto comportamenti al limite dell’umano?”

Il suo studio è stato capace di mettere in evidenza l’importanza del contesto in tema di comportamenti e, allo stesso tempo, ha mostrato la natura oscura che è dentro ognuno di noi, il cosiddetto effetto Lucifero.

Gli sperimentatori reclutarono i partecipanti all’esperimento attraverso un annuncio sul giornale che prometteva loro 15 dollari al giorno per due settimane, in cambio della partecipazione. Tra le numerose persone che risposero all’annuncio, Zimbardo e i suoi collaboratori, selezionarono 24 studenti universitari, ritenuti idonei perché considerati individui equilibrati, senza inclinazione alla violenza e senza precedenti penali.

Venne quindi allestita una finta prigione all’interno dell’università, con tanto di telecamere e attraverso il lancio di una moneta, i partecipanti vennero divisi in due gruppi: detenuti e guardie. A quest’ultimi vennero fornite delle divise composte da occhiali da sole riflettenti e manganelli. I detenuti vennero privati dei loro indumenti e costretti ad indossarne altri in modo da essere omologati e privati della loro individualità.

Quando l’esperimento ebbe inizio ogni partecipante cominciò ad assumere il ruolo assegnato. Le guardie giravano tra i corridoi delle celle con aria di superiorità. In più, per garantire l’ordine e guadagnare il rispetto dei detenuti, decisero di imporre loro delle regole. D’altra parte, i detenuti stentavano a prendere sul serio le regole imposte, considerando tutto come un gioco e continuando a scherzare. Con il passare dei giorni, ambedue i gruppi iniziarono sempre più a manifestare comportamenti insoliti legati al ruolo diverso assunto all’interno dell’esperimento.

L’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni. Tuttavia, la finzione finì per rivelarsi più reale della realtà, tanto che venne interrotto durante la prima settimana quando cinque detenuti organizzarono rivolte e crearono situazioni caotiche di difficile gestione e alcune guardie obbligarono i prigionieri a svolgere attività svilenti adottando un atteggiamento vessatorio.

L’esperimento che voleva mettere a fuoco soprattutto le reazioni dei detenuti, a poco a poco fece emergere che l’effetto più sconcertante delle dinamiche di gruppo era, invece, la trasformazione delle “guardie” da giovani equilibrati in aguzzini. Ed evidenziò quanto labili fossero i confini tra bene e male, ben prima delle documentate sevizie in carceri come Abu Ghraib, si sono riconosciuti nel volto del carnefice i tratti dell’individuo comune, quello che abitualmente chiamiamo il nostro prossimo.

EFFETTO LUCIFERO

Cosa era successo a quegli individui equilibrati privi di qualsiasi comportamento deviante?

Il risultato dell’esperimento carcerario di Stanford è anche definito effetto Lucifero, in quanto è riuscito a dimostrare come persone buone possano compiere atti disumani. L’effetto Lucifero rappresenta il male che le persone possono diventare, non il male che le persone sono. L’interesse di Zimbardo per l’esperimento servì per creare un contesto attraverso cui studiare i fattori situazionali e circostanziali che possono condurre persone normali e buone a compiere del male. E lo portò a evidenziare le forze psicologiche che spingono gli individui a oltrepassare la linea che separa il bene dal male.

Questo effetto suggerisce che la malvagità non è determinata solo da chi siamo, ma anche dalla situazione specifica in cui ci troviamo. Di qui l’importanza dei ruoli sociali nel determinare il comportamento umano: quando una persona assume un determinato ruolo in una situazione specifica, finisce per trasformarsi in quel ruolo che diventa poi la sua stessa identità.

Zimbardo ritiene che la causa della trasformazione delle persone da buone a cattive sia quindi il sistema in cui si trovano e la loro relazione con il potere. Il contesto è ciò che fa la differenza.

L’ESPERIMENTO DI MILGRAM

Per il suo esperimento, Zimbardo si ispirò agli studi di Milgram. Quest’ultimo è conosciuto per un altro esperimento che fece molto discutere e che prese il suo nome. Condotto nel 1961, con l’obiettivo di studiare se e in che modo il comportamento umano potesse essere influenzato dall’obbedienza a una autorità. In breve, venne chiesto ai soggetti coinvolti di infliggere una scarica elettrica ad altri partecipanti – complici dell’esperimento – ogni volta che questi sbagliavano la risposta a un esercizio.

Le scariche elettriche non venivano somministrate realmente, ma i complici fingevano di avvertire dolore. I risultati dell’esperimento mostrarono come molte delle persone arruolate, nonostante esprimessero disaccordo verso questa pratica violenta, obbedirono incondizionatamente agli ordini impartiti, scaricando la propria responsabilità su chi impartiva gli ordini.

LO SCANDALO ABU GHRAIB

Lo studio di Zimbardo tornò all’attenzione della cronaca, con lo scandalo di Abu Ghraib in Iraq, relativamente alle violazioni dei diritti umani commesse dai militari americani nei primi anni Duemila.

Dopo lo scandalo, Zimbardo fu chiamato come testimone esperto per spiegare come individui ordinari, i soldati americani coinvolti, potessero essere indotti a compiere atti di violenza e umiliazione. Sostenne che le dinamiche viste in Iraq erano simili a quelle dell’esperimento di Stanford. Fu chiamato come perito a valutare questi soldati: emerse che c’è corresponsabilità in questi comportamenti devianti che spesso colpiscono solo singoli capri espiatori. Insomma, anche a distanza di anni, l’esperimento di Stanford toglie la maschera ai poteri. Zimbardo è stato psicologo e ricercatore particolarmente scomodo e critico, anche da queste cose emerge la sua personalità. Tempo fa non esitò a definire Trump come persona affetta da disturbo di personalità.

COME QUESTE TEORIE possono tornarci utili nella quotidianità

Potreste essere indotti a sottovalutare il lavoro di Zimbardo, lontano dalle realtà organizzative. C’è un però: i comportamenti aggressivi e sadici avvengono ovunque. Chi non ha avuto a che fare con superiore rabbioso, sadico o vendicativo o un pari grado trasformatosi in una persona poco piacevole una volta ottenuta la promozione?

Pur non volendolo far sembrare un alibi, considerare che i motivi di certe propensioni all’aggressività potrebbero essere indotti dal ruolo e dal potere che ne consegue, permette di intervenire. Un altro elemento che ci viene restituito dall’esperimento è il fatto che il potere venne dato a persone che non avevano ricevuto nessun tipo di training specifico. E questo succede in molte realtà lavorative, in cui i responsabili si ritrovano a gestire i collaboratori non tanto per la loro preparazione o attitudine manageriale, ma per anzianità o fedeltà all’azienda.

Inoltre, molti si adeguano al contesto lavorativo, per avanzare con la carriera o anche solo per non essere boicottati o messi da parte, giustificandosi con il fatto che sia necessario mostrarsi duri e severi per comandare, come indicato loro da chi li ha preceduti. Fautori ma anche vittime dell’effetto Lucifero.

Zimbardo, è doveroso sottolinearlo, non si è solo limitato a svelare la parte oscura; ha provato a interrogarsi su come fosse possibile prevenire i comportamenti scorretti. Se è vero che c’è un effetto Lucifero, quali sono le situazioni che possono renderci migliori? Da qui l’idea di creare percorsi formativi per aiutare le persone a resistere alle pressioni sociali e consentire loro di esprimere il proprio potenziale positivo, che hanno dato vita a uno specifico percorso formativo, l’Heroic Imagination Project che trova la sua applicazione anche in Italia in collaborazione con l’Università di Salerno. Questo progetto prova a fare l’opposto di quanto accadeva nella prigione: creare contesti sani, pro-sociali, di solidarietà… in cui c’è la possibilità di crescere insieme e di dare il meglio in diverse situazioni.

CONCLUSIONI

L’esperimento di Zimbardo è stato oggetto di numerose critiche, non solo sul piano etico. Ma è innegabile il contributo che ne è seguito.

Prima di salutarvi e ringraziare una volta ancora il mio mentore per l’immenso sapere che ha condiviso e le domande a cui non si è mai sottratto dal rispondere, lascio per chi  volesse approfondire il tema qualche consiglio di lettura e visione:

L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?

–            The Experiment, film di P. Scheuring

–            The Experiment. Cercasi cavie umane, film di O. Hirschbiegel

–            Effetto Lucifero (The Stanford Prison Experiment), film di K. P. Alvarez.

Buon viaggio prof!

COSA INDUCE UNA PERSONA AL FANATISMO? L’analisi, vent’anni dopo…

Sono trascorsi vent’anni ma, in certi giorni, è come se il tempo si fosse fermato ad allora. La memoria sa come far male e un sapore amaro torna alla bocca come un disagio cronico con il quale si può solo imparare a convivere.

Di quello che è materialmente successo, oggi sappiamo tutto. O quasi. Conosciamo la dinamica, il dirottamento di un primo Boeing 737 sul World Trade Center, lo schianto sulla facciata della torre nord alle 14.46 ora italiana, e di un secondo sulla torre sud. I crolli, meno di due ore dopo, delle Twin Tower, la morte di coloro che sono rimasti bloccati nei piani più alti dei due edifici. Un terzo aereo che precipita sulla facciata ovest del Pentagono, seguito da un ultimo Boeing che alcuni passeggeri riescono a far cadere in Pennsylvania, ma che i terroristi avrebbero voluto dirottare sul Campidoglio.

Quindi c’è il dopo, con tutto quello che ha comportato, una fitta nebbia di incongruenze e cose lasciate a metà. Quei fatti, però, restano lì, appesi al filo della memoria. E segnano un’epoca. Per molti c’è un prima e c’è un dopo l’11 settembre. Perché quel giorno fu uno spartiacque, un smacco tremendo, un’esperienza irreversibile e unica. Che non ha risparmiato nessuno, anche i più lontani. Per ideologia o semplicemente per geografia.

COSA INDUCE UNA PERSONA al FANATISMO?

Il terrorismo è una minaccia senza tempo, che obbliga ad affrontare paure e incertezze, figlie della natura imprevedibile e spesso non prevenibile degli attacchi dell’11 settembre. Ma non solo[1]. Madrid, Londra, Tolosa, Bruxelles, Parigi, Copenhagen, Nizza, Rouen, Berlino, Stoccolma, Manchester, Londra, Barcellona, Turku, Trèbes, Liegi, Schiedam, Flensburg, Strasburgo, per citare quelli in Europa, certa di averne dimenticati alcuni.

Cosa induce una persona al fanatismo? Perché persone cresciute in culture estranee a quella islamica e non, decidono di combattere per una causa, posta agli antipodi dei valori in nome dei quali la nostra società ci ha educati?

L’assunzione secondo cui soltanto una persona affetta da psicosi o sadismo sia disposta ad atti di eclatante violenza è errata o quanto meno non incontra pareri condivisi. Studi condotti tra gli anni ’60 e ‘70 hanno confermato che la maggior parte dei terroristi non possa considerarsi mentalmente instabile. Anzi sono essenzialmente razionali, perfettamente capaci di soppesare costi e benefici degli atti terroristici, giungendo alla conclusione della loro utilità e necessità.

L’INSEGNAMENTO DI MILGRAM E ZIMBARDO

Nel 1961, a seguito del processo per crimini di guerra a carico del nazista Adolf Eichmann, Stanley Milgram, professore di psicologia a Yale, condusse un controverso studio[2], il cui scopo era rispondere alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?“.

La ricerca ha dimostrato che i partecipanti erano disposti a somministrare scosse elettriche ad altre persone, anche di intensità letale, dietro semplice richiesta del ricercatore. I soggetti non erano costretti a partecipare, ma soltanto incalzati dal ricercatore che sosteneva la necessità di questa azione per il bene dello studio.

Una ricerca altrettanto controversa, nota come esperimento di Stanford, è quella condotta da Zimbardo[3]. La ricerca ha rivelato che gli studenti a cui era assegnato il “ruolo” di guardia carceraria, in una sorta di gioco simulazione, sono diventati in poco tempo molto inclini ad umiliare ed abusare gli altri studenti che invece recitavano la parte di prigionieri[4].

Questi esperimenti dimostrano che CHIUNQUE, TROVANDOSI IN SPECIFICHE CONDIZIONI, E’ CAPACE DI ATTI DI VIOLENZA.

Dal punto di vista psicologico la maggior parte dei terroristi, così come i partecipanti agli esperimenti di Milgram e Zimbardo, possono essere definiti normali. Ciò che trasforma una persona ordinaria in un fanatico non è da ricondurre a difetti di personalità (se ovviamente non ne è già affetta), ma alle dinamiche sociali e di gruppo in cui si trova.

Attenzione, ciò non accade automaticamente a tutti i partecipanti. Secondo gli autori, il comportamento deviante di una persona dipende da due fattori:

  • l’identificazione con gli altri elementi del gruppo
  • il distacco da chiunque non ne faccia parte, cessando di considerare ogni elemento esterno come importante e degno di riguardi e considerazioni etiche e morali.

Se vogliamo fare un collegamento con le Neuroscienze cognitive, impattiamo in molti bias dall’outgroup, all’effetto gregge, all’overconfidence, solo per citarne alcuni.

Identificandosi con la causa a cui viene loro chiesto di aderire, e dis-identificandosi dalle loro vittime, i partecipanti degli esperimenti sono capaci di agire in modo oppressivo e violento.

TERRORISTI E RAZIONALITA’

Lo psichiatra Marc Sagemann[5] sostiene che i terroristi sono generalmente dei veri credenti che comprendono chiaramente il significato delle loro azioni. Senza mettere da parte l’importanza dei leader, come Bin Laden e Al-Baghdadi, suggerisce che questi servano più da ispirazione che da veri e propri orchestratori delle azioni terroristiche. Sono infatti scarse le prove che dimostrano che gli attentati siano condotti da un leader (eccezion fatta per l’11 settembre).

Com’è possibile allora che così tanti seguaci vengano radunati senza che i leader forniscano ordini diretti?

Proprio come negli esperimenti di Zimbardo e Milgram, infondono negli adepti un’identità comune dipendente da una causa ritenuta nobile (il progresso scientifico), allo stesso modo i leader di ISIS, Al Qaeda e altre organizzazioni simili, utilizzano una strategia affine, appellandosi alla necessità di promuovere il terrore in favore di una società migliore, improntata ai principi della religione islamica.

L’Università dell’Arizona ha condotto una ricerca sulla propaganda dell’ISIS, notando come soltanto il 5% dei messaggi promuovesse attivamente comportamenti violenti, mentre la maggior parte di essi includesse una visione di un “califfato ideale”[6].

La credibilità e il potere dell’ISIS sta però, purtroppo, non soltanto nelle azioni che promuove ma anche nel comportamento degli “avversari”.

Una ricerca della London School of Economics ha rilevato che le persone scelgono un leader bellicoso se il gruppo percepito come avversario, a sua volta, assume un atteggiamento bellicoso. Questa reazione aggressiva fornisce un appiglio che, agli occhi dei seguaci, giustifica i loro moventi e li idealizza maggiormente.

Un ricercatore del King’s College di Londra ha sottolineato come l’ISIS agisca per spingere i paesi occidentali a reazioni tali da portare i Musulmani a dis-identificarsi con queste comunità.

Dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, la rivista dello stato islamico Dabiq ha pubblicato un editoriale in cui inneggiava alla creazione di un mondo in cui la divisione tra Musulmani e non Musulmani fosse netta[7]. Spiegando che l’attentato alla sede della rivista francese è stato un primo passo in questa direzione.

Unirsi a un gruppo radicale fornisce un senso di potere, identità e appartenenza a persone che altrimenti vivrebbero nella solitudine, nel sentimento di impotenza e inutilità. Spesso entra in gioco il senso di rivendicazione di passate umiliazioni.

Studi sulle vite di alcuni terroristi indicano che traumi e violenze passate sono tra le cause più importanti che li ha condotti a unirsi a un movimento estremista.

Molti dei responsabili degli attentati però sono nati nelle nazioni contro cui si scagliano. Anche questi individui maturano quel senso di estraneità dalla società in cui sono nati e cresciuti e dalle persone che li circondano, come anche lo stesso sentimento di rivendicazione sentito da chi invece è nato in ambienti e circostanze ben meno favorevoli.

Alcuni ricercatori hanno intervistato diverse persone scozzesi, Musulmani e non, presso vari aeroporti. Tutti dichiaravano di “sentirsi a casa” dopo essere rientrati da un viaggio all’estero, ma gli scozzesi di religione Musulmana riportavano anche di sentirsi trattati con sospetto dalla Sicurezza rispetto ai propri connazionali dall’aspetto caucasico. Queste situazioni conducono al distaccamento dagli “altri”, e a lungo andare porta alla perdita di identità e a una maggiore predisposizione a cedere al richiamo dell’estremismo.

FRATELLI DI SANGUE

Un’ultima riflessione, dall’11 settembre, molti attentati del terrorismo islamico vedono spesso all’opera fratelli. Come si spiega?

Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che molti gruppi terroristici sono dotati di un “fratello maggiore” che converte gli altri e conduce il piano. Gli attentati di Bruxelles del 22 marzo, la strage del 13 novembre 2015 a Parigi, quella di Charlie Hebdo e prima ancora quella di Boston, durante la maratona nell’aprile del 2013, lo stesso attentato in Barcellona, hanno un macabro particolare in comune, oltre al marchio del terrorismo islamico: alcuni attentatori erano tra loro fratelli. E, secondo il rapporto della commissione 9/11, lo erano anche 6 dei 19 dirottatori che presero parte gli attacchi dell’11 settembre.

La partecipazione di un fratello minore a un atto terroristico troverebbe dunque le sue radici nell’emulazione e nel plagio. Ma non solo.

«C’è qualcosa che si chiama disturbo paranoide condiviso in cui una persona in un rapporto stretto ha manie e tira l’altro in questo sistema delirante»,

spiega Harold Bursztain, psichiatra e co-fondatore del programma di Psichiatria e Legge alla Harvard Medical School. Solitamente la persona più dominante nel rapporto sviluppa prima paranoia o deliri e poi influenza il più debole, portandolo ad avere gli stessi pensieri contorti. Il disturbo paranoide condiviso potrebbe anche spiegare perché i due attentatori di Boston non hanno inizialmente programmato una rapida fuga dopo la strage. Bursztajn è convinto che

avrebbero potuto fantasticare che Dio si prendesse cura di loro”.

La condizione psichiatrica, tuttavia e come già accennato in apertura, non accontenta tutti. Alcuni studiosi propendono piuttosto per l’ipotesi che i fratelli si incoraggino a vicenda nel compiere un atto così atroce. “Possono credere che l’omicidio sia sbagliato, ma il loro senso di fedeltà e lealtà reciproca (o al gruppo) prendono il sopravvento e sostituiscono il senso di giusto e sbagliato”, spiega James Alan Fox, professore di criminologia alla Northeastern University[8].

Terribili reati possono essere commessi solo per il gusto di una sorta di perverso legame. E penso che hanno portato fuori uno il peggio dell’altro”, continua Fox. “Non sono sicuro che da soli (riferendosi a Džochar e Tamerlan Carnaev, i due attentatori di Boston) avrebbero commesso un omicidio per conto proprio”.

Più che la parentela però conterebbero le affinità, che di solito sono maggiori tra fratelli o congiunti. Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che il punto più significativo non è che i terroristi spesso cospirano con i fratelli, piuttosto che essi tendano, nella maggior parte dei casi, a creare bande con un piccolo gruppo di coetanei, siano essi fratelli o amici o vicini di casa.

Intanto vent’anni sono passati e le ferite non si sono ancora fatte cicatrici.

 

Fonti

[1] https://ednh.news/it/cronologia-degli-attacchi-terroristici-in-europa-dal-2004-al-2017/

[2] Milgram S. (1974).Obedience to Authority: An Experimental View. New York: Harper and Row. An excellent presentation of Milgram’s work is also found in Brown, R. (1986). Social Forces in Obedience and Rebellion. Social Psychology: The Second Edition. New York: The Free Press

[3] Zimbardo P. G. (1971). The power and pathology of imprisonment, Congressional Record (Serial No. 15, 1971-10-25). Hearings before Subcommittee No. 3, of the United States House Committee on the Judiciary, Ninety-Second Congress, First Session on Corrections, Part II, Prisons, Prison Reform and Prisoner’s Rights: California. Washington, DC: US Government Printing Office.

[4] https://www.prisonexp.org/

[5] Sagemann M., Understanding Terror Networks, E-book

[6] https://global.oup.com/academic/product/isis-propaganda-9780190932459?q=katharine%20boyd&lang=en&cc=us#%C2%A0

[7] Campanini M., Il discorso politico dell’islamismo radicale. Tra modernità e post-modernità, Teoria politica. Nuova serie Annali, 6-2016, 65-77

[8] https://news.northeastern.edu/2019/08/13/the-story-behind-the-data-on-mass-murder-in-the-united-states/